CHICAGO BLOG » giustizia http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Riforma forense: piove (forte) sul bagnato /2010/11/23/riforma-forense-piove-forte-sul-bagnato/ /2010/11/23/riforma-forense-piove-forte-sul-bagnato/#comments Tue, 23 Nov 2010 14:23:38 +0000 Serena Sileoni /?p=7678 Cross-posted su 2+2

Sarebbe singolare, se non fosse allarmante, che la riforma forense all’ordine del giorno del Senato sia qualificata, non solo negli ambienti vicini all’Ordine ma anche nella stampa e in buona parte dell’opinione pubblica, come un’operazione legislativa di razionalizzazione della professione.

Esercitare la professione di avvocato è, molto semplicemente, un’operazione commerciale: offrire un bene (intellettuale) in cambio di una prestazione (pecuniaria). È un contratto, un rapporto sinallagmatico tra chi ne sa di più di leggi e cavilli giudiziari e chi paga quel bene intellettuale.

In linea teorica (e in alcuni paesi in linea pratica: si vedano gli studi comparati sul settore di Silvio Boccalatte, negli Indici delle liberalizzazioni dell’Istituto Bruno Leoni), nulla distingue, pertanto, il frutto del lavoro di un avvocato da qualsiasi bene o servizio scambiato nei più generici mercati.

Tuttavia ci sono ordinamenti, come il nostro, che per motivi storici e culturali prima ancora che per reali esigenze a tutela dei clienti, hanno innalzato barriere ormai cementificate a protezione di un ordine chiuso, di una corporazione autoreferenziale la cui ragione di vita è il mantenimento di se stessa, al di là delle reali esigenze di tutela del cliente, sia in termini di competitività che in termini di affidabilità.

Nati, in teoria, per garantire il rispetto di standard di condotta etici e professionali, laddove la morale personale non sempre arriva e la legge non arriva più, gli ordini sono facilmente divenuti costruttori di barriere dietro cui proteggere i propri (obbligati) iscritti.

Quello che sta succedendo questi giorni, tuttavia, è qualcosa di ancora più grave: la riforma in corso di approvazione, infatti, non tanto proteggerà l’ordine in sé, comprensivo di tutti i suoi iscritti, rispetto alle “minacce” concorrenziali nei mercati dei servizi professionali, quanto piuttosto proteggerà le parti forti dell’Ordine, i pesci forensi grandi rispetto ai pesci forensi piccoli, con buona pace di una competitività e di una concorrenza vantaggiosa non solo per la clientela, ma anche per gli avvocati più giovani e appena entrati nella carriera.

Vediamo perché.

La riforma reintroduce il divieto di patto di quota lite, ovvero il divieto per cui il compenso dell’avvocato può essere concordato con il cliente in maniera proporzionata rispetto all’esito e al valore della causa. La ragione riposerebbe nel fatto che un patto del genere mina la serietà e la professionalità dell’avvocato che sarebbe indotto a “litigare” ad ogni costo. In realtà, basterebbe un minimo di confidenza con i tribunali per capire come siano proprio le tariffe fisse a ingenerare nell’avvocato più rampante la volontà di litigare sempre e comunque, lucrando sul fatto che la sua prestazione è di mezzo, e non di risultato. Al contrario, invece, l’apertura al patto di quota lite rappresenterebbe un incentivo e un premio a fare bene, agganciando la remunerazione alla capacità di portare a casa la vittoria. Sarebbe dunque uno stimolo a fare meglio, e non a litigare di più, come invece accade oggi proprio in virtù del fatto che l’avvocato, a prescindere dall’esito della causa, guadagna sugli atti e le attività che compie, anche quando pretestuosi o infruttuosi.

