CHICAGO BLOG » gas http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 I segreti di South Stream. Di Stefano Agnoli /2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/ /2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/#comments Fri, 10 Dec 2010 18:01:30 +0000 Guest /?p=7823 Volentieri ripubblichiamo questo articolo di Stefano Agnoli, comparso per la prima volta sul Corriere della sera di oggi.

L’agenzia del turismo del Cantone di Zug raccomanda soprattutto il tramonto sul lago, «un’esperienza da non mancare». Oppure la vista dei giochi di luce sulla facciata della stazione ferroviaria, opera del californiano James Turrell. Difficile però che qualche centinaio di grandi «corporation» di tutto il mondo e di ricchi contribuenti siano confluiti verso la campagna, i laghi e i monti della Svizzera centrale solo per le attrazioni locali. Diciamola subito: a Zug si va perché si pagano poche tasse, e le aliquote fiscali per le aziende sono tra le più basse della Svizzera, e quindi d’Europa. Tra il 9 e il 15%.

Ma non solo: il «tax ruling» locale dà alle società che decidono di installarsi nel Cantone la possibilità (teorica ovviamente) di confezionare bilanci che sarebbe un eufemismo definire incompleti e poco trasparenti. Qualche esempio di illustri «clienti fiscali»? A Zug, e nei suoi dintorni, hanno deciso di spostare la propria sede mondiale o europea grandi multinazionali americane. Così nel giro di pochi chilometri quadrati si ritrovano Foster Wheeler, Noble, Amgen. Il colosso del trading Glencore. Persino la Transocean, la società petrolifera responsabile del disastro del Golfo del Messico nell’estate scorsa, ha sede a Zug. Le grandi corporation sfruttano le agevolazioni cantonali, e così anche i loro manager.

I gasdotti
L’attrazione esercitata dalla Svizzera e da Zug non ha effetto solo sulle aziende occidentali. Gli oligarchi russi spuntati dopo la dissoluzione della vecchia Urss hanno ampiamente sfruttato le «opportunità» concesse dalle leggi e dal tax system elvetico. Le società intermediarie al 50% tra Gazprom e l’Ucraina nel corso del conflitto del gas dell’inverno 2005-06 (come la Centragas Holding) avevano sede in Svizzera, e ora sono da tempo liquidate. Per il colosso moscovita del gas, tuttavia, l’abitudine di servirsi dello Stato alpino per i propri affari è diventata un’usanza consolidata. Come nel caso del progetto South Stream, oggetto dei preoccupati «cable» delle ambasciate americane rivelati da Wikileaks. Il memorandum tra l’Eni di Paolo Scaroni e i russi viene siglato il 23 giugno 2007. Il 18 gennaio 2008 viene costituita la South Stream Ag, posseduta al 50% ciascuno da Gazprom e da Eni International Bv. Dove? A Zug naturalmente. Nello stesso luogo dove, dal dicembre 2005, si trova anche il veicolo societario per il gasdotto «Nord Stream», il fratello gemello sul fondale del mar Baltico che dovrà bypassare la Polonia, e che vede tra i soci la tedesca E.On e come presidente l’ex cancelliere Gerhard Schröder. Ancora: quando all’incirca un anno fa i russi chiudono il negoziato con la Serbia per il transito del South Stream si comportano nello stesso modo. Creano al 50% con Srbijagas la South Stream Serbia Ag, infilano in consiglio il capo di Gazpromexport Alexander Medvedev (solo omonimo del presidente Dmitri), quello di Srbijagas Dusan Bajatovic, e dove la piazzano? A Zug naturalmente. Curioso: in Serbia l’aliquota sui profitti «corporate» è già al 10%, e di meno in Europa non si trova, se si fa eccezione per il Montenegro (9%). Per i russi, evidentemente, in queste scelte giocano altri fattori, primo fra tutti la riservatezza, se si vuole utilizzare anche in questo caso un eufemismo. In Svizzera, dettaglio non da poco, le società non quotate in Borsa non hanno alcuno obbligo di deposito del loro bilancio, che rimane a disposizione esclusivamente dell’amministrazione finanziaria.

Costi a forfait
Focus su Zug, dunque. Dove ci si può immaginare che su mandato di Gazprom e Eni un esperto professionista locale abbia costituito la joint-venture in tre-quattro giorni e con una spesa di 7-8 mila franchi. «Diciamo che le autorità cantonali – commenta Tommaso di Tanno, docente di diritto tributario a Siena – hanno una “capacità dialettica” assai elevata nel negoziato con aziende e contribuenti facoltosi». Con vantaggi fiscali di tutto rilievo: una tassa federale dell’8,5% sugli utili alla quale se ne aggiunge una cantonale del 6,5%, che tuttavia le holding non pagano, visto che a Zug possono godere di regimi «privilegiati». Il tutto grazie alla «concorrenza fiscale» interna alla Svizzera, che fa sì che tra i quaranta luoghi migliori in Europa per non pagare le tasse una ventina siano cantoni elvetici. Ma, soprattutto, a far premio c’è la «flessibilità» sulla redazione dei bilanci, che per quanto riguarda attivi e profitti devono semplicemente soddisfare dei «principi di ordinata presentazione». Senza l’obbligo, quindi, di uniformarsi a standard internazionali riconosciuti, come quelli Ias o quelli americani Gaap. E in particolare – nel caso di aziende che operano «estero su estero» come è e sarà il caso di South Stream – è possibile trattare direttamente con l’amministrazione fiscale un forfait sui costi da riconoscere in bilancio. Una quota percentuale prefissata sui ricavi, detratta la quale resta l’imponibile su cui pagare le tasse. Un sistema che come si può facilmente immaginare lascerebbe un’autostrada davanti a chi volesse mettere in atto pratiche poco trasparenti o addirittura al di là della legge, come consulenze facili, o addirittura la costituzione di fondi. Questione delicata, e all’Eni comunque percepita, visto che nei bilanci la quota del 50% in South Stream Ag (che non è consolidata) compare con una sintetica noterella a margine: la società, si precisa, come altre partecipate svizzere del gruppo risulta ricadere nella «black list» stilata dal ministro Giulio Tremonti nel 2001. Tuttavia essa dichiara che «non si avvale di regimi fiscali privilegiati». Corretto, ma se alla fine South Stream Ag pagherà sugli utili l’aliquota svizzera «senza privilegi» (15%), o quella italiana, pare tutto sommato una questione secondaria rispetto alle domande che pone l’adozione di un sistema, diciamo così, «flessibile» di redazione dei bilanci.

Arriva Gazprombank
Sul versante Nord delle Alpi, però, negli ultimi tempi la partita Gazprom non si è giocata solo sulle joint-venture per i gasdotti. Da un anno e mezzo a questa parte, infatti, in Svizzera ha fatto la sua comparsa anche il braccio finanziario del monopolista di Mosca: Gazprombank, terzo istituto di credito della Russia, dove la casa madre energetica conta per il 41% del capitale e controlla sostanzialmente il board, presieduto da Andrey Akimov. Nel giro di pochi mesi Gazprombank ha messo a segno un paio di manovre che si intersecano con i vecchi scenari noti anche in Italia (caso Mentasti) e lasciano il sospetto che, forse per volontà del Cremlino, si siano ormai regolati diversi affari del passato. A metà 2009 Gazprombank ha acquistato da Vtb, la seconda banca russa, il controllo della Russian Commercial Bank, uno storico crocevia degli interessi russi in Europa occidentale. Ma meglio sarebbe dire che Gazprombank ha provveduto a un vero e proprio salvataggio della Rcb, visto che in pochi mesi ha dovuto sborsare tra garanzie e fondi supplementari 160 milioni di dollari. Rcb, dal 2006, era la controllante del fondo del Liechtenstein Idf, a sua volta controllante della Centrex austriaca ai tempi dello sfumato affare Mentasti. L’uno-due di Gazprombank, che sostiene di aver approfittato dell’occasione per accaparrarsi una banca che ha piena licenza operativa in Europa, ha di fatto azzerato anche i conti sospesi degli anni precedenti. Tra i fondi dei clienti della Rcb si è assistito nel corso del 2009 a una migrazione particolare: 600 milioni di dollari che risultavano attivi su Cipro, dove opera una Russian Commercial Bank Cyprus, sono improvvisamente rientrati verso Mosca. E in questi movimenti non sembrano essere coinvolti interessi esclusivamente russi.

