CHICAGO BLOG » federalismo http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Se la Sicilia può dare il buon esempio (una volta tanto…) /2010/10/08/se-la-sicilia-puo-dare-il-buon-esempio-una-volta-tanto%e2%80%a6/ /2010/10/08/se-la-sicilia-puo-dare-il-buon-esempio-una-volta-tanto%e2%80%a6/#comments Fri, 08 Oct 2010 12:32:02 +0000 Luciano Lavecchia /?p=7236 Il nuovo Governo regionale di Raffaele Lombardo (il quarto dalla sua elezione, avvenuta nell’aprile 2008) ha iniziato con una serie di annunci all’insegna dell’austerity: taglio del 10% dell’indennità degli Assessori (circa 4000€ su uno stipendio di 19.000), delle auto blu e soprattutto, la volontà di tagliare le “Province Regionali” e gli enti inutili (che entro 60 giorni verranno identificati e soppressi, dice…);

In tempi di crisi, il taglio della spesa pubblica improduttiva è una priorità nelle agende dei governatori, che vedranno i loro budget decurtati notevolmente nei prossimi anni e il taglio delle Province è da diversi anni sotto i riflettori: giudicate inutili dai più (le competenze principali sono viabilità stradale provinciale e gestione delle scuole superiori), nel tempo non hanno ricevuto competenze aggiuntive rilevanti (la polizia provinciale ad esempio) e i costi stimati dalla loro eliminazione (con ripartizione del personale fra i comuni, i.e. perdita solo degli incarichi politici) sono stati stimati in circa 135 mln per il 2010 dal Ministro Tremonti (che però giudica i risparmi irrisori… invece tagliare l’insegnamento della seconda lingua nei licei è giudicato più produttivo..)  e in 1,9 mld da uno studio di Andrea Giuricin di IBL. Premesso che qualsiasi taglio di spesa improduttiva non può che trovarmi favorevole, rimane da capire se questo è realizzabile politicamente. Può Giulio Tremonti (a.k.a. Voltremont per gli amici www.noisefromamerika.org) mandare a  casa 4207 politici, fra i quali molti appartenenti alla Lega Nord? E la stessa Lega, non aveva forse fatto dell’abolizione delle Province il suo cavallo di battaglia? Fine delle considerazioni “politiche”. Torniamo alla Sicilia: con un PIL che nel 2009 si è contratto del 2,7% (vs. -4,3% del Mezzogiorno e -5% dell’Italia) , 80.000 precari stimati che dipendono dalla P.A., ed il fallimento della gestione dei fondi comunitari per il 2000-2006 , il Governatore Lombardo ha deciso, meritoriamente, di tagliare i rami secchi: lo Statuto della Regione Siciliana, che precede la nascita della Repubblica ed ha rango di legge costituzionale, prevede infatti (fra tante altre chicche) all’art. 15, comma 1, l’abolizione delle province che sono state re-introdotte con una legge ad hoc nel 1986 (Legge regionale n. 9 del 6 Marzo 1986), con l’escamotage di quel “regionale” accanto a “Provincia”.

La Giunta Regionale Siciliana proporrà un disegno di legge che ne determini l’abolizione, trasferendo il personale ai vari comuni e ad appositi consorzi fra i comuni. Da un punto di vista politico, il Governatore ha tutto l’interesse per farlo (i Presidenti delle 3 province più grandi sono tutti suoi oppositori politici) e inoltre potrebbe spendere il buon impegno della Sicilia per intaccare lo stereotipo del Sud parassita. E’ inutile dire, che quale che sia lo scopo politico del Governatore, il successo del caso Sicilia metterebbe in moto un processo nazionale che porterebbe all’abolizione delle province in tutta Italia (confidando nell’orgoglio degli elettori duri e puri della Lega!). Adesso bisogna mantenere l’attenzione sul Presidente Lombardo affinchè onori i suoi impegni, e sui suoi oppositori politici affinchè si assumano la responsabilità politica di voler mantenere un sistema di poltrone che andrebbe eliminato e che, in virtù dei poteri speciali della Regione Siciliana, potrebbe essere fatto senza ricorrere a modifiche della Costituzione.

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Prima di spostare i ministeri, spostiamo il ministro… /2010/09/17/prima-di-spostare-i-ministeri-spostiamo-il-ministro/ /2010/09/17/prima-di-spostare-i-ministeri-spostiamo-il-ministro/#comments Fri, 17 Sep 2010 06:58:27 +0000 Luciano Lavecchia /?p=7065 Le dichiarazioni del ministro Calderoli possono fare pensare all’ennesima boutade dell’esponente leghista: una volta propone la castrazione chimica per gli stupratori, un’altra volta porta a passeggio dei maiali, oggi propone di spostare i ministeri… domani, leghisti su marte! In tempi di crisi (e quanto dura sta crisi!), c’è bisogno di ridere ogni tanto..

Tralasciando il fatto che un Ministro della Repubblica (italiana…di questi tempi è bene specificarlo) dovrebbe evitare di parlare a sproposito, le sue intenzioni sembrano serie: “La legge che ha stabilito il governo a livello della Capitale, la 33, è del 1871 e parla di “governo centrale” senza precisare, quindi, quali dicasteri dovrebbero essere a livello della Capitale. Ma dato pure per scontato che così sia credo che qualunque legge successiva possa modificare quella legge ordinaria, perchè nulla si dice nella Costituzione». Insomma, Calderoli si è persino informato sul fondamento giuridico delle sue pretese, sintomo che la cosa potrebbe avere seguito (anche se il ministro ha precisato di aver parlato come esponente della Lega Nord, non come ministro). Urge allora fare una riflessione sulle (deliranti) esternazioni del ministro: «Io metterei il ministero dell’Interno a Palermo piuttosto che a Reggio Calabria, quello dell’Ambiente a Napoli, le Finanze a Milano e lo Sviluppo economico a Torino». Forse al ministro sfugge che solo di costi di trasferimento di attrezzature e, soprattutto di personale, questo giochetto costerebbe uno sproposito (e sarebbe interessante calcolarlo prima di fare affermazioni di tale stupidità), a  meno che il ministro non pensi ad un licenziamento di massa dei dipendenti pubblici coinvolti e relativa sostituzione con personale locale (assist per Brunetta!);

Andiamo per ordine: Milano ha un senso logico (l’unico come vedremo), in quanto principale piazza finanziaria del nostro paese; ciò non toglie che non sia possibile (e forse auspicabile) una separazione fra centro di potere politico ed economico, basti pensare a Washington e Wall Street.

