CHICAGO BLOG » finanza http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Benoît Mandelbrot. In memoriam /2010/10/18/benoit-mandelbrot-in-memoria/ /2010/10/18/benoit-mandelbrot-in-memoria/#comments Mon, 18 Oct 2010 17:02:11 +0000 Guest /?p=7319 Riceviamo e pubblichiamo da Galeazzo Scarampi del Cairo, Board member dell’Istituto Bruno Leoni.

Scomparso giovedì scorso a ottantacinque anni, Benoît Mandelbrot è stato un importante matematico che ha conservato la capacità “artistica” di visualizzare problemi astratti e la curiosità di cercare reppresentazioni matematiche di forme apparentemente non regolari. Mandelbrot preferiva parlare di “roughness”, intendendo rough come il contrario di regolare, ed ha saputo esprimere la (mancanza di) regolarità in un semplice numero, così come semplice è l’equazione (z–>  z^2 +c) sottostante al famoso “Mandelbrot set”

Il contributo di Mandelbrot alla finanza è stato decisamente paradossale. Storicamente, la parte più facile della sua analisi statistico matematica dei movimenti dei prezzi di mercato azionario è stata utilizzata amplissimamente nella cosiddetta “analisi tecnica”, disciplina considerata “minore” e destinata alla divulgazione per i “day traders”. Le implicazioni più profonde e più importanti del suo pensiero, ovvero l’importanza delle discontinuità ed il conseguente imperativo di evitare modelli “senza turbolenze” e le curve gaussiane sono state deliberatamente ignorate sia dagli ingegneri finanziari che dai risk managers delle grandi banche.

Leggere ora l’articolo scritto da Mandelbrot con Nassim Taleb il 23 Marzo 2006 sul Financial Times, “A focus on the exceptions that prove the rule” può fornire un’idea di quanto valida sia la impostazione teorica di Mandelbrot, esposta in esteso nel suo “The (mis) behavior of markets“, pubblicato 2 anni prima.

Credo che gradualmente le tesi di Mandelbrot abbiano iniziato  a mettere radice nei curriculum di finanza applicata e statistica e in una generazione o due (se non saremo tutti in bancarotta prima) porteranno ad un “irrobustimento” endogeno della finanza, che non può continuare a rivolgersi alle banche centrali come un’orchestra al suo direttore.

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L’ontologia degli oggetti sociali / 2. Di Andrea Gilli /2010/06/29/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-2-di-andrea-gilli/ /2010/06/29/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-2-di-andrea-gilli/#comments Tue, 29 Jun 2010 15:27:31 +0000 Guest /?p=6400 Riceviamo da Andrea Gilli e volentieri pubblichiamo:

Ho letto con interesse l’articolo del prof. Lottieri sull’ontologia degli oggetti sociali. L’analisi merita attenzione per due motivi. In primo luogo, in un periodo nel quale attaccare la finanza porta consensi, Lottieri va coraggiosamente contro corrente, e offre una difesa non convenzionale degli strumenti finanziari incriminati. In secondo luogo, in un dibattito politico e culturale – quello italiano – atrofizzato da schemi concettuali vecchi di settant’anni, Lottieri porta una ventata di novità discutendo di ontologia nelle scienze sociali.

Purtroppo, è però proprio su questo punto che mi trovo in forte disaccordo con il professor Lottieri. Non sono un filosofo. Umilmente mi considero uno studente, che per svago si legge testi di filosofia della scienza. Ho studiato Searle, Berger e Luckmann, Lakatos, Giddens, Kuhn e tutti gli altri per capire prima gli assunti epistemologici e ontologici della mia disciplina e poi, soprattutto, quelli di una sua scuola di pensiero particolarmente in voga nel campo delle relazioni internazionali: il costruttivismo.
Sono partito ben disposto verso gli studiosi costruttivisti. Li ho letti. Non li ho trovati utili. Soprattutto, credo che il loro contributo sia più dannoso che benefico. Spiegherò qui di seguito la mia posizione, e più precisamente come mai non condivido la scelta di Lottieri di affidarsi a questa scuola di pensiero per giustificare strumenti di mercato.
Partiamo innanzitutto dalla base. Le scienze sociali si possono dividere secondo due grandi logiche. March e Olsen (1985) parlano di logic of consequence e logic of appropriateness. Secondo il primo approccio, gli individui sono consequenzialisti. Sono razionali e quindi mossi dalla volontà di raggiungere un determinato fine (questo è quello che più comunemente viene chiamato l’homo oeconomicus). In economia politica, parliamo quindi di massimizzazione dell’utilità del consumatore o massimizzazione del profitto dell’azienda. In scienza politica parliamo di vittoria alle elezioni, cattura del controllore da parte del controllato, etc. La meta-logica sottostante è cartesiana: le relazioni umane sono regolate da leggi oggettive che valgono nel tempo e nello spazio. La tecnologia sia fisica (tecnica) che sociale (internazioni umane) può aumentare l’intensità o il raggio d’azione di questi meccanismi, ma non può alterarne la logica, che infatti resta immutata. L’incrocio tra domanda e offerta, dunque, tende a portare i prezzi in equilibrio sia nell’antichità che oggi (Friedman, 1963), così come la concentrazione di potere in una sola unità politica porta alla formazione di schieramenti anti-egemonici (Waltz, 1979; e Snyder, 2002). Compito dello studioso è dunque identificare queste leggi universali.

La seconda logica, quella dell’appropriateness diparte completamente da questi assunti e giunge a postulati completamente differenti. Il punto di partenza è che gli individui non sono consequenzialisti. Sono animali sociali il cui comportamento è guidato dalle norme condivise del loro ambiente esterno. Non c’è una cosa come l’individuo. C’è la società che prescrive i comportamenti da seguire. È chiaro che negare queste intuizioni sarebbe banale. Chiunque sarà d’accordo nel sostenere che la società nella quale un individuo vive influenza il suo modo di pensare e di agire. Vi sono però almeno tre domande, alle quali il costruttivismo non risponde in modo esaustivo ed esauriente: in primo luogo, quale è lo spazio dell’individuo? Inoltre, fino a che punto le norme sociali non sono in contraddizione con i vincoli materiali ai quali gli individui sono sottoposti (e, dunque, con una teoria dei vincoli)? Infine, fino a che punto le norme sociali non sono il semplice prodotto di fattori materiali.

Il primo problema è etico-metodologico. Se noi assumiamo che il comportamento degli individui sia dettato dalle norme sociali dei contesti nei quali questi vivono, allora eliminiamo la volizione (quello che in scienza politica anglo-sassone si chiama “agency”). L’analista, in questo caso lo scienziato politico, si pone dunque al di sopra degli altri (con arroganza) e si dice in grado di interpretare quello che essi fanno. Si badi bene: l’analista costruttivista non spiega, ma comprende (Hollis and Smith, 1991). Mentre uno studioso positivista ritiene che gli attori siano dotati di ragione e il suo scopo sia spiegare le loro ragioni, lo studioso costruttivista crede di essere il solo a capire la realtà, e dunque debba spiegare il comportamento pecorile degli individui. La ragione è epistemologica: il positivista crede che vi sia una realtà oggettiva che va analizzata e spiegata. Il costruttivista crede nell’interpretazione intersoggettiva. La realtà è creata e ricreata dalle pratica delle relazioni sociali: domanda e offerta non sarebbero altro che costrutti sociali in grado di guidare la realtà. Questi costrutti però, in sostanza, non esistono. Le conseguenze sono molteplici. Tralasciamo quelle morali, perchè sono evidenti. Secondo la logica costruttivista gli individui non sono consequenzialisti. L’implicazione più evidente emerge quando si pensa al mercato, probabilmente la più importante e più potente istituzione sociale create dall’uomo. Se Searle (citato da Lottieri) ha ragione, allora il mercato funziona perchè gli agenti economici credono che esso funzioni, non perchè è il sistema di allocazione delle risorse più efficiente tra quelli disponibili. E infatti questa è la conclusione accettata dai costruttivisti: il mercato – che per loro è una costruzione sociale – esiste perchè qualcuno ci ha convinto che esso funziona. Se la norma sociale legittimata fosse il sistema pianificato, anche questo funzionerebbe.

