CHICAGO BLOG » germania http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Debito, Irlanda e quattro lezioni /2010/11/17/debito-irlanda-e-quattro-lezioni/ /2010/11/17/debito-irlanda-e-quattro-lezioni/#comments Wed, 17 Nov 2010 13:13:32 +0000 Oscar Giannino /?p=7631 Ho vinto una scommessa che avrei voluto perdere. Su Panorama la settimana scorsa ho lanciato un appello alla politica italiana, perché nella crisi non si faccia prendere la mano dall’irresponsabilità e tenga bene a mente il debito pubblico italiano (non casualmente, visto il contatore del terrore cioè del debito pubblico che qui pubblichiamo). Apposta, però, su Panorama ho moltiplicato per dieci la cifra, nella convinzione che, abituati come siamo a considerare il debito come una percentuale del Pil, nessuno faccia caso davvero al suo vero ammontare. Come purtroppo temevo, nessuno se n’è accorto. I casi sono due. O nessuno mi legge, e allora il direttore fa bene ad additarmi la porta. Oppure vuol dire che davvero siamo in pochissimi, ad avere idea che il debito pubblico italiano ammonta – ora che sono le 12,30 di mercoledì 17 novembre 2010 – a oltre 1.857 miliardi di euro. E che ogni secondo aumenta di oltre 2300 euro, 150 mila al minuto, quasi 9 milioni di euro l’ora, oltre 200 milioni di euro ogni giorno che Dio manda in terra.

Sarà bene che la politica italiana e soprattutto le opposizioni vecchie, nuove e nuovissime la ricordino bene, questa cifra. Che la aggiornino costantemente. Nelle prossime settimane e mesi di instabilità ogni fesseria sulla finanza pubblica italiana può trascinarci dritti dritti nella crisi dell’eurodebito. Dove grazie alla tanto criticata lesina del governo siamo riusciti ad evitare di trovarci in compagnia di Grecia ieri, Irlanda e Portogallo oggi. Anche se poi la lesina e basta non ha compiuto alcuna scelta tra quelle prioritarie, che servivano al’Italia per crescere, scelta che avrebbe implicato scontentare alcuni tagliando enegicamente spesa loro riservata, per concentrarsi su altro.

E’ il caso che i ferventi architetti di maggioranze e governi nuovi, e i teorici magari di sante alleanze tra opposti da Vendola a Fini, alzino lo sguardo dalle alchimie e dalle legittime ambizioni di ciascuno, per ricordare quattro semplici cose. La prima è che la Germania non fa sconti: sbaglia chi crede che la Merkel abbia parlato per incompetenza, quando ha chiesto che dal 2013 i Paesi dell’eurozona ad alto debito espongano chi ha comprato i loro titoli a rimetterci interessi e capitale. La Germania spinge così i mercati a credere che ci saranno due gironi nell’euro. Chi è rigoroso nei conti pubblici e produttivo nell’economia reale sta nel primo, chi no sta nel secondo e pagherà interessi altissimi. Se finiamo nel secondo girone siamo fritti. Ci bruciamo tutto il vantaggio dell’euro cioè pagare annualmente solo 4 punti di Pil di interessi sul debito, invece che 7, 8 o 9 come un tempo.

Secondo. L’Irlanda non è per niente pazza come in molti la dipingono, a respingere gli aiuti “coatti” europei. Lo fa perché non tollera l’idea che Bruxelles imponga di alzare le tasse. Fossi irlandese la penserei anch’io così. Perché il futuro, come il passato, è di chi ha basse tasse e spesa pubblica. Anche se ha dovuto fare deficit pazzeschi per salvare le banche, non bisogna dimenticare che così sarà.

Terzo. Nella guerra tra dollaro e yuan, è l’euro a fare il vaso di coccio, ed è l’Europa a contare poco, tranne il ristretto girone tedesco, per altro alleato alla Cina. E’ lì che dobbiamo stare: non certo con le tasse patrimoniali che la sinistra ha in serbo se vince.

Quarto. L’intero mondo avanzato compie oggi un enorme travaso di risorse verso chi oggi rappresenta il futuro, cioè l’Asia sinocentrica. Le masse gestite dai fondi di investimento europei dirette a quei Paesi emergenti ammontavano a 168 miliardi di € nel 2008, a 440 miliardi quest’anno. Il Financial Times ha stimato che toccheranno i 769 miliardi nel 2014. Più è alto il rischio di finire nel girone dantesco europeo se facciamo fesserie, più risorse perderemo per la crescita italiana. Dall’interno, perché scapperanno all’estero. E dall’estero, perché andranno altrove.

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L’auto europea drogata e Fiat /2010/11/17/l%e2%80%99auto-europea-drogata-e-fiat/ /2010/11/17/l%e2%80%99auto-europea-drogata-e-fiat/#comments Wed, 17 Nov 2010 00:51:09 +0000 Andrea Giuricin /?p=7623 Sono arrivati i dati dell’andamento del mercato auto in Europa e sono tragici. I sussidi dei vari Governi europei dati nel 2009 hanno drogato il mercato, con la sola conseguenza di anticipare la domanda e di provocare una caduta nel 2010. Le vendite nel mese di ottobre sono scese a poco più di un milione di vetture in tutta l’Unione Europea, con una contrazione di oltre il 16 per cento rispetto allo stesso mese del 2009. Il livello è più basso anche di quello registrato nel 2008, mese di crisi globale, dopo la caduta di Lehman Brothers. Sussidiare il mercato dell’auto con gli incentivi si è rivelata non solo una politica inefficace, ma soprattutto dannosa. Nel settore auto motive servono interventi strutturali, non le solite politiche di breve termine. La dimostrazione arriva non solo dall’Italia, dove la caduta nel mese di ottobre è stata del 28,8 per cento, con una forte crisi di Fiat, ma soprattutto dalla Germania guidata dalla Cancelliera Angela Merkel.

Nel corso del 2009, anno nel quale si sono svolte le elezioni (27 di settembre), la Germania ha attuato una politica d’incentivi all’acquisto molto aggressiva. I sussidi sono terminati appena concluse le elezioni e la conseguenza è stata quella di una caduta del mercato. Dall’inizio del 2010 le vendite sono calate del 26,8 per cento.

