CHICAGO BLOG » hayek http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Il succo del voto midterm USA: Hayek contro Keynes /2010/11/02/il-succo-del-voto-midterm-usa-hayek-contro-keynes/ /2010/11/02/il-succo-del-voto-midterm-usa-hayek-contro-keynes/#comments Tue, 02 Nov 2010 15:23:10 +0000 Oscar Giannino /?p=7450 Il voto in corso negli USA avrà effetti notevolissimi in tutti i Paesi avanzati. Riequilibrerà l’eccesso di debito pubblico e di politiche delle banche centrali volte a monetizzarlo. O almeno questa è la nostra esplicita speranza, dopo due anni di illusione keynesiana che ha portato nei fatti il tasso di crescita USA a rallentare fortemente dopo l’apparente forte ripresa, e l’Europa a incagliarsi nella crisi dell’eurodebito e relativo dibattito tra rigoristi e deficisti. Qui una suggestiva maniera rappata di rappresentare l’eterno confronto tra Hayek e Keynes, dopo il fortunatissimo video che in qualche mese è stato scaricato da oltre due milioni di internauti. “Quando dopo le recessioni e l’esplosione dei debiti pubblici bisogn rimettere le copse a posto, allora Hayek ha molto da dirci”, ecco la prima lezione ricordata nel brevissimo panel che segue il rap. La seconda: nelle crisi si riallinea l’eccesso di capacità, determinato dai molti investimenti facilitati dalle oplitiche monetarie lasche che gonfiavano in bolla consumi e andamento degli asset quotati, riportandolo verso una domanda naturale non più artifciosamente sostenuta da politiche fiscali in deficit e politiche monetarie eterodosse, come il QE 2.0 che molti si aspettanop domani il FOMC della FED riprenda in grande stile per 500 miliardi di dollari, seguito dalla Bank of Japan che potrebbbero estenderlo dagli acquisti di bond anche a quello di tuitoli azionari. Un errore, a nostro modestissimo avviso. Un errore perché ancora inadeguato e insufficiente, dicono gli iperkeyenesiani alla Krugman. Tra poche ore capiremo che cosa ne pensano gli elettori americani. Buona visione.

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Shit happens /2010/06/04/shit-happens/ /2010/06/04/shit-happens/#comments Fri, 04 Jun 2010 13:52:07 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6170 Nove scienziati della Commissione grandi rischi sono indagati dalla procura dell’Aquila per omicidio colposo, in quanto avrebbero sottovalutato il rischio sismico nei giorni precedenti il disastroso terremoto del 6 aprile 2009. Pochi giorni fa, il presidente americano, Barack “tappate quel maledetto buco” Obama, ha licenziato Elizabeth Birnbaum, capo del Minerals Management Service, e annunciato una moratoria sull’offshore drilling nel Golfo del Messico. Un comune denominatore unisce queste due notizie, e tante altre simili che riguardano incidenti meno tragici. E’ la presunzione che per tutto si possa trovare sempre un responsabile, una testa da far rotolare, una soluzione. E’ la consolante illusione che tutto possa andare bene sempre, se abbiamo le leggi giuste. Purtroppo ho una brutta notizia: l’ultima volta che ho controllato, l’uomo era stato scacciato dal giardino dell’Eden e non gli era più stato permesso di farvi ritorno.

Le due vicende della piattaforma Deepwater Horizon e del terremoto dell’Aquila sono, naturalmente, molto diverse. Tendo a pensare che Bp non sia esente da responsabilità per il disastro del Golfo del Messico. Bp è notoriamente una compagnia relativamente poco attenta alle questioni della sicurezza, come ha riconosciuto anche il New York Times e come yours truly sostiene fin dal primo giorno (forse perché troppo impegnata a investire attenzione e risorse nel lobbying a favore dell’introduzione del cap and trade negli Usa). Diversamente, trovo davvero improbabile che i sismologi italiani possano essere anche solo sospettati di aver sottovalutato il terremoto che si stava per scatenare. Tuttavia, la domanda rilevante, in questo momento, non è se e quali responsabilità e da parte di chi sia possibile, con ragionevole certezza, tracciare. Le domande rilevanti sono: se tutto fosse andato per il verso giusto, avremmo potuto evitare, con assoluta certezza, una o entrambe le catastrofi? E, posto che le catastrofi si sono verificate, dovremmo dedurne che l’attuale regolamentazione è insufficiente e va inasprita?

Sul primo punto, francamente, trovo perfino imbarazzante dovermi soffermare. Le “buone pratiche” possono minimizzare, ma non eliminare, i rischi. Ecco la cattiva notizia: a volte delle cose, generalmente buone, vanno male. Succede. E’ la vita. Shit happens, dicono gli americani. Ti sei appena lavato rasato e vestito e messo la cravatta nuova, esci di casa e vieni stirato da un pirata della strada. Succede. Sarebbe meglio che non succedesse? Certo. E’ possibile che non succeda? Sicuramente: non uscire di casa.

Questo però mi porta alla seconda questione: conviene non uscire di casa, per evitare di essere investiti? Non conviene. Non conviene perché il valore di tutto ciò a cui rinunceresti vale molto di più del rischio di essere investito. Infatti, c’è anche la buona notizia: generalmente non vieni investito. Il petrolio ci ha resi ricchi. Il petrolio, che sta inquinando il Golfo del Messico e perciò è un bastardo, ci ha dato le automobili, l’elettricità, la plastica, ci ha dato la civiltà industriale con tutte le sue mille storture e tutti i suoi milioni di benefici. La stessa estrazione di greggio offshore, che d’ora in poi sarà per tutti sinonimo della chiazza che si riversa sulle coste della Louisiana, avviene in condizioni di accettabilissima sicurezza in innumerevoli piattaforme in giro per il mondo, in tanti mari diversi, e nessuno se ne accorge e anzi tutti ne siamo felici perché anche grazie al greggio cavato dai fondali oceanici possiamo uscire di casa e, con un giro di chiave, innescare il miracolo del fuoco, dei cilindri e dei pistoni e lasciarci trascinare dal nostro carro d’acciaio virtualmente dovunque.