Passiamo adesso alle altre proposte: Sviluppo Economico a Torino; certo, c’è la FIAT, avrà pensato il brillante esponente dal sole delle Alpi: peccato che il contribuente italiano abbia dato (e continui a dare), dunque, anche in questo caso, sarebbe meglio evitare. Le ultime due sono esilaranti e dimostrano la (perversa) logica che guida le azioni del ministro, almeno quando pensa al Sud; seguitemi: a Napoli c’è stata (e c’è ancora..) una enorme crisi ambientale derivante dalla cattiva gestione del sistema dei rifiuti e dalle infiltrazioni della Camorra? Allora trasferiamo il Ministero apposito! Sulla scia, quale miglior posto per il Ministero degli Interni della capitale della mafia (Palermo) e della ‘ndrangheta (Reggio Calabria)? Fin qui le proposte del ministro, ma è facile continuare il giochetto e ci permettiamo di suggerirne alcuni: a Messina il Ministero della Salute, Potenza per il Turismo, Lampedusa per gli Esteri e per finire, Coverciano per lo Sport.

Sappiamo tutti qual è l’obiettivo ultimo del Ministro: la  Difesa nella sua Berghem, vicino alle sue care, cammellate ronde padane. Giovani laureati siete avvisati: se conoscete il bergamasco (de hura, però), preparatevi: presto servirà qualcuno per tradurre i documenti ministeriali..

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Il Sud, il federalismo e le cattive abitudini PdL /2010/08/18/il-sud-il-federalismo-e-le-cattive-abitudini-pdl/ /2010/08/18/il-sud-il-federalismo-e-le-cattive-abitudini-pdl/#comments Wed, 18 Aug 2010 11:45:08 +0000 Oscar Giannino /?p=6825 L’attacco ferragostano dell’onorevole Bossi ha avuto il merito di puntare il dito su una verità che finora raccontavano solo i giornali. La verità è che, nella frattura tra Berlusconi e PdL da una parte e Fini e la neonata Futuro e Libertà dall’altra, il Mezzogiorno è il tema decisivo e centrale. Più della giustizia, più delle tasse, più di tutto il resto. Ad alcuni poteva sembrare che fosse suggestione, che si trattasse di esagerazione. Al contrario l’accusa di Bossi – “Fini e si suoi vogliono un po’ di soldi da sprecare al Sud” – conferma che, quando si tratta di indicare alla propria base il problema numero uno della frattura nel centrodestra , è proprio al Sud che ci si riferisce. Tanto che è anche già cominciata la rituale serie di pensosi editoriali di grandi testate d’informazione, che da una parte riconoscono il problema e dall’altro invocano sia i colonnelli di Berlusconi sia quelli di Fini ad evitare una deriva pericolosa: quella, cioè, di una gara improvvisa tra chi più si posiziona davanti all’elettorato del Mezzogiorno invocando la propria primazia, nell’impedire che l’agenda del governo finisca per svantaggiare ulteriormente il Sud. E’ un rischio concreto? Sì che lo è, almeno a mio avviso. Ma, per come si son messe le cose tra PdL e Fini, non credo affatto che si possa risolvere con qualche generico e moralistico appello a moderare i toni. Partiamo da tre dati di fatto. Il primo è che tutti i sondaggi mostrano che la stragrande maggioranza di elettori del Sud hanno la convinzione che in questi anni il Nord abbia avuto la meglio, nelle attenzioni concrete del governo e nelle risorse. E’ vero, non è vero? Non è vero, visto che finora le cose sono ontinuate più o meno esattamente come in passato, Tremonti ha  stretto i cordoni della borsa ma non aveva titolo per cambiare criterio di alocazione delle riorse. Ha dato dei “cialtroni” agli amminitratori del Sud , spreconi e recriminanti, questo sì. Cosa che ha confermato a moltisimi elettori del Sud la falsa mpressione di essere spodestati. E’ purtroppo secondario che di fatto non si cambiato pressoché nulla, quel che conta per delle forze politiche desiderose di contarsi e pesare è che l’elettorato che mirano a rappresentare la pensi così.

Secondo. Da 16 anni la Lega ha saputo vendere al Nord con crescente successo e consenso la convinzione che solo con il federalismo spinto – pur senza mai entrare in particolari e numeri, ciò che solo in realtà fa la differenza – aupicato da Bossi e dai suoi, il Nord riequilibra a proprio vantaggio l’eccesso di risorse che dà allo Stato rispetto a quelle che si vede tornare indietro, pur spendendo in media meno e meglio. Rispetto a questo, in 16 anni nel Sud il consenso elettorale, alle politiche come per le Autonomie, ha visto le diverse componenti tanto della sinistra quanto della destra ripetere in realtà – al di là del colore delle bandiere – esattamente la stessa cosa. E cioè che, appunto, quello a sé era il miglior voto per equilibrare quello dato al Nord alla Lega. Gli elettori del Sud pensano la Lega sia debordante nel centrodestra non tanto perché neghino gli aiuti finanziari straordinari che in realtà Tremonti ha autorizzato solo in casi eccezionali nel Mezzogiorno, ma perché se lo son sentiti ripetere da anni in primis dai candidati alle elezioni dello stesso PdL

E’ da questi due dati di fatto, che deriva il terzo. Se rottura finale dovesse essere tra Berlusconi e Fini, come i toni sembrano sin qui continuare a indicare, allora è ovvio che a essere in condizione di avvantaggiarsi della cosa alle elezioni, presto o tardi che siano, sono proprio Bossi da una parte al Nord, e al Sud Fini e i suoi, seguaci e futuri alleati.

Sono Berlusconi e il PdL, nelle condizioni attuali, a rimetterci di più. Bossi al Nord avrebbe buon gioco a dire agli elettori di centrodestra che è meglio votare direttamente Lega, visto che in caso contrario il federalismo vien promesso vien promesso, ma poi di fatto ancora una volta come sempre non arriva mai. Al Sud. a Fini a quel punto converrebbe far AntiLega con Lombardo e Micciché e, aggiungo, con tutte le Poli Bortone inascoltate dai colonnelli PdL, e che se sinora sembrano più vicine a Berlusconi è sol perché da quella posizione – sulla carta, la più forte – si è poi in migliori condizioni, per trattare poi al momento buono gli sviluppi più convenienti. Un PdL che non portasse a casa i premi di maggioranza in Sicilia e anche solo poco più che in Sicilia, nel resto del Mezzogiorno, con la Lega in crescita ulteriore al Nord comunque al Senato non avrebbe la maggioranza, con l’attuale legge elettorale.