di Stefano Agnoli

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Bp. L’epilogo /2010/09/26/bp-lepilogo/ /2010/09/26/bp-lepilogo/#comments Sun, 26 Sep 2010 09:24:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7148 Ora che “quel maledetto buco” è stato ufficialmente tappato, è il momento di interrogarsi sulle cause dell’incidente, e sull’eredità che esso ci lascia. Due post sul mio blog energetico preferito aiutano a porre la questione in una prospettiva “ampia”, astraendo per un attimo dal redditizio business delle compensazioni, e guardando alla lezione di Macondo. Dunque, cosa è andato storto?

L’esplosione nella piattaforma Deepwater Horizon ha una serie di cause prossime: la sfiga e la cultura industriale di Bp, anzitutto. Ma ha anche cause remote che hanno creato un humus fertile perché le cause prossime scatenassero il disastro.

Partiamo da due situazioni estreme: nella situazione A la proprietà del sottosuolo (e delle risorse minerarie in esso contenute) è “pubblica”, nella situazione B è ”privata” (non mi interessa definire come e chi ne ha diritto allo sfruttamento, è sufficiente che sia un soggetto privato e che i suoi diritti siano chiari e riconosciuti da tutti). Nella situazione A mi aspetto fenomeni di sovra- o sotto-sfruttamento, dovuti al fatto che il governo ritiene di dover spremere la rendita mineraria oppure, all’opposto, che pensa che non sia opportuno turbare l’ecosistema con le trivelle. In entrambi i casi il risultato è socialmente inefficiente. Nella situazione B, invece, mi aspetto che le risorse vengano sfruttate nella misura in cui ciò è conveniente (dati i prezzi relativi delle risorse minerarie e dei beni ambientali, naturali e paesaggistici che, per estrarle, possono essere compromessi). Guillermo Yeatts, già manager di diverse imprese attive nella filiera petrolifera e autore dello splendido Subsurface Wealth: The Struggle for Privatization in Argentina, spiega molto bene i vantaggi di B rispetto ad A. Da un lato, in A la rendita mineraria viene sovente utilizzata per puntellare regimi corrotti e dittatoriali, mentre beneficia poco e/o male le popolazioni direttamente coinvolte dalle attività estrattive. In B, è vero il contrario. Incidentalmente, questa è la ragione per cui la scoperta di un giacimento è un dramma sociale con tinte da Guerra di Troia nella foresta Amazzonica, mentre è una bella notizia, chessò, in Oklahoma. Dove le risorse minerarie sono di proprietà pubblica, l’intero beneficio è catturato dal governo e dalle sue clientele (senza contare che i mezzi di produzione sono normalmente inefficienti). Dove invece esso è privato, il benessere tende a estendersi in un clima di relativa pace sociale.

Cosa c’entra tutto questo con Bp? In fondo, ho appena scritto che gli Usa sono più simili a B che ad A. In realtà, come spiega Rob Bradley, un po’ perché l’estensione delle terre di proprietà pubblica è enorme, un po’ perché le aree offshore ricadono sicuramente (attraverso concessioni e altre diavolerie) in questa categoria, un po’ perché la regolamentazione ha fatto il resto, negli stessi Stati Uniti è in atto un processo di surrettizia “pubblicizzazione delle risorse minerarie”. In questo contesto, il ruolo del governo centrale e del Bureau of Ocean Energy Management (l’ex Minerals Management Service) diventa sempre meno di regolazione tecnica, e sempre più di pianificazione centrale. Quel maledetto buco non ci ha lasciato solo un costoso bando sulle trivellazioni offshore: lascia anche una mole di regolamentazione in crescita, che rischia di andare ben oltre la definizione di requisiti di sicurezza più o meno stringenti (che può incentivare o disincentivare l’assunzione di rischio minerario, aumentando o riducendo i costi di ingresso, ma almeno è relativamente meno distorsiva e relativamente meno arbitraria).

Come spesso accade, insomma, la risposta a un disastro è irrazionale e sbagliata: anziché rimuoverne le cause, essa finisce per ingigantirle. Di fatto, il modo in cui l’amministrazione Obama (e altri governi in giro per il mondo) sta gestendo la faccenda lascia prevedere che, se nell’immediato avremo un giro di vite sulla ricerca ed estrazione petrolifera e quindi una produzione subottimale nei paesi Ocse, nel lungo termine potremmo incrementare il disallineamento tra gli incentivi delle compagnie petrolifere e gli interessi “pubblici” (comunque definiti). E avremo una maggiore dipendenza delle decisioni di investimento dal parere, variamente definito e variamente raggiunto, degli uffici pubblici, con l’inevitabile creazione di azzardo morale (se ho tutte le carte bollate a posto, posso fare cose che altrimenti non farei).

Ci troviamo, cioè, di fronte a un doppio effetto Peltzman: c’è un effetto Peltzman “di primo ordine” in virtù del quale imprese e governi reagiranno ai bandi occidentali spostando produzioni e investimenti nei paesi da cui, ogni giorno e ogni ora del giorno, si dice dovremmo dipendere di meno (non lo dico io, che non me ne frega niente: rilevo che quelli che diventano isterici per il petrolio iraniano e il gas russo, non dovrebbero sostenere bandi e vincoli sulle risorse Ocse…). Poi, c’è un effetto Peltzman di second’ordine in virtù del quale chi ottiene permessi si sentirà “blindato” e dunque agirà prestando relativamente meno attenzione ai rischi reali, e relativamente più attenzione agli obblighi burocratici (come è in parte successo a Bp, in fondo, seppure con una serie di aggravanti).

In breve, per minimizzare la probabilità di incidenti spiacevoli bisognerebbe privatizzare in senso proprio le risorse minerarie (cioè il sottosuolo), ridurre le regolamentazioni alla mera definizione di standard tecnici operativi, e cancellare ogni norma che possa collettivizzare i rischi (come il ridicolo limite alla responsabilità civile delle compagnie petrolifere).

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Più stoccaggi per tutti. E per il mercato? /2010/09/04/piu-stoccaggi-per-tutti-e-per-il-mercato/ /2010/09/04/piu-stoccaggi-per-tutti-e-per-il-mercato/#comments Sat, 04 Sep 2010 06:20:59 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6946 L’Autorità per l’energia ha inviato a Parlamento e governo una segnalazione che solleva alcuni punti molto critici sul decreto stoccaggi, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 29 agosto. Il decreto muove dal presupposto che occorre mobilitare investimenti in nuova capacità di stoccaggio, indispensabile a garantire al mercato del gas (e, indirettamente, all’elettrico) la flessibilità necessaria specialmente nei mesi di maggior domanda. Se, da questo punto di vista, gli strumenti adottati possono essere efficaci, essi rischiano di essere inefficienti a causa delle conseguenze, potenzialmente negative, che rischiano di generare su un altro terreno: quello della concorrenza e del mercato.