Quindi, lasciandoci catturare dal gorgo della paura non ci aiuterà. Anzi,peggiorerebbe le cose, complicherebbe la vita e la renderebbe meno degna d’essere vissuta. Come scrive Massimo de’ Manzoni sul Giornale. Come spiega Sheldon Richman su Master Resource. Come evidenzia Michael Giberson su Knowledge Problem. C0me mostra Randal O’Toole su The Antiplanner:

The tragic explosion that killed 11 people and led to millions of gallons of oil spilling into the Gulf of Mexico has many people, even die-hard auto enthusiasts, arguing that we should undertake a crash program to find alternatives to petroleum to fuel our transportation system. While it is nice to fantasize that some sort of “race-to-the-moon” research program will uncover magically new energy sources and technologies, realistically it isn’t going to happen.

La regolamentazione, di per sé, non ci salverà. Potrebbe perfino peggiorare le cose, facendoci sprecare risorse preziose. Ma soprattutto la regolamentazione, per quanto perfetta e informata alle migliori intenzioni, non ci libererà dall’imperfetta natura umana o, se preferite, dal peccato originale. Non renderà perfetti i nostri manufatti, i nostri atti, i nostri processi. Non ci libererà dall’errore (anzi, potrebbe renderlo più probabile). Cedere alla presunzione fatale di poter conoscere tutto, e dunque prevenire tutto, non ci renderà né onniscienti né onnipotenti né immortali.

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Hayek vs Keynes, hip hop version /2010/01/26/hayek-vs-keynes-hip-hop-version/ /2010/01/26/hayek-vs-keynes-hip-hop-version/#comments Tue, 26 Jan 2010 09:25:36 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4932 Russ Roberts and John Papola hanno prodotto un pezzo hip hop molto interessante, in cui Keynes e Hayek parlano di crisi economica. Il video si trova qui. Qui il sito col testo (che comunque si capisce molto bene).

Il principale problema delle idee in politica è che quelle sufficientemente semplici da essere comprese da tutti e sufficientemente interventiste da favorire la classe politica hanno successo, mentre l’aver ragione o meno è irrilevante.

Qui il testo:

We’ve been going back and forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No… it’s the animal spirits

[Keynes Sings:]

John Maynard Keynes, wrote the book on modern macro
The man you need when the economy’s off track, [whoa]
Depression, recession now your question’s in session
Have a seat and I’ll school you in one simple lesson

BOOM, 1929 the big crash
We didn’t bounce back—economy’s in the trash
Persistent unemployment, the result of sticky wages
Waiting for recovery? Seriously? That’s outrageous!

I had a real plan any fool can understand
The advice, real simple—boost aggregate demand!
C, I, G, all together gets to Y
Make sure the total’s growing, watch the economy fly

We’ve been going back and forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No… it’s the animal spirits

You see it’s all about spending, hear the register cha-ching
Circular flow, the dough is everything
So if that flow is getting low, doesn’t matter the reason
We need more government spending, now it’s stimulus season

So forget about saving, get it straight out of your head
Like I said, in the long run—we’re all dead
Savings is destruction, that’s the paradox of thrift
Don’t keep money in your pocket, or that growth will never lift…

because…

Business is driven by the animal spirits
The bull and the bear, and there’s reason to fear its
Effects on capital investment, income and growth
That’s why the state should fill the gap with stimulus both…

The monetary and the fiscal, they’re equally correct
Public works, digging ditches, war has the same effect
Even a broken window helps the glass man have some wealth
The multiplier driving higher the economy’s health

And if the Central Bank’s interest rate policy tanks
A liquidity trap, that new money’s stuck in the banks!
Deficits could be the cure, you been looking for
Let the spending soar, now that you know the score

My General Theory’s made quite an impression
[a revolution] I transformed the econ profession
You know me, modesty, still I’m taking a bow
Say it loud, say it proud, we’re all Keynesians now

We’ve been goin’ back n forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Keynes] I made my case, Freddie H
Listen up , Can you hear it?

Hayek sings:

I’ll begin in broad strokes, just like my friend Keynes
His theory conceals the mechanics of change,
That simple equation, too much aggregation
Ignores human action and motivation

And yet it continues as a justification
For bailouts and payoffs by pols with machinations
You provide them with cover to sell us a free lunch
Then all that we’re left with is debt, and a bunch

If you’re living high on that cheap credit hog
Don’t look for cure from the hair of the dog
Real savings come first if you want to invest
The market coordinates time with interest

Your focus on spending is pushing on thread
In the long run, my friend, it’s your theory that’s dead
So sorry there, buddy, if that sounds like invective
Prepared to get schooled in my Austrian perspective

We’ve been going back and forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No… it’s the animal spirits

The place you should study isn’t the bust
It’s the boom that should make you feel leery, that’s the thrust
Of my theory, the capital structure is key.
Malinvestments wreck the economy

The boom gets started with an expansion of credit
The Fed sets rates low, are you starting to get it?
That new money is confused for real loanable funds
But it’s just inflation that’s driving the ones

Who invest in new projects like housing construction
The boom plants the seeds for its future destruction
The savings aren’t real, consumption’s up too
And the grasping for resources reveals there’s too few

So the boom turns to bust as the interest rates rise
With the costs of production, price signals were lies
The boom was a binge that’s a matter of fact
Now its devalued capital that makes up the slack.

Whether it’s the late twenties or two thousand and five
Booming bad investments, seems like they’d thrive
You must save to invest, don’t use the printing press
Or a bust will surely follow, an economy depressed

Your so-called “stimulus” will make things even worse
It’s just more of the same, more incentives perversed
And that credit crunch ain’t a liquidity trap
Just a broke banking system, I’m done, that’s a wrap.

We’ve been goin’ back n forth for a century
[Keynes] I want to steer markets,
[Hayek] I want them set free
There’s a boom and bust cycle and good reason to fear it
[Hayek] Blame low interest rates.
[Keynes] No it’s the animal spirits

“The ideas of economists and political philosophers, both when they are right and when they are wrong, are more powerful than is commonly understood. Indeed the world is ruled by little else. Practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influence, are usually the slaves of some defunct economist.”

John Maynard Keynes
The General Theory of Employment, Interest and Money

“The curious task of economics is to demonstrate to men how little they really know about what they imagine they can design.”

F A Hayek
The Fatal Conceit

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Istituzioni e individualismo /2010/01/22/istituzioni-e-individualismo/ /2010/01/22/istituzioni-e-individualismo/#comments Fri, 22 Jan 2010 14:42:13 +0000 Pietro Monsurrò /?p=4879 Nutro mixed feelings verso il paper di Ahdieh “Beyond individualism in law and economics”, recentemente linkato da Giannino, perché da un lato dice una serie di cose che ho sempre pensato su alcuni temi che reputo molto importanti, e dall’altro sostiene che questi problemi siano causati dall’individualismo metodologico, diagnosi che mi pare erronea.