Per evitare questo rischio, meglio sarebbe stato se Berlusconi e la Pdl negli anni scorsi avessero parlato al Mezzogiorno una lingua chiara e univoca. Capace cioè di ammettere che nel Mezzogiorno in media c’è un eccesso di spesa pubblica discrezionale, e cioè acquisti stipendi e sussidi dove il rapporto tra Sud e Nord è di 125 a 100, perché la politica ha preferito moltiplicare i redditi indotti dal settore pubblico, alla ricerca di voti. Ma altresì aggiugendo che in ogni caso c’è Sud e Sud, visto che sommando tutte le componenti Puglia e Campania figurano più tra tre le creditrici che le debitrici rispetto a Calabria, Basilicata e Sicilia dove il riequilibrio è inevitabile e deve essere pure molto energico. E, infine, ribadendo come garanzia agli elettori che l’orizzonte temporale della convergenza verso la virtù sarebbe stato adeguato: diciamo da 5 ma anche fino 10 anni, per chi vi è più distante come Calabria e Sicilia.

Difficile immaginare che, essendo mancata questa chiarezza per 16 anni, venga proprio ora e sia scritta nel punto “Mezzogiorno” che Berlusconi ha ormai pronto, da sottoporre a Fini prima che, a inizio settembre, l’annuncio ormai scontato di un partito nuovo diventi anche la tomba della maggioranza. Per questo continuo a pensare che se Berlusconi non ha già deciso comunque di provare la via elettorale, allora non solo sul Sud dovrà indicare impegni il più possibile precisi – il punto non sono gli 80 miliardi fondi FAS e di coesione europea di cui si occupa Fitto e che bisogna sperare vengano sbloccati su poche priorità vere condivise dalle Regioni che hanno potre di veto, invece che su mille progettoi inutili, il punto sono i numeri del federalismo che sin qui mancano nei decreti attuativi della delega -  ma soprattutto dovrà anche essere disposto a concedere che sia un esponente finiano, a rappresentare quegli impegni nell’agenda, nella composizione e nelle attribuzioni del governo stesso.

Per me, sbaglierò ma resta del tutto improbabile. In quel caso, comunque la pensiate su Fini rispetto al patto elettorale sottoscxritto due anni fa con gli elettori, il PdL può però prendersela solo con se stesso.

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Modesto consiglio sui cento giorni di Zaia in Veneto /2010/07/22/modesto-consiglio-sui-cento-giorni-di-zaia-in-veneto/ /2010/07/22/modesto-consiglio-sui-cento-giorni-di-zaia-in-veneto/#comments Thu, 22 Jul 2010 11:01:08 +0000 Oscar Giannino /?p=6615 Modesto consiglio a Luca Zaia, presidente del Veneto. “Prima delle elezioni è opportuno dire che le si vincerà perché si hanno buone idee, e solo dopo averle vinte è il caso di dimostrarlo”. Era il buon Winston Churchill a parlare così. Ma ai suoi tempi la televisione non esisteva, e i giornali a contare erano due, perché ai tabloid pomeridiani per pendolari un premier britannico non rivolgeva neanche la parola. Neanche a Churchill del resto andò sempre bene, visto che due volte da giovane sfumò l’elezione ai Commons, e infine, appena vinta la seconda guerra mondiale, Downing Street gli fu sottratta alle urne dal laburista Eden. Ma se non è andata liscia neanche a Churchill, la lezione da trarre è una sola. A un politico che ha vinto  ancora da poco le elezioni, i conti delle promesse già mantenute è meglio farli ragionando, che incarognendo. Questa sarà la regola a cui mi atterrò, per i cento giorni ormai già più che trascorsi, dacché Luca Zaia è alla guida del Veneto.

Nei giorni recenti su varie testate, dal Corriere del Veneto al Foglio, non glie le hanno risparmiate, a Zaia. Che, in effetti, era stato larghissimamente ottimista, nell’indicare in cento giorni il termine entro il quale avrebbe prodotto un nuovo regolamento d’aula, per attenuare i diritti all’ostruzionismo e rafforzare i poteri di governo, nonché nel dare scadenza entro fine anno, per l’appuntamento con il nuovo Statuto regionale. Quando si tratta di adempimenti che ricadono appieno nei poteri delle assemblee elettive, chi è alla testa di un governo – nazionale o regionale poco importa – dovrebbe sapere che anche le maggioranze più ampie e coese prendono tempo e moltiplicano i propri punti di vista. Quanto alle Olimpiadi 2020 e alle finali di Miss Italia a Jesolo, la buona volontà di Zaia non poteva far la differenza. Mentre invece, sui costi della politica, le intenzioni in qualcosa di concreto si sono tradotte, vista la riduzione degli emolumenti agli assessori – sia pure espressa in un poco più che simbolico 5% – e il dimezzamento da 12 a 6 dei dirigenti apicali della macchina amministrativa regionale.

A mio modo di vedere, però, si fa torto a una vittoria alle urne del 60% se la si misura su questo. Diciamo allora che ci sono almeno due vie diverse, per tentare un primo bilancio del dogato Zaia. La prima è molto battuta: consiste nel misurare al bilancino il seguito personale di Zaia nella Lega, rispetto a quello di altre figure “pesanti” del movimento in Veneto, come il sindaco di Verona Flavio Tosi, il capogruppo al senato Federico Bricolo, il capogruppo leghista alla regione Federico Caner, il sindaco di Treviso Giancarlo Gobbo, e via continuando maggiorente per maggiorente di qual grande partito popolare che è oggi la Lega in Veneto dopo la sua fortissima affermazione. Questa via, però e secondo me, interessa meno i veneti, per quanto capisca bene che intrighi invece il giornalismo, che campa anche strologando sulla maggior vicinanza o distanza di Zaia rispetto a ciascuno degli altri capi leghisti veneti, rispetto al Re Sole della Lega che resta sempre Umberto Bossi.

