CHICAGO BLOG » finanziamenti pubblici http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 L’astensione non conta. Ma potrebbe almeno “costare” /2010/04/03/lastensione-non-conta-ma-potrebbe-almeno-costare/ /2010/04/03/lastensione-non-conta-ma-potrebbe-almeno-costare/#comments Sat, 03 Apr 2010 08:31:31 +0000 Giordano Masini /?p=5589 Se non avessi avuto una questione personale con l’assessorato all’agricoltura della regione Lazio, l’offerta politica dei maggiori partiti alle ultime elezioni regionali non sarebbe stata sufficientemente stimolante da indurmi a votare. Nel mercato, astenersi dall’acquisto di un bene o dall’uso di un servizio, anche se questo non significa necessariamente optare per un altro bene, o un altro servizio, comporta sempre delle conseguenze sulle scelte economiche e commerciali di chi produce quel bene, o di chi offre quel servizio. Tutto abbastanza ovvio.

Nel mercato della politica, invece, l’astensione non produce nessuna conseguenza: resta invariato il numero di seggi che vengono assegnati, e resta invariato il rimborso che ogni partito percepisce. Infatti il rimborso viene calcolato sulla percentuale dei consensi che ogni partito ottiene, ma questa percentuale viene automaticamente proiettata sul numero degli elettori, e non su quello, reale, dei votanti effettivi. Ci si divide un montepremi sempre uguale, insomma, a prescindere da quanti biglietti della lotteria siano stati venduti.

Di questo si è occupato Michele Ainis su la Stampa, ripreso poi efficacemente da Phastidio. Se i rimborsi elettorali venissero distribuiti sulla base dei votanti effettivi, l’astensione non si limiterebbe più a mandare dei semplici “segnali” alla classe politica, libera poi di scegliere se coglierli o meno, ma toglierebbe soldi veri alle casse dei partiti, che sarebbero quindi in qualche modo obbligati (o “incentivati”) a produrre un’offerta politica e programmatica più convincente.

Premesso che preferirei che i soldi dei contribuenti non fossero usati per finanziare la politica (e molte altre cose), chiunque volesse presentare una proposta di legge in tal senso avrebbe il mio più completo sostegno. Buona Pasqua.