Credo ci sia un problema di mistaken identity: abbiamo l’individualismo dell’approccio economico standard, con i suoi limiti spesso gravi, e abbiamo approcci che conservano pienamente l’individualismo metodologico ma che non sono soggetti agli stessi limiti che Ahdieh giustamente denuncia. Non si può quindi che essere d’accordo con Giannino nel dire che bisogna stare “con Hayek“. A parte Hayek, però, come riconosce anche Ahdieh (che è però costretto ad interpretarlo come non-individualista), questa tradizione comprende tutta la Scuola austriaca, il neoistituzionalismo, la public choice e probabilmente altre scuole: Ahdieh imputa quindi all’individualismo problemi che sono di altra origine, e infatti “il suo pregio è di accontentare i nostri avversari solo nel titolo“, come ha scritto Giannino.

Il paper parla di moltissime cose, molte ampiamente condivisibili, e quindi farò una cernita. Mi concentrerò su quattro domande fondamentali:

1. L’assenza di istituzioni nell’analisi neoclassica è frutto dell’individualismo metodologico?
2. I giochi di coordinazione sono incompatibili con l’individualismo metodologico?
3. Che cos’è un’istituzione dal punto di vista individualistico?
4. Che ruolo hanno la stabilità e la esogeneità delle preferenze nell’individualismo metodologico?

1. L’assenza di istituzioni nell’analisi neoclassica è frutto dell’individualismo metodologico?

Se questo fosse vero,  l’economia austriaca, l’economia neoistituzionalista, la public choice e molte applicazioni della game theory sarebbero in contrasto con l’individualismo metodologico, il che è però una forzatura interpretativa, soprattutto nel caso degli austriaci che dell’individualismo metodologico hanno fatto una bandiera.

Nel post precedente criticavo il banditore walrasiano come deus ex machina: l’equilibrio walrasiano è privo di istituzioni perché gli agenti sono supposti così illimitatamente razionali e perfettamente informati che non ne hanno bisogno. E’ naturale quindi che l’economia neoclassica sia deistituzionalizzata, ma questa è la conseguenza delle ipotesi su razionalità e conoscenza. Secondo Coase, le istituzioni servono per ottimizzare i costi di transazione: in assenza di costi di transazione, quindi, le istituzioni sono irrilevanti. I difetti dell’analisi neoclassica provengono dall’aver assunto via problemi che al contrario la Scuola austriaca e il Neoistituzionalismo considerano fondamentali.

Se consideriamo il fondamentale paper di Mises del 1920 sul calcolo economico, scopriamo che per Mises il sistema dei prezzi è un’istituzione necessaria affinché i problemi complessi della coordinazione economica vengano divisi in sottoproblemi epistemicamente semplici (Mises parla di “divisione intellettuale del lavoro). In Menger abbiamo una teoria istituzionalista della moneta già nel 1871, e nel 1884 espandeva la sua teoria al diritto, al linguaggio, al mercato e ad altre istituzioni. La struttura istituzionale della produzione (teoria del capitale) fu analizzata da Menger, sviluppata da Boehm-Bawerk e raffinata da Mises e Hayek. E che la struttura istituzionale della moneta e delle banche fosse fondamentale è un’idea che si trova in Mises (sin dal 1912) e negli scritti di Hayek degli anni ’30 sul ciclo economico. Al di fuori della Scuola austriaca, abbiamo Coase, che nel 1937 scriveva che la scelta tra mercato e organizzazione era dettata dai costi di transazione, e le analisi della struttura istituzionale della politica in Buchanan, Tullock, Wagner e tutta la public choice. Non di solo Walras vive l’individualismo.

Ahdieh sottolinea con precisione diversi problemi strutturali dell’economia contemporanea, ma trascura diverse teorie che non mostrano gli stessi difetti, oppure si vede costretto a considerarle non-individualistiche, quando in realtà sono solo non-deistituzionalizzate. L’individualismo non è atomismo.

2. I giochi di coordinazione sono compatibili con l’individualismo metodologico?

Se fosse così, la teoria della moneta di Menger (1871) sarebbe non-individualista, visto che è il primo esempio noto in letteratura di gioco di coordinazione, tanto che Menger è da molti considerato il padre del Neoistituzionalismo.

Nel 1871, Menger scriveva che la moneta nasce dal baratto come soluzione (inintenzionale) ai tentativi di risolvere i problemi dell’inefficienza dello scambio diretto. Il meccanismo esplicativo di Menger è interpretabile secondo il linguaggio della teoria dei giochi come gioco di coordinazione: esistono vari equilibri più o meno equivalenti in cui se tutti fanno la stessa cosa stanno tutti meglio. Così, se tutti usano lo swahili per comunicare, stanno meglio che il giorno dopo la distruzione della Torre di Babele, anche se forse sarebbe ancora meglio usare l’inglese, che è un altro equilibrio possibile.

La teoria di Menger era totalmente individualistica: le persone si incontrano e, senza una moneta, possono scambiare solo se hanno bisogni compatibili, ad esempio se chi ha il latte non ha la crostata e chi ha la crostata non ha il latte. Pian piano però alcuni si rendono conto che alcune merci sono più smerciabili di altre, e allora cominciano ad accumulare una scorta di merci “smerciabili” per facilitare le proprie transazioni. Quando tutti adottano questa strategia, una merce diventa la controparte di tutti gli scambi, e nasce lo scambio monetario.

3. Che cos’è un’istituzione dal punto di vista individualistico?

A volte Ahdieh sembra considerare istituzione qualsiasi cosa che l’individuo non è in grado di modificare a piacere. Ma l’idea, che andrebbe chiamata volontarismo o costruttivismo, è aliena alla visione austriaca delle istituzioni (si pensi alle critiche di Hayek al costruttivismo), nonché all’analisi delle procedure politiche tipica della public choice. L’individualismo metodologico sembra interpretato da Ahdieh come una forma di approccio institution-making anziché institution-taking, analogo ai price-maker e price-taker della teoria dei prezzi ortodossa: il problema è che l’institution-taking è compatibile con l’individualismo.

