CHICAGO BLOG » export http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Euro debole = illusione occupati /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/ /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/#comments Tue, 16 Nov 2010 19:04:18 +0000 Oscar Giannino /?p=7620 L’Europa è di nuovo piegata su se stessa nel tentativo di evitare la crisi dell’eurodebito. In molti tra coloro che in Italia lavorano per l’export almeno si consolano, all’idea che l’euro si deprezzi riscendendo verso quota 1,3 sul dollaro invece che verso 1,5. In realtà, la gara a deprezzare le valute è la vera guerra in corso tra dollaro e yuan, e l’euro rischia di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro. Detto questo, chi qui scrive trova invece apprezzabile che sempre più numerose voci europee si levino polemicamente rilevando che non rende un servizio a nessuno, la FED, artificiosamente deprimendo il corso del dollaro e i rendimenti decennali del debito pubblico americano, con la sua politica eterodossa di acquisiti di titoli sul mercato e cioè attraverso la monetizzazione del debito, come avveniva in Italia prima che via Nazionale e Tesoro divorziasssero, sancendo la piena autonomia della banca centrale dalle tendenze deficiste della politica. La vera risposta a chi consiglia sempre il deprezzamento della moneta per difendere l’occupazione sul mercato domestico sta proprio nell’andamento dell’economia americana.

E’ il nocciolo della politica praticata da Obama e Bernanke, secondo i quali un dollaro debole aiuta a ridurre la disoccupazione USA, che nel suo aggregato ristretto è al 9,6% e in quello allargato, comprendente cioè gli “scoraggiati” a diverso titolo, sale al 16% e oltre. Tuttavia, è un assunto fallace.

Nigel Gault, chief economist al desk americano di Global Insight, ha rielaborato la relazione tra andamento del dollaro e occupati nell’ultimo decennio. Dal 2001, il dollaro ha visto il suo valore deprezzarsi del 31% rispetto a un basket comprendente le cinque maggiori valute nel commercio mondiale. L’export americano negli stessi anni è aumentato del 45%. Ma l’occupazione manifatturiera americana è diminuita negli stessi anni di un terzo, scendendo da 16,4 a 11,7 milioni. Se ci fermiamo all’ultimo trimestre cioè agli effetti sul breve, da giugno a settembre il dollaro è sceso del 10% rispetto alle stesse valute, e l’export americano a settembre è salito dello 0,3%, al livello più alto nell’ultimo biennio. Ma la disoccupazione non diminuisce.

Per almeno due ordini di ragioni. La prima che l’export dei Paesi avanzati verso i Paesi che “tirano”, Cina e Asia innanzitutto, è soprattutto ad alto valore aggiunto, e dunque prodotta laddove macchine, automazione e tecnologie inevitabilmente continueranno a sostituire intensità di lavoro umano. La seconda ragione è che più aumenta l’export in quei Paesi più aumenta il totale di occupati delle imprese esportatrici in quei Paesi stessi: assai più che nei mercato domestici in cui le imprese esportatrici sono radicate. Secondo le cifre elaborate dall’United States Bureau of Economic Analysis il totale dei dipendenti all’estero delle aziende americane esportatrici è più che raddoppiato, negli anni 1998-2008 con l’ingresso della Cina nel WTO, passando da 5 a 10,5 milioni. Occupare dipendenti in Paesi a basso costo del lavoro aiuta a realizzare margini che son più che mai preziosi per investire di più nella qualità di innovazioni, processi e prodotti che vengono “pensati” e sperimentati nei paesi avanzati di provenienza. E più il processo diventa esteso e radicato, meno ovviamente sui bilanci aziendali incide il fattore valutario sulla competitività complessiva delle ragioni di scambio.

E’ esattamente lo stesso fenomeno avvenuto su scala europea per le grandi imprese tedesche delocalizzando nell’Est europeo non appartenente all’euro, a inizio degli anni 2000. Oggi come oggi, per BMW o Mercedes e Audi che hanno triplicato la loro produzione locale in Cina, il fattore cambio dell’euro è praticamente del tutto indifferente rispetto agli enormi margini che realizzano con oltre 500mila vetture di classe elevata vendute su quel mercato nel 2010.