C’è poi una via diversa. Quella che aspetta di capire non i primi cento giorni, ma i primi atti che Zaia compirà in grado di far davvero intendere quali e quanto buone siano le sue idee, ma solo dopo aver vinto le elezioni. Proprio come diceva Churchill. Diciamo allora che ci sono almeno tre questioni davvero essenziali, al di là delle promesse elettorali, su cui misurare ciò che da Zaia è lecito attendersi. La prima è istituzionale. La seconda è politica. La terza è economica. Ma io inverto l’ordine, e comincio proprio da quest’ultima.

La questione economica è quella disegnata dal rapporto della Fondazione Nordest fresco di stampa, e che abbiamo illustrato la settimana scorsa. In sintesi estrema, il Veneto è oggi la Regione più manifatturiera d’Italia. Difende questa peculiarità nella crisi mondiale meglio di quanto si temesse. E, di conseguenza, per il governo regionale e chi lo guida rappresenta una sfida: Zaia si trova ad essere il governatore regionale che potrà contare naturalmente sul miglior rapporto con Confidustria di ogni suo collega del Nord. E parliamo delle confindustrie veronesi, vicentina, trevigiana: tranne Assolombarda, le più forti d’Italia. L’industria veneta è diffusa, internazionalizzata, impegnata in uno spettacolare sforzo di creazione di valore all’estero migliorando le catene di fornitura. Uscendo dai vecchi distretti con cui si facevano economie di scala per la domanda interna. Se l’agronomo Zaia prende la testa del movimento industriale del Nordest che a palazzo Balbi chiede non incentivi ma un modello di “rete d’impresa” su cui commisurare consolidati fiscali per le tasse e bond di filiera da chiedere alle banche, c’è un futuro per il suo governo da banco di prova nazionale delle politiche economiche.

La questione politica e quella istituzionale sono collegate, perché sono la stessa: il federalismo, nella sua traduzione di autonomia impositiva rispetto al Centro, e nel peso che le Regioni virtuose del Nord sapranno esercitare insieme rispetto a Roma, dove sarà forte – anche nel Pdl è forte – il richiamo al solidarismo per le scassate Regioni del  Centrosud. Se Zaia osa, c’è una partita del Nord che unisce le Regioni guidate dalla Lega alla Lombardia di Formigoni. Se Zaia presta invece orecchio alla politica romana, allora Veneto e Lombardia si dividono, perché tra Tremonti, Berlusconi e Letta nel Pdl vi sono oggi più cose di quanto nella filosofia della battuta dell’Amleto. Inutile dire che, dal mio punto di vista, Zaia e la Lega dovrebbero osare. Ma è dall’industria e dalla produttività dei servizi alla persona e all’impresa, che devono partire. Perché il Veneto che si trovano a guidare è, davvero, un modello per l’Italia e per farla uscire dalla crisi.

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Dedicato ai veneti. Nooo, anche la Lega fa le ronde antievasione… /2010/07/17/dedicato-ai-veneti-nooo-anche-la-lega-fa-le-ronde-antievasione/ /2010/07/17/dedicato-ai-veneti-nooo-anche-la-lega-fa-le-ronde-antievasione/#comments Sat, 17 Jul 2010 17:08:55 +0000 Oscar Giannino /?p=6581 Letto stamane che la Lega farà ronde antievasione, ho mandato questo scorato editoriale al Gazzettino, che lo pubblicherà domani. Ronde anti-spesa e anti-Stato, altro che anti-evasori, questa è la nostra sempre più solitaria proposta.

Può esser contento, Giulio Tremonti. Prima ancora che la manovra, approvata dal Senato, superi l’esame di Montecitorio, dopo le tante critiche prendono a manifestarsi anche reazioni positive. Tra le quali una delle più significative è l’entusiasmo degli amministratori dei Comuni per il 33% di gettito che resterà nelle loro casse, per ogni accertamento che condurranno in proprio al fine di stanare gli evasori fiscali. Era una decisione da anni promessa e che per i Comuni può significare molto, visto che anche i più virtuosi tra loro si trovano impediti nell’utilizzo dei residui attivi, per effetto del bislacco Patto di stabilità interno che impedisce alle municipalità di considerare le risorse da esse risparmiate come a loro disposizione. In più, se oltre 5mila Comuni su 8mila, cioè tutti quelli inferiori ai 3 mila abitanti, saranno obbligati ad associarsi invece di replicare ciascuno uffici e dipendenti di troppo – in Giappone in 3 anni con questa stessa logica oltre 4 mila municipalità sono state abrogate, noi ci fermiamo a mezza strada ma è un passo avanti, se a Montecitorio la lobby dell’ANCI non ci mette lo zampino – in realtà Tremonti ha messo sul piatto delle Città una nuova succulenta portata.

E’ l’imposta municipale unica, il nuovo pilastro dell’autonomia federalista comunale che, unificando tutti i tributi sin qui dovuti sugli immobili, aggiungendo all’ICI seconda casa le imposte ipotecarie, catastali e la cedolare secca sugli affitti, porterà nelle casse comunali la bellezza di 25 miliardi.

L’entusiasmo produce i primi effetti. Mi riferisco all’invito che la Padania ha rivolto ai sindaci e amministratori leghisti al fine di organizzare “ronde antievasione”. Invito ripreso con convinzione dal sindaco leghista di Cittadella in provincia di Padova, Massimo Bitonci, fresco anche di nomina a vicepresidente del’ANCI. Dopo anni di a volte aspra polemica nei confronti della Lega, accusata di secessionismo, antipolitica e di larvata simpatia per gli evasori, è una nuova tappa verso la piena istituzionalizzazione del movimento di Bossi, ormai forte nel Nord di consensi tali da farne pressoché ovunque pilastro essenziale dei governi locali, e sempre più decisivo anche nel centrodestra nazionale.

Ma ora che la Lega si somma all’union sacrée a difesa del fisco contro i furbi, c’è anche un’altra riflessione da fare. Non vorrei che scattasse la trappola che è la vera forza dello statalismo. Quella per cui le imposte sono troppe e “cattive” sinché è qualcun altro a deciderne l’allocazione di spesa. Mentre improvvisamente diventano “buone”, quando al posto di quel qualcun altro tanto criticato ci si siede infine alla sua poltrona.

