CHICAGO BLOG » Francia http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 La Francia di Sarkozy tra proteste (tante) e riforme (poche) /2010/10/28/la-francia-di-sarkozy-tra-proteste-tante-e-riforme-poche/ /2010/10/28/la-francia-di-sarkozy-tra-proteste-tante-e-riforme-poche/#comments Thu, 28 Oct 2010 06:03:07 +0000 Andrea Giuricin /?p=7421 La protesta francese è alle corde, dopo che per settimane il Paese è stato sull’orlo del blocco totale. Oggi è in programma l’ennesimo sciopero generale, ma Sarkozy sembra aver riportato una vittoria, dopo che la legge della riforma delle pensioni è passata al Senato e ieri all’Assemblea.

Gli studenti, alle prese con le vacanze d’autunno, hanno deciso di riposare, mentre i sindacati hanno allentato la morsa.

Non è la prima volta che sindacati e studenti si alleano per cercare di evitare dei cambiamenti necessari in tema di riforme.

La Francia è il paese degli scioperi. Vi possono quelli “leggeri”; un’esempio è quello attuato dai controllori di volo, che sono in sciopero ormai da mesi e continuano a provocare ritardi per molti voli che transitano sopra il territorio d’Oltralpe. Spesso, invece, il blocco riguarda quasi qualunque attività. Nelle ultime settimane anche le raffinerie sono state “occupate”, impedendo ai cittadini di fare rifornimento di carburante.

Il tema del lavoro e delle pensioni è molto caldo in Francia, distorto molte volte da “leggende” economiche. Una di questa, forse la più importante, è quella che disegna il mercato del lavoro come un’enorme torta.

Solo quando una fetta di questa torta, i pensionati, lasciano il loro posto, vi è la possibilità per i giovani di entrare. È la ragione principale per la quale il movimento studentesco si è unito alla protesta sindacale. I giovani, che vedono un tasso di disoccupazione del 24,4 per cento, molto superiore alla media nazionale del 10,1 per cento, vedono in questa riforma il male di tutti i mali. Invece il mercato del lavoro è una torta che si può allargare, togliendo i freni che limitano l’occupazione.

Il mercato del lavoro francese avrebbe bisogno di altre riforme oltre a quella delle pensioni, sulla quale è in corso lo scontro. Il salario minimo elevato, un’eccessiva burocratizzazione del sistema sono due delle cause che lo rendono poco flessibile.

Il mantenimento dello status quo è certamente uno dei punti di debolezza del Paese Transalpino. Alzare l’età minima pensionabile dai 60 ai 62 anni è necessario in un sistema che vede la spesa pensionistica in aumento. L’etá media di vita si allunga ed i sindacati francesi alleati al Partito Socialista non vogliono tenere conto di questa fattualitá tragica per un Paese che ha un debito ormai superiore all’80 per cento del Prodotto Interno Lordo.

Questa riforma non tocca nemmeno tutte le categorie sociali; in Francia rimangono delle nicchie per le quali non valgono le regole di tutti. In molte aziende pubbliche l’età pensionabile si abbassa a 55 anni e in un Paese dove le grandi imprese di Stato hanno ancora un peso rilevante, questa differenza provoca uno scontento popolare.

Il “Paese dell’égalité” in realtà è più uguale solo per alcuni”fortunati”. E questi fortunati hanno un peso politico rilevante. Un caso per tutti è quello degli “cheminots”, vale a dire i ferrovieri. Sono oltre 200 mila e quando decidono di bloccare la Francia e Parigi, nella cui area urbana risiede il 20 per cento della popolazione francese, hanno la capacitá di creare enormi disagi.

Sarkozy con questa riforma, nella quale s’innalzano anche gli anni di contribuzione minima, fa un passo in avanti, ma in realtà non va completamente alla radice del problema francese. Non elimina la posizione di forza di cui ancora gode il sindacato.

Per questa ragione chi la pensa come i sindacati e il partito socialista mantiene una profonda avversione alle politiche del Presidente della Repubblica, ma chi aveva visto in Sarkozy l’uomo del cambiamento, in realtà ne è rimasto profondamente deluso.