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Il ritorno della commedia all’italiana (e un paio di dramoletti) /2010/03/12/il-ritorno-della-commedia-all%e2%80%99italiana-e-un-paio-di-dramoletti/ /2010/03/12/il-ritorno-della-commedia-all%e2%80%99italiana-e-un-paio-di-dramoletti/#comments Fri, 12 Mar 2010 17:59:30 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=5376 La buona notizia è questa: stando ai dati forniti da Cinetel, dal primo di gennaio al 7 marzo 2010 sono stati staccati 10,3 milioni di biglietti per i film italiani. Se la quota di mercato conquistata dalle pellicole italiane nel 2009 è stata del 24,4%, nei primi due mesi del 2010 ha toccato quota 33,5%. Ben 5 film hanno incassato più di 5 milioni di euro: “Io, loro e Lara” di Verdone, “Baciamo ancora” di Muccino, “Scusa ma ti voglio sposare” di Moccia, “La prima cosa bella” di Virzì e “Genitori & figli” di Veronesi.  La prima cattiva notizia è invece quest’altra: i nostri film sono difficilmente esportabili. Secondo i dati riportati dall’Osservatorio Internazionale “Roberto Rossellini” sull’Audiovisivo e la Multimedialità il nostro export produce solo 20 milioni di euro l’anno, a fronte dei 110 della Francia e dei 589 del Regno Unito. “Gomorra” (3 milioni 141 mila spettatori) è uscito in tutto in 36 Paesi, compresi gli Usa, e ha avuto all’estero circa metà delle entrate complessive. A seguire, “Caos calmo” con un milione e 130 mila spettatori in Europa, e l’uscita nel mondo in 12 Paesi, e “Il Divo”, con 808 milioni di spettatori nel vecchio continente e l’uscita in 20 Paesi nel mondo. La seconda cattiva notizia è che dai quotidiani in edicola oggi abbiamo scoperto, una volta di più, come si faccia pessimo uso dei soldi pubblici: “I fondi del cinema a mogli e amici” (titola La Repubblica), “Balducci e il cinema: finanziamenti pubblici nel mirino dei pm” (così Il Giornale) e “I fondi del cinema agli amici della cricca” (La Stampa). Premesso che una intercettazione non è sufficiente a incolpare una persona, rimane il fatto che, determinate situazioni, danno il polso del rapporto fra cinema, politica e interessi particolari. Naturalmente, non è che solamente i film in cui recitava il figlio di Balducci abbiano incassato poco e attinto tanto dalle casse dello Stato. Idem per i film prodotti dalla moglie di Balducci. Rappresentativa, e non poco, è la frase pronunciata al telefono da Rosanna Thau (la signora Balducci, appunto): “anche se i film vanno male non si perde niente”. Chi di voi si ricorda del film “Last minute Marocco”? La pellicola, datata 2007, è stata prodotta dalla signora Balducci, con Lorenzo Balducci come attore. Contributi statali ricevuti: 1,8 milioni di euro. Incassi al botteghino: 350 mila euro. Come detto, questo è un episodio. Lo sperpero di denaro pubblico non riguarda solamente la cosiddetta “cricca”. Il peccato originale è stato quello di dare finanziamenti a fondo perduto: semplicemente, il rapporto fra Stato e società di produzione finiva nel momento dell’erogazione. Con la legge cinema del 2004 si è tentato di ovviare a questa situazione. Da una parte si è cercato di premiare quei film che riscontravano i favori del pubblico, dall’altra di risolvere il buco dei finanziamenti a fondo perduto. Da allora il sussidio si è trasformato in un prestito: il film non può essere finanziato nella sua interezza: se va bene al botteghino può rendere il prestito ottenuto; se va male i diritti di sfruttamento del film passano allo Stato. Quest’ultimo caso però non ha permesso di spostare di molto i termini della questione. Formalmente non si tratta più di finanziamenti a fondo perduto ma il risultato è lo stesso di prima: “anche se i film vanno male non si perde niente”. Il nodo da risolvere è sempre questo. Purtroppo non viviamo in un mondo fatto di angeli, e i funzionari pubblici e i politici non sono persone diverse dalle altre. Di fronte alla pretesa di creare sistemi trasparenti e premianti, raramente quello che si ottiene è l’obiettività e il perseguimento della qualità. Le intercettazione sembrano avere scoperchiato una situazione di malaffare anche nel mondo dei contributi pubblici dati al cinema. Ma siamo sicuri che gli unici a comportarsi in questo modo siano i membri della famiglia Balducci?

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Fondo unico autorità. Quando la pezza è (quasi) peggio del buco /2009/12/04/fondo-unico-autorita-quando-la-pezza-e-quasi-peggio-del-buco/ /2009/12/04/fondo-unico-autorita-quando-la-pezza-e-quasi-peggio-del-buco/#comments Fri, 04 Dec 2009 17:41:23 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4152 Da due giorni c’è subbuglio tra le autorità indipendenti, minacciate da un emendamento alla finanziaria che ne metterebbe seriamente a rischio l’indipendenza riconducendone le redini finanziarie in mano al Tesoro. Di questo ci siamo già occupati. Dopo un lungo tira e molla con la presidenza del Consiglio (ieri Gianni Letta ha ricevuto i segretari generali degli enti coinvolti), il governo avrebbe avanzato una controproposta, di cui Chicago-blog è in grado di anticipare i contenuti. Anche questa controproposta, però, suscita delle perplessità.

Il meccanismo prefigurato dall’emendamento 2356 prevedeva un sostanziale esproprio, a fini perequativi, delle entrate proprie delle autorità che ne hanno (praticamente tutte tranne Scioperi e Privacy), un meccanismo tanto più punitivo quanto meno le autorità dipendono dal bilancio dello Stato (e quindi particolarmente salato per chi, come Energia e Isvap, sta in piedi da solo). Mettere in un unico paniere risorse provenienti da fonti le più diverse – fee applicate ai soggetti regolati in vari mercati, il gettito delle eventuali sanzioni, eccetera – e redistribuirle discrezionalmente era oggettivamente troppo. Resta però il problema strutturale del sottofinanziamento di alcune authority, le quali – dicono voci di corridoio – avrebbero gradito il provvedimento, o almeno i suoi effetti, sperando di poter cannibalizzare le entrate altrui. Quale coniglio viene estratto oggi dal cilindro di Palazzo Chigi?