Ogni individuo agendo dà per scontate determinate cose, nel breve termine, ma con le sue azioni contribuisce ad indebolire o a rafforzare nel lungo termine ciò che nel breve poteva dare per scontato. Ad esempio, ogni individuo contribuisce al sistema monetario con le sue transazioni, anche se nella sua vita di tutti i giorni i prezzi e la moneta sono considerati largamente dati. L’individuo è price-taking sul mercato tanto quanto è institution-taking sul piano sociale, ma se si prende la metafora del price-taking troppo alla leggera non si può capire, come giustamente sottolinea Ahdieh, la dinamica del cambiamento sociale. Le istituzioni sono date perché sono il risultato delle azioni individuali passate, esattamente come la dotazione di capitale è data perché è un costo sommerso; l’azione individuale influenza, intenzionalmente o meno, le istituzioni ed è il fattore che anima l’evoluzione istituzionale.

Il modello walrasiano vive al di fuori del tempo: su questo Ahdieh ha pienamente ragione. Ma è un problema dell’individualismo metodologico? “Human action” di Mises afferma esplicitamente che il tempo è una categoria fondamentale del ragionamento economico, senza il quale il processo del mercato sarebbe incomprensibile.

Ahdieh si chiede però cosa rimanga dell’individualismo se si considerano anche le istituzioni, ma il problema sembra nascere dalla definizione estremamente restrittiva che dà al concetto. L’istituzionalismo non è necessariamente individualista: le analisi marxiane in termini di classi sociali sono istituzionali e collettiviste, mentre l’analisi mengeriana della moneta è istituzionalista e individualista assieme. Posto quindi che dobbiamo comprendere come funzionano le istituzioni, la teoria delle istituzioni può essere o meno compatibile con l’approccio metodologico individualista: tutti gli esempi fatti da Ahdieh lo sono, ad esempio.

4. Che ruolo hanno la stabilità e la esogeneità delle preferenze?

Queste ipotesi sono giustamente criticate da Ahdieh, ma occorre chiedersi se sono critiche all’individualismo metodologico o a certi modi di teorizzare. Siccome si possono immaginare modelli di preferenze endogene totalmente individualistici, opterei per la seconda opzione, ma di questo argomento non so granché.

Nell’analisi economica le preferenze sono date, nel senso che l’analisi economica non si interessa dell’origine delle preferenze né le giudica (Wertfreiheit), ma si limita ad assumerne l’esistenza come dato ultimo. E’ in genere comodo considerare le preferenze anche come statiche, ma questa ipotesi mi sembra abbastanza priva di conseguenze. E’ possibile assumere le preferenze come endogene e dinamiche e rimanere metodologicamente individualisti?

E’ possibile affermare che certi valori individuali siano incentivati o disincentivati dalla struttura sociale (e viceversa) e che la dinamica sociale sia il risultato del complesso interagire di questi fenomeni. E’ possibile immaginare un modello (ad esempio un modello ad agenti, ABM: agent based model) in cui determinati individui nascono con certe idee, interagiscono in un certo modo, e il risultato dell’interazione influenza le idee professate dagli individui. Si va forse fuori dall’individualismo? Come dice il nome, un modello ad agenti è basato sugli agenti, cioè sugli individui. I teorici dell’ABM, infatti, fanno al computer quello che gli austriaci facevano oltre un secolo fa a mani nude.

In conclusione, l’approccio economico standard ha dei problemi, anche se forse meno di quanti Ahdieh sostiene (ad esempio, la teoria degli equilibri multipli non mi sembra avere nulla di eterodosso: sta nei libri di testo standard). Il problema non è però nella diagnosi, che è corretta, ma nella terapia: non è l’individualismo il problema, ma il costruttivismo, l’atomismo e il razionalismo. Le critiche di Ahdieh valgono per Walras e non per Menger: siccome erano entrambi individualisti, non può essere questo il problema.

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Lezioni della crisi: oltre l’individualismo metodologico, ma con Hayek /2010/01/17/lezioni-della-crisi-oltre-lindividualismo-metodologico-ma-con-hayek/ /2010/01/17/lezioni-della-crisi-oltre-lindividualismo-metodologico-ma-con-hayek/#comments Sun, 17 Jan 2010 22:59:33 +0000 Oscar Giannino /?p=4820 Ci rimuginavo sopra da qualche mese, in particolare dalla lettura dell’ultimo libro di Richard Posner, che attribuisce la crisi alla dimostrata infondatezza dell’EMH, l’Ipotesi  sui Mercati Efficienti di Eugene Fama, e viene perciò potentemente usato dalla pubblicistica liberal per decretare la fine della scuola di Chicago. Alberto Mingardi ha scritto un articolo magistrale sul domenicale del Sole di oggi, rispondendo pan per focaccia. Ma al di là della battaglia delle idee versus i neokeynesiani apparentemente trionfanti del ritorno in grande stile della politica e dello Stato – vedi anche intervista di Giulio Tremonti sempre al Sole di oggi – quel che non mi soddisfaceva era l’assenza sin qui di una riflessione approfondita e al contempo “interna” alla nostra scuola, intorno alla sfida lanciata nella crisi dalla altre scuole di pensiero economico. Per la prima volta qualche giorno fa mi è invece sembrato di trovarla. L’autore l’avevo già segnalato all’inizio dell’anno, per un altro scritto su un altro tema. È Bob Ahdieh, professore alla Emory University School of Law. Il saggio è programmatico sin dal titolo: Beyond Individualism in Law and Economics. Ma il suo pregio è di accontentare i nostri avversari solo nel titolo. Sarei felice che parecchi dei lettori del nostro blog lo leggessero, e scrivessero che cosa ne pensano. 

In estrema sintesi, dirò qui solo perché Ahdieh convince me, e mi sembra tracci la via sulla quale è opportuno inoltrarsi di qui al futuro. Innanzitutto, è scritto “dal di dentro” della nostra visuale. L’autore si riconosce nella scuola di Law and Economics, che dalla scuola neoclassica assume i due princìpi basilari, l’individualismo metodologico e l’ipotesi dei comportamenti razionali di attori e mercato alla luce delle informazioni note. Ne ricorda le basi poste da Schumpeter sin dal 1908,

…the self-governing individual constitutes the ultimate unit of the social sciences; and . . . all social phenomena resolve themselves into decisions and actions of individuals that need not or cannot be further analysedin terms of superindividual factors

ma dopo aver ricordato tutti gli altri principali apporti al suo sviluppo, incardina saldamente l’individualismo metodologico ad Hayek, il quale respinge ogni olismo sociologico, ma al contempo riconosce fermamente che

The overall order of actions in a group is in two respects more than the totality of regularities observablein the actions of the individuals and cannot be wholly reduced to them. It is so not only in the trivial sense inwhich the whole is more than the mere sum of its part but presupposes also that these elements are related to each other in a particular manner. It is more also because the existence of those relations which areessential for the existence of the whole cannot be accounted for wholly by the interaction of the parts but only by their interaction with an outside world both of the individual parts and the whole.