La riforma reintroduce le tariffe minime. Qui, la motivazione sta nel convincimento che un professionista che chiede troppo poco non è un serio professionista e compromette sia la “corretta” concorrenza tra colleghi sia quell’informazione fondamentale data dal prezzo e relativa al valore del bene da pagare. In parole povere, se un avvocato chiede troppo poco si dovrebbe presumere che altera le informazioni relative a quanto vale la prestazione che il cliente chiede, a danno sia del cliente che dei colleghi. In realtà, a beneficiare della possibilità di scontare la tariffa non sarebbero solo gli avvocati scarsi, ma soprattutto i neoavvocati, che non potendo competere sulla fama e sull’avviamento rispetto agli avvocati anziani (dal punto di vista professionale) possono trovare utile farsi conoscere e entrare nel mondo del mercato forense concorrendo sul prezzo. Si tratta di una pratica comune in ogni mercato libero, in cui un modo per abbattere le barriere all’ingresso è proprio quello di competere sul prezzo, per fidelizzare poi – in un momento successivo – il cliente, sulla base della correttezza e della professionalità. Le tariffe minime, insomma, giovano solo a chi è già dentro al mercato, e vi è in una posizione di maggiore visibilità non per forza dovuta alla bravura o all’impegno. A pagarne le conseguenze, invece, sarebbero proprio quei giovani del cui inserimento nel mercato del lavoro tanto ci preoccupiamo. Infine, poiché giovane non vuol dire necessariamente bravo, se un neoavvocato riesce a farsi una clientela iniziale soltanto spuntando il prezzo ma senza dimostrarsi capace e competente, sarà il cliente stesso ad abbandonarlo in seguito, facendo fallire la sua politica di tariffe sottocosto.

La riforma prevede anche la cd. continuità professionale, ovvero la cancellazione dall’albo per quegli avvocati che non riescano a dimostrare, da un punto di vista reddituale, di vivere della loro professione e di dedicare ad essa la loro giornata di lavoro. Ancora una volta, anche se si dovessero introdurre meccanismi flessibili (deroghe per i primi anni su tutti), a farne le spese sarebbero proprio i pesci piccoli, contro i grandi studi che fanno girare centinaia di migliaia di euro. La ratio sarebbe molto semplice: ripulire l’ordine dai tanti falsi avvocati, che hanno il titolo ma non esercitano o esercitano poco. Verrebbe da dire: e allora? Siamo proprio sicuri che “troppi avvocati” fanno male, perché creano confusione nell’offerta del servizio? Siamo proprio sicuri che le persone scelgono un avvocato puntando a caso il dito sull’albo della loro circoscrizione, e non invece sulla base di un intuitu personae che nasce da una conoscenza diretta, o da una referenza di un amico fidato? Cosa cambia al mercato forense al cambiare del numero degli avvocati iscritti all’ordine? Che male c’è ad avere un ordine pieno di avvocati (considerato peraltro che ci sono ordinamenti in cui non c’è nemmeno un ordine)? Il male sarebbe, al contrario, deprimere di nuovo i neoavvocati o i piccoli avvocati, che hanno bisogno di tempo e esperienza per poter raggiungere fatturati al sicuro dalla cancellazione dall’albo.

Infine, il Consiglio nazionale chiede anche una maggiore trasparenza nella specializzazione. Ad oggi, gli avvocati possono scrivere nel loro biglietto da visita di essere specializzati in questo o quel settore senza alcun controllo. Il Consiglio vorrebbe invece che la specializzazione fosse certificata (ovviamente dal Consiglio stesso) sulla base di indici come la frequentazione di corsi di aggiornamento, master, etc. Si tratta davvero di un circolo vizioso, già emerso con l’obbligo deontologico vigente di aggiornamento professionale tramite l’acquisizione di crediti. Proprio questo obbligo ha mostrato alcune imperfezioni lampanti. Per prima cosa, nulla garantisce che l’ente erogatore del servizio di specializzazione offra davvero un buon servizio, al contrario, spesso si tratta di un modo per moltiplicare corsi di aggiornamento, master, scuole di specializzazione in maniera parassitaria e con la complicità in buona o mala fede degli ordini. Si sa, ad esempio, che i convegni universitari rischiano spesso di andare deserti. Garantirsi il pubblico tramite l’offerta di crediti di aggiornamento per gli avvocati è un modo facile di avere gente al convegno e di far perdere tempo agli avvocati.