Secondo quanto ci risulta, si parla di un prestito forzoso dalle autorità in attivo a quelle in difficoltà. Il passaggio più delicato sarebbe il seguente:

A fini di perequazione con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, sentite le autorità interessate, sono stabilite, senza maggiori oneri per la finanza pubblica, misure reintegrative in favore delle autorità contribuenti, nei limiti del contributo versato, a partire dal decimo anno successivo all’erogazione del contributo, a carico delle autorità indipendenti percipienti che a tale data presentino un avanzo di amministrazione.

Ci sono, qui, vari problemi: uno generale, altri specifici. Quello generale riguarda l’effetto minestrone e le sue implicazioni. “Prestito forzoso” è una locuzione gentile per dire trasferimento. Il trasferimento riguarderebbe risorse estratte da alcune autorità ai soggetti da loro regolati: per esempio, le imprese dell’energia, quelle telle telecomunicazioni, le assicurazioni. I soldi andrebbero a regolatori che hanno a che fare con loro solo in misura trasversale (Antitrust) o non hanno nulla a che vedere, direttamente, coi loro interessi (Privacy e Scioperi). Ora, questo fenomeno si può interpretare come un incremento fiscale di fatto: infatti, fatto 100 il gettito delle fee, dobbiamo presumere che esso venga interamente utilizzato dai regolatori di settori perché serve. Quindi, se questi sono costretti a stornare, diciamo, 5 dal loro bilancio, l’anno successivo presumibilmente esigeranno 105. Consumatori elettrici, proprietari di telefonini e titolari di polizze ringraziano commossi.

Ci sono poi varie questioni pratiche. Per esempio: se un’autorità che ha un attivo di bilancio ne viene privata, non è incentivata a evitare di averlo l’anno prossimo, magari facendo un uso meno efficiente delle risorse a sua disposizione? E se un’altra autorità ha bisogno di un sussidio, nel momento in cui questo le viene graziosamente fornito, non è incentivata a mantenere il bilancio in passivo, conscia che tanto pagherà Pantalone?

Secondo: se si tratta di un prestito, ancorché forzoso, perché le modalità di restituzione devono essere dettate da un ente terzo ed estraneo (il Tesoro), da cui oltre tutto logica ed Europa vogliono che le autorità siano indipendenti?

Terzo: perché il prestito deve essere restituito dopo dieci anni, senza possibilità di negoziare un termine diverso tra le due parti? Vale la pena ricordare che dieci anni sono un’era geologica, e che in ogni caso tutti i collegi durano in carica per un periodo inferiore. Quindi, nessun pagatore vedrà mai tornare i soldi durante la sua amministrazione, e nessun beneficiario dovrà mai, sotto la sua responsabilità, restituirli. Non è questo un incentivo a disinteressarsene?

Quarto (e scusate la finezza): non è una presa per il culo, dire che il prestito dovrà essere restituito (se e solo se) i beneficiari presentino, alla scadenza, un avanzo di bilancio? Non crea questo un ulteriore incentivo alla malagestione? E, tra parentesi, che cavolo vuol dire che il “reintegro” sarà fissato ”sentite le autorità”? Qualcuno si aspetta che il prestatore dirà, “tieniti pure i miei soldi”, mentre il beneficiario protesterà, “no prego, eccoteli indietro con una mancia per il disturbo”?

Quinto e ultimo: i problemi finanziari di alcune autorità, a cui si intende mettere rimedio con questa norma, sono passeggeri o strutturali? Nel primo caso, non esistono soluzioni a loro volta transitorie, che non creino un regime di perequazione valido in saecula saeculorum? E, nel secondo caso, in che modo si intende garantire l’effettivo e adeguato finanziamento delle autorità in difficoltà senza “rapinare” quelle più floride?

Osservatori ingenui come noi, guardando quanto sta accadendo, sono portati a pensare che una politica razionale cercherebbe di rendere più diffusi i comportamenti virtuosi e i modelli di (auto)finanziamento più efficiente. In alcuni casi ciò può non essere possibile, ed è quindi giusto cercare soluzioni valide e in grado di garantire da un lato i bilanci necessari, dall’altro la necessaria indipendenza. Ma livellare tutto verso il basso, caricando sulle spalle delle autorità un bagaglio di incentivi perversi, ci pare una pezza quasi peggio del buco. Viene quindi il sospetto che l’obiettivo dichirato sia risolvere un problema di bilancio, ma il fine reale sia aiutare questo e danneggiare quello, o forse fingere di aiutare questo e danneggiare quello prendendo il controllo del finanziamento di entrambi.