E’ il caso di ricordare a chiunque ricopra incarichi politici che il problema numero uno nel nostro Paese è l’eccesso d’imposta. E che l’eccesso di furbi è un prodotto dell’eccesso d’imposta cioè di spesa pubblica, non viceversa. Se anche la Lega dimentica questa ferrea concatenazione logica, stiamo freschi. Vorrà dire che restiamo ancora più soli, nel batterci contro l’esosità di una politica che in Italia resta dannatamente abituata a mettere troppo becco nel reddito nazionale, visto che la spesa pubblica è al 53,5% del Pil. E visto che, al netto dell’economia sommersa, la pressione fiscale italiana è di 7 punti superiore alla Francia, di 10 alla Spagna, di 15 alla Germania, di 16 del Regno Unito, di 20 dell’Irlanda, di 27 degli Stati Uniti.

La domanda diventa: anche la Lega si è convinta di quel che per anni hanno ripetuto Visco e Padoa-Schioppa, sinistre e statalisti di tutte le sigle e bandiere, e cioè che solo se prima si stanano gli evasori sarà possibile abbattere le imposte su chi le paga? Non voglio crederlo. Possiamo solo sperare che la Padania e Bitonci non ci abbiano pensato bene, prima di partire in quarta con l’idea delle ronde. Perché lo slogan “se non becchi l’evasore non ti taglio le tasse”, per quanto nobile e giusto possa apparire di primo acchito è stata sin qui la bandiera di chi difende come intoccabile la spesa pubblica da rapina praticata in Italia. Rapina alle imprese e ai lavoratori insieme, visto che su entrambi pesa in maniera abnorme il prelievo. Rapina ancor più ingiusta in terre come il Veneto, che in tutte le graduatorie di stima d’evasione per le diverse imposte, dirette e indirette, è la seconda o la terza Regione tra le più virtuose, con tassi pari a meno della metà e talora a meno di un terzo di quelli del Sud.

Una Regione i cui dipendenti complessivi costano per abitante circa 30 euro, rispetto ai 53 del Lazio, ai 187 del Molise e ai 349 della Sicilia, a mio modesto avviso non ha bisogno di ronde antievasione, ma di ronde antitasse. E se anche la Lega ha cambiato idea, poveri noi tutti e voi che leggete. «La frode fiscale non potrà essere davvero considerata alla stregua degli altri reati finché le leggi tributarie rimarranno vessatorie e pesantissime e finché le sottili arti della frode rimarranno l’ unica arma di difesa del contribuente contro le esorbitanze del fisco». Queste parole le scriveva Luigi Einaudi sul Corriere della Sera. Era il del 22 settembre 1907. Allora, la pressione fiscale era più bassa di 26 punti di PIL, rispetto a oggi.

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I tagli alle Regioni e il federalismo promesso /2010/06/28/i-tagli-alle-regioni-e-il-federalismo-promesso/ /2010/06/28/i-tagli-alle-regioni-e-il-federalismo-promesso/#comments Mon, 28 Jun 2010 12:51:52 +0000 Oscar Giannino /?p=6393 Chi ha ragione e chi ha torto tra le Regioni e il Governo, sulla manovra correttiva dei conti pubblici? Le Regioni, se i tagli non vanno insieme a uno schema preciso per l’individuazione di come funzionerà il federalismo fiscale, per premiare le più efficienti. Il Governo, se però si guarda complessivamente al contributo necessario per il contenimento del deficit. Cerchiamo di capire, numeri alla mano.

Le Regioni sostengono che la manovra è irricevibile nella parte che le riguarda. Per quelle a statuto ordinario, la manovra dispone nel 2011-2012 minori trasferimenti per le funzioni loro delegate dalla “Bassanini” – trasporto pubblico, sostegno all’impresa, edilizia residenziale, viabilità, ambiente – di 8,5 miliardi, più un miliardo e mezzo a carico di quelle a statuto speciale. Le Regioni lamentano che a questi tagli si aggiungono altri 7 miliardi per le ordinarie e 1,5 per quelle a statuto speciale, per il giro di vite al Patto di stabilità già disposto l’anno scorso. Dicono le Regioni che i tagli alla loro spesa biennale sarebbero di conseguenza del 13%, solo del 4% per quelle a statuto speciale, del 3% per Province e Comuni, di un misero 1,6% in capo allo Stato. Tutto questo, aggiungono, quando il loro contributo nell’ultimo quinquennio è già stato di un meno 6% alla formazione di debito pubblico, rispetto al meno 3,9% dei Comuni e al più 10%, invece, dello Stato.

Che cosa ribatte il governo? Che ad essere irricevibili sono i calcoli delle Regioni. La Ragioneria dello Stato risponde infatti che, dei poco meno di 40 miliardi di minor deficit disposti per il 2011-2013, il conto va fatto complessivamente, e cioè sul totale sia delle delle minori uscite che pesano per il 60% della correzione, sia dei 25 miliardi maggiori entrate, in parte a compensazione di maggiori spese. Computando insieme sia le minori spese sia l’impopolarità delle maggiori entrate sia le maggiori spese che vengono  dichiarate a  sostegno dello sviluppo, ecco che le Amministrazioni centrali e locali non solo hanno pesi quasi equivalenti, ma è lo Stato ad accollarsi il più della correzione: con 29,6 miliardi rispetto ai 27,3 delle Autonomie.

Tremonti aggiunge poi due argomenti che considera decisivi. Se si considera il totale delle manovre varate dal governo, a cominciare dalla pluriennale di due estati fa, lo Stato e gli Enti che controlla hanno dato il 57% del contributo alla correzione dell’indebitamento netto intervenuto, Regioni ed Enti Locali solo il 41%. Che poi lo Stato continui a indebitarsi di più di loro sui mercati è ovvio, aggiunge Tremonti, visto che il debito pubblico è nazionale, ma comprende appunto anche i trasferimenti alle Regioni: quelle stesse Regioni che, passata loro la competenza sugli invalidi, in un decennio hanno chiuso gli occhi di fronte al lievitare della spesa relativa, da 6 a 16 miliardi di euro.

L’argomento centrale di Tremonti, che lo ha spinto a dire incontrando le Regioni che possono decidere loro come ripartire tra quelle a statuto speciale e ordinario i tagli ma sull’ammontare di questi il governo non transige, sta tutto in queste due cifre: dal 1997 al 2008 la spesa corrente primaria centrale è salita del 38%, nel frattempo la spesa corrente delle Regioni e delle Autonomie è aumentata dell’80%. Anche se ciò ha riflesso in parte i trasferimenti di funzioni dal centro alla periferia col Titolo V della Costituzione nel 2001, è chiaro che si tratta di dinamiche esplosive, che soffocano l’economia e la società, che impediscono ogni speranza di ridurre le imposte.