La crisi post-incentivi o da “mercato drogato” colpisce maggiormente quelle aziende che avevano beneficiato dei sussidi.

Le case automobilistiche concentrate sul segmento delle “piccole-medie” erano state quelle che più avevano incrementato le vendite perché proprio su questo segmento erano andati i maggiori incentivi. Fiat era una di queste.

L’azienda torinese, infatti, ha perso il 33 per cento a livello europeo nel mese di ottobre e la caduta delle immatricolazioni è stata di quasi il 17 per cento da inizio anno, a fronte della caduta del 5,5 per cento del mercato.

Se la Germania va male nel settore vendite, lo stesso non accade a livello produttivo, dove continua a correre la produzione. Come è possibile?

Nel paese teutonico sono state prodotte quasi il doppio delle auto che sono state vendute lo scorso anno. Il vantaggio tedesco non deriva certo da un costo del lavoro basso, quanto dalla specializzazione e da un sistema che invoglia gli investimenti.

Un tasso di burocrazia molto meno elevato rispetto all’Italia, una flessibilità nei contratti di lavoro che permette maggiore efficienza e una tassazione effettiva per le imprese meno bassa (Dati World Bank 2010) aiutano lo sviluppo di impianti di produzione in Germania.

Un altro fattore chiave è il mercato. Le aziende producono molto spesso laddove vi è un mercato importante.

Perché le aziende tedesche sono andate a produrre in Cina? Per abbassare il costo del lavoro? La motivazione principale della produzione di Volkswagen in Cina è dipendente dall’importanza del mercato cinese. La casa automobilistica tedesca vende ormai in Cina il 75 per cento del numero di veicoli venduti in tutta Europa e quasi il doppio di quando ne venda in Germania.

Cosa puó imparare l’Italia e la sua classe governante?

In primo luogo che gli incentivi drogano un mercato, ma non servono a nulla nel medio-lungo periodo. Anzi aggravano la crisi.

In secondo luogo che i Governi, invece di puntare sulla solita politica dei sussidi, dovrebbe concentrarsi sui problemi reali dell’Italia.

Nessun governante non ha mai visto che l’unico produttore in Italia si chiama Fiat e che nessuna casa automobilistica estera viene nel nostro Paese?

Affrontare i problemi di un costo del lavoro elevato a causa di una tassazione esagerata, di un’eccessiva burocratizzazione, di contratti troppo poco flessibili farebbero cambiare l’Italia.

Sergio Marchionne sta combattendo sull’ultimo punto contro la Fiom, ma sugli altri punti solo il Governo può agire.

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In piccolo, si può smuovere anche il Quirinale /2010/11/12/in-piccolo-si-puo-smuovere-anche-il-quirinale/ /2010/11/12/in-piccolo-si-puo-smuovere-anche-il-quirinale/#comments Fri, 12 Nov 2010 20:55:39 +0000 Oscar Giannino /?p=7575 Segnalo giusto tre particolari non troppo secondari, a conclusione della giornata: abbiamo lasciato sul sito di questo blog lo stesso intervento video del sottoscritto da mesi, e purtroppo c’era un perché; la scelta del contatore del terrore, cioè del debito pubblico, oggi si comprova di bruciante attualità; in piccolo, sono riuscito senza sforzo e con un minimo di fatica a ottenere che il Quirinale uscisse dall’ambiguità sulla spesa pubblica. Soddisfazioni intellettuali, certo. Solo queste, del resto, possiamo qui permetterci.  Le illusioni dell’eurosalvataggio, recita il titolo del contributo video che ho deciso di lasciare sulla prima pagina di Chicago Blog ormai dai tempi del compromesso in extremis colto al salvataggio greco con la nascita dell’EFSF, in realtà cuscino di ultima istanza rispetto all’intervento che in sede europea resta prioritario per tempi, disponibilità di risorse e competenze, cioè quello del Fondo Monetario Internazionale.  Non l’ho lasciato lì per prigrizia. Era evidente sin dal primo giorno della soluzione maturata sei mesi fa che essa non avrebbe retto al tempo. La Germania restava e resta semopr epiù il vero Paese leader per bilancia commerciale, dei pagamenti, produttività e dunque crescita, nonché per il vincolo ostativo a strumenti strutturali di salvataggio visti i suoi vincoli costituzionali a duifesa della sovranità nazionale. Dall’altra parte, altri paesi oltre la Grecia restavano ineressati da squilibri di bilancia di pagamenti, come il Protogallo che nelle partite correnti sta a meno 11% di PIL, o di bolle ancora non completamente emerse e rettificate con perdite, come l’Irlanda in campo bancario. Quel che non potevamo sapere con certezza ma solo prevedere, e lo abbiamo previsto, è che i due fattori di debolezza intrinseca del compromesso sarebbero stati ulteriormente minati  dalla guerra delle valute rialimentata dalle contraddizioni della politica “lasca” americana sia in campo fiscale e di bilancio sia monetario  da parte della FED, con il conseguente piantarsi della crescita USA, l’indebolimento che l’euro forte apporta ai Paesi più deboli dell’eurozona rispetto alla Germania, e la frenata generale anche europea tranne che a Berlino e a Londra per effetto delle recenti durissime misure di finanza pubblica. I nuovi record storici di questi giorni degli spread irlandesi e portoghesi sul BUND ci danno purtroppo ragione. La conferenza stampa congiunta al G20 dei ministri delle Finanze dei grandi Paesi europei è stata oggi la conferma che siamo di nuovo sull’orlo di un cratere vulcanico. delò resto, la germania ha fatto la sua scelta. sta con la Cina e contro l’America. Io la capisco, ma per noi son dolori.