di Luigi Ceffalo e Carlo Stagnaro

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Fondo unico authority. Chi vince, chi perde, chi viene messo al guinzaglio /2009/12/03/fondo-unico-authority-chi-vince-chi-perde-chi-viene-messo-al-guinzaglio/ /2009/12/03/fondo-unico-authority-chi-vince-chi-perde-chi-viene-messo-al-guinzaglio/#comments Thu, 03 Dec 2009 19:00:25 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4133 Puntuale come la morte e le tasse, anche questo mese è arrivato il consueto emendamento anti-autorità indipendenti. A differenza del passato, quando oggetto degli interventi (finora scampati) era questo o quel collegio, o le relative modalità di nomina, questa volta la strategia è del tutto diversa. Nel mirino entrano, infatti, le modalità di finanziamento delle authorities. Un emendamento alla finanziaria firmato dai deputati del Pdl Antonio Pepe, Maurizio Leo, Silvano Moffa e Donato Lamorte propone di creare, presso il Tesoro, un “fondo unico perequativo” dove dovrebbero confluire tutte le entrate proprie di Consob, Antitrust, Agcom, Autorità per l’Energia, Covip, Garante della Privacy, Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, Isvap e Commissione di garanzia per gli scioperi.

Alcuni di questi enti si mantengono da sé: l’Autorità per l’Energia attraverso un contributo a carico delle imprese regolate, l’Isvap per mezzo dello stesso strumento più gli interessi attivi sui depositi bancari. Altre, cioè il Garante per la Privacy e la Commissione di garanzia sugli scioperi, dipendono interamente dal bilancio dello Stato. Le rimanenti si mantengono in forma mista, dipendendo più o meno dai fondi pubblici e più o meno da fee applicate ai soggetti regolati o dai proventi delle sanzioni erogate (cosa che crea un incentivo perverso, ma non è questo il punto).

Il sistema è chiaramente imperfetto e lascia insoddisfatti soprattutto quelli che, dovendo negoziare col Tesoro, si sentono in qualche modo “i cugini poveri”. Posto che il problema esiste, ci si sarebbe aspettati un tentativo di rendere più autonomi, o autonomi del tutto, quelli che ancora, sotto il profilo finanziario, non lo sono. Sarebbe un tentativo grandemente apprezzato dal mercato, che più di tutto teme la volubilità dei decisori. E’ chiaro che un regolatore che, per la propria sussistenza, debba trattare col governo, deve subirne i capricci, dà meno garanzie di stabilità: e questo è tanto più vero in un contesto politico come il nostro che conosce la stessa stabilità di un toro meccanico.

Non stupisce, dunque, che diverse autorità abbiano reagito con durezza alla proposta. Per esempio, l’Autorità per l’energia ha inviato una segnalazione a governo e parlamento per richiamare l’attenzione sui profili di criticità, generali e specifici (altre segnalazioni sarebbero in arrivo). Tra le altre cose, quasi certamente ci troveremmo in violazione delle direttive comunitarie, col rischio di vedere aperta l’ennesima procedura di infrazione nei confronti dell’Italia. Inoltre, sarebbe discutibile il fatto che i contributi estratti da alcuni regolatori ai rispettivi settori di interesse, fossero utilizzati per finanziare attività del tutto estranee ai loro interessi diretti. Cito dalla segnalazione dell’Aeeg:

la norma proposta finanzierebbe – con onere a carico delle sole imprese che operano nei settori regolati (settore elettrico, del gas, delle telecomunicazioni, assicurativo e degli scambi finanziari) – anche amministrazioni del tutto estranee a tali settori nonchè autorità che operano a livello trasversale su tutti i mercati svolgendo attività di vigilanza su tutte le imprese soggette alla concorrenza (introducendo una sostanziale forma di tassazione occulta sui suddetti settori regolati).

Questa situazione spinge l’organismo presieduto da Alessandro Ortis a parlare di una “tassa occulta” sui soggetti regolati. Da ultimo, il pregiudizio all’indipendenza delle autorità – che è intrinseco nella proposta e viene lamentato quasi da tutti – verrebbe esasperato dal fatto che quello italiano non è uno Stato “guardiano notturno”, ma detiene partecipazioni rilevanti in una serie di società che occupano posizioni dominanti nei rispettivi mercati – Eni, Enel, Rai, Trenitalia, eccetera. La dipendenza del controllore dal controllante è un fattore di preoccupazione (in realtà per le stesse imprese controllate, che rischierebbero di trovarsi in una situazione di patologica incertezza riguardo a chi decide cosa, come, in quali tempi e con quali mezzi).