Dall’altra parte, però, Formigoni ed Errani, alla testa della protesta delle Regioni, non hanno torto quando sottolineano che tagli di queste proporzioni oggi incidono in maniera esattamente contraria a quanto il centrodestra promette da anni con il federalismo fiscale. I tagli senza adozione contestuale del meccanismo del costo-standard, infatti, puniscono di più proprio le Regioni più efficienti. Tanto che la più colpita sarà l’unica Regione che, negli anni 2006-2008, ha ridotto la propria spesa dell’11,4%: la Lombardia, che si vede tagliati in 2 anni 1,4 miliardi aggiuntivi. Idem dicasi per il Veneto, con 640 milioni in meno, malgrado abbia aumentato la propria spesa corrente del 13% in un biennio. Cifra che può apparire alta solo a chi dimentica che nelle Regioni più inefficienti essa nel solo 2006-08 è salita di tre o quattro volte tanto: in Campania del 23%, nel Lazio del 56%, in Molise – la Regione meno toccata dalla manovra, per soli 79 milioni – addirittura del 66%.

Fino ad oggi, il Governo ha avuto un approccio più aperto con i Comuni. Partiti lancia in resta anch’essi contro i tagli della manovra, sedendosi al tavolo con il Governo è stato illustrato ai sindaci lo schema della Service Tax, che con il federalismo fiscale verrà loro attribuita come principale fonte di entrata propria, accorpando diverse imposte attuali di registro e catastali sugli immobili: per circa 25 miliardi, cifra che ha immediatamente rabbonito i Comuni. Ma sul meccanismo del costo standard per le spese primarie delle Regioni, cioè fuori dalla Bassanini – sanità, assistenza sociale e istruzione, l’85% del loro bilancio – il promesso decreto attuativo delle legge delega sul federalismo da una parte è atteso a brevissimo, dall’altra si è ancora indietro sui meccanismi per individuarlo. Tanto che è solo dell’altroieri, l’indiscrezione secondo la quale il compito di elaborarlo verrà attribuito alla Sose, la società fin qui incaricata di elaborare e correggere nel tempo e per andamenti territoriali gli studi di settore, in base ai quali pagano le imposte oltre 200 tipologie di professionisti e lavoratori autonomi. Ma ciò implicherà tempi lunghi: nel frattempo, o alle Regioni virtuose il governo dà garanzie concrete che il costo standard non si applicherà sulla base di spesa ridimensionata dalla manovra, oppure in effetti avrà ragione Formigoni, quando sostiene che la promessa della Lega è stata violata.

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Il federalismo polis-centrico. Di Mario Unnia /2010/04/08/il-federalismo-polis-centrico-di-mario-unnia/ /2010/04/08/il-federalismo-polis-centrico-di-mario-unnia/#comments Thu, 08 Apr 2010 07:05:19 +0000 Guest /?p=5618 Riceviamo da Mario Unnia e volentieri pubblichiamo.

Quale il ruolo di Milano in una Lombardia schiacciata, come un tramezzino, tra Piemonte e Veneto animati da un forte protagonismo? Si potrà ancora parlare di un primato di Milano, ovvero di una sua egemonia sull’intero Nord? Per rispondere giovano alcune riflessioni proprio sul federalismo di cui si farà un gran parlare nei prossimi mesi.

A sentire il dibattito post elettorale il grande vincitore serebbe il federalismo regionalista e il partito del territorio, grazie ai quali l’Itala si avvierebbe a vivere la sua stagione di progressivo spostamento dell’egemonia politica dallo stato (che pur vive un momento di rilancio, ma solo a causa della crisi)  alle regioni: il tutto presentato come un portato dei tempi.

Il paradosso è che in verità le cose non stanno proprio così, come insegna l’esperienza dei paesi confrontabili con il nostro. Nel grande processo di globalizzazione, rallentato dalla crisi, ma non interrotto e destinato a riprendersi e a sviluppare, non sono né gli stati e tanto meno le regioni, bensì le grandi città i luoghi in cui avviene l’intersezione tra i processi di globalizzazione e le dinamiche culturali, sociali e politiche (le due dimensioni espresse dal vocabolo ‘glocal’). In un mondo strutturato dalle reti, una di queste collega le capitali politiche, un’altra le città finanziarie, una terza le città della scienza e della ricerca, una quarta quelle della comunicazione, e così via. Ma sono i nodi che contano, perché la reti sono a modo loro gerarchiche (come a maggior ragione è gerarchica la ‘grande rete’ per antonomasia, a dispetto di quel che pensano gli ingenui navigatori) . Infatti è l’eccellenza della funzione ad assegnare ad una città la leadership nella rete di appartenenza; senonchè, la vera leadership la guadagna e la mantiene la città che si trova all’intersezione del più alto numero di reti. L’esempio emblematico è Londra, che è al tempo stesso capitale politica, finanziaria, dell’informazione, della cultura, e dello spettacolo.

Ne consegue una forte competizione tra città (dall’Expo alla Formula Uno) all’interno del sistema urbano transnazionale, trasversale rispetto agli stati, che in parte coincide, in parte no, con la competizione tra territori.  Emerge una sorta di confederazione di centri di potere urbani, verrebbe da dire una lega di potenziali città-stato. Le città che non si inseriscono in questo sistema vengono prima  o poi retrocesse a capitali di contado.

La tendenza all’affermazione del sistema urbano transnazionale sinteticamente evocato capovolge i paradigmi concettuali del federalismo, e suggerisce proprio ai fautori del medesimo una pausa di riflessione. E’ un paradosso non solo apparente, ma lo spostamento di fatto, al di là dei desideri e delle ideologie, del peso politico dal territorio ai nodi delle reti, costituiti dalle città, ridimensiona il modello del federalismo regionalista dal momento che non è la regione, e tanto meno la macroregione, il soggetto percepito come soggetto politico principale (vedi il recente comportamento elettorale). Si può aggiungere, altro paradosso solo apparente, che è proprio il territorio il soggetto sconfitto dalla globalizzazione se è privo al suo interno di un nodo di eccellenza, di una città egemone nella rete transnazionale, e questo è vero anche se molti federalisti impiegheranno tempo per rendersene conto. Va da sé che la tendenza in atto rende obsolete le ipotesi secessioniste dei territori; e, terzo paradosso solo apparente, condanna i partiti territoriali proprio nel momento in cui sembrerebbero essere i dominatori dell’arena politica.