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Il crollo annunciato dell’Europa, di Philippe Simonnot /2010/06/01/il-crollo-annunciato-dell%e2%80%99europa-di-philippe-simonnot/ /2010/06/01/il-crollo-annunciato-dell%e2%80%99europa-di-philippe-simonnot/#comments Tue, 01 Jun 2010 09:04:02 +0000 Guest /?p=6122 Questo intervento è stato pubblicato originariamente sul sito dell’Institut Turgot, che ringraziamo per la cortese concessione alla pubblicazione su chicago-blog. Philippe Simonnot è Direttore dell’Atelier de l’éeconomie contemporaine e Direttore del séminaire monétaire dell’Institut Turgot.

Vent’anni fa il blocco sovietico crollava, non già sotto i colpi di un attacco militare dell’imperialismo capitalista, ma schiacciato dal peso delle proprie “contraddizioni economiche”, come avrebbe detto lo stesso Karl Marx.

Quest’avvenimento, inevitabile nell’arco di due o tre generazioni, non era stato previsto da nessuno, eccezion fatta per un piccolo gruppo di economisti imperturbabili, i quali davano fiducia alle leggi del libero mercato. Oggi le stesse leggi permettono di annunciare quel crollo dell’Europa di cui la crisi dell’euro rappresenta il segnale precursore.

Si rimprovera spesso ai mercati la loro vista a corto termine, la loro visione “short-termista”, per impiegare il gergo borsistico. Ma questo significa conoscere assai male ciò che è un prezzo di mercato, fosse anche speculativo – e soprattutto se speculativo. Sul libero mercato, un prezzo concentra in sé tutte le informazioni disponibili non solo per il presente, ma anche per il passato e il futuro. In altre parole, meno sofisticate, si dirà che quelli che hanno del denaro, i “ricchi”, che si tratti di buoni o cattivi ricchi, si preoccupano di un futuro assai più lontano di quello che sta a cuore ai politici, essenzialmente attenti alla loro rielezione. Il celebre “muro del denaro” è un muro su cui si scrive il futuro – come quello di Baldassar (Daniele, 5:25)!

In questo senso oggi i mercati anticipano non solo le conseguenze disastrose dei rimedi che giorno dopo giorno vengono individuati per agevolare la fine di quella crisi finanziaria scatenata negli Stati Uniti due anni fa, ma anche e soprattutto l’incapacità dell’Europa di affrontare il mercato mondiale, dato che si trova bloccata dal gravame di quei debiti pubblici che hanno conosciuto un enorme incremento grazie ai suddetti rimedi.

I “tremendi speculatori” hanno pure inserito nei loro programmi informatici i debiti complessivi causati dal sistema pensionistico a ripartizione, debiti sempre più grandi e sempre meno finanziati, dal momento che la riforma del sistema è rinviata nel tempo o rifiutata. L’autodistruzione di uno Stato sociale che comporta sempre meno bambini e sempre più disoccupati, meno risparmio e più imposte, è tanto prevedibile nell’arco di due o tre generazioni quanto lo fu il fallimento del sistema sovietico, e se i politici lo negano e continuano a negarlo, da parte loro i mercati lo sanno molto bene e ne tengono conto.

A dire il vero, i politici hanno una qualche consapevolezza di questa scadenza che s’avvicina, e che rappresenterà un autentico crollo. Se il presidente della Repubblica francese si precipita al capezzale della Grecia, se spinge verso l’instaurazione di un improbabile governo economico europeo, se al tempo stesso s’affretta a portare a termine l’ultima riforma pensionistica, quale che sia il prezzo elettorale, è per tentare di evitare un umiliante downgrade del giudizio riservato alla Francia sui mercati finanziari, che si tradurrebbe in un supplementare aggravio del debito e in un tremendo schiaffo sul piano politico e personale. Si tratta di una battaglia di retroguardia, spalle il muro: è il caso di dirlo. A meno di un miracolo sul “fronte sociale” (pensioni, mercato del lavoro, sanità) che niente però autorizza ad attendersi, oppure a meno che non si rompa il termometro delle agenzie di rating, il downgrade dello Stato francese è ineluttabile dal momento che il debito pubblico, semplicemente, non è sostenibile.
Ciò che qui viene dello della Francia può qui essere detto per la maggior parte degli Stati europei, impantanati nelle stesse difficoltà.

Il più delle volte i grandi avvenimenti storici coniugano il caso e la necessità: una piccola miccia conduce il fuoco fino al barile pieno di polvere. La miccia è stata la vicenda americana dei subprime (ancora un frutto dello Stato sociale). Il barile sono i debiti pubblici accumulati durante trent’anni. L’esplosione la viviamo in questo stesso momento, che è destinato a porre l’Europa al di fuori della competizione mondiale.