Attualmente, esiste in Italia una capacità di stoccaggio di circa 14,3 miliardi di metri cubi (di cui 5,1 adibiti a stoccaggio strategico), 0,4 in più dello scorso anno termico. La disponibilità di punta giornaliera in erogazione è pari a 153 milioni di metri cubi, ancora insufficienti – secondo l’Autorità – a mettere il paese in sicurezza. La larga maggioranza della capacità esistente (13,9 miliardi di metri cubi) appartiene a Stogit, oggi in pancia a Snam e dunque controllata dall’Eni, che è anche operatore dominante sul mercato, mentre Edison Stoccaggi ha 0,4 miliardi di metri cubi nelle sue disponibilità. Diversi progetti, che potrebbero effettivamente cambiare la faccia al mercato, seppure solo parzialmente, sono stati autorizzati o sono in via di autorizzazione (quello più importante per le dimensioni, e dunque il simbolo di questo sforzo, è Rivara), ma si dibattono tra i consueti problemi. Una precisazione: a differenza della rete, gli stoccaggi non sono – tecnicamente – una essential facility. Lo diventano nel momento in cui la situazione è quella che è: cioè l’ex monopolista rimane monopolista in tutti i segmenti determinanti, di cui questo è, ovviamente, uno.

E’ in questo contesto che si cala il decreto stoccaggi. Devo qui fare una confessione: inizialmente, avevo sopravvalutato gli effetti positivi della riforma (infatti il titolo di questo post è auto-polemico). Esso, infatti, come spiegava Federico Rendina a suo tempo,

Nell’attesa di annullare o riproporre in altra forma i tetti sulla vendita in scadenza, i nuovi limiti di “occupazione” degli stoccaggi, ora quasi totalmente controllati dall’Eni attraverso la Stogit, possono essere innalzati dal 40 al 60% in cambio di impegni dell’Eni sulla realizzazione di nuove infrastrutture, o sul potenziamento (ad esempio con sovrapressioni) di quelle esistenti. Ampliandole per almeno 4 miliardi di metri cubi rispetto ai 13 miliardi attuali. Questo con la partecipazione di nuovi investitori (anche le piccole imprese attraverso le loro associazioni o operatori qualificati, fino ad una quota complessiva del 30%, come prevede l’ultima versione del testo) che in cambio ne avranno l’uso effettivo quando saranno disponibili, ma con un anticipo praticamente immediato di “capacità virtuale” tra uno e due miliardi di metri cubi.

Le criticità evidenziate dall’Autorità riguardano essenzialmente due aspetti. Il primo ha a che fare con la flessibilità nella determinazione dei tetti antitrust. In sostanza, si legge nella segnalazione,

il Decreto prevede – all’articolo 3 comma 1) – che ciascun operatore sia vincolato a non superare soglie predefinite in termini di quote di mercato; ove tali soglie sono determinate come somma di due termini, il primo rappresentato dalle quote di immissione ed il secondo rappresentato dalla somma delle ulteriori partite che contribuiscono a determinare la quota di mercato all’ingrosso di un operatore. Ora, sebbene il Decreto non porti gli autoconsumi termoelettrici in riduzione nel calcolo della quota di immissioni, prevede però espressamente che detti autoconsumi siano portati a riduzione del secondo termine che – unitamente alla quota di immissione – contribuisce a determinare la quota di mercato di ciascun operatore. L’effetto netto di questa impostazione di calcolo disomogenea tra i due termini della somma, risulta essere che la disponibilità di gas corrispondente agli autoconsumi – nei fatti – non sarà conteggiata nella determinazione della quota di mercato complessiva ai fini del rispetto delle soglie antitrust per gli operatori, e in particolare l’incumbent.

Calcolare le quote di mercato al netto dell’autoconsumo, quando il maggior importatore di gas è anche un importante consumatore, conduce ovviamente a una distorsione del mercato; anche perché sembra presupporre che il gas autoconsumato sia “fantasma”, ossia che non abbia un costo opportunità; e che gli scopi per cui viene autoconsumato (in particolare la generazione elettrica) siano “isolati” dal mercato, non siano immersi in una competizione che deve essere “equa”. Sullo stesso tema, qui il commento di Federico Testa.

Va detto che anche la decisione di coinvolgere gli “utilizzatori finali” del gas nella realizzazione di stoccaggi ha un che di paraculesco: concilia l’apparente desiderio di salvaguardare la posizione dominante dell’Eni “comprando” il consenso dei consumatori con una forma di sussidio mascherato, e in questo modo sbarra la strada ai concorrenti (e, paradossalmente, trasforma sempre più gli stoccaggi in una sorta di monopolio “innaturale”, sottraendoli alla concorrenza e rendendo necessaria una regolazione intrusiva, pesante, complessa e conflittuale).

Infine, l’organismo presieduto da Alessandro Ortis “pizzica” il governo su un passaggio solo apparentemente formale. Dice il decreto che il ministero dello Sviluppo economico “anche avvalendosi dell’Autorità di regolazione, presta assistenza all’Autorità garante [della concorrenza] per le verifiche degli impegni assunti” (corsivo aggiunto). Secondo l’Autorità per l’energia,

La previsione secondo cui l’attività di assistenza del Dipartimento per l’energia del Ministero dello Sviluppo Economico a favore dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato avviene “anche avvalendosi dell’Autorità di regolazione”, peraltro non prevista dalla legge delega, appare decisamente confliggente con la natura e le funzioni di una Autorità di regolazione indipendente, che non può configurarsi come il braccio tecnico od operativo di alcun Ministero, né tanto meno di un suo Dipartimento, condizione che verrebbe invece a realizzarsi nei fatti.

L’autodifesa del regolatore non è una questione di stizza inadeguata, o un sintomo di eccessiva sensibilità (anche perché l’attuale collegio è in scadenza a dicembre). C’è, piuttosto, un velato messaggio “culturale”, che richiama indirettamente le lunghe polemiche che negli scorsi mesi hanno investito l’Autorità proprio in virtù della sua indipendenza e del tentativo, conscio o inconsapevole, di menomarla, vuoi col blitz (fallito) per commissariarla, vuoi col pasticcio sui finanziamenti, vuoi con la tassa impropria che il Tesoro ha imposto sugli operatori (e sul mercato) attraverso il prelievo dal suo bilancio. Il punto, molto semplice ma, apparentemente, troppo difficile per essere digerito nel nostro paese, è che la relativa “indipendenza” garantita dall’autonomia finanziaria, un processo di nomina forzosamente bipartisan, e le regole che sovrintendono al funzionamento dell’Autorità e al comportamento del collegio durante e dopo il mandato, fornisce al mercato un orizzonte di certezza che una politicizzazione più accentuata farebbe venir meno. Per queste ragioni, è bene non solo che l’Italia mantenga questa indipendenza nel rispetto delle norme comunitarie, ma è bene che lo faccia soprattutto alla luce di quello che è lo scenario politico che abbiamo sotto gli occhi.

Di qualunque cosa stiamo parlando nel settore energetico – nucleare, rinnovabili, elettricità, gas – le parole chiave sono: certezza e stabilità. Se questa certezza e questa stabilità vengono demolite – non importa se tutte assieme o un pezzettino alla volta – non possono che derivarne conseguenze negative per gli operatori del settore e, indirettamente, per i consumatori industriali e domestici. E ciò anche quando essi (alcuni di essi) vengono blanditi con forme più o meno mascherate di sussidi.

Il decreto stoccaggi è un tentativo parzialmente apprezzabile di intervenire su un segmento che richiede attenzione e cautela, ma in alcuni passaggi rischia di fare più male che bene – o di barattare un bene comunque importante (garantire nuovi investimenti) con un male di lungo termine (proteggere il monopolio esistente). Correggerlo sarebbe un gesto di responsabilità e maturità.