Non stupisce, dunque, che alcune autorità abbiano reso più o meno pubblici i loro mal di pancia. Non stupisce nemmeno che Giulio Tremonti, a quanto ci risulta, pur non avendo avuto alcun ruolo nella genesi dell’iniziativa, vedendosela piovere addosso non si sia scansato. In fondo, se approvata si ritroverebbe istantaneamente più potente, senza neppure averlo chiesto.

Quello che stupisce, ma in fondo non troppo, è che tra le stesse autorità si sia aperta una divisione. Da un lato, quelle coi bilanci in ordine; dall’altro chi, come Antitrust, Scioperi e in modo assai più defilato Privacy ritiene di meritare maggiori risorse o comunque di potersele aggiudicare (per diverse categorie di merito: per esempio il ruolo di primissimo piano che alcuni commissari occupano al Tesoro). Fatto sta che Antitrust e Scioperi, nella riunione che si è svolta oggi alla presenza di Gianni Letta, non avrebbero sgomitato poi tanto, mentre la Privacy avrebbe caldeggiato una “terza via”. Terza via che, secondo le voci intercettate nell’aria, sarebbe stata predisposta dai tecnici del Tesoro, sotto forma di un prestito forzoso dalle authorities finanziariamente più forti a quelle più deboli.

Anche qui, però, la “santa alleanza” dei regolatori virtuosi avrebbe stretto le fila, consapevole di due rischi. Primo: generare incentivi perversi, per cui nessuno si troverebbe ad avere un reale interesse alla disciplina finanziaria, perché tanto il “di più” andrebbe a beneficio altrui. Secondo: oggi i regolati che pagano il loro regolatore sanno come vengono utilizzati i loro soldi. Un domani, questo non sarebbe più vero, a scapito della trasparenza e dell’accountability dei regolatori. Starebbe circolando una controproposta – un prestito volontario che poi, però, dovrebbe essere restituito – che però, ovviamente, non incontra il gradimento di chi ha, a vario titolo, proposto, promosso, voluto o apprezzato l’emendamento. Comunque, queste sono tecnicalità: non sono il punto, come il punto non è fare la conta di vincitori e perdenti.

Il punto è, direbbe Doc Brown, ragionare quadridimensionalmente. Nell’immediato, la strategia può anche pagare. Ma nel lungo termine, no. Cioè: nell’immediato può determinare un flusso di risorse da chi subisce a chi cavalca la riforma. Ma nel lungo termine, consegna il pallino al governo, minando l’indipendenza delle autorità tutte. Con tanti saluti al buon funzionamento del mercato, al prestigio dei regolatori, e a quelle specie di liberalizzazioni che con tanta fatica abbiamo costruito, più o meno.