Secondariamente, verrebbe da chiedersi: siamo sicuri che un avvocato che ha tempo di frequentare corsi che possano certificare la sua specializzazione sia davvero un buon avvocato? O al contrario sia un professionista con poca clientela e tanto tempo libero? Degli avvocati seri e competenti che conosco, nessuno ha tempo di frequentare corsi di specializzazione, proprio perché la mole di lavoro che sono riusciti, tramite la loro competenza e professionalità, a garantirsi occupa tutto il loro tempo lavorativo. Tempo lavorativo, questo sì, capace di specializzarli e renderli sempre più competenti.

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A2A, i diritti negati /2010/02/23/a2a-i-diritti-negati/ /2010/02/23/a2a-i-diritti-negati/#comments Tue, 23 Feb 2010 12:56:09 +0000 Guest /?p=5239 Riceviamo dal Prof. Cesare Galli e volentieri pubblichiamo

La vicenda della sentenza della Corte Costituzionale disattesa da A2A conferma che è più urgente che mai riportare la società al rispetto delle regole e dei diritti dei cittadini-utenti

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 238 del 24 luglio 2009 ha stabilito con estrema chiarezza che la TIA (ex TARSU) ha natura tributaria e non è quindi assoggettabile ad IVA.
Ciò comporta l’obbligo per i soggetti che l’hanno riscossa di restituirla ai cittadini-contribuenti e, prima ancora, quello di non applicarla per l’avvenire: la pronuncia della Corte è infatti immediatamente operativa e non necessita affatto di provvedimenti legislativi di attuazione.

È dunque sconcertante che A2A, incurante della sentenza, non solo non proceda ai rimborsi, ma addirittura continui ad applicare l’IVA sui servizi ambientali, giustificandosi con oscure lettere ai cittadini-utenti, che in realtà non chiariscono niente, se non il fatto che essa non intende adeguarsi alla sentenza.
È pertanto indispensabile che la politica – che su A2A è intervenuta pesantemente, quando si trattava di assumerne il controllo politico spartendosi le sue varie cariche – assuma oggi il compito di richiamare l’azienda al rispetto dei diritti dei cittadini: un compito che spetta, prima ancora che ai soggetti che detengono quote del capitale azionario di A2A, agli enti che rappresentano i cittadini sul territorio in cui A2A opera, e quindi in primis alla Regione.
Questa vicenda – ma anche la parallela ventilata intenzione di A2A di destinare anche la terza linea dell’inceneritore cittadino a bruciare rifiuti solidi urbani, anziché biomasse, rendendo ancora più pesante il suo già gravissimo impatto ambientale sul territorio circostante – costituisce l’ennesima riprova dell’anomalia di un soggetto (appunto A2A), che si comporta da impresa quando si tratta di fare profitti, e da ente pubblico quando si tratta di ricavarne vantaggi, e che in ogni caso approfitta del suo sostanziale monopolio, o comunque della sua posizione dominante sul mercato, per tenere un comportamento sostanzialmente indipendente,in grave pregiudizio dei cittadini-utenti/contribuenti.
La concorrenza, infatti, pur eletta a sistema sotto il profilo dei principi della legge vigente, nei pubblici servizi locali viene a Brescia ostacolata o comunque, quanto meno, non promossa:  sul fronte della dell’energia elettrica così come su quello del  gas e del riscaldamento, sui servizi idrici e di smaltimento dei rifiuti così come in quello dei trasporti pubblici.
Le politiche sin qui seguite hanno invece privilegiato il rafforzamento dei soggetti esistenti e delle situazioni di monopolio nei quali questi si trovano ad operare: emblematico è il caso della vecchia ASM, ora A2A, che grazie alle scelte “protezionistiche” operate dalla politica in questi decenni può godere nella nostra Provincia di un’egemonia che rende difficile l’ingresso di nuovi soggetti che possano costituire un’alternativa ad essa, innescando una “gara” che porterebbe ad un miglioramento della qualità ed alla riduzione dei costi, come sempre avviene in ogni mercato in cui non è più uno solo soggetto a dettare le regole ma i cittadini sono “liberi di scegliere”, cosa che oggi come oggi è invece una missione impossibile.
La concorrenza vera va appoggiata, praticata, incentivata e resa sostenibile ed effettiva dalla Regione, per quanto di sua competenza.
Questo è un tema fondamentale e discriminante. Crediamo fermamente nel libero mercato e sosteniamo con vigore l’indipendente e seria concorrenza, anche nei vari servizi pubblici locali, con unico risultato vero a favore dei cittadini – contribuenti, singolarmente e quanto comunità, di ciascuno di noi e degli abitanti dell’intera Provincia.
Aggiungiamo che, la libera concorrenza rappresenta un fattore positivo per le imprese efficienti, dinamiche e strutturate, che non hanno bisogno di padrini politici e che non sono spaventate dall’idea di confrontarsi con cittadini/clienti e non con utenti/sudditi. Da decenni invece politicamente si elimina e stronca ogni seppur timida iniziativa economica di concorrenza, si svalutano le potenzialità economiche, sociali, tecnologiche in essa insite e si guarda, indipendentemente dal colore delle Giunte, solo agli equilibri di partito, di potere, economici, ai tanto detestati “interessi di bottega”.
Facciamo appello per una scelta chiara verso una sana e moralmente doverosa terzietà degli enti pubblici, che dovrà svolgere un ruolo di controllo non  commisto ad un ruolo di gestione diretta, a tutto ed esclusivo interesse della libera concorrenza per i cittadini, per le imprese e per le migliori società di servizi.
E, certamente per noi sinceri liberali, non ultimo, la riduzione delle imposte e delle tariffe e, perché no, anche una ipotesi di restituzione – rimborso ai medesimi cittadini, che sapranno spendere ed utilizzare assolutamente meglio e con maggior buon senso della pubblica amministrazione il denaro che hanno guadagnato col loro lavoro.