Secondo: la necessità di fernare il corso del nostro contatore del terrore cioè del debito publico è confermata dal fatto che oggi anche lo spread dei BTP italiani sul BUND ha superato con 192 punti il rec0rd dello scorso inizio giugno. La consolante tesi per la quale l’Italia era fuori dalla crisi non è destinata a restare vera, con questi chiari di luna politici. E non perché io difenda il governo berlusocni o Giulio Tremonti. Al contrario, servirebbero credibili impegni politici adeguati alla bnuova cornice di instabilità. Cioè un governo stabile e un ministro dell’Economia capace e in condizioni di assicurare  un serio èpiano pluriennale di ridimensionamento della spesa pubblica in termini reali, a fronte di credibili , paralleli e immediati sgravi fiscali a imprese e lavoratori. Il governo che sta tirando le cuoia in questi giorni ha creduto e scelto di non poterlo fare per non alzare la temperatura delle polemiche sociali, stanta la difesa a testuggine da parte delle mille lobbies italiane del milione di rivoli della spesa pubblica, che ha continuato a salire in questi anni nella sua parte corrente mentre scendeva in quella per investimenti. Prima che sia troppo tardi, bisogna invertire il segno di questa scelta. Invertitrla con forza e durezza. Indicando in cinque -sei punti di spesa pubbluica e pressione fisdale in meno l’orizzonte triennale di provvedimenti che ridisegnino alcuni punti essenziali del welfare  e della macchina pubblica italiana, con cessioni al mercato di interi comparti di servizi pubblicui che pre restare tali devono essere offerti secondo standard di qualità e di efficienza, ma non gestiti più da dipendenti pubblici pagati dal contribuente. Altrimenti, bisogna sapere che inevitabilmente o quasi  -dietro l’angolo i nuovi governi e le nuove alchimie che ci sta preparando una politica priva di visione in ogni area politica, al centro come a sinistra come a maggior ragione nella destra resa afasica dal dramma berlusconico – magari dopo un’elezione confusa e senza vincitori dotati di maggioranza coesa, la soluzione sarà quella di una patrimoniale con la scusa che chi c’era prima ha raccontato balle.  ma non una patrimoniale come ponte di breve termine per l’adozione immediata di una flat tax di convergenza tra reddito delle persone fisiche e giuridiche sul 20%. Una patrimoniale e basta, per reperire le nuove risorse che tutti vogliono spendere per far ancora lievitare la spesa pubblica.

Per questo, ieri sera a Porta a porta, ho deciso con un minimo di doppiezza di sollevare il caso della nota del Quirinale che affermava, a due giorni soli dall’inderogabilità richiamata dal Colle dell’approvazione della legge di stabilità, che non si poteva andare avanti con tagli continui. Una nota ambigua, ho detto. Che correva il rischio di essere imbracciata dal partito della spesa pubblica – quello che da Pompei ai teatri, dai film ai ricercatori universitari  confonde lo sviluppo con i denari del contribuente – come un’insperatata e autorevolissima legittimazione.  Stamattina ho rilanciato la palla, intervistando gasparri a La versione di Oscar su radio 24 glie l’ho fatto ridire. Il Quirinale a quel punto ha deciso di emettere una nota di precisazione, il cui senso è non bisogna accrescere il deficit  ma bisogna fare scelte precise invece che tagli lineari.

E’ già qualcosa, ed è comunque un successo. Non possiamio soperare che il Quirinale si metta a dire insieme a noi che la via giusta è quella in realtà di comprimere energicamente spesa pubblica e tasse . Ma, in piccolo, siamo almeno riusiti a fargli dire che non bisogna fare più deficit, ed è già qualcosa in questa povera disastrata Italia.

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Quel pozzo senza fondo chiamato Hypo Real Estate /2010/11/12/quel-pozzo-senza-fondo-chiamato-hypo-real-estate/ /2010/11/12/quel-pozzo-senza-fondo-chiamato-hypo-real-estate/#comments Fri, 12 Nov 2010 20:28:49 +0000 Giovanni Boggero /?p=7576 Nei giorni in cui i progetti di fusione tra le malconce Landesbanken sfumano per l’ennesima volta, il canale televisivo ARD ripercorre con una galleria fotografica i momenti salienti della crisi bancaria tedesca degli ultimi anni, il cui simbolo può a buon diritto essere considerata Hypo Real Estate.

Ma andiamo con ordine. HRE è una banca, specializzata in mutui immobiliari con sede a Monaco di Baviera, nata nel 2003 a seguito dello spin-off da Hypovereinsbank, a sua volta fusasi con Unicredit nel 2007. La voragine nei conti di HRE, causati dagli affari spericolati della controllata irlandese Depfa Bank, divenne di pubblico dominio solo verso la fine di settembre del 2008, quando il watchdog dei mercati finanziari tedesco (BaFin), la Bundesbank e l’associazione delle banche tedesche (BdB) decisero di concedere linee di credito al gruppo, al fine di tamponarne le difficoltà di rifinanziamento. Solo qualche giorno più tardi divenne chiaro che la situazione di Depfa Bank, acquisita nel 2005 dall’audace Ceo Georg Funke, era così drammatica, che il problema non era più semplicemente di far affluire liquidità, bensì di evitare la bancarotta della holding.

Appena una settimana più tardi, il 5 ottobre, l’esecutivo tedesco di grande coalizione  fu così costretto a varare la prima delle numerose iniezioni di denaro pubblico, pena – si disse- un effetto domino sul sistema bancario, simile a quello provocato dal tracollo di Lehman Brothers negli Stati Uniti. Dopo l’azzeramento dei vertici del gruppo, la loro sostituzione con “manager” di dubbie capacità (tra cui anche politici socialdemocratici con un passato nella Landesbank di Berlino o alla Bundesbank) e la creazione del famoso fondo per la stabilizzazione degli istituti di credito (SoFFin), Hypo è arrivata a farsi versare più di 100 miliardi tra garanzie e aiuti diretti dalla Federazione e solo in minima parte (15 miliardi) da altre banche.

Il 26 gennaio 2009, di fronte allo stato comatoso del paziente, il Governo federale entrò nel capitale di HRE, nel tentativo di accaparrarsi  la quota di maggioranza. L’opposizione, tanto quella liberale quanto quella comunista, lamentò un intervento tardivo, giacché – si disse – le eventuali responsabilità degli ex proprietari di Hypovereinsbank erano ormai per legge prescritte e solo lo Stato, cioè i contribuenti, avrebbero potuto paracadutare i debiti dell’istituto.