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Fus: il governo fa marcia indietro? /2009/07/30/fus-il-governo-fa-marcia-indietro/ /2009/07/30/fus-il-governo-fa-marcia-indietro/#comments Thu, 30 Jul 2009 09:59:07 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=1826 Nella giornata di ieri, Berlusconi ha promesso lo stanziamento di ulteriori 60 milioni per rimpolpare la quota totale del Fondo unico per lo spettacolo (Fus) per il 2009. Ancora però non si conoscono i tempi e le modalità. Il mondo dello spettacolo spera ancora che ci sia la possibilità di inserire questi soldi nel decreto anti-crisi (ora giunto al Senato). Più realisticamente, le vie saranno altre. Ad ogni modo, anche la politica non desiste. Quattro mozioni sono state presentate (due dall’opposizione e due dalla maggioranza) per impegnare il governo a dare maggiori risorse allo spettacolo. Se da parte dell’opposizione si chiede un cospicuo incremento, la maggioranza mette l’accento sulle necessarie riforme che devono rivoltare come un calzino il settore. 
Le criticità del Fus sono state evidenziate qui. Indubbiamente bisognerà riflettere sull’inadeguatezza di questo strumento. Ad esempio, per quanto riguarda il cinema: è difficile capire il senso dei contributi dati dallo Stato sugli incassi delle pellicole. A beneficiarne sono, tra gli altri, Filmauro e Medusa. Nella relazione del 2007 sull’utilizzo del Fus si apprende chiaramente come un film come “Natale a Miami” (il classico cinepanettone!) abbia preso soldi dallo Stato come contributo sugli incassi. La domanda a cui dobbiamo rispondere allora è la seguente: lo Stato deve dare soldi ai cinepanettoni prodotti dalla Filmauro? Ne hanno bisogno? Credo siamo tutti d’accordo sulla risposta: No. Altro esempio. Nell’anno 2006 il teatro ha ottenuto dal Fus 75,3 milioni di euro e ha avuto 14,5 milioni di spettatori. Sempre nello stesso periodo il settore della lirica ha ottenuto 197,4 milioni di euro e ha avuto 2,1 milioni di spettatori. La sproporzione è grande. E’ giusto finanziare tanto la lirica (rispetto agli altri settori dello spettacolo) a fronte di un numero così basso di fruitori? Inoltre, in questo caso è evidente come gli effetti anti-redistributivi dei finanziamenti siano da prendere in considerazione. A quale fascia di reddito appartengono gli spettatori della lirica? Di certo non alla fascia più bassa.
Nel frattempo, ieri si è svolta la conferenza stampa di presentazione della nuova direzione generale (del MiBAC) per la valorizzazione del patrimonio culturale. A capo della struttura ci sarà Mario Resca. Gli intenti lasciano ben sperare. Tra gli obiettivi: “Favorire la partnership tra pubblico e privato. Promozione e incentivazione del mecenatismo e defiscalizzazione nel settore delle sovvenzioni ai beni culturali (il panorama italiano è decisamente penalizzato rispetto ai competitors, europei e non)”. Se son rose…

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Fus: integrarlo con nuove risorse o abolirlo? /2009/07/22/fus-integrarlo-con-nuove-risorse-o-abolirlo/ /2009/07/22/fus-integrarlo-con-nuove-risorse-o-abolirlo/#comments Wed, 22 Jul 2009 09:02:56 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=1718 RaiUno, prima serata di ieri, va in onda “Lezioni di volo”, film di Francesca Archibugi realizzato con il contributo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali. Se i tagli al Fondo unico per lo spettacolo serviranno a non finanziare più film come questo, allora viva i tagli al Fus. In questi giorni, tutti (dal presidente Napolitano in giù) hanno espresso il loro disappunto per la riduzione dei fondi statali da destinare a teatro, cinema, musica, ecc. Con il decreto anti-crisi in fase di conversione in legge, gli uomini e le donne di spettacolo stanno dando battaglia per inserire nel testo qualche milione di euro da destinare al loro settore. Al momento, il governo sembra fermo sulle sue posizioni: i tagli previsti saranno mantenuti. A dir la verità, il ministro Bondi si sta adoperando affinchè allo spettacolo vengano date altre risorse. Tutti fanno pressioni, ma Tremonti sembra irremovibile. E se non si convince lui allora niente soldi. Le proteste sono trasversali, con gli “addetti ai lavori” (fra i quali molti artisti illustri, come Nanni Moretti e Michele Placido) si sono schierati anche parlamentari della maggioranza (come Gabriella Carlucci e Luca Barbareschi) oltre a quelli dell’opposizione. Come detto in precedenza, anche il capo dello Stato si è messo al loro fianco (seppur in maniera felpata, visto il ruolo da lui ricoperto). 
A prescindere dalla quantità di soldi che ogni anno mette a disposizione, il Fus è lo strumento sbagliato per sostenere il settore. Soprattutto per il fatto di essere un meccanismo troppo rigido e discrezionale. Con il Fus si erogano contributi ai soggetti che richiedono soldi, e che vengono ritenuti meritevoli di ottenerli. Ma mentre i criteri dovrebbero essere oggettivi, le cose evidentemente non procedono in questo modo. E se ogni ogni anno i contributi devono essere redistribuiti, sono quasi sempre gli stessi soggetti ad ottenere il finanziamento. In effetti, come è possibile stabilire la qualità artistica, ad esempio, di un film? Nel caso del cinema, se il criterio dell’opera prima e seconda può essere oggettivo e inconfutabile, quello “dell’interesse culturale nazionale” ricade nella più ampia discrezionalità. Esiste una commissione di presunti esperti… ma allora come è possibile che un film come quello della Archibugi possa essere considerato di “interesse culturale nazionale”? E poi, il 50 per cento del Fus se lo portano via gli enti lirico-sinfonici (possibile che debbano chiudere i loro bilanci sempre in rosso? Non è che invece di una carenza di fondi ci sono problemi di produttività e di gestione legati ai singoli enti?), e anche per tanti teatri il contributo annuale è pressochè garantito. Forse allora il problema non sono i milioni più o i milioni meno che ogni anno vengono erogati attraverso il Fus, ma il Fus stesso. Il sostengo al settore dello spettacolo può essere dato in forme diverse rispetto ai sussidi diretti, eliminando le interferenze di natura politica e responsabilizzando maggiormente i soggetti che operano nel settore. Cosa aspettiamo allora ad abrogare il Fus?

