CHICAGO BLOG » imposte http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Germania: due riflessioni su proporzionale e FDP /2009/09/28/germania-due-riflessioni-su-proporzionale-e-fdp/ /2009/09/28/germania-due-riflessioni-su-proporzionale-e-fdp/#comments Mon, 28 Sep 2009 11:19:02 +0000 Oscar Giannino /?p=3003 Prima osservazione sulle elezioni tedesche, se permettete dichiaratamente un po’ provinciale, visto che antepone un classico punto visuale italiano invece che internazionale: hanno di che riflettere, i sostenitori nel nostro Paese del sistema tedesco. Capisco bene che ai più convinti tra loro non farà né caldo né freddo ciò che dico, anzi con ogni probabilità è esattamente ciò che a loro mirano. Ma se il sistema elettorale tedesco di anno in anno caduto il muro sta mostrando qualcosa, è che la presa dei maggiori partiti fatalmente è destinata a cadere insieme alla loro funzione centrale di stabilità di governo. E ciò si deve al proporzionale. La somma di Cdu-Csu e Spd è in caduta libera: da più dell’80% ai tempi d’oro della Germania postbellica, è scesa ormai a poco più del 56%. Per la Spd i voti conseguiti sono il punto più basso della sua storia, ma anche per Cdu-Csu si tratta del secondo peggior risultato. Capisco che i teorici dell’interposizione centrista e sinistrista anche da noi mirino a effetti del tutto analoghi. Io penso invece che più un Paese diventa complesso e poliarchico, meglio sia avere un sistema elettorale solidamente maggioritario che assicuri una buona governabilità. Anche perché il naso mi dice che in Italia non avremmo l’equivalente di un FDP al 14-15% ma una riedizione minore postdemocristiana che guarderebbe a una sinistra che tornerebbe a frazionamenti dei tempi prodiani, più un solido innesto populista-manettaro. Roba un po’ da brividi, se mi passate la sincerità. Veniamo invece al significato del voto tedesco considerando l’economia, e il ruolo leader che la Germania esercita per la sua forza sull’economia dell’euroarea.

Su questo, è più evidente ciò che pensiamo noi, ma avete ragione voi che frequentate e scrivete su questo blog ad avermi fatto notare che è inutile farsi illusioni. Concedo: il vincitore numero uno del voto tedesco è il leader liberale della FDP Guido Westerwelle, più della Merkel. E poiché su tasse e welfare la piattaforma dei liberali è quella più di svolta rispetto al recente passato, personalmente continuo a tifare perché nella Koalitionsvertrag – il patto di governo che dovrà essere sottoscritto tra Fdp e Cdu-Csu – vengano assunti il maggior numero di impegni espressi dai liberali. Non solo la Germania ma l’intera Europa e soprattutto l’Italia, avrebbero di che guadagnarne. Invece di continuare a cullarci sul mito della presunta superiorità del nostro modello “sociale” rispetto al turpe darwinismo anglosassone che ci ha pure rifilato la crisi del sistema finanziario ad alta leva, l’adozione della ricetta Fdp libererebbe parecchi punti di crescita del Pil potenziale, in una fase nella quale l’Europa resta di rischiare col culo per terra, non solo rispetto al Far East e alla Cina ma agli stessi deprecati Stati Uniti. Ricordo a tutti che la Fdp in campagna elettorale ha chiesto di abbassare la progressività del sistema fiscale dimezzando il numero di aliquote rispetto all’attuale forbice 14-45% con tre soli scaglioni al 15,25 e 30%, mentre la Merkel è solo disposta ad abbassare di un punto l’aliquota attuale più bassa, e ad alzare la soglia della più alta, al 45%, dai 60 mila euro di reddito annuo invece che dagli attuali 52 mila e 500. La Fdp vuole anche riformare la Kündigungsschutz, l’equivalente – grosso modo – del nostro articolo 18 sui licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato, abbassare i sussidi di disoccupazione per invogliare la gente a cercarsi un lavoro, scuole più dure e meritocratiche in cambio di un fortissimo aumento degli investimenti pubblici in ricerca e formazione.