In altre parole, Hayek fu e rimase sempre discosto dal disconoscere che nelle scelte collettive NON contasse altro che l’individuo.

Ahdieh passa poi al cuore del saggio, che prende le mosse dal poderoso attacco mosso dal 1994 – anni in cui neoclassici e Law And Economics sembravano ormai privi di avversari negli USA, per quanto ancora e sempre minoritari nelle tenure accademiche – da Kenneth Arrow nel suo famoso intervento all’American Economic Association. L’esogenità dei meccanismi di formazione delle preferenze individuali rispetto alla Teoria Generale dell’equilibrio neoclassica, che riconduce i meccanismi di formazione dei prezzi alle scelte degli individui disinteressandosi da ciò che quelle scelte può influenzare  per effetto di retaggi e influenze culturali o interazioni e induzioni collettive,  ha portato nel tempo una concezione estrema dell’individualismo metodologico a rivelarsi poco efficiente nell’interpretazione economica di quattro rilevanti fenomeni, le norme sociali, le economie di rete, i giochi cooperativi a equilibrio multiplo, e infine proprio quell’informazione economica che era e resta alla base dell’Ipotesi Mercati Efficienti. La parte più succosa e per me interessante delle considerazioni di Ahdieh è proprio nell’analisi di questi quattro capitoli. Applicare come unico criterio l’utilità marginale individuale non consente di comprendere al meglio le funzioni di ottimizzazione per il consumatore in caso di osu di massa di servizi in rete in monopolio d’infrastruttura naturale. Mentre la crisi finanziaria del 2007-08 nasce come drastico passaggio da un equilibrio elevato della fiducia che consente al sistema bancario di operare avendo una riserva frazionale rispetto al totale dei depositi, a un equilibrio subottimale di impiego del capitale per il quale i depositanti ne chiedono la restituzione tutti immediatamente : e questo proprio perché l’informazione nasce da interconnessione e coordinazione che non è mera somma di utilità individuali.

In conclusione, ha ragione Ronald Coase a lamentare che per tre decenni l’individualismo metodologico si è è troppo ingessato nella sua pretesa superiorità rifuggendo dagli interrogativi e dalle sfide che lo sviluppo del mercato gli poneva, e ha torto Posner che dalla crisi ripudia Chicago. Perché con un buon uso del behaviorismo e della teoria dell’inconsistenza dinamica  temporale, l’individualismo metodologico resta il miglior strumento interpretativo, ma a una condizione: quella di ricordare che per Hayek la formazione delle scelte e la valutazione delle esternalità negative non si risolveva affatto, nella mera somma di utilità individuali, ma anche e sempre nella valutazione delle loro interrelazioni. Sembra poco, ma è ciò che consente a Chicago di restare più che mai essenziale, per combattere con successo contro il neokeynesismo che crede di celebrare nuovi tronfi.

]]> /2010/01/17/lezioni-della-crisi-oltre-lindividualismo-metodologico-ma-con-hayek/feed/ 10 Difendere Hayek, ma anche Fama /2009/11/25/difendere-hayek-ma-anche-fama/ /2009/11/25/difendere-hayek-ma-anche-fama/#comments Wed, 25 Nov 2009 17:38:00 +0000 Oscar Giannino /?p=3938 Ci siamo già occupati delle tesi di Paul De Grauwe, che insegna a Lovanio, è consigliere del presidente della Commissione Europea Barroso, e che personalmente apprezzo più come studioso delle aree monetarie ottimali e subottimali sulla grande scia aperta decenni fa da Bob Mundell, che come economista teorico. Le sue analisi sul dollaro, per esempio, sono preziose di questi tempi. In questo contributo, invece, propone un nuovo step nella strada che sta tentando di battere, quella di una sorta di riunificazione su nuove basi delle teorie economiche, emendando neokeynesismo e marginalismo di quelli che a suo giudizio sono difetti presenti in entrambi i campi. Ve ne propongo la lettura perché è utilissimo da una parte, comprensibilissimo anche ai non economisti come i più di coloro che qui leggono. E, contemporaneamente, perché nella sua piana seduttività contiene a mio giudizio un errore dal quale proprio i non troppo versati devono guardarsi con grande attenzione, perché è diffusissimo nel mainstream e orienta molto il dibattito pubblico.

È ottima e intuitiva la sintesi descrittiva iniziale di De Grauwe per la quale in realtà – cioè al di là delle variegate pretese di tanti economisti – i differenti modelli macroeconomici si dividono in due sole grandi famiglie. Quelli top-down e quelli bottom-up. Quelli “dall’alto in basso” ipotizzano che vi siano agenti in grado di valutare e comprendere pienamente andamenti e tendenze degli aggregati, in modo tale da indirizzarli e correggerli per il meglio attraverso il proprio illuminato operato. Quelli “dal basso in alto” ribattono invece che i mercati sono fatti da milioni di operatori, individui e imprese che agiscono sulla base della propria conoscenza limitata e imperfetta, e di ciò che i prezzi – se sono lasciati liberi di formarsi – dicono loro intorno a ciò che avverrà. Nella prima famiglia ricade in pieno il modello IS-LM del signor Keynes, e di tutti i suoi variopinti discepoli. Nella seconda Hayek, e tutti coloro che hanno letto e condividono almeno il suo The Use of Knowledege in Society.

Sin qui, dunque, tutto bene. Poi De Grauwe scarta corsia, mette la quarta, e partendo per la tangente secondo me esce alla prima curva. Nella sua inveterata avversione alla EMH, la scuola di Eugene Fama che ha avanzato l’ipotesi dei mercati tendenzialmente efficienti se alimentati da informazioni non asimmetriche diffuse agli operatori, De Grauwe prima commette il diffusissimo errore di considerare il modello DSGE proprio di quella scuola nella famiglia top-down, cioè accomunandolo ai dirigisti illuminati, con la differenza che in questo caso la Sofìa non sarebbe della politica che equilibra il modello attraverso gli stimoli da domanda pubblica, bensì i mercati stessi che si autoequilibrano perché intrinsecamente razionali. Dopodiché liquida tale assunto, in  nome del behaviourismo, dell’epistemologia cognitiva  e della neuroeconomica di Daniel Kahneman, che ci insegnano come gli individui  agiscano per lo più in base a interazioni in cui è implicata la parte meno riflessiva del cervello, e sotto l’effetto di rilasci ormonali governati dal sistema limbico e dall’ipotalamo, catalizzatori dei meccanismi elementari di difesa-aggressività-ritrazione.