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Adieu carbon tax /2009/12/30/adieu-carbon-tax/ /2009/12/30/adieu-carbon-tax/#comments Wed, 30 Dec 2009 15:17:32 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4593 La Corte costituzionale francese ha bocciato la carbon tax fortemente voluta dal presidente, Nicolas Sarkozy, come primo passo verso l’adozione di un dazio sulle importazioni di beni ad alta intensità di carbonio. Non è facile valutare le conseguenze, in parte perché la tassa era costruita in un modo molto discutibile, in parte perché ugualmente discutibili sono le modalità e i criteri della bocciatura.

Secondo la corte,

il sistema di esenzioni, a causa della loro natura estensiva, era contrario all’obiettivo di combattere il cambiamento climatico e contravveniva il principio di uguaglianza di fronte al sistema fiscale.

La prima obiezione mi sembra del tutto campata in aria: non credo sia compito di un organo costituzionale dire quali finalità debbano essere perseguite dal governo, e con quali mezzi. Probabilmente in punto di diritto avrò torto, ma sono certo di aver ragione in punto di ragionevolezza. La seconda questione è più seria, e giusta, anche se pure per questa non credo sia corretto demandare al potere giudiziario l’ultima parola. Il dato politico, comunque, è che il progetto di Sarkozy, che avrebbe dovuto entrare in vigore il 1 gennaio 2010 facendo della Francia l’avanguardia d’Europa, è rimandato a data da destinarsi: l’esecutivo ha annunciato che presenterà dei correttivi il prossimo 20 gennaio, ma non è chiara la tempistica della loro adozione.

L’aspetto fondamentale della tassa di Sarkozy stava nella sua natura distributiva. A fronte di un’imposta di 17 euro per tonnellata di CO2 (secondo me troppo alta, ma che la maggior parte dei critici hanno ritenuto troppo bassa), circa il 93 per cento delle emissioni francesi sarebbero state, in qualche modo, esentate, facendo ricadere la tassa sul capo della mobilità privata e dei consumatori elettrici. Inoltre, il gettito dell’imposta sarebbe servito a finanziare un complesso schema redistributivo, premiando le piccole imprese, le famiglie numerose, e gli abitanti delle zone rurali. E’ chiaro che questo è un nonsenso.

L’unico modo di rendere efficace ed efficiente una carbon tax è quello di evitare ogni forma di esenzione diretta, ma contemporaneamente restituire l’intero gettito ai contribuenti (per esempio attraverso tagli dell’imposta sul reddito personale e/o d’impresa). A queste condizioni una carbon tax sarebbe sicuramente preferibile a uno schema di cap & trade, e addirittura ridurrebbe la distorsività del sistema fiscale nel suo complesso, stimolando l’economia. Il problema del progetto francese, allora, non era la sua inadeguatezza a combattere il cambiamento climatico, ma la sua intenzione dichiaratamente redistributiva. Il governo non si sarebbe limitato a scoraggiare l’utilizzo dei combustibili fossili, ma avrebbe attivamente intermediato un’enorme massa finanziaria, tra l’altro con l’obiettivo dichiarato di introdurre il protezionismo climatico come complemento dello statalismo domestico. Tanto più che, ovviamente, la carbon tax francese non avrebbe sostituito, ma si sarebbe aggiunta a, lo schema europeo di scambio dei diritti di emissione.

La preoccupazione di non danneggiare il settore industriale è giusta e condivisibile, ma è davvero l’espressione più squallida del teatrino politico la postura di chi vuole proteggere l’industria da un problema che egli stesso ha creato. Ancora una volta, il fine ambientale serve a mascherare ben più prosaici obiettivi politici di corto raggio. E’ vero del cap & trade europeo, è vero della carbon tax francese, e molto probabilmente è vero anche del suo rigetto da parte della Corte costituzionale.