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Liberalizzazioni: lo stato della professione legale – di Pasquale Annichino /2009/07/22/liberalizzazioni-lo-stato-della-professione-legale-%e2%80%93-di-pasquale-annichino/ /2009/07/22/liberalizzazioni-lo-stato-della-professione-legale-%e2%80%93-di-pasquale-annichino/#comments Wed, 22 Jul 2009 12:57:57 +0000 Guest /?p=1724 Riceviamo da Pasquale Annicchino e volentieri pubblichiamo

La lodevole iniziativa del gruppo “Io non voglio il posto fisso, voglio guadagnare” coordinata dall’instancabile Piercamillo Falasca (fellow dell’Istituto Bruno Leoni e vice-presidente di Libertiamo) offre una preziosa opportunità di riflessione sul grado di apertura del mercato delle libere professioni in Italia. Ad essere oggetto di discussione è soprattutto la professione legale.
Occorre però un attimo di franchezza prima di procedere: l’iniziativa, per quanto da apprezzare e sostenere, è destinata a finire nel vuoto. Nessuno prenderà sul serio quel disegno di legge. Che Piercamillo non se la prenda. Esiste un ampio consenso bipartisan a supporto delle posizioni corporative del Consiglio nazionale forense (CNF). L’esercizio non sarà comunque inutile.
E’ da anni che il tema delle liberalizzazioni delle professioni è oggetto di discussione. Gli argomenti sono ormai tutti sul piatto. Costi e benefici. Rischi ed opportunità. La sintesi della tavola rotonda che la Italian Society of Law and Economics organizzò alla LUISS nel 2007 ne offre una preziosa ricognizione. Non è un caso se Guido Alpa, presidente del CNF, regolarmente invitato a quella conferenza decise di non presentarsi. I suoi argomenti sono indifendibili.
Ho collaborato per un paio di anni con l’ANPA (ora Unione Giovani Avvocati Italiani), l’intervista al presidente dell’associazione Gaetano Romano, pubblicata oggi da Libertiamo sintetizza, se ce ne fosse ancora bisogno, la ragionevolezza di una battaglia da non abbandonare.
A meno che non si voglia ammettere che in questo Paese le professioni liberali non hanno ragion d’esistere. Cerchiamo l’introvabile?