Il secondo problema è di teoria sociale. L’assunto di razionalità in economia come in scienza politica è, appunto, un assunto: una semplificazione. Gli individui possono tranquillamente essere irrazionali. L’economia politica è però una teoria di limiti: chi va contro il mercato si brucia le dita. Un approccio costruttivista, dunque, non sostituisce uno positivista. Al massimo, aggiunge qualcosa di marginale. Il problema del costruttivismo, però, è la sua epistemologia. Non ci sono fenomeni ricorrenti nel tempo e nello spazio, ma invece questi sono il prodotto di come la realtà è intersoggettivamente condivisa tra gli individui. Dunque, se vogliamo capire come mai il regno di Filippo II andò in bancarotta alla fine del 1500, non dobbiamo analizzare fenomeni come l’inflazione monetaria, i deficit nelle partite correnti o la bassa produttività. Piuttosto, dovremmo guardare alla legittimità del suo regno e alle norme esistenti tra i banchieri del tempo. In altri termini, la causa va ricercata non in fattori oggettivi ma in fattori intersoggetivi: l’interpretazione collettiva della realtà. Ad una differente interpretazione intersoggettiva della realtà corrisponde una diversa realtà sociale. Allo stesso modo, per comprendere la crisi di oggi, dovremmo comprendere il modo con cui gli attori finanziari concettualizzano il mercato, e come questa concettualizzazione guidi i loro comportamenti. Non, invece, cercare di analizzare i loro sistemi di incentivi e come questi influenzino i loro calcoli. Difatti questo è quello che una branca della international political economy sta facendo: la diffusione del liberismo nel mondo non sarebbe dovuta al fatto che funziona, ma invece al fatto che gli attori chiave sarebbero socializzati (leggi: abbagliati) da questa ideologia (Chiewroth, 2007, 2009; Sinclair, 2003). Gli unici che capiscono come stanno realmente le cose sono, ovviamente, i soli costruttivisti. Gli unici, si badi la contraddizione, che riescono a sfuggire alla rete possente della socializzazione delle idee.

Questa discussione ci porta al mio ultimo punto: l’influenza dei fattori materiali su quelli sociali. Le norme sociali esistono: è evidente. Ma da dove nascono? Per esempio, il bando sul prestito ad interesse che la Chiesa ha tenuto in piedi per diversi secoli: da dove viene fuori? Secondo una logica costruttivista bisogna guardare alle norme sociali della Chiesa e ai suoi valori solidaristici e a come questi fossero condivisi intersoggettivamente tra tutti gli attori del tempo. Possibile. Ma quanto è credibile un tale quadro di fronte ad una Chiesa che riceveva emolumenti da mezza Europa per rafforzare il suo regno? Ad una una Chiesa che rafforzava il suo esercito ed edificava su tutto il continente? Da un punto di vista di political econonomy, la spiegazione è molto più semplice (e intuitiva): prestito ad interessi significano crescita economica, crescita economica significa nascita di attori economici, poi sociali e infine politici. La nascita di attori politici implica l’emergere di possibili sfidanti al potere ecclesiastico. Mettendo un bando morale sul tasso di interesse, la Chiesa ha rafforzato il suo potere politico materiale. Dunque, dietro ad una posizione morale c’erano solidi fattori materiali. Il lettore può autonomamente decidere quale delle due spiegazioni sia più credibile.

Ciò vale, allo stesso modo, per quanto riguarda la finanziariarizzazione dell’economia, e qui arriviamo al mio diasccordo con quanto scritto dal professor Lottieri. I prodotti finanziari sono sempre più complicati, astratti e invisibili. Ma esistono. L’esistenza di questi prodotti non si deve tanto al loro valore sociale o alla condivisione intersoggettiva del loro ruolo, ma piuttosto alla loro utilità materiale. Quanto scrive Searle sulla moneta – mi si passi l’espressione – non ha senso: secondo Searle, la moneta non avrebbe assunto il suo ruolo in virtù delle funzioni che essa svolge (riserva di valore, mezzo di scambio, unità di conto), piuttosto per via di norme sociali. Vale a dire, se le norme sociali fossero state diverse, oggi potremmo usare i cammelli anzichè la moneta. Analogamente, l’URSS potrebbe essere il modello dominante se solo fosse diventato legittimo… Insomma, tutto sarebbe possibile, se solo le norme e la cultura lo credessero tale.

Ho molta stima per il prof. Lottieri. Ritengo però che affidarsi al costruttivismo per difendere i mercati finanziari rischi di portare più danni che benefici. La positive political economy ci dà sufficienti strumenti per spiegare la realtà. La realtà esiste, è il prodotto di incentivi e vincoli ai quali gli attori rispondono. Se pensiamo che la realtà sociale sia costruita,il passo è troppo breve per finire con Berger e Luckmann dove la realtà intera è socialmente costruita. Ciò significa che la battaglia delle idee non è più una battaglia basata su fatti reali (il libero mercato funziona, la pianificazione centralizzata no), ma una battaglia ideologica in cui ogni tipo di proposizione è validea, in quanto mira a creare norme mutualmente condivise che creano una realtà intersoggettiva.

Secondo questa logica, infatti, il mercato non è il sistema più efficace ed efficiente per produrre e distribuire ricchezza, ma un costrutto sociale storicamente determinato, che si riproduce attraverso la socializzazione degli attori alle sue norme. A dominare non sono domanda, offerta e prezzi, ma la socializzione di questi concetti tra gli attori. Con norme sociali diverse, avremmo quindi sistemi economici diversi ma pur sempre in grado di funzionare: perchè cosa conta non sono i fattori materiali ma la condivisione intersoggettiva della concettualizzazione della realtà. Tradotto: se una società ignora il concetto di produttività marginale, allora nella realtà, gli effetti della produttività marginale non si riscontrano. Le liberalizzazioni della Thatcher e di Reagan, secondo questa prospettiva, non furono la risposta necessaria all’inefficienza delle politiche keynesiane degli anni ’70 ma invece il frutto della socializzazione dei policy-makers alle nuove idee monetariste. Per i costruttivisti, se Friedman non ci fosse mai stato, avremmo ancora economie keynesiane e, si badi, in perfetto funzionamento: perchè nessuno sarebbe stato socializzato all’idea che alte tasse e alta spesa pubblica portino, nel lungo termine, a minore crescita economica.

Ma il problema vero del costruttivismo è ancora un altro: ed è quello etico-politico. Se con la teoria positivista nelle scienze sociali, il compito dello studioso è quello di spiegare i meccanismi oggettivi della realtà, con l’approccio post-positivita (logic of appropriateness), il compito del ricercatore diventa quello di capire come il genere umano concettualizza intersoggettivamente la realtà. Il passo successivo, che tutti i costruttivisti fanno, è ovvio: cercare di alterare questa concettualizzazione per promuovere la loro visione del mondo. Ecco perchè, per esempio, i costruttivisti ci spiegano la base sociologica e non oggettiva dell’economia di mercato: perchè l’obiettivo è socializzarci all’idea che alte tasse, big-government e tutto quanto comunmente non funziona, possono invece funzionare. Basta che ci sia una comprensione intersoggettiva che accetti tutto ciò come legittimo. Se la moneta è un costrutto sociale che funziona, allora qualsiasi altro costrutto sociale può funzionare.

Gary Becker ha mostrato la fallacia della sociologia. Credo che sia stato un grande passo in avanti nelle scienze sociali: l’abbandono di modelli tautologici e non falsificabili per una scienza della società. Non vedo proprio motivo per tornare indietro.

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L’ontologia degli oggetti sociali e la nostra difficoltà a comprendere la finanza /2010/06/27/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-e-la-nostra-difficolta-a-comprendere-la-finanza/ /2010/06/27/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-e-la-nostra-difficolta-a-comprendere-la-finanza/#comments Sun, 27 Jun 2010 10:13:04 +0000 Carlo Lottieri /?p=6386 Sia concessa un piccola divagazione, che forse a qualcuno apparirà astrusa, in merito a taluni presupposti teoretici, sociali e psicologici che stanno alla base del diffuso rigetto del capitalismo finanziario.