Con perdite per l’anno 2008 pari a 5,5 miliardi di euro, il 20 marzo 2009 il Bundestag approvò la Rettungsübernahmegesetz, legge che attribuiva al Governo federale il potere di espropriare gli azionisti ancora titolari di azioni di HRE. Se gli azionisti non avessero accettato la carota dell’offerta pubblica di acquisto da parte della Federazione, il Governo federale avrebbe usato il bastone dell’esproprio. Un chiaro abuso del diritto, derivante dal surreale conflitto di interesse dell’essere contemporaneamente regolatori e banchieri. Abuso che il fondo di private-equity C.J. Flowers, detentore di quasi il 22% delle quote societarie, decise di non accettare. La cocciuta opposizione del fondo americano costrinse così i tecnici del Ministero ad aggirare l’ostacolo. Dopo un gigantesco aumento di capitale per annacquarne le partecipazione, la Federazione acquisì il controllo del disastrato istituto. La nazionalizzazione si completò così nell’ottobre dello scorso anno con il cd. squeeze-out ad 1.30 € ad azione del restante 10% degli azionisti.

Formalmente l’esproprio non avvenne, anche se sulla natura dello squeeze-out si potrebbe discutere. Ma il clima di arbitrio e di allontanamento dai principi della cd. Ordnungspolitik portò alla mente quello altrettanto violento di sessant’anni prima, ai tempi del nazionalsocialismo. Ma quel che è peggio è che, in poco meno di due anni, Hypo Real Estate aveva inghiottito decine e decine di miliardi dei contribuenti, senza riuscire a cavarsi d’impaccio. Ancora oggi, unico tra gli istituti di credito tedeschi a non aver superato lo stress-test europeo, Hypo Real Estate, che oggi si chiama Deutsche Pfandbriefbank AG, è la pecora nera del sistema bancario teutonico. Nonostante le ingenti perdite, i vertici del gruppo dovrebbero persino ricevere bonus e liquidazioni nell’ordine di 20 milioni di euro. A chi sostiene che lo Stato è un azionista migliore e più avveduto, raccontate la storia di HRE.

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Draghi non deve fare politica, ma ben altro /2010/11/09/draghi-non-deve-fare-politica-ma-ben-altro/ /2010/11/09/draghi-non-deve-fare-politica-ma-ben-altro/#comments Tue, 09 Nov 2010 16:14:31 +0000 Oscar Giannino /?p=7536 Dalle cronache politiche qualcuno continua di quando in quando ad avanzare l’ipotesi che potrebbe essere chiamato a esercitare una supplenza politica in Italia. Ma in realtà per Mario Draghi potrebbe essere un serio incomodo. Non lo dico solo perché molti gli hanno sempre attribuito una segreta voglia di far politica, ma a me è sempre personalmente risultato che non vi sia praticamente nulla di più alieno al suo pensiero, formazione e legittima ambizione. Soprattutto, l’eventuale ed ipotetica chiamata del Quirinale costituirebbe un serio ostacolo a qualcosa che invece sta concretamente maturando. Cioè la possibilità che sia proprio il governatore della Banca d’Italia, a succedere al francese Trichet alla guida della BCE.

E’ una partita che si gioca ai vertici europei l’anno prossimo. Ma intanto quel che nelle ultime settimane gli osservatori specializzati e fior di media europei hanno registrato, è che la candidatura del tedesco Axel Weber, il banchiere centrale tedesco, ha perso molte frecce al suo arco. Le reiterate dichiarazioni del capo della Bundesbank contro la politica monetaria e contro il Quantitative Easing seguito dalla BCE – per altro assai più modesto di quello praticato e rilanciato dalla FED – nonché i suoi irrituali accenni alla necessità che il debito pubblico dei paesi definiti “europeriferici” possa andare incontro ad auspicabili haircuts cioè a riscadenze e degli interessi con perdite delle banche e dei risparmiatori, hanno praticamente obbligato Trichet a smentire apertamente che Weber rappresenti la linea della BCE. In altre parole, in Weber si legge con eccessiva irruenza la matrice politica e germanica della sua nomina, e ciò lo induce a parlare più a difesa degli interessi del suo Paese che di quelli dell’eurosistema. Non è una buona credenziale per guidare la BCE. Ormai il giudizio è pubblico, esteso e condiviso.

Nell’ultima settimana, Der Spiegel ha dedicato un servizio alla “declinante stella” di Weber, accusato di avere “la bocca troppo larga”. Il Financial Times Deutschland ha scritto che è ufficiosamente riaperta la gara e che Weber non è più il candidato numero uno, e che al suo posto maggiori chanches le ha Draghi. Mentre il riflesso condizionato tedesco di preferire un fido banchiere centrale olandese a un italiano olandese non trova buona soluzione in Nout Wellink, che deve occuparsi dei problemi di bilancio e della solidità finanziaria del suo Paese. A parte il fatto che già il predecessore di Trichet, Wim Duisenberg, era olandese. Su Die Welt il presidente dell’eurogruoppo, il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, ha anch’egli criticato duramente Weber. In futuro alla Bce, ha detto, serve un presidente che esprima con autorevolezza una sola voce, non un polemista minoritario.

E’ vero, contro Draghi gioca che il vicepresidente BCE scelto l’anno scorso è del Sud Europa, il portoghese Vitor Constancio. Ma a un francese non può succedere un altro francese, come Dominique Strauss-Kahn, oggi alla testa del FMI a almeno apparentemente il candidato di bandiera di Parigi . Al vice portoghese tanto meno si può aggiungere poi un presidente spagnolo, come spera Madrid che tiene in serbo Jaime Caruana, oggi alla rigorosissima BRI di Basilea, e alla Banca di Spagna dieci anni fa. Mentre il banchiere centrale lussemburghese, Yves Mersch, è un avvocato: il che lo esclude per mancanza di titoli. I tedeschi, scartato Weber, potrebbero giocare la carta di Klaus Regling, l’ex direttore generale della degli Affari Economici e Finanziari alla Commissione Europea oggi alla testa dell’European Financial Stability Facility da 440 miliardi nato per la crisi greca, e che i tedeschi vogliono smontare, sostituendolo con un più ambizioso Fondo Monetario Europeo subordinato però a un’improbabile modifica del Trattato. Ma Regling non ha alcuna esperienza di banca centrale.