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Nuovo processo civile: problemi risolti? /2009/06/24/nuovo-processo-civile-problemi-risolti/ /2009/06/24/nuovo-processo-civile-problemi-risolti/#comments Wed, 24 Jun 2009 09:33:37 +0000 Giovanni Boggero /?p=1127 Disquisire della riforma del processo civile in questa sede è difficile, tanto più, poi, se si tratta di dare giudizi nell’ambito di una materia già di per sé intricata e complessa. Mi limito perciò ad una breve panoramica e a qualche valutazione sui contenuti della riforma, che lungi dal costituire un isolato ed eccezionale intervento del legislatore (la certezza del diritto non è di questo mondo, né tantomeno di questo paese…), è solo l’ultimo anello di una catena che poco plausibilmente, date le attitudini italiche, può considerarsi davvero esaurita. Partiamo dall’obiettivo assai condivisibile che si è prefisso il Ministro Alfano: dimezzare i tempi abnormi dei processi italiani. Un contenzioso in sede civile si protrae in media per più di sette anni. Di qui una vasta (e meritoria) serie di misure volte a contrarne ope legis la durata. I termini previsti per l’impugnazione sono stati tagliati, così come quelli sulla sospensione del procedimento e sul suo rinvio a seguito di una pronuncia di Cassazione. Nella stessa direzione, volta a tamponare l’emorragia dilatoria che affligge i nostri procedimenti, va anche l’introduzione del calendario delle udienze disposta in tema di istanze istruttorie. Forse, oltre al filtro in Cassazione, qualche taglio più deciso allo strumento dell’appello sarebbe stato auspicabile, in particolar modo laddove non si palesa davvero come elemento imprescindibile di garanzia (mi riferisco alle sentenze del giudice di pace). La spinta alla conciliazione, impressa dalla condanna al pagamento delle spese processuali per chi, una volta avvalsosi di questa facoltà, decida poi di proseguire l’iter giudiziale, conseguendo con la sentenza un risultato meno soddisfacente, rientra nella medesima ottica di decongestionare e abbreviare la via ordinaria per ottenere giustizia. In tale filone di iniziative, si inserisce anche l’allargamento (fino a 5000  e a 20.000 euro) della competenza per valore e materia dei giudici di pace, categoria in realtà già oberata di lavoro e frustrata da bassi compensi. Ecco perché forse, anziché ricorrere ai magistrati onorari, sarebbe stato il caso di incentivare quegli innovativi schemi di ADR (Alternative Dispute Resolution), così come delineati in questo bel paper scritto per l’Istituto Bruno Leoni da Andrea Bozzi. Per rimediare c’è sempre tempo, a partire dal nuovo testo di legge che il governo approverà sulla conciliazione. Ahimè, temo che anche su questo tema si accavalleranno i pensieri di stucchevoli benpensanti, preoccupati –vado a memoria- da uno “Stato che abdica alle sue funzioni” e che “liberalizza beni pubblici”. Il fatto è che chi crede di poter cambiare dalle stanze di Montecitorio la struttura ingessata e dannatamente formalistica del procedimento civile è, per usare un eufemismo, niente più che un illuso. I primi a dover collaborare nell’opera di flessibilizzazione del rito sono i giudici medesimi e questo perché, come è noto, sono loro che nella prassi fanno e disfanno il diritto, anche se nel velo di ipocrisia dei sistemi di civil law ciò non è ai più percepibile. Purtroppo, se è vero che la Cassazione si è arrovellata per anni nel tentativo di “capire” se la procura  all’avvocato fatta  su foglio separato e unita all’atto per il tramite di spilli e/o listelle di scotch fosse da considerarsi “in calce o a margine” e quindi valida; ebbene se è vero ciò (ed è vero!),  bè allora la nostra giustizia rimane irrimediabilmente ancorata ad un astratto e vuoto formalismo. Con o senza riforme del Ministro Alfano.

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