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Trenitalia va in Francia /2009/12/24/trenitalia-va-in-francia/ /2009/12/24/trenitalia-va-in-francia/#comments Thu, 24 Dec 2009 10:31:40 +0000 Andrea Giuricin /?p=4449 Le anticipazioni di alcuni quotidiani francesi circa l’entrata di Trenitalia nel mercato ferroviario francese sono certamente una notizia positiva. Probabilmente un poco di concorrenza, nel mercato più chiuso d’Europa, potrà portare dei cambiamenti a livello europeo. I consumatori d’oltralpe potranno vedere i benefici della concorrenza.
La Francia rimane il mercato meno liberalizzato d’Europa nel settore ferroviario a causa dell’importanza di SNCF, l’operatore ferroviario nazionale. Quest’azienda costa ai cittadini francesi circa 11 miliardi di Euro l’anno e ha alle sue dipendenze oltre 200 mila lavoratori. Nessun governo di centro-destra o centro-sinistra è mai riuscito a fare una riforma nel settore e i sindacati hanno ancora una posizione molto forte.
Il governo francese è il più contrario ad introdurre la concorrenza nel settore ferroviario; tuttavia dal primo gennaio del 2010 entrerà in vigore la liberalizzazione dei servizi ferroviari internazionali voluta dall’Unione Europea. Questa prevede che un qualunque operatore possa effettuare un servizio passeggeri su tratte internazionali. Una delle tratte in questioni è la Milano – Lione – Parigi, attualmente effettuata da Artesia, una società al 50 per cento di Trenitalia e al 50 per cento di SNCF.
In questo nuovo quadro competitivo, Veolia, un importante gruppo nel settore delle utilities francesi, ha deciso di entrare nel mercato passeggeri internazionali con la partnership di Trenitalia. In un primo tempo, il gruppo francese aveva portato avanti il progetto con la compagnia aerea AirFrance. Dopo il ritiro del gruppo aereo, alle prese con una difficilissima situazione nel trasporto aereo, ha deciso di guardare oltrefrontiera per trovare un nuovo partner.
L’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, aveva già fatto richiesta l’estate scorsa di effettuare un servizio internazionale tra Milano e Parigi con una sosta a Lione. In questo modo l’azienda italiana avrebbe rotto il monopolio sulla tratta interna Lione – Parigi, una delle più redditizie in Europa.
Il nuovo progetto della probabile alleanza franco-italiana avrà come obiettivo l’entrata sulle principali tratte internazionali da Parigi, in particolari quelle verso Londra, Bruxelles e Milano. Il nuovo gruppo dovrebbe entrare sul mercato non prima del 2012/2013, poiché i tempi di consegna dei nuovi convogli non sono molto rapidi.
L’alleanza tra Trenitalia e Veolia spiega anche la rottura e la conseguente diminuzione dell’offerta di treni di Artesia. I rapporti tra SNCF e Trenitalia sono sempre più tesi, dato che l’operatore pubblico francese è entrato anche nel capitale di NTV, primo competitor nell’alta velocità del FrecciaRossa, con una quota del 20 per cento.
La tendenza nel trasporto ferroviario è quella di gruppi sempre meno nazionali. Se si dovesse ripetere quanto successo nel trasporto aereo, vi potrebbe essere tra diversi anni un’entrata di operatori low cost e e una conseguente  privatizzazione degli operatori ferroviari.
Certo questo cambiamento non avverrà prima del 2015/2020, quando anche i mercati nazionali verranno aperti alla concorrenza.
Nei prossimi anni dunque cambierà totalmente il trasporto ferroviario europeo, con l’entrata di nuovi operatori sulle tratte internazionali. I diversi mercati nazionali invece dovranno aspettare, dato che le resistenze di Francia e Germania, hanno posticipato l’apertura dei mercati domestici al 2016.
In Italia, bisognerà aspettare il 2011, quando NTV entrerà in concorrenza con Trenitalia su tutte le tratte nazionali.
La concorrenza probabilmente porterà benefici a tutti i passeggeri, sia in termini di qualità che di prezzo, come è successo nel mercato del trasporto aereo.

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Quelle due o tre cose che Fitoussi (non) sa sulla crisi. Guardasse South Park… /2009/09/28/quelle-due-o-tre-cose-che-fitoussi-non-sa-sulla-crisi-guardasse-south-park/ /2009/09/28/quelle-due-o-tre-cose-che-fitoussi-non-sa-sulla-crisi-guardasse-south-park/#comments Mon, 28 Sep 2009 17:11:38 +0000 Carlo Lottieri /?p=3009 In un articolo apparso venerdì scorso su Le Monde (“Deux ou trois choses que je sais sur la crise”), Jean-Paul Fitoussi ci ha detto in poche parole quello che pensa della crisi: e in sintesi la sua lettura è la seguente.