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Rapporto Caio, svelato l’arcano /2009/05/25/rapporto-caio-svelato-larcano/ /2009/05/25/rapporto-caio-svelato-larcano/#comments Mon, 25 May 2009 19:03:17 +0000 Oscar Giannino /?p=710 Tranquilli, Francesco Caio non è diventato un apostata del libero mercato, né agisce in nome e per conto di neostatalizzatori. Nel fine settimana ho partecipato a una convention organizzata da Fastweb con i suoi grandi clienti, e il clou del programma era un confronto diretto con Caio e Parisi, confronto che ho animato con provocazioni di altri colleghi giornalisti aggiunte alle mie. Al centro, ovviamente, il suo report non-più-riservato su “Portare l’Italia alla leadership europea nella banda larga”. Al riparo da orecchie indiscrete di stampa – eravamo a Cascais – ho azzannato le tre ipotesi conclusive del rapporto, condividendo e rilanciando in maniera tagliente le domande già avanzate da Massimiliano Trovato sul nostro blog. Le risposte di Caio sono state all’altezza, e abbiamo continuato a chiarirci le idee per l’intera serata con un ottimo rosso di Cintra. Sintetizzo, dando per scontato che chi ci legge qui abbia letto il rapporto.
Caio non mette affatto sullo stesso piano l’ipotesi uno – “leadership europea”: copertura di 100 città al 2015 con il 50% delle case collegate con FTTH P2P – l’opzione due – “per non arretrare”: 40-50 città con il 25% delle case collegate FTTF P2P – e quella tre – “flessibilità sul territorio”: 10-15 città attraverso partnership con utilities locali. Caio, come del resto Parisi, sono entrambi convinti dell’opzione uno. Ma con un caveat grande come una casa: nessun esproprio della rete fissa Telecom Italia, nessuna rinazionalizzazione della rete in rame della prima, magari unita a quella in fibra di Fastweb. I 10 miliardi di euro di spesa ipotizzata per la realizzazione dell’ipotesi uno sono concepiti come sostenibili in un piano di politica industriale che realizzi nel tempo più breve possibile l’integrazione tra rame e fibra, con la migrazione più rapida dal primo alla seconda per le NGN e tranne che per le aree a bassa domanda, che resteranno sempre. L’ipotesi di bancabilità privata del cash flow necessario si basa sull’ipotesi che sia il regolatore – non il proprietario eventualmente pubblico – attraverso le sue decisioni anche e soprattutto di politica tariffaria, a “indirizzare” le reti vecchia e nuova verso lo shift alla frontiera più avanzata, remunerando chi è più avanti maggiormente rispetto a chi ha già da decenni ammortizzato il rame e campa oggi di rendita, per quanto inevitabilmente decrescente  e resa ancor più periclitante dalle sforbiciate agli investimenti imposti dal debito di TI e dalle minusvalenze attuali dei soci di controllo.

Messa così, è un’ipotesi suggestiva, che naturalmente non ha nulla a che vedere né con la necessità di un exit favorevole agli attuali soci Telco, né con le più diverse opinioni intorno all’eventuale ruolo di Mediaset – chi realizza e gestisce autostrade continuerà ad essere diverso da chi fa automobili, idem vale tra carrier e broad o narrowcaster - né ancora con chi sogna da tempo il ritorno alla Stet, ammantandola magari di richiami fuori luogo al Giappone odierno, come da un paio d’anni fa il mio caro amico Massimo Mucchetti sul Corriere.

