Bisin e i sussidi tedeschi
Con un po’ di stupore leggiamo in un altrimenti assai condivisibile editoriale su La Stampa di Alberto Bisin che i sussidi versati dai Länder della ex-Germania ovest a quelli della ex-Germania est dopo la riunificazione del 1990 sarebbero stati ben spesi e finalizzati ad investimenti per lo sviluppo. Prescindendo qui da un giudizio dettagliato sulle modalità alquanto discutibili con cui avvenne la Wiedervereinigung (ci basti ricordare il cambio uno ad uno e gli effetti che ciò provocò sui salari e sulla competitività delle aziende orientali), sarebbe sufficiente seguire il dibattito politico tedesco per accorgersi che le valanghe di miliardi fluite da Ovest ad Est in questi quindici anni non hanno affatto catalizzato una chiara ripresa economica delle zone facenti capo alla ex-DDR. Al primo programma di trasferimenti (Solidarpakt I) varato nel 1995, si è infatti sostituito nel 2004 un nuovo ingente piano di aiuti (Solidarpakt II) per quasi 160 miliardi, che rimarrà in vigore sino al 2019. Tali fiumi di denaro hanno per molti versi avuto come effetto quello di deresponsabilizzare le classi politiche locali: il Land di Berlino, ad esempio, è prossimo alla bancarotta e da anni usufruisce dei generosi contributi del Solidarpakt II usandoli in maniera scriteriata. Solo il Land della Sassonia, secondo uno studio dell’Università di Dresda, avrebbe usato in maniera corretta i sussidi. Un pozzo senza fondo insomma che anziché promuovere la crescita ha alimentato le clientele locali e la dipendenza cronica dalla spesa pubblica. Ancora nel 2006 il Ministero delle Finanze tedesco lamentava infatti che enormi quantità di risorse erano andate sprecate per l’assunzione di diverse migliaia di funzionari pubblici.
Il tutto senza dimenticare il Solidaritätzuschlag (Soli), balzello aggiuntivo posto sulla testa di tutti i tedeschi che dovrebbe finanziare il Solidarpakt, ma che in buona misura finisce anche nelle casse dello Stato. Per l’abolizione immediata del Soli sono assai poche le voci del mondo politico tedesche fattesi sentire negli ultimi tempi. Tra queste quelle di alcuni parlamentari dell’FDP e della CDU.
Qui il link ad un breve post sul tema dell’istituto economico di Colonia

Nelle scorse settimane il think tank tedesco Initiative Neue Soziale Marktwirtschaft, in collaborazione con l’istituto economico IW di Colonia, ha pubblicato l’indice annuale sul grado di benessere e sviluppo economico facente capo a ciascuno dei 409 distretti della Repubblica federale. L’analisi è stata condotta in maniera piuttosto accurata, prendendo in considerazione trentanove indicatori diversi- tra i quali attrattività del mercato del lavoro, tasso di disoccupazione, potere d’acquisto, produttività , costo del lavoro, infrastrutture, capitale umano e stato delle finanze pubbliche. Ne emerge un quadro (consultabile “graficamente†qui) che non si presta certo ad ambigue interpretazioni: città come Monaco, Stoccarda e Francoforte sul Meno rimangono, con i loro sobborghi, il traino economico del paese. I cosiddetti nuovi Bundesländer, i cui confini sono stati tracciati a seguito della riunificazione del 1990, continuano ad arrancare, se è vero che gli ultimi dieci posti del ranking sono tutti occupati da distretti dell’ex Germania Est, area nella quale il tasso di disoccupazione rimane tutt’ora doppio rispetto a quello occidentale. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà : il sud-ovest della Germania bilancia ancora oggi gli scompensi dovuti ad un amalgama malriuscito. Nel corso di un suo recente intervento presso Biennale Democrazia, Hans Vorländer, politologo dell’Università di Dresda, ha ricordato molto bene come l’ex repubblica democratica abbia in effetti tentato di attutire i rigori e le difficoltà derivanti dalla riunificazione, adagiandosi comodamente sulle spalle di un altro Sozialstaat - quello della Germania federale- e rinviando così l’appuntamento con il libero mercato e il capitalismo. Certo, come gli stessi curatori dello studio non mancano di rimarcare, anche ad Est qualcosa è cambiato e la cortina comincia lentamente a farsi più sottile. Dal 2000 ad oggi si nota un incoraggiante progresso di certe aree (evidenziate in blu, pagina 12) un tempo depresse, in particolare nel Brandeburgo, in Sassonia (il cui sistema scolastico primario è stato recentemente ritenuto il migliore dell’intera Germania) e in Turingia. Lipsia, ad esempio, città da cui nel 1989 ebbero inizio i moti insurrezionali contro il regime della DDR, è tornata ad essere un centro fieristico internazionale di enorme prestigio; Jena, giunta prima nella classifica limitata all’Est, ha una delle università migliori della Repubblica federale e le sue industrie tecnologiche sono tornate a fiorire. Infine Dresda ha ormai una vasta e dinamica rete di piccole e medie imprese. A questo iniziale, ma ancora debole riscatto dell’Est, si è d’altra parte accompagnato un relativo “declinoâ€- si parva licet- di certe altre zone, come quelle intorno ad Hannover, a Colonia e alla stessa Francoforte sul Meno. Solo la Baviera e alcune parti dell’Assia e della Renania Palatinato sembrano aver tenuto il passo. Ora la crisi (come evidenziato in quest’ultimo grafico) minaccia di compromettere ulteriormente la stabilità economica degli agglomerati più produttivi dell’Ovest, mentre sembra non esporre l’Est, assai meno attivo nel campo dell’export, ad un rischio di tracollo. La povertà , si potrebbe dire, protegge l’Est. Assai magra consolazione.