Veniamo da anni che hanno visto accrescersi le diseguaglianze: con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. La conseguenza è che quanti sono costretti a consumare tutto o quasi per vivere (la parte più debole della società) ha ridotto i propri consumi, mentre la parte più ricca ha accumulato risorse, che in genere non faceva circolare.

Da qui una crisi della domanda, a cui fortunatamente gli interventi degli Stati hanno felicemente posto rimedio. Così ora l’economista francese è molto allarmato, perché teme la exit strategy, ossia il progressivo ritirarsi dei poteri pubblici dagli spazi ampiamente occupati nel corso degli ultimi due anni.

L’analisi mi appare di una povertà disarmante, ma soprattutto mi sembra veder confluire una “filosofia della miseria” d’antica data (si pensi a Proudhon) e gli schemi più triti della teoria economica dominante, latamente keynesiana. È infatti interessante constatare come il frequente incrocio non sia casuale, dato che muove – in entrambi i casi – dall’aperto rigetto di quell’antropologia che pone al centro l’uomo e la sua libertà, la sua capacità d’azione, i suoi diritti di proprietà, la sua connaturata socialità (intesa quale disponibilità alla cooperazione: nei piccoli gruppi volontariamente adottati, negli scambi di mercato, nelle strutture aziendali, ecc.).

Per capire qualcosa della crisi, allora, invece che guardare agli intellettuali di Francia, conviene volgere l’attenzione allo humour (feroce, e ferocemente libertario) di Trey Parker e Matt Stone, gli autori di South Park, che in un episodio (“Margaritville”) ampiamente celebrato dal pubblico e dalla critica – tanto che ha ottenuto pure un Emmy Award – divertono insegnando. Non lo si prenda per quello che non è, un saggio di teoria economica, ma certo il cartoon americano offre una lettura meno distante dalla realtà di quella data da numerosi accademici celebrati un po’ ovunque.

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Elezioni truccate, scontri in strada, monete e boulevard parigini /2009/09/06/elezioni-truccate-scontri-in-strada-monete-e-boulevard-parigini/ /2009/09/06/elezioni-truccate-scontri-in-strada-monete-e-boulevard-parigini/#comments Sun, 06 Sep 2009 09:50:34 +0000 Carlo Lottieri /?p=2537 Siamo proprio sicuri che i disordini di questi giorni che stanno riguardano il Gabon, dove dopo elezioni altamente inquinate Ali Ben Bongo è stato fatto presidente, poche settimane dopo la morte del padre (El Hadji Omar Bongo Ondimba) non abbiano nulla a che fare con noi europei? Siamo davvero certi che si tratti di una questione tutta africana, tribale, legata alle difficoltà di società “arretrate” che faticano a costruire “buoni regimi democratici all’europea”?

Come ha rilevato Noël Kodia, scrittore e critico letterario congolese in un articolo intitolato “Présidentielle gabonaise: une élection à hauts risques”, molti problemi sono radicati nei tratti specifici di questa parte del mondo e affondano nel tribalismo: in sostanza in un voto identitario su base etnica, che finisce per vanificare ogni logica rappresentativa. È così.

Al tempo stesso c’è molto altro. In un articolo apparso sul Corriere della Sera (“Il Gabon nella rete dei Bongo. Petrolio, lusso e povertà”) Massimo A. Alberizzi ha ricordato ad esempio come l’ex dittatore gabonese sia stato “amico di tutti i presidenti francesi, da De Gaulle a Chirac”: e in occasione dei recenti funerali la delegazione francese comprendeva più di cento persone, includendo pure Chirac e Sarkozy. Semplice diplomazia? Buoni rapporti tra realtà nazionali con un importante passato in comune? C’è da sospettare che non ci sia solo questo.

Il 18 giugno, su “Le Monde”, il presidente francese aveva dichiarato di non voler intromettersi nelle elezioni gabonesi (« La France restera neutre lors de l’élection présidentielle au Gabon, assure M. Sarkozy »). Ma già questa affermazione è in qualche modo sorprendente. Forse che qualcuno sospettasse un’intromissione? Senza dubbio: anche perché questo è parte di una solida tradizione. La “Françafrique”, va detto, è una realtà incontestabile (per un’analisi tanto partigiana quanto interessante sul neocolonialismo francese in Africa e soprattutto su tutti i rapporti corrotti che per decenni hanno legato le leadership francesi e quelle delle ex-colonie, un testo da tenere presente è La Françafrique, le plus long scandale de la République, scritto da François-Xavier Verschave e pubblicato da Stock nel 1998).