Una parte rilevante della propaganda anti-liberale degli ultimi anni ha fatto perno sul carattere relativamente astratto di alcuni strumenti che sono comunemente utilizzati all’interno di un’economia libera. La polemica tremontiana contro la “finanziarizzazione” dell’economia e in difesa delle attività produttive – contro chi produce titoli (i derivati, ad esempio) e a difesa di chi produce cose (indumenti, alimenti, mezzi di trasporto ecc.) – è rappresentativa di tutto questo, ma non è molto dissimile dalle offensive anti-mercato che si sono registrate in altre parti del mondo.

Si tratta di un’impostazione facilmente contestabile, dato che si può fare una buona finanza e una cattiva (basti pensare, quale esempio di gestioni fallimentari, alle banche centrali), così come si può produrre bene e anche molto male (ed è questo il caso di tutti i settori protetti e assistiti).

Una lettura manichea che difenda la produzione di beni contro la produzione di titoli è indifendibile, ma si può iniziare a comprenderla quale conseguenza di una diffusa difficoltà a intendere la natura di oggetti sociali quali i “debiti”, le “opzioni”, i “contratti”, e così via. In fondo, per tutti noi è assai più semplice credere nell’esistenza di case e autovetture, di terreni e lingotti d’oro, che non nell’esistenza di questi costrutti sociali che esistono solo in virtù delle interazioni umane e traggono interamente dalle nostre intenzioni ed azioni il senso della loro esistenza.

È come se lo strumentario ermeneutico di cui disponiamo fosse sempre un po’ primitivo di fronte a una società che moltiplica il panorama degli enti possibili e ci obbliga sempre più a fare i conti con entità di ardua definizione. Per fortuna, un aiuto ad accostare la complessità di tali problemi può venire dagli studi di ontologia sociale.

A partire da un importante lavoro di John Searle, La costruzione della realtà sociale (del 1995), alcuni studiosi hanno iniziato a riflettere sul fatto che vi sono oggetti X (un biglietto verde con l’effige di George Washington) che significano Y (valgono un dollaro) nel contesto C (entro molte transazioni economiche, specialmente negli Stati Uniti). Le opinioni e le intenzioni degli attori creano un quadro sociale che non solo attribuisce una funzione e un ruolo a oggetti che di per sé potrebbero anche non averli, ma soprattutto delineano un quadro sempre più smaterializzato.

A giudizio di Barry Smith, in particolare, lo stesso riferimento ad oggetti materiali – come nel caso del biglietto verde – non è poi così essenziale. Usando l’esempio degli “scacchi alla cieca” (dove si gioca in assenza di una scacchiera), egli rileva come gli uomini siano in grado di generare un numero potenzialmente illimitato di costrutti, e come talune di queste realtà siano al tempo stesso astratte (non fisiche) e storicamente situate (perché legate al tempo). Mentre le idee di Platone sono “forme atemporali”, l’universo sociale è ricco di quasi-abstract patterns al cui interno vi sono “forme temporali”, che pur non essendo fisiche né psicologiche, pure sono radicate nelle diverse società storicamente situate.

Nel nostro rapporto ordinario con la realtà, però, siamo portati a credere che ciò che è reale deve essere tangibile, mentre ciò che ha un’esistenza non facilmente riconducibile a cose e oggetti rischia di essere costantemente spinto verso l’irrealtà: insieme alle fate, alle sirene e ai grifoni. In questo senso, è probabile che, in età medievale, la riflessione scolastica sull’intenzionalità e quindi sul ruolo che svolge il soggetto nel definire e ridefinire il mondo possa aver dato un contributo significativo all’elaborazione di quei paradigmi concettuali che hanno portato alla legittimazione del prestito a interesse e, di conseguenza, delle più diverse pratiche finanziarie.

Come spesso succede, però, i medesimi errori tendono a riproporsi in epoche diverse, in forme solo parzialmente diverse: basti pensare ai ripetuti revival delle teorie protezioniste.

Il persistere di nostre attitudine ataviche continua a rendere meno reali, agli occhi di molti, i contratti e i diritti rispetto ai cani e ai marciapiedi. È anche per questo motivo che gli strumenti derivati, che sono oggetti sociali al quadrato, sono talmente malvisti. Qui abbiamo contratti (e quindi oggetti sociali) che il più delle volte si basano su azioni, indici, obbligazioni, valute ecc. (e quindi su altri oggetti sociali). La creatività umana costruisce un grattacielo che, un piano dopo l’altro, si avvicina sempre di più alle nuvole e anche se, ovviamente, poggia come ogni altra costruzione sulla terra, pure viene percepito come sperduto nel nulla e totalmente irreale.

In un suo testo su Searle e Hernando de Soto, Barry Smith sottolinea espressamente come molta parte degli attacchi agli speculatori vengano proprio dal greve naturalismo di quanti non riescono a cogliere altra realtà che negli oggetti materiali, e magari continuano a pensare che il valore sia qualcosa che discende unicamente dal lavoro fisico.

Per questo motivo, affinare la nostra capacità di comprendere il mondo può certamente aiutarci a proteggere al meglio le nostre libertà.

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Sì, fermiamo la speculazione. E sospendiamo pure la legge di gravità /2010/05/09/si-fermiamo-la-speculazione-e-sospendiamo-pure-la-legge-di-gravita/ /2010/05/09/si-fermiamo-la-speculazione-e-sospendiamo-pure-la-legge-di-gravita/#comments Sun, 09 May 2010 09:19:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=5958 Non è solo il dibattito pubblico sul dissesto degli “anelli più deboli” dell’euro a lasciare sorpresi: sono anche e soprattutto le interpretazioni che i governi e le istituzioni comunitarie ne danno che lasciano davvero basiti.

Oggi il Corriere della sera apre con un articolo di Federico Fubini intitolato “Il piano della Banca centrale per fermare la speculazione”.  Nel pezzo viene spiegato che la Bce intende agire, d’ora in poi, come una sorta di settimo cavalleggeri finanziario, “disposto a comprare sui mercati i titoli di Stato sotto attacco”. Se i Pigs spendono e spandono, in altre parole, ci sarà sempre l’Europa – tramite i propri apparati – a usare i nostri soldi per andare in soccorso di falsificatori di bilanci e demagoghi di ogni risma.

Perché, stando alla versione dei fatti oggi prevalente, i maggiori problemi sono frutto della speculazione capitalistica, che – ça va sans dire – è un male in sé. Forse, a ben pensarci, è il “male assoluto”. (In Spagna si sta lavorando perfino per modificare il Codice penale…).

Nessuno intende negare che investitori istituzionali e uomini di affari stiano giocando la loro parte in quanto sta avvenendo. E può darsi anche che in qualche caso la giochino utilizzando informazioni provenienti dagli stessi ambienti politici, lo facciano su loro delega, abbiano obiettivi misteriosi, e via dicendo. Ogni ipotesi cospirativa è in qualche modo legittima, anche se in sé non vale nulla fino a quando non si fanno nomi e date, non si descrivono fatti, e via dicendo. Attaccare “la speculazione” in generale, però, significa replicare i comportamenti di quanti, nella Milano manzoniana, accusavano gli untori di diffondere la peste e denunciavano i fornai per il “rincaro” del pane.

L’uomo è speculatore per natura, perché si sforza di conoscere la realtà (non si perdano i vari significati del termine: la specula è un luogo che favorisce l’osservazione, e l’attività del filosofo è detta speculativa) e di trarre beneficio da tutto questo. Quanti oggi contribuiscono a far crollare l’affidabilità dei titoli di Grecia, Spagna, Portogallo ecc. si muovono sulla base delle loro informazioni e previsioni: tendono a pensare che questi Paesi siano in condizioni difficili, e ne traggono le conseguenze. Se gli interessi che Atene e Madrid dovranno pagare sul loro debito cresceranno, siamo sicuri che la colpa sia da addebitare alla speculazione e non, invece, a chi ha gestito in quel modo quelle economie pubbliche, insieme a chi – certamente – ha messo in piedi quell’autentica scomessa mancata che è l’euro?