Temo, purtroppo, che abbiate ragione voi. Non avverrà molto di tutto questo. La Merkel che tutti abbiamo festeggiato è in realtà più debole di quel che sembra per il magro risultato sia della Cdu che della Csu in Baviera, “solo” al 41% cioè ai minimi storici. Dunque la cancelliera dovrà mostrare ai suoi, e a chi si candiderà per sostituirla in futuro, che tiene in pugno e difende energicamente la natura “sociale”, più che di mercato, del compromesso politico-istituzionale tedesco. Io come ho detto avrei preferito Westerwelle non agli Esteri ma alle Finanze, visto che all’Economia avrebbe fatto con lui un’ottima coppia il giovane zu und von Guttemberg, il più liberale tra i democristiani. Invece, mi confermano che pare proprio che al dicastero economico potrebbe o addirittura dovrebbe andare per la Fdp Hermann Otto Solms, da anni portavoce economico del partito ma assai meno effervescente, coi suoi studi – con tutto il rispetto –  di economia agraria. In particolare sul nodo assai delicato dei provvedimenti da assumere per accelerare il risanamento del sistema bancario tedesco – il più gravato in Europa da attivi marciscenti, all’ombra della garanzia pubblica nel Laender – noto che i liberali su questo non hanno fatto barricate rigoriste, nell’ultimo anno: ci sono andati molto ma molto prudenti. Ma almeno su un punto non levateci la speranza. Con il governo giallo-nero si dovrebbe spostare davvero in avanti la chiusura dei reattori nucleari tedeschi, ed è un bene per tutti. Basterà alternare i lavori per la rimessa in sicurezza degli impianti per spostare in avanti le prime chiusure che dovrebbero avvenire tra pochissimo. Si eviterebbe di cominciare a importare ancor più massicciamente gas dalla Russia, Putin inevitabilmente dovrebbe starsene un po’ più buono, e noi tutti riprendere con meno polemiche la via del nucleare scioccamente abbandonata 22 anni fa.

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Studi di settore, ancora una presa in giro /2009/09/16/studi-di-settore-ancora-una-presa-in-giro/ /2009/09/16/studi-di-settore-ancora-una-presa-in-giro/#comments Wed, 16 Sep 2009 17:44:30 +0000 Oscar Giannino /?p=2783 Lo scorso autunno, al mordere della crisi, cominciò a essere chiaro che gli studi di settore – gli oltre 200 strumenti analitico-sintetici nati per indicare presuntivamente in maniera condivisa cifra d’affari e imponibile di commercianti, artigiani e professionisti, e divenuti sempre più strumento unilaterale di definizione da parte dell’amministrazione finanziaria dell’imposta dovuta, come diceva Totò, “a prescindere” - non avrebbero registrato gli effetti restrittivi del rallentamento delle attività economiche. Di conseguenza, avrebbero aggiunto ingiustizia ulteriore a una violazione patente degli articoli 23 e 53 della Costituzione, in materia di riserva di legge per imporre tributi e definizione della capacità impositiva. Come direttore allora di LiberoMercato, patrocinai una dura serie di proteste da parte delle categorie, che ebbero un certo seguito nel Nord e soprattutto nel Nordest. Non mi fidavo molto della capacità di autocorrezione da parte dell’Agenzia delle Entrate, in un anno nel quale inevitabilmente il gettito sarebbe stato in contrazione per via della crisi. Nella finanziaria per il 2009, il governo a muso duro respinse la definizione di un impegno esplicito alla revisione concordata degli strumenti e relativi parametri. Passarono risoluzioni in aula, in tal senso. E alle categorie il governo promise che si sarebbe proceduto quanto prima alla ridefinizione degli studi. Temo di aver avuto ragione. A dieci mesi di distanza, non è accaduto nulla. Se non di peggio.La notizia di oggi battuta dall’Ansa è questa, la riporto per intero perché il mio sito di agenzie necessita di una password. “Rinviare l’aggiornamento degli studi di settore in revisione quest’anno dal 30 settembre 2009 a marzo 2010 per avere maggiori elementi di valutazione sulla crisi economica. È questa in sintesi la richiesta avanzata oggi dalle associazioni di categoria (artigiani e commercianti) e dagli ordini professionali nel corso della riunione del Comitato di esperti sugli studi che doveva esprimere il parere sulla revisione di 69 studi che interessano circa un milione di contribuenti. Il problema riguarda subito questa settantina di studi ma le categorie rilevano che la questione è più generale. Nel corso della riunione di oggi tutte le categorie hanno deciso di non esprimere alcun parere, atto preventivo al decreto vero e proprio che aggiorna periodicamente gli studi. Da quando sono stati introdotti gli stessi sarebbe la prima volta che accade una cosa del genere. Non essendo un parere vincolante, il ministro dell’Economia potrebbe in ogni caso procedere con il decreto ministeriale, ma sembrerebbe più probabile la via della proroga. Nel corso dei lavori del decreto anti-crisi di quest’estate era stata già introdotta con il maxi-emendamento una proroga (ma al 31 dicembre 2009 e non fino a marzo 2010) per la revisione; il rinvio era poi saltato per problemi di inammissibilità di alcune parti dello stesso maxi-emendamento presentato dai relatori di maggioranza”.