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Più stoccaggi per tutti /2010/04/24/piu-stoccaggi-per-tutti/ /2010/04/24/piu-stoccaggi-per-tutti/#comments Sat, 24 Apr 2010 14:05:27 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5753 Il governo ha approvato ieri, dopo una lunga e incerta trattativa, lo schema di decreto sugli stoccaggi del gas predisposto dal ministero dello Sviluppo economico. Il decreto punta a superare le attuali rigidità del mercato, concedendo all’Eni un margine di flessibilità in più rispetto ai tetti antitrust esistenti (in scadenza alla fine di quest’anno) ma vincolando questa flessibilità alla realizzazione di investimenti adeguati. E’ inoltre prevista la partecipazione di soggetti industriali, direttamente o attraverso consorzi. In questo modo si spera di accompagnare lo sviluppo del settore creando un polmone di dimensioni adeguate, che dia liquidità agli scambi di gas metano, ed erodendo la posizione dominante di Stogit (che sta nel perimetro di Snam Rete Gas, controllata dall’Eni). Sul Sole 24 ore di oggi, Federico Rendina fornisce tutti i dettagli della manovra, e spiega perché essa segna una rivoluzione profonda nel settore. Il decreto introduce sensibili miglioramenti, di cui va dato atto al ministro, Claudio Scajola, e al sottosegretario competente, Stefano Saglia.

Il deficit di capacità di stoccaggio è, infatti, una delle ragioni per cui il mercato del gas, pur formalmente liberalizzato nel 2003, si dimostra asfittico. Nell’anno termico 2008/9, il sistema ha offerto una capacità pari a 13,9 miliardi di metri cubi, di cui circa 5,1 miliardi di metri cubi destinati allo stoccaggio strategico, contro una domanda pre-crisi di quasi 90 miliardi di metri cubi. La quasi totalità di questa capacità (13,5 miliardi di metri cubi) è gestita da Stogit, seguita a distanza siderale da Edison Stoccaggi, con 0,4 miliardi di metri cubi. Un certo numero di società si sono fatte avanti per ottenere la concessione a realizzare ed esercire nuovi siti di stoccaggio – la più rilevante essendo quella di Rivara, da 3 miliardi di metri cubi che potrebbero aggiungere alla disponibilità giornaliera di punta (circa 152 milioni di metri cubi) circa 32 milioni di metri cubi. Tutti i progetti, comunque, sono nelle more dei procedimenti amministrativi.

In questo contesto, è chiaro che un intervento teso a “oliare” il mercato e accelerare la realizzazione di nuove infrastrutture di stoccaggio è come manna dal cielo, sia nell’ottica del funzionamento quotidiano del mercato, sia in quella più di lungo termine della creazione di una borsa del gas degna di questo nome. L’entusiasmo per questo importante passo avanti, il primo dopo anni di tiramolla senza sostanziali sviluppi, è sostanzialmente unanime tra gli stakeholder, compresa Confindustria. Non bisogna, però, confondere un sensibile miglioramento con la soluzione del problema. Resta sul tavolo, infatti, la questione non triviale dei tetti antitrust – strumento odioso ma, nell’attuale assetto del mercato, tristemente necessario a contenere gli abusi, attuali e potenziali. La soluzione potrebbe arrivare solo con la separazione proprietaria degli stoccaggi dall’incumbent, più volte sollecitata, tra gli altri, dal presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis. Infatti,

Circa lo stoccaggio, mentre apprezziamo che ENI sembri apprestarsi volontariamente ad operazioni di cessione (la cui adeguatezza andrà valutata), segnaliamo che le sole misure di regolazione non possono superare gli ostacoli derivanti da un assetto proprietario che vede concentrata in un unico soggetto la massima parte sia degli stoccaggi esistenti sia dei giacimenti potenzialmente riconvertibili a stoccaggio.

Oggi è, dunque, una giornata importante per la travagliata storia della liberalizzazione del gas in questo paese. Soddisfazione ed esultanza sono pienamente giustificati. Sarebbe però ingenuo pensare che qui si chiuda un percorso travagliato e segnato da innumerevoli retromarce e campi minati.

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Il presidente perforatore /2010/04/01/il-presidente-perforatore/ /2010/04/01/il-presidente-perforatore/#comments Thu, 01 Apr 2010 10:24:51 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5569 L’inattesa apertura del presidente americano, Barack Obama, alla ricerca petrolifera e di gas al largo delle coste atlantiche e dell’Alaska ha spiazzato molti tra i suoi sostenitori e avversari. La sinistra ecologista denuncia il tradimento della battaglia no-triv; la destra petrolifera rilancia perché la Casa Bianca non ha fatto abbastanza. In realtà, gli uni e gli altri rischiano di sottovalutare la portata di questa mossa (le cui implicazioni sono invece colte con attenzione in prima pagina sul Foglio).

Anzitutto, è importante dare un’occhiata alla carta geografica (la rubo dal Wsj). Sebbene restino ancora molte, ampie e potenzialmente interessanti le aree inaccessibili alle trivelle (sia sulla costa atlantica, sia soprattutto su quella pacifica e nel ricco Golfo del Messico), l’estensione delle zone adesso rese sfruttabili è di tutto riguardo. Il cavallo di Troia con cui Obama assedia il fortuno di un’America sempre più scettica nei suoi confronti, insomma, questa volta è mezzo pieno di doni. Dunque, è comprensibile la reazione stizzita del capo della minoranza repubblicana alla House, John Boehner:

Keeping the Pacific Coast and Alaska, as well as the most promising resources off the Gulf of Mexico, under lock and key makes no sense at a time when gasoline prices are rising and Americans are asking ‘Where are the jobs?’

E’ comprensibile ma, insomma, non del tutto giustificata. Bisogna dare atto al presidente di aver saputo stupire, con intelligenza e coraggio (vista l’ondata di critiche da cui è stato immediatamente investito). Tant’è che i mal di pancia interni hanno subito trovato sfogo. Così il senatore democratico Frank Lautenberg (che rappresenta il New Jersey, un’area direttamente interessata dalla piccola rivoluzione obamiana):

Giving big oil more access to our nation’s waters is really a ‘kill baby, kill’ policy: it threatens to kill jobs, kill marine life and kill coastal economies that generate billions of dollars.

Questa dura reazione va letta come mera dialettica politica, e probabilmente non preoccupa granché il presidente. Infatti, se il suo cavallo è mezzo pieno di doni, per l’altra metà è pieno di guerrieri armati fino ai denti, ed è questo che dovrebbe spingere a leggere la mano tesa presidenziale alla luce dell’antico “timeo danaos“. Come scrive il Ft nella sua maliziosa Lex di oggi, Obama sta vezzeggiando il mondo petrolifero americano (e, su un altro piano, sta cercando di allentare l’opposizione repubblicana) avendo in mente un obiettivo più ambizioso, cioè l’approvazione (dopo la riforma sanitaria) di una strategia energetica per la riduzione delle emissioni. La logica alla base di questa mossa, dunque, è la stessa attraverso cui bisogna leggere la svolta nuclearista dell’amministrazione (un fatto che pochi, in Italia, hanno notato: tra i pochi, Luca Iezzi è stato forse il primo a metterlo nero su bianco).

Non ci vuole, del resto, la sfera di cristallo per svelare le ambizioni della Casa Bianca. Basta, infatti, leggere le parole del potente capo dello staff di Obama, Rahm Emanuel:

If they disagree they don’t have the argument, ‘All you want to do is put windmills and solar panels everywhere,’ ” said White House Chief of Staff Rahm Emanuel in an interview. “This gives him leverage for negotiations because he can’t be boxed” in as a traditional Democrat.