Se tutto ciò è vero per l’economia USA, dove il 65% della crescita viene dalla domanda interna e solo un terzo dall’export, è a maggior ragione vero per noi, dove avviene l’esatto opposto. Chi si augura un euro debole per esportare meglio ha ragione nel breve, basta che sia chiaro che con l’occupazione l’effetto cambio c’entra poco o nulla: per quella serve essere più produttivi, non artifici monetari che nel mondo globalizzato servono più che altro da maschere agli alti debiti pubblici dei governi. Maschere che del resto non reggono più, in America come in Europa.

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Di Stipendi e Bilancia dei Pagamenti /2010/06/08/di-stipendi-e-bilancia-dei-pagamenti/ /2010/06/08/di-stipendi-e-bilancia-dei-pagamenti/#comments Tue, 08 Jun 2010 10:27:40 +0000 Guest /?p=6232 Riceviamo da Leonardo Baggiani (IHC)  e volentieri pubblichiamo.

Prendendo le mosse dall’articolo di Monsurrò sulla volontà di Hu Jintao di ridurre la dipendenza della crescita cinese dal suo export, è possibile intrecciare la vicenda cinese, quella tedesca, e le relative problematiche salariali.

Il caso Cina-Usa è stato, direi, adeguatamente inquadrato con riferimento alla contabilità nazionale: qualsiasi posizione creditoria netta nei conti con l’estero è un riflesso del proprio status di risparmiatore netto. Nel caso particolare la Cina esporta copiosamente perché i suoi abitanti consumano “poco” rispetto alla produzione realizzata; parallelamente gli USA esprimono una domanda insostenibile per la produzione interna. Il tasso di cambio non è, in questa ricostruzione, la determinante del commercio internazionale, bensì una variabile che equilibra posizioni di domanda-offerta sia domestiche che internazionali con i flussi di capitali che si muovono in senso opposto, giacché gli USA non possono negare la loro “necessità” di finanziamento a buon prezzo permesso dai capitali asiatici. Il potere della politica economica cinese sull’orientamento “demand-” o “export-driven” dell’economia è pertanto alquanto ridotto. La contabilità nazionale ci insegna che incrementare il consumo privato cinese può ben essere insufficiente quando questo discende da maggior reddito e non da una riduzione del risparmio assoluto (i dettagli qui); oltretutto la gestione del consumo privato può essere molto difficile, quindi diventerebbe “necessario” incrementare la spesa pubblica in deficit avendo cura di evitare effetti collaterali di maggior risparmio privato e di spiazzamento degli investimenti privati (quindi con l’appoggio di una politica monetaria accomodante, che però agisce anche sul tasso di cambio in direzione pro-export!). Il “peso” della riduzione del surplus commerciale cinese ricade in modo maggiore sul partner USA, la cui politica monetaria espansiva incide sì sul tasso di cambio creando un vantaggio per il proprio export, ma contemporaneamente stimola la domanda interna e deprime il risparmio, ricreando continuamente le condizioni per una posizione di importatore netto.

Creare le condizioni interne per cui divenga a livello microeconomico conveniente risparmiare negli USA e consumare in Cina, eliminando così la fame di capitali americana, è l’unica vera via per avere USA meno importatori e una Cina più autonoma. Creare queste condizioni passerebbe anche da una manovra sugli stipendi, che consisterebbe in realtà in un ritorno al “mercato”. Il controllo dello Stato è infatti tale da aver “bloccato” la dinamica salariale creando un (forzato) vantaggio comparato sulle produzioni più labour-intensive. Permettere che gli stipendi salgano sulla semplice spinta della domanda di lavoro causata dalla domanda americana di merci è un ottimo modo perché i cinesi si “riapproprino” del valore prodotto acquisendo così un potere d’acquisto verosimilmente convertibile in consumo interno (magari proprio di merci altrimenti destinate all’export). Virtualmente questo processo può rinnovarsi finché esiste un vantaggio della produzione cinese fino ad annullarlo, cioè fino ad azzerare (salvo il concorso di altri fattori) il surplus commerciale.