Un grande economista vivente, Israel Kirzner (si veda ad esempio il volume Concorrenza e imprenditorialità, edito da Rubbettino), ha più volte evidenziato come l’essenza dell’agire imprenditoriale sia speculativo: il bravo imprenditore intuisce che vi sono opportunità di profitto in uno scarto tra quanto spenderà da un lato (per lavoro, materie prime, organizzazione, ecc.) e quando incasserà.  Se nel comprare la seta in Cina e poi nel venderla a Parigi realizza profitti, vuol dire che la sua intuizione era buona. Diversamente, ne pagherà le conseguenze. (Per una lettura assai acuta, e non priva di qualche appunto critico, alla teoria kirzneriana si veda ad esempio questo saggio di Enrico Colombatto, dell’università di Torino: “Dall’impresa dei neoclassici all’imprenditore di Kirzner”).

In linea di massima quanti operano in borsa non agiscono in maniera troppo diversa e la loro attività è anche fondamentale a renderci consapevoli di cosa sia il mondo economico di fronte a noi. È il sistema dei prezzi, quale deriva dall’azione degli speculatori, che fa circolare informazioni e riduce, in tal modo, le incertezze.

Un’ultima considerazione. A tutti dovrebbe essere chiaro che le economie europee oggi stanno pagando gli errori della cieca e irragionevole determinazione politica della sua leadership, da decenni orientata a unificare il continente all’interno di un unico Super-Stato e quindi vogliosa, proprio per accelerare tale processo, di avere una sola valuta. Avere imposto ai mercati europei una sola moneta entro un’area tanto differenziata – altro che zona monetaria ottimale à la Robert Mundell! – invece che un sistema di valute in competizione ha prodotto gli esiti che stiamo osservando. Ma errore chiama errore, e quindi ecco l’idea dei bond europei. Il prossimo passo: il primo embrione di una tassazione centralizzata.

Se l’economia ha le sue leggi, e normalmente i risparmiatori tendono a comprare titoli che a loro appaiono affidabili e destinati a crescere (speculando), anche la politica ha le sue. E i processi di unificazione in linea di massima non producono buoni risultati, dato che riducono la concorrenza istituzionale, alzano i costi di exit da un ordinamento all’altro, favoriscono il parassitismo, moltiplicano gli effetti perversi di norme e contratti di lavoro uniformi entro aree diverse.

L’Italia sta per apprestarsi a “celebrare” i 150 anni di un’unificazione nazionale che ha solo creato tensioni tra le varie aree della penisola, trascinato il Paese in una guerra sanguinisa (la “Quarta guerra d’indipendenza”) e ha danneggiato gli italiani nel loro insieme, ma ora si trova già a fare i conti con le prime dolorose conseguenze di un’unificazione di dimensioni ben maggiori (e quindi i cui effetti saranno perfino più dolorosi).

Siamo però su un piano inclinato: le élite europee – unica importante eccezione, i britannici – vogliono creare questo “cartello” politico con il suo centro a Bruxelles, e quindi l’avremo. Poiché anche la fisica ha le sue leggi, a partire da quella di gravità, è difficile che – data la pendenza del piano inclinato e la velocità che già abbiamo assunto – ci sia ancora il tempo per riuscire a salvarsi.

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La Kos di CdB, il mercato delle cure e la legittimità del profitto /2010/05/04/la-kos-di-fdb-il-mercato-delle-cure-e-la-legittimita-del-profitto/ /2010/05/04/la-kos-di-fdb-il-mercato-delle-cure-e-la-legittimita-del-profitto/#comments Tue, 04 May 2010 10:04:30 +0000 Carlo Lottieri /?p=5898 Da quando la scelta di “andare in borsa” (diciamolo meglio: di offrire a potenziali acquirenti quote della propria attività) può diventare motivo di polemica? Eppure su due quotidiani è uscito un appello dell’Unione cristiana imprenditori dirigenti, l’Ucid, che invita a fermare la scelta della Kos, intenzionata a trovare nuove risorse attraverso il mercato azionario. La Kos è una società che fa capo alla Cir di Carlo De Benedetti e che possiede centri di assistenza e riabilitazione per anziani.

Secondo Angelo Ferro, presidente dell’Ucid, sarebbe un errore che quanti comprano azioni per fare profitti dovessero orientarsi verso la Kos. L’argomento usato è che si sarebbe di fronte a “una deriva della finanziarizzazione dove tutto, anche le persone anziane non autosufficienti diventano un bene da comprare e da vendere”. Insomma, il tremontismo produce ogni giorno un mostro concettuale nuovo, così che la retorica finisce per prevalere sulla realtà. Il fatto che alcuni risparmiatori destinino loro risparmi a case di cure diventa “finanziarizzazione”: qualcosa che sarebbe di per sé malvagio, anche se non si capisce secondo quali logiche.

Ovviamente, chi un domani dovesse investire in Kos non comprerà e venderà “gli anziani”, come viene detto nel passo sopra citato, ma solo la propria quota di quelle strutture che si occupano degli anziani. Quando una realtà assistenziale entra in borsa, vi sono risorse private che non vengono usate in altri impieghi (viaggi, autovetture, gioielli), ma invece finiscono ad assistere persone non autosufficienti e comunque bisognose di aiuti. C’è qualcosa che non va? Non è giustamente anche a partire da considerazioni di questo tipo sul buon uso che si può fare dei soldi che, da sempre, si sono giustificati la nascita e lo sviluppo delle banche di orientamento cattolico? E non erano forse stati taluni importanti santi e teologi del tardo Medioevo che avevano legittimato il profitto?

In sé, di tutta evidenza, il profitto finanziario è buono. Poi certo può esserne fatto un uso corretto o sbagliato, e ovviamente può diventare (in maniera patologica) l’unico obiettivo della vita di una persona. Come ogni cosa buona, può essere assolutizzato e quindi pervertirsi. Ma il profitto è quel tipo di ricchezza che si ottiene attraverso rapporti liberamente scelti e non aggressivi, e in questo si distingue dalla rendita parassitaria e dal furto.

La tesi di Ferro è però chiara: non si dovrebbe “fare profitto” su realtà come queste. Eppure fanno giustamente profitti i medici specialisti, gli odontoiatri e molte altre professioni dell’universo sanitario e assistenziale che operano nel libero mercato: e per fortuna che è così. I benefici che queste categorie sanno ottenere mettendosi al servizio degli altri sono, per tutti noi, la migliore garanzia che essi lavoreranno in maniera adeguata. Immaginiamo anche solo per un istante che ne sarebbe dei nostri anziani se le badanti romene o filippine non operassero nel sistema privato concorrenziale, ma fossero dipendenti di Stato e quindi fossero sottratte alla logica del profitto.

L’idea che i servizi di assistenza debbano essere solo e necessariamente statali e non profit è del tutto indifendibile. Lasciamo invece la massima libertà a tutti e diamo a ogni famiglia la possibilità di scegliere a chi rivolgersi.

C’è una questione sottesa alla riflessione svolta dall’Ucid che merita un po’ più di attenzione: ed è il fatto che quello dell’assistenza agli anziani è un settore largamente statizzato. Invece che lasciare ad ognuno di noi la facoltà di finanziare, nel corso degli anni, il sistema previdenziale privato che a noi meglio aggrada, lo Stato ci tassa quanto più è possibile e poi ci offre i suoi servizi: in forma gratuita o sovvenzionata. Siccome poi è del tutto inefficiente, spesso – per fortuna, direi – il settore pubblico si rivolge anche a strutture private, che hanno un rapporto di convenzione con le Regioni.

Tale sistema si presta ad abusi e corruzioni: non c’è dubbio. Chi lo critica può trovare molti buoni argomenti, ma certo non può proporre di andare verso soluzioni ancor più burocratiche e stataliste, che tolgano il dinamismo della concorrenza e del profitto da un settore che, semmai, deve veder crescere soggetti in grado di competere e realizzare utili.