Il federalismo cui guardare è dunque il cosiddetto ‘federalismo polis-centrico’. L’obiezione, che il federalismo polis-centrico estremizzi la frammentazione territoriale, non regge, perché proseguirà in futuro la frammentazione degli stati in unità più piccole ed emergeranno alcune città non solo in forza della dimensione, bensì anche della funzione e dell’autosufficienza fiscale. Un’ altra possibile evoluzione è verso l’expanded federalism, che comprende le città-nodo come terzo partner al fianco del governo federale e degli stati. In Usa si discute di federalismo urbano e di federalismo urbecentrico: ambedue i modelli evidenziano il posto che le città occupano nella struttura del sistema federale, tra i governi degli stati e il governo di Washington.

Occorre aggiungere che questo neofederalismo polis-centrico è il prodotto del declino della forma stato dominante nell’epoca moderna, e a modo suo è un ritorno alle origini del federalismo: evidenzia infatti la prevalenza della negoziazione e tendenzialmente del ‘contratto’ tra comunità federate, in primis le città-nodo, piuttosto che del ‘patto politico’. Dalla crisi dello stato emergerebbe  un insieme di contratti, di aggregazioni di diritti e di obblighi che hanno alla base negoziazioni di carattere privatistico, ciò che esisteva nella fase che precedette appunto la formazione e il consolidamento dello stato moderno.

In questa prospettiva Milano può evitare la fine del salame nel tramezzino. Purchè rifletta su se stessa, sui suoi assets, faccia un check up delle sue energie vitali, e si ponga l’obiettivo di diventare davvero una città-nodo nel federalismo transnazionale polis-centrico. Con una classe dirigente all’altezza della partita.

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Scajola, le Regioni e il nucleare /2010/02/04/scajola-le-regioni-e-il-nucleare/ /2010/02/04/scajola-le-regioni-e-il-nucleare/#comments Thu, 04 Feb 2010 18:41:44 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5047 Il governo ha impugnato le leggi regionali anti-nucleari di Puglia, Campania e Basilicata. Il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha spiegato che “l’impugnativa delle tre leggi è necessaria per ragioni di diritto e di merito”.

Ha spiegato:

In punto di diritto – ha aggiunto – le tre leggi intervengono autonomamente in una materia concorrente con lo Stato (produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica) e non riconoscono l’esclusiva competenza dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, della sicurezza interna e della concorrenza (articolo 117 comma 2 della Costituzione). Non impugnare le tre leggi avrebbe costituito un precedente pericoloso perchè si potrebbe indurre le Regioni ad adottare altre decisioni negative sulla localizzazione di infrastrutture necessarie per il Paese». «Nel merito – ha continuato il ministro – il ritorno al nucleare è un punto fondamentale del programma del Governo Berlusconi, indispensabile per garantire la sicurezza energetica, ridurre i costi dell’energia per le famiglie e per le imprese, combattere il cambiamento climatico riducendo le emissioni di gas serra secondo gli impegni presi in ambito europeo.

La mossa era prevedibile e doverosa. Costituisce anche una risposta indiretta all’attacco uguale e contrario delle regioni che hanno a loro volta impugnato la legge “sviluppo”, con l’argomento di essere state estromesse di fatto dal processo di valutazione e autorizzazione degli investimenti nucleari. Scajola ha fatto bene a replicare duramente, e con le stesse armi, ai governatori che hanno voluto, per primi, interpretare col massimo grado di politicizzazione la questione dell’atomo. Sarebbe auspicabile che, ora che i contendenti si sono mostrati i denti vicendevolmente, procedessero al disarmo. Portare una scelta politica (il ritorno all’atomo) e regolatoria (il modo in cui ciò dovrà avvenire) nelle aule giudiziarie è il modo migliore per affossare le speranze di quanti ritengono che il nucleare debba essere un’opzione a disposizione delle imprese. Si dirà: è proprio questo che le regioni antinucleari vogliono (o dicono di volere, nel caso l’attacco sia puramente strumentale – come in Liguria, regione che non potrà mai ospitare impianti per ragioni morfologiche e che dal disegno scajoliano ha solo da guadagnare, visto il ruolo che nella prospettiva del ministro gioca la genovese Ansaldo).

La domanda che i governatori dovrebbero farsi, e tutti quanti dovremmo farci, è: a che costo? Se il ricorso delle regioni avesse successo, gli investitori (non solo quelli attivi nell’atomo, beninteso) riceverebbero l’ennesimo segnale di un paese che procede a zig zag, incapace di prendere decisioni e quindi sempre pronto a delegarle ad altri (l’Europa) o a strutture tecnocratiche e politicamente irresponsabili (la giustizia, la burocrazia). Come risultato, gli investimenti in tutti i settori ne soffrirebbero, l’attrattività della nostra economia ne soffrirebbe, e in ultima analisi le nostre prospettiva di crescita e, nel breve, di uscita dalla crisi.

Gli avversari del nucleare giocano sistematicamente due carte. Una è quella della sicurezza e dell’ambiente: bene, ma allora perché non cercano di ottenere norme più restrittive? L’altra è quella della presunta non economicità dell’atomo: bene, ma allora perché non si siedono sulla sponda del fiume nell’attesa del cadavere di chi lo fa? La verità è che la parola “atomo” è l’equivalente del drappo rosso agitato davanti al toro, che condensa tutti i tic, tutti i riflessi pavloviani, e tutti i pregiudizi culturali di ecologisti senza scrupoli, nemici del capitalismo senza se e senza ma, piangitori di professione e professionisti della contestazione. Le forze politiche – tutte – dovrebbero superare la loro malattia infantile, entrare – almeno – nell’adoloscenza e prendere sul serio una partita importante e, se bene interpretata, virtuosa. Virtuosa per l’economia, virtuosa per l’ambiente e virtuosa per la credibilità del paese.