In sintesi: prima una mancata promessa formale in finanziaria. Poi un impegno a prender tempo saltato comunque, per la pulizia imposta da Fini alle parti improprie aggiunte al testo dell’ultimo decreto legge anticrisi. E dire che questo sarebbe il governo che l’opposizione bolla come “delle partite IVA”. Purtroppo, Confcommercio, Confartigianato, Casa Artigiani e via proseguendo continuano non capire. Se non si decideranno a forme esplicite di protesta davanti alle sedi dell’Agenzia delle entrate, autodenunciando astensioni di massa dal pagamento di quanto incostituzionalmente imposto dallo Stato “a prescindere” dalla reale cifra d’affari e imponibile del contribuente, l’Agenzia delle Entrate continuerà a promettere e non mantenere con una mano, e a incassare sprezzantemente con l’altra. Perché alle migliaia e migliaia di “non congrui” per primi i commercialisti mestamente consigliano di pagare comunque, altrimenti scatta il contenzioso nel quale il diritto di prova è sulle spalle del contribuente vessato e non dello Stato, col rischio molto concreto di sanzioni aggiuntive ancor più pesanti del piegarsi come schiavi alla rapina di Stato. Uso termini molto duri, lo so. Ma è intollerabile, come la demagogia anti lavoratori autonomi alimentata dallo Stato affamato di gettito cementi la protesta dei lavoratori dipendenti, alimentando una guerra sociale dalla quale tutti ci rimettiamo e solo le casse dello Stato ingiustamente guadagnano.

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Meno tasse: grazie, professor Giavazzi /2009/09/16/meno-tasse-grazie-professor-giavazzi/ /2009/09/16/meno-tasse-grazie-professor-giavazzi/#comments Wed, 16 Sep 2009 11:19:08 +0000 Oscar Giannino /?p=2755 Francesco Giavazzi ci ha risposto con un post che trovate qui, a seguire la singolarità che segnalavo sul suo recente paper in materia di tagli alle tasse. Innanzitutto desidero ringraziarlo a nome di noi tutti. Grazie, professore: lo spirito delle nostre osservazioni è “capire”, e la sua risposta ci aiuta a farlo meglio. Chi leggerà il paper che Giavazzi ha firmato con Favero trova infatti conferma di quanto Giavazzi qui ci richiama ad osservare. Le differenti stime del moltiplicatore rispetto ai Romer hanno a che vedere con le diverse “stime di contesto” degli aggregati monetari e reali insistenti nella stessa unità di tempo: e per primo lo avevo segnalato nel mio post, che le valutazioni divergenti dipendono dalla visione “più estesa” assunta fatta assunta da Giavazzi e Favero, rispetto a quella “più ristretta” dei Romer. Su ciò, dunque, nulla quaestio. Ed è per questo che scrivevo: non parlo di contraddizione per evitare strali, ma segnalo la singolarità.
Diciamo allora che siamo d’accordo su tre cose.