La Cina è però ancora relativamente poco urbanizzata e dispone ancora nelle campagne di un rilevante esercito di “lavoratori di riserva” il cui impiego potrebbe rinnovare il vantaggio comparato sulle produzioni labour-intensive. Da questo appunto segue che l’accusa di manipolazione cinese del tasso di cambio è pretestuosa: la pressione della domanda internazionale dovrebbe spingere i prezzi cinesi “aggirando” la sostanziale fissità del tasso di cambio; se questo non accade è perché il vantaggio comparato iniziale permane, grazie a questa “riserva” di lavoro, e quindi resta solo il fattore “risparmio netto” come determinante della bilancia commerciale. Nei fatti però la Cina è attraversata da molti casi di scioperi (tutti autonomi e spontanei, perché il sindacato unico cinese non li ammette) cui sono seguiti rialzi degli stipendi oltre il 20% e revisioni a due cifre anche sullo stipendio minimo legale; questo testimonia l’effettività di una regolamentazione centrale che incide sulle ragioni di scambio internazionale e contrasta con l’obiettivo, centrale esso stesso, di un’economia “demand-driven”.

Attorno allo status di esportatore netto nella UE della Germania si è fatta strada una posizione simile: alzare gli stipendi tedeschi così da deprimere il loro export e stimolare quello dei partner comunitari. La situazione europea riflette molto di quella sino-americana, infatti anche qui abbiamo un Paese esportatore verso Paesi “inflazionati” (in senso austriaco). Nel caso USA l’inflazionismo è stato “perseguito”; nel caso dei Paesi europei “periferici” è una condizione indotta (e auspicata) dall’adozione della moneta unica, che ha uniformato i tassi di interesse verso il più basso livello tedesco (un “dividendo dell’euro” chiaramente speso e non risparmiato, altrimenti non potremmo regolarmente divertirci con cicli boom-bust austriaci!). Ritengo che il parallelo finisca qui, perché la Germania viaggia già su elevati e crescenti livelli di disoccupazione, pertanto potrebbe avere un problema di minimi salariali  troppo alti che non permettono l’assorbimento di tutta l’offerta di lavoro, cioè l’esatto contrario del caso cinese. Mi chiedo come sia possibile pretendere una sostanziale eutanasia tedesca attraverso il rialzo legale degli stipendi (Achtung: in Cina il riequilibrio passa, nella mia idea, per una de-legislazione della contrattazione, mentre nel caso tedesco si chiede un intervento legislativo diretto, quindi l’opposto!), per riequilibrare le bilance dei pagamenti di un’Europa che non può esistere senza la Germania stessa. L’esempio tedesco rinforza le considerazioni ricavate dal caso cinese: esiste un vantaggio competitivo indipendentemente dal livello salariale (elevato nella Germania capital-intensive, basso nella Cina labour-intensive) e dalla politica sul tasso di cambio (il caso tedesco è tutto infra-eurozona), il cui tratto comune sono i rapporti commerciali con Paesi “ad elevato tasso di inflazionismo” (USA e “periferici” UE).

Come ho concluso altrove, è diffuso un errato concetto di “equilibrio”: Germania e Cina non sono “squilibrate” perché hanno un elevato export, bensì i loro conti trovano un “equilibrio naturale” in relazione alle spinte dei vari tassi di risparmio netti, che dipendono in misura significativa anche dallo squilibrio dei conti pubblici dei partner. Un certo rigore fiscale e un minor interventismo legislativo risolverebbero da soli un po’ di problemi.