Come si vede, all’esame delle forze in campo, Draghi ha tra tutti migliori possibilità di quanto si credesse fino a pochi mesi fa. La guida del Financial Stability Forum e l’ottimo rapporto con Geithner e gli altri regolatori mondiali lo ha reso un candidato autorevole al di là delle vicende del suo Paese. Francamente, al Quirinale potrebbero e dovrebbero pensarci, prima di dirottarlo su altro.

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Una lettura tedesca del nuovo Patto di Stabilità /2010/11/06/una-lettura-tedesca-del-nuovo-patto-di-stabilita/ /2010/11/06/una-lettura-tedesca-del-nuovo-patto-di-stabilita/#comments Sat, 06 Nov 2010 14:13:35 +0000 Giovanni Boggero /?p=7472 Come abbiamo scritto per Aspenia nel nostro lungo articolo che uscirà nei prossimi giorni, il compromesso raggiunto a Deauville tra la signora Merkel e il Presidente francese Sarkozy non è né una vittoria della linea dura, seguita dalla Cancelliera prima di allargare i cordoni della borsa, né una vittoria della linea morbida, abbracciata dalla Cancelliera con l’approvazione degli aiuti alla Grecia e l’istituzione del cd. Fondo di stabilizzazione.

Fatta la tara alle equazioni un po’ semplicistiche, il nuovo Patto di Stabilità è una via di mezzo tra questi due opposti. Benché Ulrike Guerot giudichi l’accordo come un netto successo per la Germania, una certa ambiguità di fondo la si nota anche nel titolo del suo articolo: a more European Germany – on German terms, laddove il neo-europeismo tedesco convive con un pizzico di sale teutonico. Da buona “prodiana” Angela Merkel ha insomma usato bastone e carota. E non è certo la prima volta. In patria tutto si è detto fuorché la Cancelliera sia stata la restauratrice del rigore. L’FDP e diversi organi di stampa le hanno rimproverato grande debolezza per non aver preteso l’applicazione di sanzioni automatiche e per aver protratto l’esistenza del Fondo di stabilizzazione. Lei ha replicato che “il congelamento dei diritti di voto è già previsto dal Trattato odierno”. Un bluff. La rinuncia alla sospensione del diritto di voto in caso di deficit eccessivi è stata funzionale ad ottenere la clausola della partecipazione dei creditori alla ristrutturazione, che molti commentatori fuori dai confini tedeschi considerano suscettibile di segnare un cambio di passo nella gestione delle finanze pubbliche da parte degli Stati membri.

A mio avviso, nell’accordo si trovano sia rigore sia solidarietà, disciplina di bilancio e perequazione, “euroscetticismo” ed “euroentusiasmo”. Il rigore sta appunto nell’eventualità di una ristrutturazione del debito per gli Stati spendaccioni, la solidarietà sta nel Fondo di stabilizzazione, approvato a maggio in fretta e furia e di fatto senza il crisma della copertura giuridica dei Trattati e ora reso permanente tramite un “annacquamento” dell’art. 122 TFUE. Tutto dipende insomma da come verrà dosata questa miscela. Per ora il mercato, come correttamente mostra Mario Seminerio su Il Fatto quotidiano, ha apprezzato lo sforzo rigorista.

In ultimo, una questione più prettamente giuridica. La proposta di revisione che Hermann Van Rompuy presenterà nel Consiglio europeo di dicembre dovrebbe finalmente prevedere l’uso delle cd. clausole dinamiche di modifica. In particolare si dovrebbe passare per l’art. 48 § 6 TFUE.

Anche qui condivido solo parzialmente quanto scrive Ulrike Guerot. Per due ragioni:

a) Benché la riforma semplificata del Trattato eviti le forche caudine della ratifica, la cosiddetta legge di responsabilità per l’integrazione (IntVG), che ha recepito le indicazioni della Corte Costituzionale tedesca nella sua celebre sentenza del 30 giugno 2009, ha esplicitamente previsto che tale ipotesi vada trattata come un normale caso di trasferimento di poteri sovrani e che quindi necessiti di una legge di approvazione nelle forme di una legge ex. art. 23 I comma della Legge fondamentale; non è chiaro se tale legge dovrà essere approvata ex proposizione 2 o ex proposizione 3 del medesimo articolo. La proposizione 3 verrebbe in rilievo, qualora si ritenesse che la modifica dei Trattati rechi disposizioni modificative od integrative della Legge fondamentale.  In tal caso  Bundestag e Bundesrat dovranno esprimersi a favore con una maggioranza qualificata di due terzi. Il ruolo dell’opposizione diverrebbe cioè fondamentale.

b) E’ vero che la riscrittura dei Trattati frustrerà probabilmente il ricorso dei famosi giuristi ed economisti, essendo d’ora in poi il Fondo di stabilizzazione ancorato direttamente nei Trattati. La Merkel terrà quindi a bada la cd. Terza Camera, superando l’ostacolo dell’art. 125 TFUE, che pur permane sulla carta. Ma ciò non toglie che Karlsruhe possa valutare comunque incostituzionale il meccanismo a livello di diritto interno. Oggi forse questo rischio la Cancelliera lo corre meno. Presidente della Corte Costituzionale non è più Hans-Jürgen Papier, ma il giovane Andreas Voßkuhle, di tendenze socialdemocratiche e abbastanza europeista. Tale cambio di marcia, impresso con la recente sentenza Mangold, dovrebbe insomma far dormire notti tranquille alla Cancelliera. Il mastino Schachtschneider, artefice dei ricorsi da Maastricht fino ad oggi, è però sempre dietro l’angolo…