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Finanza, siamo ancora all’anno zero? di Davide Grignani /2010/03/15/finanza-siamo-ancora-all%e2%80%99anno-zero-di-davide-grignani/ /2010/03/15/finanza-siamo-ancora-all%e2%80%99anno-zero-di-davide-grignani/#comments Mon, 15 Mar 2010 22:34:11 +0000 Guest /?p=5404 Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo alla discussione da Davide Grignani

Il sistema economico e finanziario rischia oggi una seconda crisi provocata dalla nuova bolla di statalismo e “over-regulation” innescata dalla scossa dell’estate del 2007. Sinora il complesso sistema di interazioni tra regolatori e norme ha dimostrato di non tener conto né della ciclicità degli impatti da essi provocate, né delle specificità di funzionamento dell’istituzioni finanziarie, siano esse banche, assicurazioni o non-banche (società finanziarie specializzate) operanti nelle diverse realtà geografiche, macro e microeconomiche.

Dinamiche e cause della drammatica crisi che ci attanaglia da circa trenta mesi sono chiare ed indicano un fallimento sistemico e collettivo, in cui l’individuazione di un solo ed unico colpevole appare operazione demagogica e velleitaria . Rivediamole in breve:

  • responsabilità della politica: per molti anni, durante sia l’amministrazione democratica che quella repubblicana, la politica Usa ha spinto il sistema finanziario e bancario ad una espansione illimitata del credito alle famiglie, già fortemente indebitate, attraverso la finanziarizzazione del mercato immobiliare e la redistribuzione del rischio a livello mondiale via cartolarizzazioni e derivati;
  • responsabilità delle autorità monetarie: alla spinta della politica si è affiancata una fase di espansione del credito allargato, bancario e non, moltiplicatosi in termini di volume a tassi di interesse decrescenti ed un livello sempre più elevato di leva finanziaria del sistema bancario;
  • responsabilità dei controllori: i controllori hanno assecondato un’ enorme espansione del retail banking e del cosiddetto “shadow banking” (ovvero del sistema “ombra” dei mercati finanziari paralleli) sempre più basato su reti commerciali aggressive operanti sul mercato dei clienti al dettaglio, nell’assunto di poter poi “impacchettare” tale produzione e poterla trasferire su altri bilanci ed altre giurisdizioni contaminando l’intero globo di rischi impropri e derivati, totalmente illiquidi;
  • responsabilità dei professionisti cioè delle Rating Agencies, dei Revisori ed Esperti Contabili, dei Consulenti Strategici, degli Economisti, degli Equity e Credit Analysts: hanno assistito passivamente a questi fenomeni, o perché deresponsabilizzati da un sistema di incentivi che ha sempre privilegiato un orizzonte di breve periodo rispetto alla corretta gestione delle dinamiche di medio e lungo, o perché concentrati su modelli e schemi focalizzati su obiettivi non inerenti ai reali problemi di cui è stato, ed è tuttora, affetto il sistema finanziario. Pensiamo ai consulenti strategici, sponsor del modello “originate to distribute”, cui dobbiamo una buona parte del problema attuale; pensiamo agli economisti, non avezzi ai meccanismi microeconomici del reale funzionamento di una banca o di una assicurazione in presenza di fenomeni di innovazione finanziaria, tradizionalmente concentrati sul controllo dei fenomeni inflattivi e le conseguenti (spesso dannose) manovre sui tassi di interesse; oppure alle Rating Agencies e agli Auditor ,che non sono riusciti ad introdurre degli strumenti di prevenzione dei guai prodotti ovviando per tempo a difetti sistemici evidenti quali – uno per tutti – l’assenza di una classificazione universale, un “rating”, del grado di effettiva liquidità di tutti i prodotti finanziari al dettaglio o all’ingrosso, quotati su mercati centralizzati o Other-The-Counter (OTC), che “smascherasse” per tempo la deriva del sistema verso una finanziarizzazione sconsideratamente illiquida;
  • responsabilità degli azionisti: anche questa categoria ha supportato il modello di distribuzione massificata di prodotti cosidetti “tossici” ed illiquidi e l’espansione della leva finanziaria, promuovendo posizioni di vertice e remunerazioni eccessive a dirigenti che fossero in grado di garantire una massimizzazione di breve termine del ritorno sul capitale (il ROE, per molti istituti internazionali stato in anni recenti pari a più di vent’anni di crescita percentuale del PIL), prodotto grazie a “business model” troppo stressati (ricordiamoci che Lehman Brothers fallisce con un Tier 1 vicino al 12 % ma una leva finanziaria di oltre 70 volte rispetto al tradizionale livello di un massimo di 12,5 volte ex Basilea 1), a discapito del rapporto di lungo periodo con la clientela e della corretta e prudente gestione del risparmio;
  • responsabilità dei banchieri: i quali – dulcis in fundo – non sono riusciti a garantire al loro interno dei meccanismi di autoregolamentazione e selezione in grado di formare anticorpi sani e forti , capaci di far prevalere nell’industria “business model adeguati” ed una classe di dirigenti ed operatori che riuscissero a resistere a alle forze e pressioni viste nei precedenti punti, privilegiando e proteggendo relazioni corrette e leali con la clientela sia “corporate” che “retail”.