La Francia, in fondo, dall’Africa non se n’è mai andata. Basta guardare alla questione della moneta. Che valuta si usa ad esempio in Gabon? Il franco CFA, emesso dalla Banque des Etats de l’Afrique Centrale, a cui fanno capo sei paesi (oltre al Gabon, anche il Camerun, la Repubblica dell’Africa Centrale, il Ciad, la Guinea Equatoriale e la repubblica del Congo). Questa banca, che attualmente è presieduta proprio da un gabonese, Philibert Andzembe, conosce una sua gemella, la Banque Centrale des États de l’Afrique de l’Ouest, la quale a sua volta serve Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. E tutti questi paesi utilizzano sostanzialmente la medesima moneta, il franco CFA (in realtà, i due franchi CFA – quello dell’Africa Centrale e quello dell’Africa Occidentale – hanno identico valore, ma non possono circolare nelle due distinte aree).

Stati africani, unioni monetarie, collegamenti tra unioni monetarie… ma a ben guardare in tutti questi Paesi, e quindi anche in Gabon, la moneta è il franco: proprio il franco francese (o qualcosa che ci assomiglia molto)! Se a Parigi ormai si usa l’euro, gestito a Francoforte, a Libreville si continua ad usare un franco che – in larga misura – resta sotto il controllo del Tesoro parigino. Il franco CFA si scambia nelle stradine di Lomé e nei mercati di Douala, ma è nei boulevard parigini che incontriamo coloro che di fatto l’amministrano.

Tutto questo si chiama “Zona Franco” e per comprendere meglio di che si tratta basta entrare nel sito della Banca di Francia e leggere qui (in francese), oppure qui (in inglese). Il tutto viene presentato come un sistema di garanzie e in qualche modo di sostegno, certo, con la grande Francia che pretende di giocare a tutela delle prospettive dei piccoli paesi africani. Ma resta un sistema in cui, “in nome della cooperazione”, l’ex potenza coloniale continua a svolgere un ruolo dominante.

I francesi parlano chiaro: « La cooperazione monetaria tra la Francia e i paesi africani della Zona franco è retta da quattro principi fondamentali: garanzia di convertibilità illimitata da parte del Tesoro francese, parità fisse, libera trasferibilità, centralizzazione delle riserve di cambio (in contropartita di questa garanzia, le tre banche centrali [oltre ad Africa Centrale e Africa Occidentale, anche le isole Comore sono parte di questo meccanismo, ndr] sono tenute a depositare una parte delle loro riserve di cambio nei confronti del Tesoro francese sui loro conti operativi”.

I due morti di Port Gentil di queste ore avranno certamente un’origine tutta locale: saranno da addebitare alle turbolenze di una società che non riesce ad affrancarsi da una famiglia di despoti e parassiti. Sarà sicuramente così. Ma è comunque giunto il momento che il tempo di questa “carità pelosa” degli europei venga meno e che s’inizi davvero a girare pagina: lasciando l’Africa agli africani e aprendo i nostri mercati alle loro merci.