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La nuova paura da Goldman /2010/04/19/la-nuova-paura-da-goldman/ /2010/04/19/la-nuova-paura-da-goldman/#comments Mon, 19 Apr 2010 16:59:56 +0000 Oscar Giannino /?p=5730 Come se non bastasse, ci si è messo anche il vulcano islandese con la sua nube, a impedire al sole della ripresa di splendere sui mercati. I danni sono di molte centinaia di milioni di euro al giorno – probabilmente miliardi, ormai -  poiché in ginocchio non è solo il trasporto di persone, ma l’export di beni deperibili che utilizzano appunto il vettore aereo. L’Europa non ne aveva bisogno, aggravata come continua a essere dalla crisi strisciante del debito greco e portoghese, visto che il mercato continua a scommettere contro la tenuta dei due accordi di sostegno ad Atene sottoscritti dai governi europei. In più, l’America con il caso Goldman Sachs ha rivelato al mondo intero ciò che solo alcuni continuavano a dire, per non seminare panico: siamo ben lontani dall’aver messo in sicurezza il problema da cui la crisi è nata, cioè la finanza ad alta leva costruita su montagne di derivati e piramidi di prodotti sintetici.
L’Autorità americana che vigila sui mercati finanziari, la SEC, ha atteso un anno e mezzo dal fallimento di Lehman Brothers prima di dichiarare al mercato di avere aperto un’indagine in cui Goldman Sachs è chiamata a rispondere delle sue scommesse incrociate sui mutui subprime, quelli a bassa solvibilità da cui la crisi è nata. Goldman Comprava e rivendeva con il proprio rating elevato pacchi di quei mutui, e contemporaneamente scommetteva con un grande hedge fund che quegli stessi mutui diventassero insolventi. Con ogni probabilità, dicono gli esperti, rivendeva anche a istituzioni assicurative il rischio di controassicurazione di quella stessa scommessa sul default. Nel giro di pochi giorni, dalle piazze europee si sono subito levate le voci delle banche che ci hanno rimesso carrettate di denari e che oggi dichiarano di essere pronte a far causa a Goldman. Come Royal Bank of Scotland, salvata dal Tesoro britannico a spese dei contribuenti, e che da sola ci ha rimesso più di 800 milioni di sterline.
Goldman Sahcs si difende replicando di non aver violato nessuna norma. Se ci si ferma alla lettera del problema, non è detto che abbia torto. Il quindicennio alle nostre spalle ha visto le grandi banche – non solo quelle d’investimento americane – abbracciare in maniera crescente la prassi per la quale con le nuove tecniche era possibile il reimpacchettamento di acquisti e rivendite di prodotti strutturati, era conveniente poiché coi propri rating elevati si abbatteva il rischio dell’emittente iniziale agli occhi del prenditore, e in più la convenienza saliva ulteriormente poiché si potevano parallelamente emettere sugli stessi prodotti opzioni incrociate di rivalutazione e svalutazione, magari confondendole elaborando sottostanti dei relativi prodotti derivati pressochè incomprensibili non solo ai profani, ma anche ai più tra i banchieri non esperti di tale materia. Come il giovanissimo vicepresidente di Goldman, il francese Fabrice Tourre, che a 28 anni dopo due master di matematica finanziaria presiedeva alla fabbrica di scommesse incrociate su cui oggi indaga Goldman.
Perché il mercato trema, a questa indagine? Perché è consapevole di almeno tre verità, poco rassicuranti.
La prima è che tale prassi non si è affatto fermata, da un anno e mezzo a questa parte. Di nuove regole della finanza in realtà se n’è parlato molto, ma non ne sono state varate ancora né negli Stati Uniti, né in Europa. In Europa abbiamo scelto la via “tecnica” di affidarci alle proposte elaborate dal commissario Michele Barnier, dalla BRI di Basilea, e dal Financial Stability Board guidato da Mario Draghi, che ne ha riferito all’Ecofin lo scorso fine settimana e proporrà il pacchetto finale al G20 entro fine anno. Negli Stati Uniti, la bozza di riforma all’esame del Congresso conta 1336 pagine, ma rolla in alto mare perché l’accordo politico manca.
La seconda è che anche le nuove regole di cui si parla soprattutto in Europa, su come spingere le banche a ricapitalizzarsi se possibile senza restringere gli impieghi prima che sia partita la ripresa, non impediscono affatto che esse continuino nel gioco della finanza derivata incrociata, per accrescere redditività e utili.
La terza è che nessuno ha ancora identificato un criterio condiviso, su come comportarsi con banche e intermediari “troppo grandi per fallire”. Attualmente Bank of America conta asset pari al 16% del Pil americano,  JP Morgan Chhase per il 14%, Citigroup il 13%, Wells Fargo pari al 9%: Sono banche commerciali, e per quella categoria c’è chi negli USA propone di scendere non oltre il 4% del Pil. Le due maggiori banche rimaste più d’investimento che commerciali, Goldman Sachs e Morgan Stanley, hanno asset pari al 7% e al 6% del Pil USA, e c’è chi propone di farle scendere non oltre il 2%. Ma il mercato scommette che politici e regolatori non avranno mai la forza di una simile svolta. Per questo i mercati tremano ancora. E non si può dire “che Dio ce la mandi buona”: perché di questo, davvero, non ha colpa lui ma solo gli uomini.