Personalmente, considero le neuroscienze e Kahneman un prezioso affinamento e non una confutazione della Efficient Market Hypothesis. Ma ritengo sia  assolutamente sbagliato comprenderla nel sottoinsieme top-down, visto che essa è intrinsecamente bottom-up. Gli Illuminati presunti e presuntuosi onniscienti da cui guardarsi sono i governi sempre, e spesso i regolatori indipendenti. Non gli individui e le imprese. De Grauwe lavora una sintesi che, come potete vedere dalla sua conclusione, in realtà attacca i keynesiani di facciata ma demolisce assai più nella sostanza i marginalisti. Per desumerne esattamente ciò che pensano pure i keynesiani. E cioè che le banche centrali devono essere altamente discrezionali e comprare asset a man bassa sui mercati senza dichiararlo in anticipo e senza che dunque il mercato possa scontarlo, ma agendo secondo valutazioni riservate e non dichiarate – vedi il salvataggio per oltre 60 bn £ di RBS e HBOS da parte di Bank of England, di cui incredibilmente abbiamo appreso solo ieri a oltre un anno di distanza, o come è avvenuto in Germania dove, semplicemente, gli attivi bancari nessuno ha potuto andare ancora a vedere e dichiarare alla luce del sole che cosa nascondano davvero. De Guauwe, insomma, difende esattamente ciò che sta avvenendo ora. Un po’ poco, per passare da fondatore di una nuova era della teoria economica, non vi pare?

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Gray’s Anatomy: Hayek più l’ecologismo radicale /2009/09/15/grays-anatomy-hayek-piu-lecologismo-radicale/ /2009/09/15/grays-anatomy-hayek-piu-lecologismo-radicale/#comments Mon, 14 Sep 2009 22:34:04 +0000 Carlo Lottieri /?p=2718 Nel corso degli anni Ottanta, il nome del filosofo inglese John Gray era diventato piuttosto noto tra libertari e liberalconservatori. Docente a Oxford, si era fatto molto apprezzare per gli scritti su Hayek (Hayek on Liberty, del 1984) e anche per altri testi: tra cui quel Liberalism, del 1986, che venne tradotto pure da noi da Garzanti.

Poi Gray cambia: e si tratta di una svolta assai netta.

In testi come Postliberalism: Studies in Political Thought , del 1993, False Dawn: The Delusions of Global Capitalism, del 1998, oppure Straw Dogs: Thoughts on Humans and Other Animals, del 2002,  il filosofo britannico si allinea molto di più al luogocomunismo corrente: nei suoi giudizi sul mercato, sull’ambiente, sulla globalizzazione e via dicendo. E non caso ora è possibile leggere qualche suo articolo anche su quotidiani come The Independent o The Guardian.

Dopo esser passato dalla New Right al New Labour, Gray adesso sembra in cerca di una nuova collocazione. Così almeno lascia intendere uno straordinario recensore libertario, David Gordon, che di recente ha presentato (mescolando critiche e riconoscimenti) l’ultimo volume del pensatore inglese: Gray’s Anatomy: Selected Writings (Allen Lane, 2009).

Gordon è un libertario radicale, un rothbardiano, e solitamente sa essere spietato nel trovare anche minuscole pagliuzze stataliste in autori pure fortemente radicati nella tradizione del liberalismo classico. Eppure il suo giudizio su quest’ultimo lavoro di Gray è tutt’altro che negativo: sebbene non manchino gli accenti critici.

Bisogna dire questa antologia di scritti include pagine scritte nel corso di 35 anni: e quindi non stupisce che si possano trovare nel volume una netta critica del socialismo, un forte attacco all’interventismo, una condanna del progetto bolscevico volto a modificare la stessa natura umana, una presa di distanza da ogni forma di imperialismo aggressivo. Come dice Gordon, c’è molto liberalismo classico tra le righe del libro. Ma tutto questo assieme a un attacco feroce nei riguardi della teoria libertaria e, per giunta, a un’esplicita adesione alle tesi dell’ambientalista James Lovelock.

Forse la chiave di questa indigeribile mescolanza di cose del tutto eterogenee e incompatibili sta nell’osservazione di Gordon, secondo cui la posizione di Gray “poggia su una dottrina filosofica, il pluralismo dei valori, che egli ha assorbito da Isaiah Berlin. In questa prospettiva non esiste un’unica gerarchia dei valori: non insomma non possiamo dire, ad esempio, che la vita di un monaco sia migliore o peggiore di quella di un soldato”.

Di relativismo in relativismo, quello che un tempo era un hayekiano ora si trova a celebrare una prospettiva neopagana, che essenzialmente vede negli esseri umani una minaccia per il futuro della terra. Diciamola tutta: la grave crisi che stiamo vivendo non è solo finanziaria.

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Basta apologia di Keynes! W il Times! /2009/08/23/basta-apologia-di-keynes-w-il-times/ /2009/08/23/basta-apologia-di-keynes-w-il-times/#comments Sun, 23 Aug 2009 12:19:54 +0000 Oscar Giannino /?p=2295 Non so quanti di voi si siano sciroppati i tre volumi tre dedicati in 25 anni di studio dallo storico Robert Skidelsky a John Maynard Keynes. Per molti versi è “la” biografia di riferimento del vate, una sorta di atti degli apostoli di chi lo considera il messia. Ora Skidelsky non è riuscito a dire no alle preghiere dell’editore, che lo invocava di metter mano a un bel volumetto di fiammeggiante rivendicazione del Profeta, visto che con la crisi tutti i governi tornano al suo decalogo spendi-e-spandi. Skidelsky purtroppo ha acconsentito, così ecco altre 240 pagine per venti sterline, “Keynes The Return of the Master“. La goduria massima oggi è la stroncatura assolutamente feroce da parte della Books Review del Sunday Times. Era Hayek, non Keynes, ad attaccare le politiche che condussero alla Grande Depressione. Erano i discepoli di Hayek, non di Keynes, a criticare i tassi di Greenspan che hanno gonfiato la bolla e ci hanno portato alla crisi attuale. Sono ancora i discepoli di Hayek, non di Keynes, a poter dire meglio come far ripartire crescita e occupazione in un mondo di mercati aperti, non chiusi come quelli di cui parlava il profeta statalista. Leggete e godete, se la pensate come noi. Altrimenti pensateci bene comunque e aprite le orecchie alle critiche, se siete rimasti keynesiani.