Quo Vadis ?
Il FOREX appena tenutosi a Napoli è stato un momento importante di riflessione sulle problematiche del settore finanziario. Focus particolare è stato dato al tema degli sviluppi e delle tendenze dei mercati collateralizzati, alla luce delle nuove regolamentazioni e delle nuove architetture e regolamentazioni di vigilanza in Europa. Ma altri temi trasversali e prioritari hanno impegnato, tutti gli operatori del settore :
Gli impatti delle nuove norme previste da Basilea 3 sulle banche italiane.
Ormai almeno su un punto siamo tutti d’accordo in Italia: Basilea 3 – se mantenuta come è stato comunicato dal Comitato per la Supervisione Bancaria – non farà affatto bene né alle banche, né alle imprese italiane.
Contrariamente a quanto accadeva qualche anno fa, quando nelle aule dei seminari sulla riforma di Basilea 2 si vedevano sempre le stesse facce dei pochi “addetti ai lavori” mentre degli imprenditori sottocapitalizzati – complice la fase economica espansiva – neppure l’ombra, questa volta politici, imprenditori, banchieri e regolatori italiani sono tutti d’accordo che le nuove norme penalizzino troppo le nostre banche, radicate sul territorio e sulle PMI, rispetto ai colossi anglosassoni del trading in proprio e degli investimenti a rischio. Tra i due tipi di “business model” – diametralmente diversi ed opposti – le differenze di leva finanziaria ed assorbimento di capitale dovrebbero essere macroscopiche, mentre invece alla luce della nuova normativa Goldman Sachs e Monte Paschi risulterebbero e verrebbero trattate in modo simile.
Ora tutte le banche stanno svolgendo i test previsti dal programma dei lavori del Comitato, ma già si sa che i principali istituti italiani nella migliore delle ipotesi (nella peggiore si parlerebbe di tagli di 4-5 punti percentuali su livelli medi di capitalizzazione oggi vicini al 7%) patirebbero una riduzione del Core Tier I di almeno un punto e mezzo percentuale. Un impatto negativo importante, in un mondo bancario che stenta a convincere gli azionisti, gli analisti, gli osservatori e soprattutto la clientela che ciò che residuerà al netto di tali nuove deduzioni potrà dare il comfort circa la possibilità di superare nuove crisi e remunerare adeguatamente il capitale azionario per il rischio dell’attività.
Banche ed assicurazioni italiane nel 2010
Il sistema finanziario italiano ha retto bene al primo tsunami del 2007-2008 grazie alla sua natura essenzialmente finanziaria: “tanquam non esset” abbiamo potuto ripetere con orgoglio per alcuni mesi, forti di un modello bancario che aveva espresso la sua capacità produttiva su aggressive reti di vendita di prodotti per la gestione del risparmio al dettaglio, senza essere impattato dalla crisi dei subprime, delle cartolarizzazioni e dei prodotti derivati esportati dagli USA in Europa, poi finiti copiosamente nei portafogli dei gestori inglesi, tedeschi, belgi ed olandesi.
Il panico è stato però tale da “tetanizzare” anche il sistema reale: gli ordini sono crollati, l’export pure e da finanziaria la crisi è divenuta realissima. Ed ecco il secondo tsunami, questa volta sospinto da cause reali che determinano, da una parte, la crescita rapida ed impetuosa delle sofferenze, dei pagamente rateali insoluti, dei sinistri assicurativi e delle frodi, dall’altra, l’accresciuta difficoltà delle famiglie a mantenere il risparmio, gli investimenti, ed il consumo di un tempo.
Soffrono ora di più le banche e le assicurazioni italiane: soffrono per la struttura ed i problemi reali, legali e fiscali del paese a cui non possono ovviare da sole; soffrono per la prociclicità perniciosa delle norme che aggravano il funzionamento del loro motore già sotto stress; soffrono anche per fattori molto tecnici come essere giunte a questo appuntamento con un livello di strumenti ibridi di capitale sacrificato rispetto ai concorrenti europei. Se la dinamica in atto proseguirà il suo corso, è assai probabile che le banche e le assicurazioni italiane debbano ricorrere a capitali freschi, chiamate a cui – ad oggi – non è certo chiaro se e come potranno rispondere gli attuali azionisti. Se si esclude per un momento l’eventualità degli”aiuti di stato”, non sono da escludersi alleanze ed accordi per necessità, prima a livello nazionale tra banche minori, e poi a livello transnazionale: AXA, BNPP, Calyon, Deutsche Bank, Allianz , Barclays, Santander, Groupama ed altri grandi gruppi finanziari hanno buone ragioni per mantenere un livello d’attenzione alta sull’Italia.
Cosa accadrà nei prossimi anni e cosa occorre fare subito perché il sistema riparta e trovi un suo nuovo sentiero di crescita stabile.
Analizzare questo punto fondamentale in una prospettiva solo italiana è scorretto: la globalizzazione dell’economia e l’interconnessione degli intermediari finanziari bancari e parabancari sono tali da richiedere necessariamente un coordinamento internazionale su vasta scala. In tal senso il Financial Stability Board presieduto dal Governatore Draghi rappresenta senz’altro una chance sistemica importante.
Purtroppo ad oggi non appaiono soddisfatte tre condizioni necessarie per la soluzione della crisi finanziaria in Europa: 1. un sistema politico forte e trasparente per la gestione della crisi; 2. una chiara politica economica europea per la riduzione degli squilibri interni dei vari paesi coordinata dall’Eurogruppo; 3. una supervisione unitaria della regolamentazione del sistema finanziario di Eurolandia.
Quid faciam?
In attesa che ciò si realizzi al più presto, un numero molto limitato di nuove regole semplici e globali potrebbe avere un impatto positivo sul sistema finanziario globale in tempi rapidi:

  • l’adozione di una “Stiglitz Rule”, che, senza rigettare il modello europeo di banca universale, non combatte le dimensioni, ma distingue le funzioni del trading in conto proprio, degli investimenti nel settore degli hedge e del private equity dall’attività di banca commerciale e di deposito e di conseguenza discrimini le forme di passivo in termini di finanziabilità delle diverse attività con capitale di rischio o di debito;
  • una “Liquidity Rule” che attribuisca a tutti gli strumenti finanziari, prescindere dal fatto che essi siano trattati sui listini o OTC, un rating di liquidità da affiancarsi obbligatoriamente ai sistemi classici di rating attualmente in essere;
  • una “Leverage Rule”, che ponga limiti assoluti e relativi al massimo livello di leva finanziaria a cui ogni tipo di istituzione finanziaria può sottoporre il proprio bilancio in funzione dei modelli di business e dei contesti nazionali specifici delle diverse istituzioni;
  • una “Liquidity-Based Value Rule” che imponga l’obbligatorietà dell’applicazione contabile e fiscale del principio del “mark-to-market” solo alle attività finanziarie che hanno caratteristiche di liquidità e volatilità tali da permetterne la pronta ed effettiva disponibilità in ogni momento del loro possesso;
  • una “Enforcement Control Rule” che imponga anche alla classe politica ed ai regolatori di rispondere di fronte ai cittadini (e non solo in occasione delle kermesse elettorali) dell’effettiva attività svolta dai regolatori per evitare il ripetersi di crisi e fallimenti finanziari

Ciò che invece non va fatto:

  • lasciare il sistema finanziario in un lungo periodo (e per “lungo” si intende qualche mese nella situazione attuale ) di assenza di chiarezza normativa e regolamentare sul finanziamento del sistema bancario ed assicurativo: ciò implica un immediato “grandfathering” degli strumenti utilizzati in passato per il finanziamento dei passivi con strumenti ibridi (cosiddetti “innovativi e non-innovativi”) per garantire la continuità di accesso delle banche e delle assicurazioni agli investitori istituzionali del reddito fisso: il solo mercato del capitale azionario non può e non deve sopportare da solo questo compito e questa funzione per l’intero sistema economico e finanziario;
  • forzare il sistema all’adozione di nuovi principi contabili e fiscali tali da provocare da una parte una brusca perdita di liquidità e valore di parti rilevanti di attivi finanziati da depositanti ed investitori istituzionali, dall’altra l’impossibilità di competere e gestire correttamente le forme di approvvigionamento dei capitali necessari per garantire il funzionamento stabile e continuo del sistema di trasferimento e intermediazione del risparmio nel credito bancario;
  • introdurre ora, post-facto, ulteriori regolamentazioni e controlli che impattino decisioni e comportamenti microeconomici relativi alla gestione dell’impresa bancaria o assicurativa alterandone il naturale funzionamento aziendale a danno della concorrenza e della selezione meritocratica dei migliori operatori: a causa dei tempi della politica e dei processi regolativi complessi a livello nazionale, europeo ed intercontinentale, questi provvedimenti sono sempre stati non solo tardivi ma anche pro-ciclici e distorsivi dei principi di equità e trasparenza.

La gestione dinamica della crisi è senz’altro possibile (ed alcuni governi hanno dimostrato sicuramente di avere il senso e la capacità degli interventi di urgenza) ma richiede, da una parte, molto più tempo e determinazione da parte di tutti gli attori coinvolti, dall’altra grande attenzione a mantenere un po’ di pressione ed abbrivio nelle vele del sistema, che si trova ora in una zona di pesante bonaccia, evitando con cura di dare continui colpi di barra al timone, tanto illusori quanto inutili per riprendere una buona navigazione.

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Franco Debenedetti: il private equity non lascia un cimitero /2009/12/22/franco-debenedetti-il-private-equity-non-lascia-un-cimitero/ /2009/12/22/franco-debenedetti-il-private-equity-non-lascia-un-cimitero/#comments Tue, 22 Dec 2009 17:26:28 +0000 Guest /?p=4401 Pubblichiamo questo intervento di Franco Debenedetti, crossposted su Generazione Pro Pro.

Finanza predatrice, secondo Dario Di Vico, quella del private equity: in 10 anni, sotto i suoi “ferri” sarebbero uscite “più macerie che vero sviluppo”. Sotto accusa sono i buy out, cioè le operazioni con cui i fondi comprano imprese, le rendono efficienti con scelte che la proprietà non aveva capacità o volontà di prendere, e le rivendono.

Avrebbero orizzonti temporali limitati: ma il loro mestiere non è costruire conglomerati, bensì smontarli; e se in 3 anni non si riesce a produrre discontinuità, meglio passare la mano. Farebbero ricorso smodato della leva finanziaria: l’equivalenza teorica tra finanziamento in equity e in debito dimostrata da Franco Modigliani, può produrre dolori in momenti di stretta creditizia. Ma la leva media (in Italia di 1,9 volte), è poca cosa rispetto alle operazioni immobiliari a debito che hanno riempito le cronache: le banche han lavorato mesi per risolverle, un private equity mai le avrebbe fatte.