Ho chiesto però a Caio di chiarire pubblicamente il suo pensiero, visto che la pensa così, in maniera tale da uccidere sul nascere ogni equivoco potentemente alimentato da chi lo descrive come un neostatalista . Ha promesso che lo farà. Naturalmente, l’ipotesi regge se c’è un regolatore che adotti politiche di remunerazione degli investimenti, tariffe di terminazione e scelte su OTA e Open Access esplicitamente volte ad accelerare e rendere sostenibile la transizione al nuovo, invece che dettate dalla necessità di sostenere TI in difficoltà  finanziaria. Vedere per credere, visto il track record di quella che considero, tra le Autorità italiane di settore, la più e peggio inficiata dalla politica.

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Quattro domande sul rapporto Caio /2009/05/22/quattro-domande-sul-rapporto-caio/ /2009/05/22/quattro-domande-sul-rapporto-caio/#comments Fri, 22 May 2009 21:54:04 +0000 Massimiliano Trovato /?p=666 Ora che del rapporto Caio sappiamo tutto, sebbene continui a sfuggirci il motivo di tanta segretezza, è il momento dell’analisi. La mia impressione è che il rapporto sia una buona risposta a domande cattive: proviamo, dunque, a porre le domande giuste.

1) Siamo convinti che spetti al governo il compito di determinare l’ammontare di connettività desiderabile nel nostro paese?

La risposta è un chiaro no. Vi sono certamente delle azioni che i pubblici poteri possono intraprendere per agevolare (rectius: non ostacolare) il raggiungimento del livello ottimale: rientrano in questa categoria la predisposizione di un quadro regolamentare certo ed equo e la digitalizzazione della pubblica amministrazione. Ma – come per ogni altro bene – sono la domanda e l’offerta a dover determinare la quantità. La banda larga non sfugge alle leggi dell’economia.

2) Questo vale anche per il digital divide?

Sì. Le zone di digital divide sono banalmente le aree in cui è (ancora) anti-economico portare l’accesso in banda larga. Non si tratta, come molti sembrano pensare, di una market failure ma piuttosto di una market feature: quando il gioco non vale la candela, si passa la mano. Ora, è legittimo sostenere che il digital divide vada combattuto, ma l’argomento va posto per quello che è: una richiesta di redistribuzione a beneficio di individui ai quali – brutalmente – non ha ordinato il dottore di vivere in aree digitaldivise.

3) Come la mettiamo con le reti di nuova generazione?

La risposta è giocoforza la medesima. L’ottimo Stefano Quintarelli rilancia oggi uno studio del regolatore spagnolo che dimostrerebbe l’impossibilità per il mercato di portare le NGN ad oltre metà dei sudditi di Juan Carlos: da ciò consguirebbe la necessità dell’intervento pubblico. Si tratta però di un non sequitur: ad esempio, il mercato non ha ancora trovato il modo per fornire a ciascun maschio maggiorenne un jet privato, e nessuno si sogna di richiedere l’intervento del governo a correzione di tale stortura. Se le stime della CMT fossero corrette ne seguirebbe unicamente che quello della rete di nuova generazione è un progetto prematuro ed, allo stato attuale delle tecnologie e dei processi, insostenibile. Va appena ricordato che non sono le stime a fare la storia dell’economia, ma le concrete operazioni degli agenti economici.

4) Posto che la politica ha deciso di piantare (almeno) una bandierina su internet, si possono individuare strategie d’intervento più o meno dannose?

Mi pare che non si tratti di una questione di poco conto. Se un esborso pubblico dev’esserci, è necessario che esso sia il meno distorsivo possibile. Un finanziamento diretto agli operatori violerebbe questa condizione, attribuendo allo stato un ruolo imprenditoriale che – storicamente – esso ha dimostrato di saper interpretare con esiti tragici. Inoltre, si imporrebbe un notevole sforzo di vigilanza successiva. Perché, allora, non riflettere sulla possibilità di un broadband voucher assegnato direttamente ai cittadini e spendibile presso qualsiasi operatore e senza distinzioni di tecnologia? Si tratterebbe d’un’opzione assai più efficace e rispettosa dei principi di un mercato che la bramosia della classe politica potrebbe seriamente compromettere.

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Il futuro dei giornali /2009/05/20/il-futuro-dei-giornali/ /2009/05/20/il-futuro-dei-giornali/#comments Wed, 20 May 2009 21:45:19 +0000 Massimiliano Trovato /?p=663 Due interessanti prospettive, dai due lati dell’Atlantico: European Journalism Observatory [via Marcello Foa] e Wall Street Journal. Con un denominatore comune: il no ai finanziamenti pubblici.

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