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O’ Sole tedesco, ma quanto ci costi! /2010/10/16/o-sole-tedesco-ma-quanto-ci-costi/ /2010/10/16/o-sole-tedesco-ma-quanto-ci-costi/#comments Fri, 15 Oct 2010 23:05:53 +0000 Giovanni Boggero /?p=7299 Brutte notizie per i consumatori tedeschi. L’anno prossimo avranno bollette più care. Tutto sta in una parolina magica che in tedesco si chiama EEG-Umlage e che rappresenta quel contributo aggiuntivo, che chiunque paghi la bolletta in Germania è tenuto a sobbarcarsi per garantire l’elargizione dei sussidi ai fruitori di energie rinnovabili. In altre parole, se è vero che “nessun pasto è gratis”, è altrettanto vero che neanche le sovvenzioni piovono dal cielo, ma i costi se li debbono ripartire tutti i consumatori. E’ il bello della redistribuzione. Ciò che si vede è il sussidio per chi approfitta delle energie rinnovabili. Ciò che non si vede è la tassa occulta addossata a tutti i membri della comunità, anche a quelli che per una libera scelta hanno deciso di non scaldarsi con il sole o con il vento. Che le norme non siano mai neutrali dovremmo averlo capito. Questa ne è l’ulteriore conferma.

Ebbene, l’anno venturo, complice l’aumento della produzione di energia ecologica sul totale, l’Umlage schizzerà verso l’alto (da 2,047 cent a 3,530 per kWh; qui il grafico) e con ogni probabilità l’aumento della bolletta si aggirerà intorno ai 70 euro all’anno per famiglia.

Tra i tanti motivi del repentino aumento della produzione di energie rinnovabili (ma ricordiamo sempre che il solare contribuisce per l’1% alla produzione nazionale di energia teutonica!), il quotidiano economico Handelsblatt cita anche la corsa all’acquisto di un pannello fotovoltaico da parte di moltissimi tedeschi, desiderosi di sfruttare le cd. feed-in-tariffs prima dei tagli destinati ad entrare in vigore nel mese di ottobre 2010 (-3%), a gennaio 2011 (fino a -13%) e a gennaio 2012 (fino a -21%).

Una piccola eterogenesi dei fini, insomma, destinata  forse a rientrare quando i tagli saranno stati implementati una volta per tutte. Solo allora vi sarà forse una discesa della curva totale delle sovvenzioni al solare, che nel 2011, nonostante le tariffe meno generose, toccherà verosimilmente livelli superiori al 2010, a fronte però di una potenza installata maggiore.

L’approvazione del taglio alle sovvenzioni per il fotovoltaico deciso dal Parlamento tedesco lo scorso agosto è infatti solo il primo passo verso la definitiva cancellazione dei sussidi, prevista entro il 2030. Al proposito, gli strepiti degli ambientalisti (e di alcuni curiosi banchieri delle Landesbanken, che paventano una possibile depressione del settore a causa della concorrenza cinese) sono del tutto ingiustificati, tanto più alla luce dei grafici e delle tabelle che gli stessi ecologisti amano esibire per dimostrare che ormai il solare è sempre più concorrenziale. Delle due l’una. O il solare è competitivo e allora i sussidi non servono più e vanno pian piano ridotti. Oppure il solare non è competitivo e perciò deve continuare a rimanere a carico di tutti i contribuenti. Tertium non datur.

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Il declino (annunciato) dei liberali tedeschi /2010/10/02/il-declino-annunciato-dei-liberali-tedeschi/ /2010/10/02/il-declino-annunciato-dei-liberali-tedeschi/#comments Fri, 01 Oct 2010 23:19:49 +0000 Giovanni Boggero /?p=7188 Quando, esattamente due mesi fa, abbiamo pubblicato questo post sul futuro dei democristiani tedeschi, la bolla in casa FDP non era ancora esplosa. E sì perché, nel partito liberale, dopo il grandioso risultato di un anno fa, tira oggi una brutta aria. In meno di dodici mesi i Freidemokraten hanno letteralmente polverizzato il consenso, che aveva permesso loro di tornare sui banchi dell’esecutivo dopo 11 anni di opposizione: dal 14,6% giù in picchiata fino al 4-5%, ormai quasi fuori dal Bundestag. Non passa giorno senza che la leadership di Westerwelle venga criticata o messa in discussione, tanto che egli stesso pare abbia già pensato alle dimissioni da presidente dell’FDP. Ma anche la carica di Ministro degli Esteri e Vice-Cancelliere gli sta molto stretta. A differenza del suo predecessore, il socialdemocratico Steinmeier, Westerwelle non ha infatti tratto alcun giovamento dal ricoprire una posizione di alto profilo. Nella mente dei tedeschi c’è sempre il Guido delle campagne elettorali un po’ esuberanti e patetiche o il Guido che strilla contro i sindacati. Le elezioni del settembre 2009 non sono state altro che un’illusione ottica per chi- come noi- credeva che Westerwelle si sarebbe finalmente scrollato di dosso  gli strascichi di una carriera fino ad allora magra e deludente.

D’altra parte i tedeschi che si recarono a votare per l’FDP lo scorso anno volevano meno tasse subito. Steuersenkungen. Questo era il motto semplice e trasparente dei liberali. Fin dalla distribuzione dei Ministeri tra le varie forze politiche, è parso tuttavia chiaro che il motto non avrebbe avuto seguito alcuno. Quando si seppe che al Ministero delle Finanze si sarebbe accasata l’eminenza grigia Wolfgang Schäuble (CDU) e non il Principe Hermann Otto Solms (FDP), molti elettori si resero conto che il Governo era giallo-nero, ma solo sulla carta. Al timone c’era sempre e solo una persona: Angela Dorothea Merkel.