Dunque, cosa dobbiamo aspettarci? La mia previsione è che, nonostante tutto, il presidente non adrà molto lontano. Sono almeno tre le ragioni. La prima è di ordine politico: i repubblicani sono galvanizzati dalle recenti vittorie, e hanno gli occhi puntati sulle elezioni di mid term alla fine di quest’anno. Sarebbe davvero ingenuo per loro concedere a Obama una vittoria dal significato politico tanto profondo, in cambio di alcune concessioni dal sapore puramente tattico (per quando significative). La seconda riguarda la congiuntura economica: sebbene gli Usa sembrino avviati a uscire dalla recessione, i danni della crisi sono ben lontani dall’essere riassorbiti, senza contare la perdita strutturale di competitività a favore delle economie emergenti e le tensioni delle finanze pubbliche. L’America non può permettersi di frenare la ripresa imponendo dei vincoli che, se vogliono essere efficaci, dovranno essere dolorosi. La terza ragione riguarda gli equilibri lobbistici: lo strumento che il presidente ha in mente, anche per le pressioni europee, è un meccanismo di cap and trade, uno strumento ormai sputtanato dal fallimento europeo e considerato sempre meno efficiente dal mainstream economico. Lo scambio delle emissioni continua a essere promosso da soggetti il cui peso lobbistico è in calo: alcune grandi società petrolifere, grossi intermediari finanziari, et similia (giova forse ricordare che dei due più convinti sostenitori del cap and trade negli ultimi anni, il mercato ha fatto piazza pulita: erano Enron e Lehman Brothers). Il variegato mondo degli independents (il vero nerbo della lobby petrolifera americana, che non ruota certo attorno agli interessi delle multinazionali) è scettico nei confronti di uno strumento che non capisce, e che capisce di non poter padroneggiare. Perfino un pezzo di mondo ambientalista è sempre più disilluso in merito (il Wwf ha invitato a Roma uno dei vati del catastrofismo climatico, James Hansen, per sentirsi dire che il cap and trade è una patacca e che il nucleare invece merita attenzione e finanziamenti).

Obama sta, insomma, giocando d’azzardo. La mia scommessa è che fallirà sul clima, ma in ogni caso, almeno per quel che riguarda il rilassamento dei vincoli all’esplorazione petrolifera, ha ottenuto un risultato oggettivamente importante e utile. Se io fossi un repubblicano, direi: Well done, Mr President.

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Due gasdotti al prezzo di uno /2010/03/13/due-gasdotti-al-prezzo-di-uno/ /2010/03/13/due-gasdotti-al-prezzo-di-uno/#comments Sat, 13 Mar 2010 10:00:15 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5379 Cosa c’è dietro la proposta di Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, di “fondere” Nabucco e South Stream, i due progetti concorrenti di gasdotti che dovrebbero portare gas dalla Russia e dal Caspio verso il Sud Europa? Apparentemente, l’idea sta in piedi: costruire un tratto comune ai due gasdotti consentirebbe di conseguire rilevanti economie di scala, sia sotto il profilo dei costi di realizzazione sia sotto quello dei costi di negoziazione coi paesi di transito. In più, sebbene i russi non sembrino entusiasti (et pour cause), gli americani per la prima volta mostrano aperta simpatia per un’iniziativa di Piazzale Mattei. L’inviato di Washington per l’energia, Richard Morningstar, ha parlato di “un’idea interessante che merita ulteriori discussioni e approfondimenti“. Dietro il fumo politico, però, non sembra esserci dell’arrosto.

Anzitutto, non si capisce quanto l’uscita di Scaroni sia concreta, e quanto sia punzecchiatura a Mosca. Trovata una quadra sui contratti (come ha raccontato un paio di giorni fa Stefano Agnoli, e sostanzialmente secondo le linee che Chicago-blog aveva anticipato) il confronto si è spostato su questioni più strategiche – secondo un complesso quadro che è ben descritto sul Foglio di oggi (al momento non lo trovo online). Per esempio, San Donato non avrebbe apprezzato le aperture dei russi ai francesi di Edf, nel consorzio South Stream; e i russi non avrebbero apprezzato lo scetticismo del Cane a sei zampe. L’appoggio americano, da questo punto di vista, non è detto che rafforzi le posizioni dell’Eni. Poi ci sono le rogne finanziarie e la riorganizzazione del gruppo, la cui urgenza è resa evidente dalla rielaborazione della strategia del gruppo, con la riduzione degli obiettivi della produzione, la difesa del dividendo, le pressioni di Knight-Vinke (qui un riassunto dei fronti aperti), l’inevitabile tonfo in borsa.

Sotto il profilo industriale, però, la fusione dei due gasdotti non convince. Non convince per la semplice ragione che, per quanto cresca la domanda europea di gas, difficilmente crescerà a tal punto da assorbire l’offerta addizionale di addirittura due tubi. In questo senso, il Cremlino ha ragione: nessuno investirebbe in una infrastruttura tale da determinare un eccesso di offerta sul mercato di vale e, dunque, minare la sua possibilità di ripagarsi. In questo senso, allora, è forte il sospetto che sia tutto un gioco politico. Come politico è, del resto, il gioco delle parti tra San Donato, Mosca, Roma e Washington. Tanto più che, nelle attuali condizioni di mercato, in presenza di una bolla (seppure transitoria) determinata dalla crisi, tutti i progetti sono rimandati di almeno 5-10 anni. Insomma: siamo al gioco di posizionamento, il momento in cui si tratterà di stringere è ancora lontano.

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E ora, SNAM /2010/02/05/e-ora-snam/ /2010/02/05/e-ora-snam/#comments Fri, 05 Feb 2010 17:43:58 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5067 L’Eni vince o perde? La bozza di accordo raggiunta tra il gruppo di San Donato e la Commissione europea ha tutto l’aspetto di un compromesso doroteo. Formalmente, l’Eni dovrà sbarazzarsi della proprietà sui gasdotti Tenp, Transitgas e Tag (i primi due portano il gas dal Nordeuropa in Italia attraverso Germania e Svizzera, il terzo fa affluire gas russo via Austria). Di fatto, almeno nell’immediato cambierà poco: il Cane a sei zampe mantiene i diritti di transito, e il Tag – il tubo più delicato, per ragioni economiche e geopolitiche – non sarà ceduto al mercato ma a un interlocutore amico (probabilmnete la Cassa depositi e prestiti, o forse un ente pubblico italiano costituito ad hoc). A conti fatti, se non è zuppa è pan bagnato: ma a volte un sassolino nel breve termine può scatenare una frana nel lungo.