I “barbari alle porte” alla fine degli anni 80 hanno promosso la grande ripresa dell’economia americana. Da noi, Prysmian vale in Borsa più della Pirelli di cui faceva parte; Moncler è stata salvata dal  fallimento; Galbani e Sisal continuano ad andare bene; Morgan Grenfell non riusciva a mettere a posto la Piaggio, ma col successivo cambio di proprietà è ritornata a casa del suo investimento, e ora l’azienda guadagna e cresce.

Nessuno ha detto che sia sempre la ricetta giusta, né che riesca a tutti, né sempre: d’altra parte nessun successo è per sempre. A Di Vico non piace il capitalismo delle grandi famiglie salvato da Cuccia. Non l’OPA alla Colaninno, che non fu private equity, perché il debito rimase in capo all’Olivetti e non alla Telecom, e l’operazione per abbatterlo, approvata dal mercato, fu bloccata da un’inchiesta della magistratura, che poi l’archiviò dopo cinque anni.

Non il private equity: ha operato, scrive, “la più grande operazione di politica industriale del nostro Paese”. Un paradosso, dato che l’”ideologia” del private equity è l’assenza di disegno, sia sulle direzioni dello sviluppo sia sui mezzi atti a perseguirlo. Ma un paradosso rivelatore: da noi “politica industriale” l’hanno fatta solo IRI, ENI ed Efim. Che sia questo ciò di cui anche Di Vico sente la mancanza?

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Agenda Dowd /2009/09/15/agenda-dowd/ /2009/09/15/agenda-dowd/#comments Tue, 15 Sep 2009 07:49:53 +0000 Alberto Mingardi /?p=2729 Lo scorso week-end sono stato al Freedom Fest di Parigi, un’iniziativa di Christian Michel (da tanti anni appassionato attivista libertario) condotta assieme con Liberte’ Cherie. LC rappresenta un tentativo di “liberismo grassroots”, cosa rara in Europa, ed ha avuto il suo momento di gloria alcuni anni fa, quando la fondatrice Sabine Herold organizzo’ un “contro-sciopero” di grande successo. I tempi cambiano e le persone pure, ma Liberte Cherie mi ha fatto un’eccellente impressione: ci lavorano molti ragazzi, impegnati, ottimisti.
Molti i relatori, in tre giorni di conferenza. Ho molto apprezzato il levigato cinismo di Bill Bonner, autore di Mobs, Messiahs and Markets, e ho trovato retoricamente eccellente la perorazione di Ken Schoolland sulla liberta’ di emigrare.
Ma il discorso migliore e’ stato di gran lunga quello di Kevin Dowd, un economista sempre acuto e spiritosissimo (che non guasta). Piccolo spot: Kevin, dopo aver contribuito a un nostro libretto a piu’ voci (La crisi ha ucciso il libero mercato) e’ ora leggibile in italiano con Abolire la banche centrali, una raccolta di suoi scritti sul free banking. Sara’ anche il keynote speaker del prossimo Seminario Mises.
Solo alcuni cenni sulla sua lettura della crisi finanziaria. Per Dowd, i liberisti debbono essere proprio quei “moral hazard fundamentalists” che non piacciono a Larry Summers: solo cosi’ e’ possibile svolgere, di questi tempi, la funzione del bambino della favola che dice che il re e’ nudo.
E’ importante comprendere che il peggio non sara’ passato finche’ non saranno finalmente in ordine i bilanci delle banche. Rispetto ai quali, i problemi attuali sono ben sintetizzati da questa… poesia:

A balance sheet has two sides
A right-hand side, a left-hand side
On the right-hand side, nothing is left
On the left-hand side, nothing is right.

Per ricapitalizzare le banche, i governi, presi dal panico, vi hanno iniettato denaro dei contribuenti. Meglio sarebbe stato, per Dowd, riallocare risorse passando per le regolari procedure fallimentari.
Il problema dei tempi di queste ultime (che rischiano di essere lunghissimi, “freddando” il sistema dei pagamenti”) e’ riconosciuto da Dowd, che infatti suggerisce una “agenda liberista” su tre pilastri:
1. Riforma delle leggi fallimentari;
2. Riforma dell’industria dei servizi finanziari, e in particolare della corporate governance (fino ad abolire il “privilegio” della limited liability);
3. Diminuire il peso dello Stato, anche quello dello Stato regolatore, tornando al “caveat emptor” e a principi di responsabilita’.
Possono sembrare idee folli, rispetto a quello che circola nel mainstream (ne abbiamo avuto un saggio sulla Stampa di ieri), ma sara’ il tempo a dire chi e’ piu’ pazzo.

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Bond Fantuzzi, le banche rifregano il parco buoi /2009/09/03/bond-fantuzzi-le-banche-rifregano-il-parco-buoi/ /2009/09/03/bond-fantuzzi-le-banche-rifregano-il-parco-buoi/#comments Thu, 03 Sep 2009 11:07:57 +0000 Oscar Giannino /?p=2478 Qualche notizia, come dice il buon Franco Bechis, ogni tanto i giornalisti farebbero bene a tirarla fuori. Eccone una fresca e fragrante. Anzi forse bisognerebbe dire “flagrante”, visto che è l’ennesima fregatura ai risparmiatori italiani, da parte di alcuni banchieri e finanzieri. Dopo il fallimento Lehman Brothers, da un anno viviamo nell’era della “finanza etica”. Chiacchiere da convegno, per lo più. Come testimonia il bond Fantuzzi. Sta tutto scritto in 22 pagine fitte fitte in inglese ipertecnico, l’avviso di convocazione dell’assemblea dei bondholder prevista per l’8 settembre a… Londra. Senonché i risparmiatori italiani non hanno neanche diritto di leggere il documento – in cui si spiega molto arzigogolatamente quanto ci rimetteranno – perché esso non è stato approvato dalla Consob. Forse neanche sottoposto, a dire il vero, visto che la regolazione dello strumento finanziario non avviene su piazza italiana. È una fregatura di un bel po’ di milioni di euro. Ma, per spiegarla e capirla, bisogna fare un bel passo indietro.Il gruppo Fantuzzi è – o meglio “era”, come vedremo – una holding italiana che controlla alcuni brand anche centenari come Reggiane, attiva anche internazionalmente nel settore delle gru portuali e delle soluzioni elettromeccaniche di movimentazione. Tra fine anni Novanta e inizio 2000,  la cassa inizia a piangere e i debiti bancari vanno in sofferenza. Nel 2001, la AbaxBank allora guidata da Fabio Arpe ha un’ideona. Le banche ripianano un bella fetta di propri crediti attraverso l’emissione di un bond da parte di Fantuzzi per 100 milioni di euro, poi portati a 125. La cedola è pingue, del 6,5%, la scadenza è a luglio 2004, AbaxBank per l’ideazione dell’operazione incassa tre milioni e mezzo. Dopo l’esplosione di Cirio nel 2002 e di Parmalat nel 2003, puntualmente anche il bond Fantuzzi nell’estate 2004 non viene rimborsato. L’azienda è sempre più nei guai. Le banche garanti dell’emissione insieme all’azienda riscadenzano il bond a estate 2008, e la cedola interessi sale all’8,75% per il 2006, al 9,75% nel 2007, al 10,75% nel 2008.  Viene anche inserito allora l’impegno a un sinking fund, un termine tecnico che indica l’impegno della Fantuzzi di iniziare a pagare anno per anno non solo gli interessi sull’obbligazione, ma anche rate di restituzione del capitale. Fino al 2006 Fantuzzi ne rimborsa il 28% circa, a fine 2007 un altro 32%. Restano fuori circa una cinquantina di milioni di euro, da restituire con interesse 10,75% a luglio 2008.