In un anno di legislatura è difficile fare un bilancio delle cose fatte. Non una manovra è stata condivisa dall’opposizione: il pacchetto fiscale per “l’accelerazione della crescita” (!) dello scorso anno fu anzi l’inizio della fine. Come può un partito come l’FDP, che programma la rivoluzione fiscale, che urla “fate l’amore e non la dichiarazione dei redditi”, pensare che il cambiamento possa passare dall’aliquota IVA agevolata per ristoranti ed alberghi? Per carità, ogni riduzione fiscale, tanto più se l’imposta grava sul consumo, è sempre da accogliere con favore. Ma l’elettorato liberalconservatore, quello che non aveva gradito il quadriennio interventista della signora Merkel, si aspettava ben altro. A Westerwelle è mancato il coraggio. Ha sistemato i suoi in Ministeri di dubbia rilevanza, ad esempio quello per gli “aiuti allo sviluppo del Terzo Mondo”, la cui abolizione l’FDP aveva propagandato fino al giorno prima delle elezioni. Per non parlare degli aiuti alla Grecia e del cd. fondo di stabilizzazione; una figuraccia per un partito che si era opposto alle enormi iniezioni di denaro pubblico per le banche soltanto un anno prima. Guido è stato capace di fare la voce grossa solo con i giornalisti inglesi che parlano inglese in Germania, non con Angie. L’attacco ai costumi da “decadenza tardoromana” che regnano nell’era dello Stato sociale non è stato che un lampo retorico in un buio programmatico. Dopodiché Guido si è inabissato definitivamente, perdendo quel poco appeal che ancora gli restava. Neanche il fatto di essere omosessuale, leader di una “destra moderna” (come piace dire oggigiorno), lo ha aiutato. In Germania, a differenza che in Italia, delle sue tendenze sessuali si parla il meno possibile e queste non rappresentano né un’arma contro né un’arma a favore.

In questo declino che sa molto di tragedia greca, si inserisce il Liberaler Aufbruch (Risveglio liberale), un’iniziativa di un gruppuscolo di parlamentari, insoddisfatti da una FDP fiacca e arrendevole, che non trova “il coraggio di essere liberale”. Il manifesto della corrente, guidata dall’ormai noto esponente libertario Frank Schäffler, lo si è potuto leggere nelle scorse settimane sulle principali testate tedesche. Tra i riferimenti principali F.A. Von Hayek. E scusate se è poco. “In questi anni abbiamo fatto troppe concessioni al collettivismo”, si legge nel testo dei deputati. La reazione di molti liberali all’interno del partito e dello stesso Westerwelle è stata a dir poco scomposta. “Un collettivo di frustrati”, dice un membro del consiglio di presidenza del partito. “E’ solo un ritrovo di euroscettici, negazionisti del global warming e liberisti radicali. Dubito che ciò sia liberalismo”, soggiunge un altro. L’unico che invece potrebbe accogliere con favore un movimento del genere è Nigel Farage, leader dell’UKIP, il quale proprio l’altro giorno tornava a spronare i tedeschi a fondare un partito critico verso l’attuale costruzione europea.

In conclusione due previsioni sul futuro. Se è vero che un movimento liberista spinto in Germania rischia di avere il fiato corto, esattamente come un partito liberale senza nè arte nè parte come quello attuale, si può dire che l’unica speranza liberalconservatrice che non emani polvere e muffa nel centrodestra, al di là del giovane segretario generale dell’FDP Christian Lindner (molto svelto con la parola ma ancora troppo legato all’attuale dirigenza), si chiama Karl-Theodor Zu Guttenberg, un cristiano-sociale bavarese di ampie vedute, che vuole chiudere con la coscrizione obbligatoria in un partito tendenzialmente contrario, sensibile alle ragioni del mercato e abile stratega in politica estera, riuscito a cavarsi d’impaccio con maestria dall’imbroglio del raid di Kunduz e attualmente politico tra i più amati dagli elettori. Wait and see.

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In banca, il panzer è senza cingoli /2010/09/13/il-panzer-senza-cingoli/ /2010/09/13/il-panzer-senza-cingoli/#comments Mon, 13 Sep 2010 12:20:47 +0000 Camilla Conti /?p=7026 Nelle banche, la Germania è la pecora nera dell’Europa ma tutti fingono di accorgersene. Politici e regolatori degli altri membri dell’Ue tacciono, a riprova che l’Europa post crisi è a scettro solo tedesco, ad onta di ogni chuiacchiera. I tedeschi ringraziano – o meglio, non ringraziano, è andata così perchè l’han voluto loro, e basta – per la tutela usata dagli stress test per gli anemici attivi patrimoniali delle Landesbanken pubbliche. E ringraziano anche per la polvere messa sotto al tappeto da Basilea III che rimanda la pulizia vera al 2019. Soprattutto l’associazione delle banche Bdb che alla vigila dell’incontro di domenica aveva fatto circolare una stima secondo cui i primi 10 istituti del paese avranno bisogno di nuovi capitali per 105 miliardi di euro per adeguarsi ai nuovi requisiti. Senza dimenticare le «partecipazioni silenziose», capitale senza diritto di voto utilizzato soprattutto dalle banche pubbliche, l’anello debole del sistema, che non rientrerà più nella definizione del patrimonio.

La locomotiva tedesca ringrazia ma intanto continua a far frullare le sue big del credito. Come Hypo Real Estate, già nazionalizzata l’anno scorso quando era sull’orlo del fallimento, che riceverà aiuti pubblici per altri 40 miliardi di euro. Il fondo salva-banche del Paese Soffin  concederà le nuove garanzie sul debito facendo così salire a oltre 150 miliardi il volume complessivo degli aiuti finora concessi alla Hre.  L’unica banca tedesca che non ha superato gli stress test effettuati a luglio su 14 istituti in Germania, nel frattempo  è impegnata a scaricare una bad bank per un valore di circa 210 miliardi.  Intanto, con un tempismo perfetto vista la road map di Basilea III e alla faccia delle mitologiche crociate contro il rischio, si è mosso anche il panzer Deutsche Bank che ha varato una maxi ricapitalizzazione da quasi 10 miliardi per conquistare il controllo di un’altra banca tedesca (Postbank) assai traballante per non dire semi-insolvente.  Una mossa astuta per non attirare troppo l’attenzione del mercato sulla necessaria iniezione di liquidità. Dei 10 miliardi Ackermann ne ha infatti messi sul piatto solo 7,7  per comprare il 21% dell’ istituto di cui peraltro già possiede il 30%. Mossa che però non è piaciuta alle Borse: dopo l’annuncio il titolo ha toccato il minimo di 47,19 euro.