La partita si gioca contemporaneamente su molti tavoli. Uno è quello di Bruxelles. La Commissione ha scommesso molto sull’accusa di comportamenti anticompetitivi rivolta all’Eni. Con questa apparente vittoria, Neelie Kroes – commissario uscente alla Concorrenza – lascia la scena in modo trionfale. Però, per così dire, in questi casi far incazzare la vittima del procedimento può non essere sufficiente, ma è di norma necessario: perché, allora, l’Eni non sembra particolarmente sconvolta?
Una premessa. L’obbligo di vendita dei gasdotti internazionali mi lascia perplesso, visto che la questione è sicuramente più controversa rispetto a quanto accade per la rete nazionale. Ma l’orientamento sembra quello, e quindi è importante capire da cosa nasce e dove può portare.
Anzitutto, dunque, l’Eni non è sconvolta perché nel breve termine non cambierà nulla, sotto il profilo strategico: mantenere i diritti di transito significa tenere in mano il boccino, e mantenere segrete le informazioni più sensibili. Per di più, il Tag (che nella prospettiva Eni riveste un ruolo chiave) passerà in mano a un azionista amico, che esso sia la Cdp (la cui disponibilità è stata confermata dal presidente, Franco Bassanini) o un altro soggetto pubblico italiano. Infatti, il nuovo acquirente avrà lo stesso azionista di riferimento dell’Eni – il Tesoro – ed è quindi prevedibile che i due “si parlino”.
Secondo: il capo dell’Eni, Paolo Scaroni, è pressato dal mercato. I 20 miliardi di debito non pregiudicano la stabilità del gruppo, ma sono una rogna. Tant’è che l’anno scorso la compagnia ha dovuto (voluto?) tagliare il dividendo: una mossa simbolica, del valore di 500 milioni di euro all’anno, ma indicativa del clima che si è formato; e anche un messaggio chiaro al Tesoro: con la congiuntura attuale, dal limone non si può spremere più di così. Tutto ciò all’indomani della Robin Tax e della tassa sulla Libia. C’è, poi, la proposta di breakup continuamente reiterata, anche a mezzo stampa, dal fondo Knight-Vinke, che detiene direttamente l’1 per cento del gruppo e rappresenta un altro 1 per cento (ma forse parla a nome di una fetta più ampia). Knight-Vinke insiste sulla necessità di superare gli attuali vincoli finanziari. Incassare 1,5 miliardi dalla cessione dei gasdotti non cambierebbe la vita di Scaroni, ma gli toglierebbe qualche castagna dal fuoco. Sebbene, paradossalmente, renderebbe meno visionario il riassetto voluto dal fondo americano.
Terzo: per Eni, l’esuberanza del Cav sta cominciando a diventare davvero molesta, per Scaroni. Le durissime dichiarazioni del premier e del ministro degli Esteri, Franco Frattini, contro l’Iran possono mettere in moto reazioni non gradite nel paese islamico. E questo, a sua volta, può ripercuotersi su una serie di terreni molto delicati, dove il gruppo si trova (Uganda) o potrebbe trovarsi (Libia) in serie difficoltà. Senza contare che un’Eni distratta da questioni più urgenti sarebbe fatalmente meno focalizzata nella partita a scacchi con Gazprom per la rinegoziazione dei contratti take or pay. La sensazione che deve serpeggiare nel quartier generale dell’Eni è forse che si sia rotto il tacito patto per cui l’Eni si presta alla politica industriale del governo (limitando i licenziamenti, mantenendo troppo a lungo unità produttive moribonde come la chimica, regalando i soldi degli azionisti per la social card, eccetera), e in cambio il governo accetta di seguire, in politica estera, il sentiero tracciato da Piazzale Mattei (ragione, tra l’altro, di un costante e apertamente dichiarato senso di fastidio da parte degli Stati Uniti). Trasmettere la sensazione di accerchiamento, di trovarsi sotto schiaffo da parte dei barbari di Bruxelles, anche se non necessariamente è così, può essere strumentale a ottenere un ammorbidimento delle intemperanze berlusconiane. In questo caso, buona fortuna.
Detto ciò, vale la pena evidenziare che non tutto il male vien per nuocere. A dispetto del controllo di fatto che l’azienda continuerà a esercitare sui gasdotti, la presa si allenta e rende ancora più anacronistica la struttura del gruppo. Ancora meno credibili sono pure le resistenze che oppone alla separazione proprietaria della rete di trasporto nazionale e degli stoccaggi. La linea del Piave scaroniana, secondo cui l’integrazione verticale è fonte di un irrinunciabile vantaggio competitivo quando si tratta coi russi, viene gravemente compromessa (senza contare che l’analisi finanziaria di Knight-Vinke solleva ulteriori e fondati dubbi su questo aspetto). Infatti, se il controllo diretto – e soprattutto la percezione di tale controllo – viene meno, si indebolisce anche l’argomento della sua necessità come strumento negoziale. Tant’è che il presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis, non ha perso l’occasione per rilanciare la richiesta, che fin dall’inizio ha caratterizzato il suo mandato, di sottrarre la Snam all’Eni.
Nota a margine: il mandato di Ortis e dell’unico commissario dell’Aeeg, Tullio Fanelli, scade a dicembre (con sollievo di tanti, nel governo). Sarà interessante vedere su quali nomi maggioranza e opposizione troveranno il consenso necessario. Sarà interessante, in particolare, vedere se queste persone – a partire dal futuro presidente – manterranno le posizioni tradizionali dell’Autorità oppure se il monopolista saprà essere sufficientemente persuasivo, nei confronti di esecutivo e parlamento, da ottenere una rosa di nomi meno ostili. Sarà anche interessante, infine, vedere in che modo Piazzale Mattei tenterà di raggiungere questo obiettivo. Per esempio, chissà come raccorderà il bilancio (quasi sicuramente in ulteriore flessione) col dividendo (quando Tremonti tornerà a batter cassa, che per lui anche gli spiccioli contano).
Resta il fatto che Scaroni deve oggi giocare con estrema attenzione le sue carte. Ha due strade davanti. Una è quella di insistere a muoversi principalmente sul piano politico: poiché le azioni si pesano, oltre che contarle, l’asse con Via XX Settembre non può essere pregiudicato, e dunque è essenziale costruire un rapporto orientato alla protezione della rendita monopolistica. In questo caso, ci si può aspettare una libera interpretazione del patto con Bruxelles (sempre che il market test abbia un esito positivo: incognita non da poco) e la blindatura di Snam.
Oppure, poiché le azioni si contano, oltre che pesarle, Scaroni può decidere, con una mossa a sorpresa, di parlare alla maggioranza silenziosa dei suoi azionisti. Quel 70 per cento di risparmiatori e investitori istituzionali è sicuramente più rappresentato dal chiassoso Knight, che non dal taciturno Tremonti. Dunque, Scaroni potrebbe fare delle concessioni, e far leva sulla sanzione comunitaria per disfarsi anche dell’infrastruttura nazionale (e con essa di buona parte del debito che grava su Piazzale Mattei). In questo modo, si comprerebbe una libertà di azione tale da poter chiudere in modo teatrale e imprevisto la sua esperienza all’Eni. E, con questo biglietto da visita, cercare fortuna a Trieste.

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Gazprom v. Eni. Occhi su E.On /2010/01/14/gazprom-v-eni-occhi-su-e-on/ /2010/01/14/gazprom-v-eni-occhi-su-e-on/#comments Thu, 14 Jan 2010 09:26:43 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4744 Il gruppo tedesco E.On è in piena rinegoziazione dei contratti di lungo termine per l’approvvigionamento gas. Dall’altra parte, stanno i russi di Gazprom. Per ora, gli altri stanno a guardare: i paesi produttori (a partire dall’Algeria) hanno di fatto delegato la tutela dei loro interessi a Mosca (nel senso che probabilmente si accoderanno alle sue decisioni); le altre grandi compagnie (Eni su tutte) aspettano di inserirsi nel cuneo aperto da Berlino, se riuscirà. Altrimenti, saranno probabilmente botte (legali).
Ieri il direttore finanziario di E.On, Marcus Schenk, ha dichiarato (per abbonati) che “sono stati compiuti sensibili progressi sulla base di una relazione costruttiva di lungo termine” per la rinegoziazione dell’80 per cento dei contratti di lungo termine che il gruppo ha in portafoglio. L’obiettivo è ottenere una “limitata flessibilità addizionale” e “obblighi minimi di ritiro stringenti ma gestibili”. Traduzione: i tedeschi chiedono ai russi di mettersi una mano sul cuore e l’altra sul gasdotto, e ridurre i contingenti di metano assoggettati alla clausola “take or pay”, almeno temporaneamente e fino alla ripresa dei consumi post-crisi. La tempistica che i tedeschi hanno in mente è piuttosto chiara: nel 2009 la domanda è crollata, con una punta di -25 per cento rispetto all’anno precedente ad aprile. Questo ha prodotto, a partire dall’inizio dell’anno scorso (contestualmente al crollo delle quotazioni petrolifere) un disaccoppiamento dei prezzi del gas e del greggio. Disaccoppiamento trainato dall’eccesso di offerta, e che incide pesantemente sulle entrate del gruppo (che a gennaio-settembre ha registrato un dimezzamento dell’Ebit delle sue attività non regolate rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Non si sono però ridotti in egual misura i costi del gas: da qui, il disastro, meno volumi e margini ristretti o negativi. Secondo le previsioni degli strateghi di E.On, il riaccoppiamento avverrà tra il 2012 e il 2013. Quindi, quello che Berlino chiede a Mosca è di chiudere un occhio per un paio d’anni.
Non sono noti né il dettaglio delle richieste, né le risposte di Gazprom. Ma quanto è trapelato sembra confermare le impressioni che avevamo già avuto dopo la firma dell’accordo tra il Cremlino e Ankara: ed è qui che sono dolori. Ai russi, infatti, interessa presidiare i volumi, più che i prezzi. Cioè: i russi sono flessibili sui prezzi, gli europei vorrebbero flessibilità sui volumi. Se sia possibile trovare un equilibrio, dipende da due cose: quanto sconto vorranno concedere i russi, quanti volumi sono disponibili a ritirare gli europei. O, in altre parole, quanto vale (nella testa di E.On, e in seguito di Eni), in termini di sconto equivalente, un metro cubo importato in più, tenendo conto dell’effetto depressivo che esso ha sui prezzi di rivendita. Risolvere l’equazione è complicato: ma le parti sono obbligate a trovare una composizione. Occhi aperti su San Donato, nelle prossime settimane.