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Keynes, l’anticapitalista /2009/07/04/keynes-lanticapitalista/ /2009/07/04/keynes-lanticapitalista/#comments Sat, 04 Jul 2009 19:31:09 +0000 Oscar Giannino /?p=1370 Ricordatevene bene, perché oggi torna utile: Keynes non amava affatto il capitalismo, bocciava il comunismo, ma sul socialismo era molto possibilista. Il King’s College di Cambridge pubblicherà tra poco nuovi inediti di John Maynard Keynes, e la lettura di un’anticipazione di alcuni testi curata da Roger Backhouse dell’Università di Birmingham mi ha fatto proprio bene. Di questi tempi in cui tutti o quasi si riscoprono keynesiani, rileggere le parole originali del divinizzato aiuta a tenere gli occhi bene aperti.

Il primo giugno del 1926, Keynes rispondeva a un invito giuntogli per una serie di conferenze dal presidente della Cornell University, Livingston Farrand, annunciandogli che entro il 1928 avrebbe terminato un volume dal titolo An Examination of Capitalism. Ma cambiò idea, come spesso gli avveniva. Di conseguenza, le sue convinzioni di fondo sul tema le dobbiamo ricavare implicitamente dalle sue maggiori opere, che non affrontano mai in profondità il tema, oppure da articoli e lettere in cui gli capitò di esprimere giudizi.

Negli anni in cui si era formato, nessun economista nel Regno Unito metteva seriamente in dubbio il capitalismo. C’erano state discussioni anche aspre sul libero commercio e sulla sua base monetaria (il bimetallismo era alla base del suo scritto giovanile del 1913, Indian Currency and Finance), ma il problema dei fondamenti e limiti del capitalismo si riaprì  con la Prima Guerra Mondiale, la Rivoluzione Russa e Weimar. In Gran Bretagna, il tentativo post bellico di restaurare la stretta politica monetaria tipica del Gold Standard portò a una sempre più vasta crisi industriale sfociata nello sciopero generale del 1926, con fortissime tensioni sociali. Poi venne il 29 e la Depressione, in cui Londra era entrata in realtà da prima e per conto suo. In quegli anni, la sinistra britannica, intellettuali e artisti condivisero in massa la cecità con cui Sidney e Beatrice Webb e la loro Fabian Society guardavano ai costi umani terribili del comunismo sovietico.

Quel che Keynes pensò dello Stato come attore di stabilità economica è stranoto. Partendo dalla sua formazione di economista monetario “classico” con Alfred Marshall e Charles Pigou come maestri, nel 1930 con il Treatise on Money Keynes rompe con la teoria classica aprendosi al ruolo della domanda pubblica, e nel 1936 con la General Theory ne annuncia addirittura il “radicale” superamento.  Dal ciclo trainato dalle aspettative con moneta ancorata all’oro della sua formazione, al nesso tra moneta e risparmio attraverso e oltre  il modello di Wicksell, per approdare infine alla teoria di una “fine del ciclo”, ancorata al tuning pubblico della domanda aggregata.  Ma del capitalismo in quanto tale, che cosa pensava Keynes?

Dagli appunti dei Keynes Papers, si apprende che immaginava un libro scritto in tre parti: L’Ideale, l’Attuale, il Possibile. Il punto d’inizio era “l’amore per il denaro”, attraverso il quale i greedy instincts potevano essere volti a promuovere “miglioramenti tecnologici, dell’occupazione e del risparmio”. Il capitalismo, si legge negli appunti, aveva molti vantaggi, promuoveva decisioni decentrate ed estendeva l’indipendenza delle persone, oltre a essere” essenzialmente internazionalista”. Ma “incoraggia bassi istinti”, recitano gli appunti conclusivi della prima parte. Nella seconda, Keynes si proponeva di sviluppare sì un capitolo sui vantaggi di efficienza garantiti dal capitalismo, ma ben tre capitoli dei quali uno dedicato ai suoi svantaggi, uno ai suoi fallimenti, e infine uno alla sua decadenza. Quanto alla terza parte, Keynes si limitò a indicare i temi che intendeva svilupparvi: e qui viene l’interessante. Le varie forme di socialismo, mettendole a paragone, dal socialismo sindacale a quello corporativo, da quello della cogestione – qui c’è un inciso di suo pugno in forma interrogativa: “c’è del buono in esso?” – alla pianificazione sovietica. Poi il ruolo dello Stato, in tema di risparmio pubblico e di promozione e avversione all’eccesso di rischio finanziario (pensate come sarebbe ristampato al volo, oggi…).

Keynes stava leggendo in quegli stessi mesi Religion and the Rise of Capitalism di R. H. Tawney . Ma a differenza di chi lo incardinava nella Riforma, gli appunti di Keynes del 1920 mostrano che a suo giudizio il “capitalismo individualista e le prassi economiche che lo contraddistinguono” risalivano indubitabilmente” addirittura “a Babilonia”. Nel 1925, nel suo A Short View of Russia, Keynes scrive che “una delle ragioni non secondarie della decadenza intellettuale del capitalismo individualista sta nel principio ereditato dal feudalesimo, il principio ereditario nel controllo della ricchezza e dell’impresa. Per questo il capitalismo è intrinsecamente debole e stupido, è troppo dominato da uomini della terza generazione” (quelli che dilapidano il capitale e l’azienda ereditati). Nel 1934, scrivendo sul New Statesman , criticando Stalin e in risposta a George Bernard Shaw, Keynes scrive che essi “guardavano indietro a ciò che il capitalismo era, non a che cosa è diventato”. Marx poteva aver avuto benissimo ragione sul capitalismo dei suoi giorni, ma oggi la cosa è diversa, scrive Keynes.