Sullo sfondo restano le Landesbanken, appese a un consolidamento rimasto ancora sulla carta. Eppure si tratta di uno dei pilastri del sistema bancario tedesco del quale rappresentano almeno un quinto del totale. Al tempo stesso esse rappresentano un importante snodo del sistema bancario europeo in quanto il 40% dei loro attivi sono all’ estero o con controparti estere. Negli ultimi 7 anni hanno però ha chiuso in utile solo in 3 occasioni totalizzando perdite consolidate per 11 miliardi in gran parte dovute a pesanti svalutazioni su crediti, che hanno assorbito nel solo 2009 più del 60% dei ricavi.  All’orizzonte il cielo è ancora cupo:  fino al 2001, infatti, le Landesbanken potevano contare su fonti di raccolta a basso costo in quanto le emissioni erano garantite dal Governo tedesco. Poi Berlino e la Commissione Europea avevano deciso di eliminare questo vantaggio competitivo concedendo tuttavia un periodo di grandfathering di 4 anni in cui le Landesbanken potevano ancora emettere bond garantiti con maturity massima di 10 anni. La massa di emissioni fatte fino al 2005 verranno quindi a scadenza e la loro sostituzione comporterà un inevitabile aumento del costo della raccolta. La mancanza di una rete adeguata di filiali (appena 482 su un totale di 39.531) e quindi di una buona raccolta retail, le Landesbanken dovranno quindi attingere pesantemente alla raccolta istituzionale per il 70% del totale.

Nel frattempo a Francoforte, la Bundesbank è in altre faccende affaccendata. Dopo un lungo e imbarazzante tira-e-molla il consiglio direttivo ha deciso di abbandonare Thilo Sarrazin al suo destino. Per la prima volta nella sua storia, la Banca centrale tedesca ha chiesto al presidente della Repubblica di esautorare un proprio esponente (poi dimessosi spontaneamente e ora in attesa di una pensione da 10.000 euro al mese) che nelle ultime settimane ha provocato vive polemiche per alcuni commenti sugli immigrati musulmani e gli ebrei.  Un incidente che macchia il biglietto da visita di Axel Weber in corsa per salire sul trono della Bce. La corsa a ostacoli, come titolava qualche giorno fa il Wall Street Journal,  descrivendo il cammino del numero uno della Bundesbank verso l’ottobre 2011: prima le critiche a mezzo stampa alla decisione del board di Francoforte di acquistare titoli di stato, poi un’intervista in cui anticipa la decisione di allungare i finanziamenti agevolati alle banche, infine l’imbarazzante vicenda di Sarrazin. Weber insomma resta il favorito ma, scrive il Wsj, ci sono altri candidati credibili. Primo fra tutti Mario Draghi, sottolineano gli americani. Anche se la stampa italiana continua a non fargli propaganda – come invece sarebbe giusto, dal nostro modesto punto di vista – perché per la malmessa e astiosa politica italiana oggi Draghi è un tabù.

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In Germania crolla il gioco di Stato /2010/09/12/in-germania-crolla-il-gioco-di-stato/ /2010/09/12/in-germania-crolla-il-gioco-di-stato/#comments Sun, 12 Sep 2010 11:28:23 +0000 Giovanni Boggero /?p=7015 Ogni tanto l’Unione Europea torna a fare il suo mestiere. Salvaguardare la libera concorrenza non andrà forse più tanto di moda, soprattutto se di mezzo c’è la Germania, ma talvolta Bruxelles riesce a stupirci. Questa volta, per la precisione, si tratta della Corte di Giustizia del Lussemburgo.

I giudici, riunendo una fitta serie di rinvii pregiudiziali, hanno infatti dato il colpo di grazia al sistema che teneva a galla il monopolio pubblico delle scommesse sportive teutoniche. La giustificazione addotta dal governo tedesco in ordine alla necessità di mantenere la posizione di vantaggio per tutelare i consumatori dalle frodi e combattere gli effetti nefasti del gioco d’azzardo è parsa alla Corte non conforme al dettato dei Trattati ed in particolare agli artt. 43 e 49 ex-TCE. La restrizione alla libera concorrenza è infatti ammessa per ragioni di interesse generale (sic), ma in questo caso i titolari dei monopoli pubblici – leggasi gli esecutivi regionali- hanno attuato campagne pubblicitarie a tappeto pur di massimizzare i profitti delle scommesse. Inoltre “le autorità tedesche attuano o tollerano politiche dirette ad incoraggiare la partecipazione a giochi da casinò e i giochi con apparecchi automatici”. Ancora una volta, insomma, dietro al paravento della tutela della salute o della protezione dei consumatori, si scorge la doppia morale di una mano pubblica che tenta brutalmente di far cassa.

Ora che il Glückspielstaatsvertrag è ridotto in cenere, il mugugno di Berlino, o meglio dei sedici Länder, non ha tardato a farsi sentire. Mentre il Land dello Schleswig-Holstein con il suo vicepresidente, l’avvocato liberale Wolfgang Kubicki, si propone di guidare la liberalizzazione del settore, la Renania-Palatinato, guidata da un governo di colore opposto, pare voler far di tutto per rafforzare il monopolio, in modo da incontrare i requisiti della disciplina europea. D’altra parte, proprio come disse un giorno un simpatico e fantasioso professore di diritto del lavoro a proposito delle pensioni delle donne in Italia: “L’Europa non ci chiede di alzare l’età pensionabile, ci chiede di equipararla”. Con ciò, alludendo al fatto che l’età pensionabile (maschile) sarebbe persino potuta scendere (!!).

Ad oggi il gioco d’azzardo online è proibito, la pubblicità è limitata (ne sa qualcosa il Milan!), mentre la normativa è carente sul versante delle slot-machine, tanto che i casinò avevano denunciato gravi perdite per la concorrenza sleale dei piccoli gestori delle “macchinette”. In poche parole una legislazione che ha favorito il mercato nero e che non ha aiutato più di tanto i monopolisti pubblici. Come spiegano dalle parti dell’FDP, l’emersione non sarebbe solo un beneficio per i consumatori, ma anche per le finanze dei Länder.

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