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Gazprom difende i volumi: qual è il prezzo dell’Eni? /2010/01/08/gazprom-difende-i-volumi-qual-e-il-prezzo-dell%e2%80%99eni/ /2010/01/08/gazprom-difende-i-volumi-qual-e-il-prezzo-dell%e2%80%99eni/#comments Fri, 08 Jan 2010 07:32:29 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4672 La crisi del gas, quest’anno, è al contrario. Ci sarà crisi, almeno per le principali compagnie europee, se i russi pretenderanno il rispetto letterale delle clausole contrattuali, che obbligano gli importatori a ritirare le quantità negoziate a un prezzo predefinito. Chi non lo fa, paga lo stesso (pur potendo recuperare le quantità non ritirate per un periodo che normalmente va dai tre ai cinque anni). Dopo aver temporeggiato per qualche mese, giusto per vedere che succede, i russi hanno fatto la prima mossa, in Turchia. Da giocatori di scacchi quali sono, gli strateghi di Mosca hanno aperto col cavallo: una pedina molto aggressiva, che può facilmente spostarsi dai lati – dove si trova – al centro.
I contratti “take or pay” servono a ridurre le incertezze sottese a investimenti massicci come quelli per cercare gas nel sottosuolo o realizzare le necessarie infrastrutture di trasporto (gasdotti o rigassificatori). Il senso dell’accordo è perseguire una ripartizione dei rischi equa per entrambe le parti: il venditore si prende il rischio prezzo (ancorando il valore del gas a quello di un paniere di greggi), il compratore il rischio volume (impegnandosi a ritirare una certa quantità di metano ogni anno, per tutta la durata del contratto).
Finché la domanda cresce, tutto va bene e nessuno si lamenta. Recessione vuole che la domanda sia crollata – secondo il portavoce di Gazprom, Sergei Kupriyanov, in misura superiore al 10 per cento, in Europa. Da qui il braccio di ferro: i compratori chiedono ai venditori un margine di tolleranza, i venditori cercano di piazzare in ogni modo il loro metano. Brutalmente, la situazione per il Cremlino è questa: il debito incalza, i profitti crollano assieme ai prezzi, gli investimenti colano a picco (nel 2009, Gazprom ha tagliato del 19 per cento): di tutto c’è bisogno tranne che di un altro problema.
Per qualche mese, le tensioni sono restate largamente sotterranee. Ora, siamo al momento del dunque. Il “tana liberi tutti” lo si legge, in controluce, in una notizia ignorata dai più: Gazprom ha chiuso un accordo con la turca Botas, che importa circa 30 miliardi di metri cubi (noi ne abbiamo importati 24,6 miliardi nel 2008). I contenuti dell’accordo non sono noti, ma quello che si capisce è che i russi avrebbero concesso uno sconto in cambio della garanzia dei volumi.
La fretta di chiudere turchi, addirittura l’ultimo giorno dell’anno, potrebbe essere anche un modo per mandare un segnale ai più tosti italiani e tedeschi. Se è così, Gazprom ha tracciato il suo perimetro negoziale. Resta da vedere se Eni ed E.On sono disponibili ad accettarlo. Qualcosa dipenderà, naturalmente, dall’entità dello sconto. Ma molto dipende anche dalle aspettative che le compagnie europee hanno rispetto ai possibili utilizzi del gas in eccesso, e dunque dell’andamento della domanda.
Sul piano generale, se questa tendenza si confermerà ne faranno le spese soprattutto gli altri fornitori di gas. Se l’Eni accetterà di mantenere i volumi contrattati con la Russia, proverà a giocare la carta del prezzo sul tavolo algerino. E’ dunque facile prevedere, per il 2010, un tasso di utilizzo molto basso per i due rigassificatori esistenti nel nostro paese, Rovigo (da 8 miliardi di metri cubi di capacità massima) e Panigaglia (4 miliardi di metri cubi), come del resto è già accaduto nei mesi scorsi, quando l’irrigidimento russo sui take or pay ha compresso la domanda di gas “libero”.
Il dilemma dell’Eni (e, specularmente, di E.On) si gioca tutto sul “quantum”: più lo sconto è consistente, più il prezzo di acquisto del gas (dettato dai contratti) si avvicina a quello di vendita (fissato sui mercati spot) e gli azionisti di San Donato sono felici. I balli si faranno vorticosi nelle prossime settimane, quando si dovrebbe tenere un incontro bilaterale tra Mosca e Berlino al massimo livello. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, è una negoziatrice abile e conosce la questione, quindi nulla è scontato. Anche i russi, però, conoscono perfettamente le proprie carte e sanno come e quando calarle. Tirare la corda, comunque, non conviene a nessuno, perché in futuro le posizioni potrebbero essere rovesciate.
L’Eni, da parte sua, proverà a far valere gli ottimi rapporti commerciali che vanta con Gazprom, oltre all’intercessione del Cav. presso l’ “amico Putin” (che però, quando si tratta di soldi e potere, sa mettere i sentimenti da parte). Userà anche l’arma della lacrimuccia, e neppure del tutto a torto: l’Italia non fa altro che prendersi cazziatoni dagli americani per il supporto troppo esplicito a South Stream, e questo porta l’Eni a chiedere, e aspettarsi, un trattamento di favore. La storia ci dirà se questo trattamento, che con gli occhi della cronaca non si vede, c’è stato.
Che il nervosismo sia la cifra di questi giorni, lo dimostra anche il comunicato stampa del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, che il 29 dicembre, parlando della revisione tariffaria appena compiuta dall’Autorità per l’energia, si avventura sul terreno infido della revisione dei contratti internazionali: “è il momento di introdurre maggiori flessibilità nelle contrattazioni … promuovendo la revisione delle condizioni economiche dei contratti esistenti con i Paesi produttori”. Liberissimi di pensare che sia tutta farina del suo sacco.
All’apertura russa col cavallo, dunque, gli italiani (e i tedeschi) sembrano rispondere con l’arrocco. Posto che lo scacco macco non è un’opzione per nessuno, la domanda è: lo sconto massimo che hanno in mente i russi, è compatibile con l’imbarazzo di italiani e tedeschi a rifornirsi di gas che non sanno dove mettere?