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Compiti 2010-4: non si riparte di solo export /2010/01/07/compiti-2010-4-non-si-riparte-di-solo-export/ /2010/01/07/compiti-2010-4-non-si-riparte-di-solo-export/#comments Thu, 07 Jan 2010 22:03:40 +0000 Oscar Giannino /?p=4657 Per oggi e per non risultare eccessivo, un ultimo proposito per l’anno appena iniziato. Riguarda più da vicino l’Italia e la Germania, cioè i Paesi dell’Euroearea che più esportano e che vantano la maggior quota di manifattura. A questo proposito il luogo comune da contrastare è quello che di solo export si possa ripartire, in altre parole confidando il più possibile – nel nostro caso – sui pianti anticiclici messi in atto da Paesi che hanno maggiori possibilità di spesa in deficit. Non è così: senza pulizia bancaria vera – nel caso tedesco – e senza riforme di produttività – nel caso nostro, meno tasse ed esternalità negative che gravano sulla produttività multifattoriale, trasporti, logistica, energia etc. – il mercantilismo costruito sui piani pubblici altrui si traduce in crescita bassa.
Anche qui, due paper per gli argomenti da cui trarre ispirazione. Per il caso tedesco – e non solo – vale l’esempio del Giappone e del suo decennio di stasi. Questo paper elaborato da economisti del FMI  mostra le quattro lezioni da trarre: l’export da solo non basta; la forza del manifatturiero non vince i cattivi attivi degli intermediari finanziari, se non vengono sanati; piani massicci di sostegno pubblico possono risultare apparentemente efficaci nel breve ma i loro costi, sottovalutati nel lungo termine, appiattiscono poi la crescita; gli squilibri finanziari privati e pubblici vanno messi a regime in ferrei piani anche pluriennali, ma senza credere che lo stellone possa salvare dai loro oneri.
Per il caso italiano, che vede banche meno scassate ma anche – per fortuna – indisponibilità di massicci deficit pubblici aggiuntivi, consiglio questo paper di due economisti tedeschi, che in realtà è scritto avendo in mente una svolta all’americana del loro paese. Illustra infatti il diverso effetto che un’elevata apertura al commercio estero comporta sui tassi di crescita in Paesi diversi, a seconda che essi siano caratterizzati da un elevato potere d’acquisto oppure no. Chi ce l’ha, sopporta prezzi mediamente più elevati in presenza di una forte concentrazione delle catene distributive: e ciò comporta maggior crescita nazionale e più estesa possibilità di cavarsela a parità di reddito disponibile con minori integrazioni monetarie e in servizi da parte del welfare. L’Italia è esattamente l’esempio di Paese che non può contare su un simile effetto: dunque da noi anche il perdurante successo dell’export manifatturiero – da augurarsi e da incentivare, naturalmente – senza riforme di produttività non basta ad accrescere il reddito procapite in maniera da sanare il gap accumulato dagli anni Novanta ad oggi, e ci schiaccia comunque su una domanda di welfare a oneri crescenti.