La prima è che la quantità di tasse distorsive purtroppo tipiche dell’ordinamento italiano sicuramente accresce il moltiplicatore sull’output dei tagli fiscali: dunque, in Italia, tagliare le tasse si può, si deve, ed ha un ottimo effetto (che supera gli aumenti di spesa pubblica, ma questo lo dico io).
La seconda è che, purtroppo, in Italia i “motivi empirici” richiamati dal professore impediscono simulazioni come queste sull’economia americana. Finché sarà così, politici e sindacalisti avranno miglior gioco nel dire cose a vanvera, sugli effetti delle politiche economiche.
La terza, invece riguarda l’America. Ma non solo l’America. È un po’ tecnica e sintetizzo, ma è richiamata proprio dall’accenno all’equivalenza ricardiana fatto da Giavazzi. Personalmente mi ritrovo in pieno nelle critiche alla proposizione Barro-Ricardo avanzate dai lavori di Elmendorf e Mankiw, tra fine anni Novanta e primi anni Duemila. Del resto, la proposizione era stata avanzata ormai 35 anni fa, quando ancora non era possibile valutare – nell’esame delle conseguenze di tagli alle tasse – appieno la reciproca influenza tra libertà dei capitali globalizzata, funzione del risparmio privato, andamento dei debiti pubblici ed eventuali problemi di vincoli di liquidità. Nelle condizioni di allora, era più comprensibile pensare a teorie come la neutralità delle forme di finanziamento del deficit pubblico, cioè al fatto che anche tagli fiscali – coperti con emissioni di titoli pubblici – avessero un effetto zero sull’output, perché tanto famiglie e imprese reagiscono traslando integralmente in maggior risparmio privato il reddito disponibile aggiuntivo da meno tasse oggi, scontando che tanto si tratta di fare i conti con debito intergenerazionale più sostenuto, che un giorno bisognerà essere in condizione di ripagare con maggiori tasse.

Se fosse stato vero, non ci sarebbero stati effetti concreti sulla necessità di dover ricorrere a maggior flussi di finanziamento sui mercati esteri, a copertura dei debiti sovrani in crescita. Al contrario, l’esperienza concreta ha mostrato che i saldi pubblici influenzano direttamente i saldi esteri di un Paese, e che vi concorre anche il tasso d’interesse della moneta e il suo tasso di crescita sul mercato. Tutte queste variabili esercitano diversi effetti di Paese in Paese, ai fini del calcolo del moltiplicatore fiscale. Per noi chicagoans, entra anche in gioco il fattore di quante lump-sums vi siano nell’ordinamento fiscale, cioè imposte le meno distorsive possibili nei segnali di trasmissione inviati a consumatore, lavoratore e risparmiatore.
I tagli alle tasse temporanei di Bush figlio, sotto questo punto di vista, erano assai poco performanti sull’output – come si è visto dagli andamenti concreti di consumo – proprio perché distorsivi, e a fronte di un eccesso di consumo realizzato a debito e in forte torsione della bilancia dei pagamenti USA. All’aumento dei consumi americani negli anni 2001-2007 ha molto più concorso l’estrazione di valore dall’immobiliare che saliva e veniva più che rifinanziato dagli intermediari finanziari, oltre che dall’andamento “verticale” degli asset mobiliari. I tagli alle tasse hanno concorso assai poco, alla crescita aggiuntiva. Diverso è l’effetto che potrebbero avere oggi, quando il contributo al reddito disponibile da home ownership negli USA è peggio che nullo. Ma qui mi fermo.