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Energia. 10 libri per Natale /2009/12/21/energia-10-libri-per-natale/ /2009/12/21/energia-10-libri-per-natale/#comments Mon, 21 Dec 2009 15:45:34 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4385 Cosa bisogna leggere per documentarsi sui temi energetici? Su Foreign Affairs, Ed Morse – blasonato analista energetico, oggi in quota Louis Capital Management e già capoeconomista sull’energia per Lehman Brothers – dà una serie di interessanti consigli (*). Lo scopo di questo post è appunto segnalare una decina di testi che meritano di essere comprati, o regalati, o entrambe le cose. La maggior parte sono stati pubblicati nel 2009, ma non tutti: ci sono alcuni evergreen che l’età non rende meno attuali, semmai di più.

Vorrei proprio cominciare da un libro che ha un po’ di anni sulle spalle: Economia e politica del petrolio di Alberto Clò. Si tratta di un vero e proprio manuale che esamina in profondità gli economics del petrolio, lungo tutta la filiera, dal pozzo (anzi prima: dalle attività di esplorazione e ricerca) fino alla distribuzione in rete dei prodotti raffinati. E’ un riferimento fondamentale per chiunque voglia acquisire le coordinate economiche del settore petrolifero: naturalmente non esaurisce tutti gli aspetti del vasto mondo dell’energia, ma sicuramente non può mancare nella vostra biblioteca.

Una prospettiva più generale, e siamo sempre alla manualistica, è quella offerta da Giancarlo Pireddu in Economia dell’energia (fratello del più facilmente reperibile Economia dell’ambiente), il quale esce dalla prospettiva di Clò dell’economia industriale e guarda all’energia, per così dire, da fuori, nel tentativo di incorporare nell’analisi anche una serie di fattori di carattere diverso: dagli innumerevoli (più o meno credibili) beni pubblici legati all’energia, ai (presunti) fallimenti del mercato. Quello che Pireddu presenta è, essenzialmente, il mainstream, spesso condivisibile, qualche volta no (secondo me), ma che certo non può essere perso di vista. D’altronde, ripeto, questo è un manuale, e il suo mestiere lo fa egregiamente.

Parlare di petrolio ed energia, comunque, non vuol dire solo acquisire familiarità con le caratteristiche economiche di questo bene (o servizio, o somma di beni e servizi, o commodity, o quello che volete), ma anche prendere coscienza della profondità storica dell’avventura energetica. Qui sono almeno tre i titoli che vorrei segnalare. Il primo non ha strettamente a che fare con la storia dell’energia, ma è secondo me una lettura fondamentale e piacevole: la Storia economica dell’Europa pre-industriale del compianto Carlo Maria Cipolla. Cipolla mostra come fosse il mondo prima che scoprissimo il segreto dei combustibili fossili, e chiarisce che anche allora, in un certo senso, la crescita economica è stata anche una crescita della domanda (e dell’offerta) di energia, mossa dal gioco tra progresso tecnologico e capitalismo. Dove finisce la narrazione di Cipolla, comincia quella – avventurosa e ricca di informazioni da insider – di Leonardo Maugeri, L’era del petrolio. Maugeri racconta l’incredibile storia del petrolio, dal Colonnello Drake ai giorni nostri, evidenziando tutte le interazioni politiche ed economiche che ci sono state tra produttori, tra produttori e consumatori, e tra il petrolio e i suoi fratelli – carbone prima, gas poi. In modo incredibilmente rigoroso, la storia del mondo letta attraverso la storia dell’energia – a partire dall’evoluzione nella struttura degli aratri! – è il compito che Vaclav Smil ha svolto in modo egregio nella sua Storia dell’energia. Scoprirete incredibili dettagli di cui non avreste mai sospettato neppure l’esistenza, e la cui importanza tutti noi siamo portati naturalmente a sottovalutare.

Se volete decisamente uscire dal mainstream, e gustare un’interpretazione affatto originale e avvincente (anche per la prosa godibilissima) correte a procurarvi Il prezzo del petrolio di Massimo Nicolazzi. In un volume denso ma agile, Nicolazzi parla di cose che conosce e che ama e, pur fingendo di occuparsi di greggio soltanto, spende un intero capitolo (tra i più belli) al gas e innumerevoli pagine al rapporto tra mercato, domanda, offerta, disponibilità fisica, constraint tecnologici, teorie economiche. Chi segue Chicago-blog non può perdersi la parte sull’antitrust madre di tutti i vizi, e la lettura -incredibilmente trascurata dai più – della politica petrolifera americana come servizio agli small producers, più che alle grandi multinazionali sempre sospettate di essere i bad guys della Casa Bianca.

Naturalmente, è importante farsi un’idea delle caratteristiche delle diverse fonti energetiche, e di ciò che le attuali tecnologie, nel contesto del qui-e-ora, possono offrire. E’ questo lo scopo, quasi didattico, del libro di Riccardo Varvelli, Le energie del futuro. Si tratta di un didascalico excursus tra le varie fonti, di cui vengono evidenziati pregi e limiti, e il possibile utilizzo. L’obiettivo è quello di far pulizia di tanta letteratura “mitologica”, che porta a cercare panacee inesistenti. Questo ci consente di calarci anche nella realtà del nostro paese, guardando alle due fonti energetiche che, per ragioni diverse, sono più interessanti. Una è il gas, il combustibile che sta al baricentro del nostro mix energetic: Massimo Beccarello e Francesco Piron, con La regolazione del mercato del gas naturale, svolgono un’indagine a tutto campo sui modelli regolatori, lo stato dell’arte in Italia, e le prospettive per il nostro paese, in tutti gli stadi della filiera. L’altra fonte “calda”, di questi tempi, è il nucleare: non solo in Italia, naturalmente, ma certo i propositi del governo in tale direzione ne hanno fatto una questione primaria. A questo proposito, un libro completo e ben strutturato è quello di Luca Iezzi, Energia nucleare? Sì grazie?, un tentativo di razionalizzare un dibattito che troppo spesso ha preso la tangente della guerra di religione. Come sempre, ci è utile ricordare, e Iezzi lo fa molto bene, che stiamo parlando di una tecnologia, non di quel che ci sarà dopo la morte.

Da ultimo, parlare di energia significa anche, e sempre più, parlare di clima. Il must read per scoprire un punto di vista anticonformista, politicamente smaliziato ed economicamente solido è Pianeta blu, non verde, di Vaclav Klaus, l’uomo politico che tutti vorremmo avere per presidente (ma i cechi hanno scelto prima, evidentemente…). Klaus, pur parlando di scienza, non intende affrontare la questione in una prospettiva climatologica, ma sotto un profilo eminentemente politico ed economico: Klaus parla soprattutto da uomo del suo tempo, che ha vissuto la prima metà della sua vita sotto la dittatura comunista, e che vede nel disegno “kyotista” una eco preoccupante delle idee che stavano dietro la prassi sovietica. Potete non trovarvi d’accordo, ritenerlo troppo estremista, perfino allontanarvi spaventati: ma è un libro per pensare. Per affrontare l’anno nuovo più consapevoli dei fantasmi che si agitano intorno a noi.

(*) E’ clamorosa, e per me inspiegabile, l’assenza dei due capolavori di Morris Adelman, The Genie Out of the Bottle e The Economics of Petroleum Supply), oltre che lo spettacolare Energy in World History di Vaclav Smil (disponibile anche in italiano). Del resto, scegliere è sempre fare un sacrificio, per chi sia davvero interessato a una materia. Solo che queste mi paiono assenze davvero inspiegabili, specie alla luce di alcune presenze di cui si sarebbe potuto fare tranquillamente a meno. Chiudo qui la nota polemica, ché a Natale siamo tutti più buoni (ma solo fino a un certo punto).

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