Queste affermazioni sono di solito “centrali”, nelle tesi dei keynesiani, per affermare la superiorità di Keynes sulla natura evolutiva delle istituzioni disegnate dall’uomo e dalla politica come fondanti per economia di mercato e capitalismo, rispetto agli unfettered markets che da soli bastano a fondare il capitalismo, in opere come Capitalism and Freedom di Milton Friedman. In realtà, quando nel 1925 il socialista Kingsley Martin scrive sul New Statesman che “il capitalismo privato è un’istituzione superata dai tempi, incapace di rispondere alle attese e alle necessità del ventesimo secolo”, Keynes risponde di essere “integralmente d’accordo”. Su The Nation spiega che “il capitalismo individualista in Inghilterra è giunto a un punto nel quale non può più a lungo dipendere dalla prospettiva di una crescita continua; deve applicarsi al compito scientifico di perfezionare la struttura del suo funzionamento  economico”.

Quando Keynes usava sistematica l’aggettivo “individualista” accostandolo a capitalismo, non aveva affatto in mente una nozione dell’individuo come massimizzatore di scelte in condizioni di concorrenza, alla Friedman.  Per Keynes, dai primi anni Venti in avanti, conterà sempre assai di più chi è al controllo del sistema. Nel 1933, sul New Statesman scrive che “il capitalismo individualista post bellico non può avere successo, nelle mani di chi oggi lo controlla”. Parole analoghe a quelle che scriveva nel 1922 sul Manchester Guardian Commercial, a proposito dell’ ”impotenza delle forze del capitalismo” in materia di rapporti di cambio. Nel suo troppo fortunato The End of Laissez Faire (1926), per Keynes diventa evidente che il capitalismo può avere ancora un senso solo se viene radicalmente mutato da una potente azione collettiva . Un suo scritto del 1923 afferma esplicitamente “a meno che le persone siano unite da un obiettivo e princìpi comuni, la mano di ciascuno si leverà contro gli altri e il perseguimento disordinato del vantaggio individuale potrà condurre alla distruzione la società. Non ci sono stati scopi comuni tra nazioni o tra classi, eccetto che per conflitti e guerre”. La sfiducia verso ogni forma di individualismo metodologico non potrebbe essere più radicale. Non c’è da stupirsi, se partecipando nel 1939 al Walter Lippman Colloque, Friedrich von Hayek a furia di sentire queste frescacce si convincesse che la libertà era davvero ormai minacciata e in serio pericolo.

Quando Keynes parlava di “capitalismo individualista”, nel porne i limiti non si fondava solo sulla sua – quella sì essenziale – teoria dell’incertezza nelle scelte economiche – il pre-fondamento dell’approccio behaviorista . Aveva in mente categorie “morali”. Per questo usava formule come “capitalismo egotista” o self-interested capitalism. Dopo il caos bellico e postbellico, Keynes pensava che era entrato ormai in crisi sistemica il meccanismo fondante del capitalismo: la sua capacità di risparmio. “Il dovere di risparmio ispirato per nove decimi di virtù morali, tanto delle classi agiate che di quelle lavoratrici, ha esito in un precipizio nel quale i lavoratori non tollerano più limiti di vita tanto stretti, e le classi agiate spendono finché possono senza più pensare alla sostenibilità patrimoniale”.  Poiché diversa remunerazione del lavoro e del capitale siano accettate e continuino a funzionare, devono essere percepite come “moralmente” giustificate, scrive Keynes. Altrimenti, “if capitalism became simply a mere congeries of possessors and pursuers, people would find it morally inacceptable”.

La conclusione? Il comunismo era avvertito come moralmente giustificato, cioè non aveva bisogno di garantire crescita per reggere; il capitalismo dipendeva invece solo dalla capacità di garantire crescita per tutti ad alti tassi, ma poiché si era bloccato era due volte avvertito come moralmente ingiustificato. (Nation and Athenaeum, 1925).  Per coerenza, a commento di Lenin per il quale la maniera migliore di distruggere il capitalismo era minarne la moneta, Keynes replica che in effetti l’inflazione mina il capitalismo, mentre una “persistente inflazione è tollerabile solo sotto il controllo di un sistema socialista” (l’Italia lo ha sperimentato e ci ha convissuto per decenni, infatti).

Negli anni della Grande Depressione, Keynes radicalizza ulteriormente la sua convinzione anti capitalista. In Eugenic Reviews del 1937, a proposito del declino demografico in corso, scrive che “una cronica tendenza del capitalismo individualista verso la sotto occupazione conduce alla distruzione della stessa società capitalistica, che rifiuta una più egualitaria distribuzione dei redditi e mantiene alti tassi d’interesse, associati con profitti di pochi, ineguaglianza crescente e alta disoccupazione”. Nella General Theory (VII, p376), in un passaggio da brivido Keynes descrive il “rentier aspect of capitalism as a transitional phase which will disappear when it has done its work”.

Lo stesso Marx sarebbe stato d’accordo! L’accumulazione dei rentiers finisce, infatti, quando arriva il socialismo!

Se queste sono le premesse di tanti anni di inequivoca riflessione – Keynes considerava il capitalismo moralmente insostenibile, se non a patto di crescita altissima e continua – allora bisogna leggere diversamente il suo scambio epistolare con Hayek, nel giugno ’44 dopo The Road to Serfdom. I keynesiani sottolineano di solito la frase “morally and philosophically I find myself in agreement with virtually the whole of it; and not only in agreement, but in a deeply moved agreement”. Ma in realtà subito dopo aggiunge di non poter condividere “the tendency to disparage the profit motive while still depending on it and putting nothing in its place”.

Leggete questa frase: “The exploitation and incidental destruction of the divine gift of the public entertainer by prostituting it to the purpose of financial gain is one of the worser [sic] crimes of present-day capitalism. Anything would be better than the present system.” Non è una difesa dei costi non di mercato dell’artista, che verranno poi messi a fuoco dalla legge di Baumol.  E’ una condanna del capitalismo e basta.

Convinto che “if there is no moral objective in economic progress, then it follows that we must not sacrifice, even for a day, moral and material advantage – in other words, we may no longer keep business and religion in separate compartments of the soul”, Keynes poneva le basi per cui il capitalismo è di conseguenza “tollerabile” solo nelle mani dei progressisti, visto che non si poteva tornare a quelle dei preti. Per questo, da allora in poi, è il messia delle sinistre occidentali al potere.

 

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Tanti auguri, amico Fritz! /2009/05/08/tanti-auguri-amico-fritz/ /2009/05/08/tanti-auguri-amico-fritz/#comments Fri, 08 May 2009 17:10:14 +0000 Massimiliano Trovato /?p=511
Friedrich von Hayek

Oggi spegnerebbe 110 candeline Friedrich von Hayek.

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