Questa volta, dunque, a dispetto delle tante critiche che gli abbiamo rivolto, non possiamo che applaudire a Scajola. Nella speranza che il dibattito sul nucleare si sposti rapidamente sul terreno delle cose e dei fatti, e che potremo finalmente smetterla di affrontarlo come le due tifoserie opposte di un derby calcistico.

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/2010/02/04/scajola-le-regioni-e-il-nucleare/feed/ 5
E lo chiamano federalismo ferroviario /2009/08/10/e-lo-chiamano-federalismo-ferroviario/ /2009/08/10/e-lo-chiamano-federalismo-ferroviario/#comments Mon, 10 Aug 2009 11:13:24 +0000 Francesco Ramella /?p=1986 Grandi novità per il trasporto su ferro in Lombardia. Una società pubblica che nascerà  dalla fusione dei due rami di azienda di Trenitalia e di Ferrovie Nord Milano che già oggi gestiscono il trasporto locale cui verrà affidata, senza gara, a partire dal 2010, la produzione dei servizi per un periodo di sei anni, rinnovabili per altri sei. Ma, soprattutto, soldi, tanti soldi in più. Dagli attuali 265 milioni di trasferimenti pubblici all’anno si passerà a 400 milioni, con un incremento pari al 50%: 135 milioni in più (110 milioni dalla Regione e 25 milioni, per tre anni, dal Governo) cui si deve aggiungere la quota parte dei 960 milioni per il rinnovo del materiale rotabile stanziati sempre dal Governo che sarà destinata alla Lombardia. Eppure, si dice, la fusione delle due società è giustificata dalla possibilità di conseguire maggiore efficienza.

Spiega al Sole 24 Ore Giuseppe Biesuz, amministratore delegato della nuova impresa: “Stare insieme, significa risparmiare, unire materiale rotabile, mettere in comune i manager per studiare le soluzioni di viaggio migliori”; “taglieremo i costi di manutenzione e faremo in modo che i due centri esistenti, uno di Trenitalia ed uno di Fnm, possano specializzarsi in attività diverse. Inoltre mettere insieme i convogli significa anche ottimizzare i servizi”. Curioso modo di fare efficienza se il risultato dell’operazione sarà un incremento dei costi totali del 50% a fronte di un’espansione del servizio pari al 15%. Ossia, un incremento dei costi unitari pari al 30%. D’altra parte, se il problema principale del trasporto su ferro fosse davvero quello di dimensioni aziendali troppo ridotte e non l’assenza di stimoli competitivi, Trenitalia dovrebbe essere di gran lunga più efficiente di Ferrovie Nord. Non sembra che le cose stiano esattamente così. Il lato più negativo della vicenda è dato dal fatto che, a fronte di un incremento considerevole di spesa che sarà pressoché interamente a carico dei contribuenti (dice Formigoni: «Le 174 corse in più al giorno e il miglior comfort saranno a costo zero per i passeggeri, non ci sarà alcun aumento dei biglietti»), non viene fissato alcun obiettivo in termini di incremento di domanda soddisfatta e, in particolare, di acquisizione di traffico dalla strada, unica motivazione che potrebbe teoricamente giustificare una crescita dei trasferimenti pubblici. E non vi è alcun reale incentivo per la nuova società a raggiungere i più elevati livelli di qualità che vengono fissati. Male che vada si ritornerebbe alla situazione attuale. L’unico vero incentivo ad essere più efficienti ed a garantire una migliore qualità  potrebbe venire dalla prospettiva di perdere, a seguito del confronto competitivo con altre società, l’affidamento del servizio. Trenitalia sembra finalmente averlo capito dopo molti decenni di affidamento diretto della pulizia dei treni. Quando lo capiranno le Regioni per l’affidamento dei servizi? Per ora l’unico segnale positivo sembra venire dal Piemonte. Tutte le altre sembrano contente di rimanere in balia dell’attuale monopolista nazionale cui tuttalpiù affiancarne uno regionale. E lo chiamano “federalismo ferroviario”.

]]> /2009/08/10/e-lo-chiamano-federalismo-ferroviario/feed/ 1 Debutta il federalismo. Anzi, no /2009/05/01/debutta-il-federalismo-anzi-no/ /2009/05/01/debutta-il-federalismo-anzi-no/#comments Fri, 01 May 2009 13:04:03 +0000 Carlo Lottieri /?p=382 Era necessario approvare il tutto prima delle elezioni europee, perché Bossi doveva incassare il dividendo di maggioranza. Ma non si creda che la nuova “legge quadro” sul federalismo fiscale cambi qualcosa, perché non è così.
Si tratta di un testo nato da mille compromessi, dato che durante l’estate Calderoli ha girato tutte le parrocchie per ottenere il loro placet, e alla fine ha messo insieme un progetto che accontenta il Sud e il Nord, le province e i comuni, le regioni e lo Stato centrale, la destra e la sinistra. Insomma, un pasticcio.
Anche la decisione di passare dai costi storici a quelli standard sarà, nel migliore dei casi, un modo per passare da una gestione centralista confusa ad una gestione centralista un po’ meno confusa. Sempre che la definizione dei costi standard non metta in moto un meccanismo infernale e non finisca quindi per moltiplicare il caos.
Resta che, se proprio saremo fortunati, avremo avuto una razionalizzazione dell’esistente, dato che nel contorto catalogo di possibilità messe sul tavolo dal testo della riforma vi è un netto prevalere di tributi decisi dal centro e in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale.
Quella che sembra mancare, in primo luogo, è la scelta di innescare una competizione tra territori che permetta a comuni e altri enti di “manovrare” le aliquote e anche di elaborare autonomamente tributi propri. Ma senza lo sviluppo di un’intensa concorrenza tra governi locali non ci può essere alcun federalismo.
Eppure non è lecito essere del tutto pessimisti, dato che quello che prende il via – di tutta evidenza – è un processo destinato a conoscere tappe che oggi non possiamo immaginare. Come è stato immaginato e prefigurato fino, il disegno dell’Italia di domani non ha nulla di federale. Ma nulla esclude che cammin facendo l’introduzione di qualche tributo davvero affidato all’arbitrio degli enti locali e quindi tale da mettere in concorrenza le differenti realtà non inneschi qualche circolo virtuoso e non educhi un po’ alla volta una popolazione ancora del tutto digiuna di ciò che è veramente il federalismo competitivo.
Roma non fu fatta in un giorno, e neppure la Svizzera.

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