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Perché non tifare Obama sul $ nel week end /2009/11/13/perche-non-tifare-obama-sul-nel-week-end/ /2009/11/13/perche-non-tifare-obama-sul-nel-week-end/#comments Fri, 13 Nov 2009 18:06:44 +0000 Oscar Giannino /?p=3753 L’Italia è finalmente ripartita nel terzo trimestre, e col suo più 0,6% di Pil insieme alla Germania va meglio della media europea, meglio della Francia e BeNeLux, molto meglio dei Paesi in cui l’economia è ancora a segno meno, come Regno Unito, Grecia e Spagna. È financo ovvio che cresciamo di più insieme alla Germania sul trimestre precedente, perché avevamo perso di più: ma vale la pena di ripeterlo. Dopo un anno e mezzo, l’inversione del ciclo deve vedere tutti – imprese e governo, banche e sindacati – concentrati nello sforzo di sfruttare ogni margine possibile della ripresa del commercio internazionale, il vero motore della crescita italiana. Proprio poiché la nostra crescita aggiuntiva è creata per circa il 70% dalle esportazioni e non dalla domanda interna – e un giorno o l’altro bisognerà mettere mano al riequilibrio – bisogna però prestare attenzione a un aspetto il più delle volte trascurato: il metro monetario che misura prezzi e valori del commercio estero.

È giusto pensare che con più tecnologia e innovazione cresce il valore aggiunto dei prodotti italiani, e dunque che fisco e banche dovrebbero  agevolarli. Ma anche per i più innovativi la ripresa può diventare una chimera, se ci si misura con una propria valuta troppo forte, l’euro, rispetto a quella che resta prevalente nel mondo, il dollaro.
Questo fine settimana avverrà un evento che rischia di avere conseguenze dirette proprio sul rapporto tra euro e dollaro. È un evento totalmente fuori dal controllo europeo e italiano. E conosco sin qui un solo economista che giustamente inviti tutti a prestarvi grande attenzione, fino a chiedere che Bce ed Ecofin lo seguano in diretta, per essere pronti a reagire all’indomani. Quell’economista è Paolo Savona. E l’evento in questione è la prima visita in Cina di Barack Obama.
Semplificando, gli Stati Uniti avrebbero tutto l’interesse a che il dollaro svalutasse ulteriormente. Nei mesi dalla crisi Lehman Brothers fino al marzo scorso, il dollaro era salito dell’11% rispetto al paniere misto di valute del Fondo Monetario. Nella paura generale, malgrado la crisi si originasse in America anche per i suoi paurosi squilibri della bilancia dei pagamenti, in molti si rifugiavano nel dollaro come valuta di riserva. Dacché a marzo i mercati finanziari hanno ripreso fiducia, il dollaro si è svalutato di oltre il 13%, varcando la soglia di 1,5 biglietti verdi per un euro. La Cina se n’è molto avvantaggiata, giacché il suo renminbi ha un rapporto di cambio semifisso rispetto al dollaro. Da anni gli americani chiedono a Pechino di rivalutare, visto che la valuta cinese debole comprime ulteriormente in termini reali i costi già bassissimi della merci cinesi. Ma Pechino è stata ferrea, ha dosato gradualmente una rivalutazione sul dollaro del 15% in un quinquennio, più che compensata dalla svalutazione del dollaro stesso sull’euro.
La rivalutazione della moneta cinese dovrebbe spingere Pechino a esportare meno, e importare di più, cosa di cui il mondo ha bisogno. Dall’inizio dell’anno, anche se i consumi cinesi hanno avuto uno spettacolare aumento di quasi il 15%, le importazioni sono scese in realtà di quasi il 20%. Ma i cinesi hanno un buon motivo per dire no a Obama: Pechino non è interessata alla svalutazione del dollaro, perché significa deprezzare i quasi 3mila miliardi di dollari in riserve che detiene in dollari.
Qual è l’interesse italiano? Un dollaro in caduta libera e un euro più forte significa meno competitività per chi esporta made in Italy in America. E significa competitività più difficile per la nostra meccanica fine, macchine utensili e metallurgia di qualità, settori a rischio di potente ridislocazione verso Far East, India e Brasile. Lo sanno bene sulla propria pelle gli imprenditori, che in duemila ieri ad Assago hanno fatto tremare la sala dagli applausi, quando Emma Marcegaglia ha lamentato il dollaro a un euro e mezzo.
Eppure, a giudicare dalle dichiarazioni ufficiali, l’Europa sembra appoggiare la richiesta americana di una rivalutazione cinese, dimenticando che il suo effetto sarebbe una caduta ancor più libera del dollaro, sotto la triplice pressione dell’enorme deficit pubblico americano, dell’opportunità così facendo di ridurre il valore reale dei debiti USA, e di alimentare un po’ di inflazione da spargere in tutto il mondo attraverso il dollaro fluttuante.
L’Europa si illude, così facendo, che l’euro diventi una valuta di riserva in grado di sostituire gradualmente il dollaro. Ma mentre sarebbe tutta da verificare, tale ipotesi nel medio e lungo periodo, nel breve l’effetto certo sarebbe di rendere più difficile la ripresa proprio a chi esporta di più e a chi più dipende dall’export: cioè all’Italia. Altri Paesi europei hanno interessi diversi dai nostri,  a loro più anche spiacere meno il dollaro debole. Ma per i nostri politici e banchieri, tifare Obama in questo fine settimana significa solo far male all’impresa italiana.