Mi basta dire che con Giavazzi siamo per meno tasse sul lavoro in Italia, per migliori dati e ricerche sull’Italia, e per analizzare a mente aperta che cosa sia meglio per l’America nel mondo di oggi: se la massiccia spesa pubblica aggiuntiva proposta da Obama, o le meno tasse che amiamo noi. Grazie, professore.

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Krugman, Reagan e i tagli alle imposte /2009/06/15/krugman-reagan-e-i-tagli-alle-imposte/ /2009/06/15/krugman-reagan-e-i-tagli-alle-imposte/#comments Sun, 14 Jun 2009 22:27:54 +0000 Carlo Lottieri /?p=1013 Qualche ora fa, sul suo frequentatissimo blog Paul Krugman ha preso per i fondelli i repubblicani e contestato quanti attaccano il piano di stimoli predisposto da Barack Obama poiché non avrebbe prodotto i risultati annunciati, soprattutto in tema di occupazione. Con una certa abilità retorica, Krugman si limita ad esibire un grafico che mostra come durante la presidenza Reagan a seguito dei tagli alle imposte per più di un anno si ebbe un incremento del numero dei senza lavoro.

La polemica di Krugman, che da intellettuale “militante” ed insider di primo livello è uso a schierarsi con una parte e contro l’altra, non sarebbe così interessante se non offrisse l’occasione per considerazioni più generali.

Su un punto l’economista americano ha sicuramente ragione: e cioè che le buone scelte politiche non si giudicano nell’arco di pochi mesi. Non a caso il formidabile crollo della disoccupazione che caratterizzò in America gli anni Ottanta del reaganismo fu ben successivo alla fase ricordata da Krugman.

C’è però un altro elemento, assai più meritevole di attenzione. Bisognerebbe cominciare a ragionare su questi temi senza infatti cadere vittima di troppe ingenuità metodologiche. In una realtà complessa quale è quella dell’economia americana o di qualsiasi altro Paese, non è possibile attribuire ad una scelta politica (sia esso uno “stimolo” keynesiano o il taglio delle imposte) ciò che succede successivamente (ad esempio, l’aumento della disoccupazione). Solo una buona teoria può dirci quale relazione c’è, ceteris paribus, tra una scelta di politica economica e le sue conseguenze sul sistema della produzione e della distribuzione. L’empirismo dei puri fatti non porta da nessuna parte.

In secondo luogo, bisognerebbe capire che è davvero molto sbagliato sposare l’occupazione per se: e che certo questo è tanto più curioso se a farlo sono intellettuali che costantemente dichiarano di farsi ispirare solo dalla realtà, rigettando ogni prospettiva di ordine ideologico e/o morale. D’altra parte, nella vecchia Ddr o nell’Urss d’antan la disoccupazione proprio non esisteva. C’erano invece i lavori forzati.

Non solo. Chi scrive è tra coloro che sarebbe davvero felice di veder crescere di colpo la disoccupazione in Italia grazie a massicci licenziamenti nel settore pubblico. È un’ipotesi del tutto irrealistica e certamente sarebbe una medicina amara (molto dolorosa, in particolare, per chi finirebbe per trovarsi sulla strada), ma aiuterebbe la crescita effettiva del Paese, che ha bisogno di più privato e meno spesa pubblica, più imprese e meno uffici parastatali.

Per sviluppare una qualsivoglia analisi sociale, bisogna insomma evitare non soltanto l’ingenuo positivismo che oggi domina larga parte degli studi economici, ma saper anche includere – con la massima consapevolezza, e con il coraggio di esporre le proprie tesi alle altrui critiche – quelle opzioni culturali ed etico-politiche che comunque sorreggono ogni interpretazione della realtà. Anche quelle di economisti avversi – a parole – ad ogni ideologia e fedeli sacerdoti di un positivismo che si vorrebbe oggettivo e senza partiti.

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