Nell’estate 2008, colpo di scena. Il Gruppo Fantuzzi annuncia di essere prossimo alla cessione agli americani di TEREX, solida impresa americana nello tesso ramo, quotata in Borsa per un valore di circa 3 miliardi di dollari. Senonché ci si mette di mezzo il 15 settembre, Lehman Brothers e la grande crisi, e gli americani ci ripensano: Fantuzzi non vale più i 220 milioni di euro pattuiti. Nuovo giro di vane e frenetiche offerte a imprese di mezzo mondo. A luglio 2009, TEREX richiude l’accordo per rilevare Fantuzzi, ma a 175 milioni e non a 220. E i poveri bondholder dimenticati, nel frattempo? Restano all’oscuro di tutto fino al 16 agosto scorso. Quanto il loro trustee riceve una comunicazione da Fantuzzi, nella quale si annuncia la conclusione di un accordo con la subentrante TEREX, in relazione al bond. La proposta è di rimborso per soli 27-28 milioni di euro sui 50 circa residui di capitale. E senza un solo euro versato per i due anni di interesse dovuti. Facendo la somma, se ai 22 milioni di capitale in meno sommate il 23% di interesse composto in due anni sui 50 milioni, la stangata si risolve in una trentina di milioni di euro “soffiati” ai risparmiatori.

C’è di peggio. L’accordo Fantuzzi-TEREX è già stato accolto e sottoscritto dai tre maggiori fondi d’investimento internazionali presenti nel bond: stanno in cattive acque, devono assolutamente rientrare, che cosa volete che sia qualche decina di milioni di euro per loro. È solo ai risparmiatori italiani, che la fregatura resterà sul groppone. Tanto è vero che l’assemblea dei bondholder si tiene in prima convocazione a Londra con la necessaria presenza del 75% del capitale e la maggioranza assoluta per deliberare – e andrà deserta – mentre il 22 settembre c’è la seconda convocazione dove basterà il 12,5% dei voti favorevoli – i grandi fondi d’investimento, appunto, che potranno decidere a loro comodo. Le banche italiane che avevano prestato soldi a Fantuzzi sono rientrate, in più ci hanno guadagnato soldi sul bond. Mentre ora il risparmiatore italiano non può neanche leggere la convocazione e la proposta di fregatura, perché la Consob non ha dato l’ok. Il mio consiglio a chi ha bond Fantuzzi è: organizzatevi, votate contro, fate causa a TEREX che ha asset solidi, per farvi ripagare il dovuto. Ma una cosa mi sembra certa: i media italiani dovrebbero montare casini inenarrabili su vicende come questa, invece di farle passare sotto totale silenzio.

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Private equity. I pregiudizi di Mucchetti /2009/08/20/private-equity-i-pregiudizi-di-mucchetti/ /2009/08/20/private-equity-i-pregiudizi-di-mucchetti/#comments Thu, 20 Aug 2009 04:35:06 +0000 Guest /?p=2217 Riceviamo e pubblichiamo da Galeazzo Scarampi, membro del Board of Trustees dell’Istituto Bruno Leoni.

Ma come si fa a ragionare partendo dall’ assunto che qualcuno possa o debba decidere se: “in generale lavorare così fa bene al sistema o contribuisce a metterlo a rischio?”.
Il dibattito sulla creazione di valore rispetto al rischio da parte del private equity e su quali siano i drivers di tale creazione (quanto conti la deducibilità degli interessi, o la leva finanziaria. o l’ aumento di performance relativa al settore, o la differenza fra i prezzi di acquisto e di vendita, o gli incentivi al management) e’ ampio ma evidentemente Massimo Mucchetti, autore sul tema di un recente articolo sul Corriere della sera, non ha avuto tempo di esaminarlo.


Si possono qui citare due riferimenti per tutti, che riassumono bene il dibattito:
a) Michael C. Jensen,, “The Economic Case for Private Equity (and Some Concerns)”, Harvard NOM Working Paper No. 07-02, Swedish Institute for Financial Research Conference on The Economics of the Private Equity Market.
b) Steven N. Kaplan & Per Johan Strömberg, “Leveraged Buyouts and Private Equity”, 2008.
Cito dalle conclusioni di Michael Jensen:

I present in these slides my belief, first argued in my 1989 Harvard Business Review paper entitled The Eclipse of the Public Corporation that Private Equity is best thought of as a new and powerful model of General Management. I also summarize some important characteristics of Private Equity that contribute to value creation, how Private Equity generally implements Strategic Value Accountability (what I have labelled the missing concept in corporate governance) much better than the public corporation, and how Private Equity avoids much of the out-of-integrity gaming and lying that dominates the relations between public firms and capital markets. I close by summarizing some growing problematical trends and practices that threaten the success of this new business model and the future of the Private Equity industry (in particular the threat posed by the proliferation of non-equity based fees charged by Private Equity firms, and the going public of the core management private equity company such as that by Fortress and Blackstone and the raising of permanent public capital to substitute for the non-permanent limited partnership capital such as that by KKR in Europe).

Le conclusioni a cui pare giungere la ampia letteratura disponibile sono molto diverse da quelle a cui pare arrivare Mucchetti, ed in particolare:
·        la distribuzione dei risultati delle operazioni di private equity è molto allargata, ed i fondi nel miglior quartile di performance hanno un rendimento risk adjusted molto superiore alla media, e così quelli nell’ultimo quartile sono molto peggiori della media. Dunque la scelta del gestore è cruciale e non si può fare di ogni erba un fascio.
·        I rendimenti sono fortemente caratterizzati da “vintage” o “annate”: quando la raccolta è abbondante, i rendimenti scendono, e quando la raccolta di capitali è difficile, i rendimenti successivamente salgono. Paradossalmente è molto meno rischioso e probabilmente più redditizio investire in private equity nel 2009 di quanto non lo fosse nel 2007. Eppure nel 2007 era facile raccogliere capitali, ed attualmente è assai arduo….
·        Il ‘danno economico’ risultante dai fallimenti di operazioni di private equity (che è un fatto inevitabile) è piuttosto limitato (Kaplan e Stromberg lo quantificano nel 20% del valore aziendale); ciò proprio per l’ uso della leva finanziaria; nei fallimenti (vedi anche i casi recenti) viene penalizzata l’ equity, mentre le perdite delle banche sono minime, ed i nodi vengono al pettine abbastanza rapidamente. La distruzione di valore effettuata negli anni da public companies è molto superiore: le perdite subite nell’ ultimo decennio dagli azionisti di General Motors o degli ex monopolisti Telco Europei sono pari a tutta l’equity investita in buyouts negli stessi anni… Come è ben noto, la distruzione di valore verificatasi nel settore bancario ed assicurativo negli Stati Uniti non è per nulla riconducibile al private equity, bensì alle cartolarizzazioni immobiliari e del credito al consumo, nonché all’ uso delle “credit derivatives”, a cui il private equity è essenzialmente estraneo.
Perché allora tanta preoccupazione verso i buyouts? La chiave, ritengo, va cercata nella tesi di Jensen, secondo cui i buyouts sono un modello di governance alternativo alla public company, che è afflitta da un grave problema di agenzia. L’ ecosistema della borsa vede malvolentieri sottrarsi capitali e potere….
In effetti le migliori operazioni di buyout nascono spesso acquistando divisioni di public companies che sono gestite in modo sub-ottimale. In Italia non vi è stata solo Prysmian, ma anche Fiat Lubrificanti. In realtà nel nostro paese, come è noto, le grandi public companies non sono molte: in altri paesi, dove queste sono prevalenti si trovano molte operazioni di successo di questo tipo: si pensi a Detroit Diesel (da GM), Hertz (da Ford), Dometic (da Electrolux), MTU/Tognum (da Daimler), Memorex o Seagate, per citare alcuni casi fra i molti.
Certamente investire in private equity non è per tutti, e come mostrano Kaplan e Stromberg, solo alcuni investitori istituzionali hanno avuto dei risultati stabilmente positivi nel medio periodo (vedi ad esempio Yale Endowment), mentre i piccoli investitori privati hanno raccolto le briciole o le perdite. Antonio Foglia e’ fra quanti autorevolmente ritengono che il PE non crei valore per gli investitori privati.
Purtroppo la componente di invidia (relativa alle fees) e’ sempre presente. Almeno per i fondi italiani (SGR) l’ appunto in merito alla fiscalità è fuori bersaglio: le commissioni di performance incassate dalle SGR Italiane sono soggette a normale aliquota di imposta.

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