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Sarko l’Americain e Obama le Français? /2009/04/22/sarko-l%e2%80%99americain-e-obama-le-francais/ /2009/04/22/sarko-l%e2%80%99americain-e-obama-le-francais/#comments Wed, 22 Apr 2009 18:47:22 +0000 Andrea Giuricin /?p=228 Le due sponde dell’Atlantico si stanno avvicinando sempre di più in campo economico; al vertice Nato tenutosi all’inizio di Aprile a Strasburgo, il presidente americano Barack Obama ha elogiato pubblicamente il servizio ferroviario ad alta velocità francese affermando che gli Stati Uniti hanno un notevole ritardo in questo settore.
Presto fatto, pochi giorni dopo, ha annunciato un finanziamento pubblico di 12 miliardi di dollari, per costruire 10 corridoi ad alta velocità tra alcune delle principali città americane; sette miliardi sarebbero assicurati dal Governo Federale, mentre altri 5 miliardi verrebbero dagli Stati interessati ad essere coinvolti in questo programma.
In California, da diversi anni, si sta discutendo del progetto di collegare con il treno ad alta velocità Los Angeles e San Francisco, con un notevole sovvenzionamento di risorse pubbliche, ma ancora tutto è fermo.
Le ferrovie sono state nell’800 un notevole volano dell’economia statunitense; c’è da chiedersi tuttavia se attualmente sono competitive nel trasporto passeggeri ad alta velocità dopo che nel ‘900 sono stati inventati nuovi mezzi di trasporto.
La domanda non è di poco conto, se la stessa Direzione Generale dei Trasporti e dell’Energia della Commissione Europea ha sentenziato in un proprio studio che il mezzo ferroviario ad alta velocità non è competitivo nei costi rispetto al trasporto aereo per tratte superiori a 300 chilometri.
Gli Stati Uniti sono stati un esempio proprio nel settore aereo, essendo stato il primo paese ad avere deregolamentato sotto l’amministrazione democratica il settore, con indubbi vantaggi per il consumatore. L’Unione Europea visto il successo americano con un ritardo di 10 anni ha liberalizzato anch’essa il trasporto aereo.
Il paese leader in termini di chilometri di binari nel trasporto ferroviario ad alta velocità è la Francia, ma c’è da chiedersi quale sia il costo di tale infrastruttura.
Il paese transalpino ogni anno finanzia con 11 miliardi di euro il proprio trasporto ferroviario con un enorme spreco di risorse pubbliche. La SNCF, l’impresa di Stato di trasporto ferroviario, è vista sempre più come un carrozzone pubblico con quasi 200 mila dipendenti iper-sindacalizzati. Spesso sono effettuati scioperi selvaggi e i dipendenti godono di vantaggi enormi nel campo previdenziale, potendo andare in pensione diversi anni prima rispetto ai dipendenti privati.
La situazione del trasporto ferroviario francese non è cosi rosea come viene descritta e soprattutto i commentatori difficilmente hanno analizzato il costo di tale servizio che viene sovvenzionato con una elevata tassazione generale.
La domanda da porsi è se Obama, nel momento in cui ha affermato di volere sostanzialmente copiare il trasporto ferroviario francese, abbia realmente analizzato i costi ingenti di tale servizio per le finanze pubbliche.
Molto probabilmente no, ma le Ferrovie hanno un certo appeal a livello di consenso pubblico perché ricordano l’era in cui gli Stati Uniti si stavano creando. Nel corso dell’800 il treno ha infatti unito l’America e il mito delle ferrovie americane non è del tutto scomparso. Tuttavia nel corso del ‘900 sono stati inventati mezzi più efficienti ed economici, quali l’aereo. E grazie all’aereo è oggi possibile per un cittadino americano andare velocemente da una città ad un’altra ad un prezzo molto contenuto.
In Francia, l’esistenza del campione nazionale del trasporto aereo Air France e la concorrenza con soldi pubblici del treno, ha fatto si che il trasporto aereo nazionale sia poco sviluppato, ma soprattutto che le possibilità di scelta per il consumatore siano limitate.
Obama vuole seguire l’esempio francese?
Il presidente francese Sarkozy è stato soprannominato “l’americain” a causa della sua visione differente rispetto ai presidenti francesi precedenti nei confronti degli Stati Uniti d’America. In campo militare questo è certamente vero e il vertice di Strasburgo, con il riavvicinamento tra la NATO e la Repubblica Francese, dopo lo strappo di De Gaulle di molti anni fa, ne è la riprova.
Obama vuole diventare il primo presidente soprannominato “le français”?
Il caso del treno purtroppo non è isolato, perché in realtà Sarkozy ed Obama hanno molti punti in comune in campo economico.
Il settore auto è forse quello che più avvicinano i due presidenti. La misura di supporto alle aziende produttrici di veicoli americane in crisi con decine di miliardi di dollari ha di fatto sfavorito i produttori esteri che producono negli Stati del Sud degli USA e di fatto si rivela come una misura protezionistica nel settore auto. Il presidente francese non è stato da meno, avendo subordinato, a parole, gli aiuti ai produttori francesi di automobili alla non delocalizzazione degli impianti.
Sarkozy è convinto forse che la delocalizzazione di un impianto a medio termine sia dovuto alla crisi; ma non è cosi, perché le aziende producono laddove c’è mercato e laddove le condizioni produttive sono le migliori. È necessario dunque favorire la creazione di imprese con una legislazione più snella, con tasse meno elevate e non con singoli sussidi a breve termine per le imprese locali.
Le politiche protezioniste francesi hanno esacerbato gli animi dei lavoratori preoccupati dalla perdita del posto del lavoro e i “rapimenti” dei manager sono stati forse l’esito naturale a questa esasperazione.
Barack Obama vuole davvero diventare le français?

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