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Nuovi dati sulla crisi:prudenza, per favore /2009/07/10/nuovi-dati-sulla-crisiprudenza-per-favore/ /2009/07/10/nuovi-dati-sulla-crisiprudenza-per-favore/#comments Fri, 10 Jul 2009 16:43:16 +0000 Oscar Giannino /?p=1473 Il dato relativo alla produzione del mese di maggio fa subito brindare i più. E’ il primo mese in cui la decrescita si ferma, rispetto al mese precedente. Anno su anno, siamo a un meno 20%. Il più 2% nel comparto energetico e il segno più per i beni durevoli e non durevoli – tradotto: auto e alimentari, farmaci e tabacchi – fanno pensare che a giugno vi potrebbe anche essere un timido segnale di miglioramento su maggio. Di qui a una consistente ripresa, la differenza è fatta dall’andamento che resta gravemente negativo per metallurgia e meccanica, il cuore della manifattura italiana fuori dall’auto.

Il quadro mondiale si presta a una lettura a doppio binario. L’Asia sta andando più forte di quanto si pensasse solo poche settimane fa, come si vede dagli andamenti dell’export cinesi a giugno e degli altri Paesi a maggio, resi noti tra ieri e oggi: dalla Cina alla Sud Corea alle Filippine a Taiwan, la crescita dell’export su base mensile, che ha iniziato a manifestarsi tra marzo e aprile, continua a essere superiore alle attese e si colloca in una forbice tra il 5% generale e il 7% cinese. La Corea del Sud sta realizzando una crescita record: più 2,3% di Pil nel secondo trimestre, dopo che nel primo comunque aveva evitato la recessione crescendo dello 0,1%.  Tradotto in termini più semplici: l’Asia sta ridislocando potentissimamente e rapidissimamente i propri flussi commerciali al proprio interno, in attesa che America e paesi Ocse riprendano a consumare. Non è un processo dal quale Europa e Italia abbiano molto di che aspettarsi, per il traino dei propri dati congiunturali. Solo con politiche filo-cinesi atte a farsi aprire le porte – che Pechino ha chiuso in molti comparti alzando dazi e procedure amministrative, in modo che lo shift verso la domanda interna abbia il più possibile alimentazione da prodotti domestici o comunque asiatici – si riuscirà a garantirsi accessi e proprie crescite di volumi nel medio periodo.

Venendo all’Occidente, per l’export italiano è decisivo il dato tedesco e quello americano. La ripresa inattesa della produzione industriale tedesca a maggio – un più 5% su base mensile – ha fatto stappare molte bottiglie. Ma analizzandola bene si nota che dipende solo dall’avvio a termine del processo di destoccaggio delle scorte, rispetto a domanda per lo più interna. Infatti i dati dell’export e import dello stesso mese, rilasciati ieri, non sono affatto coerenti con un’ipotesi di ripresa del traino della locomotiva tedesca. Quanto agli Usa, dell’interruzione del contenimento delle perdite di posti di lavoro avvenute nell’ultimo mese rispetto alla tendenza dei due precedenti abbiamo già detto, e nel frattempo i nuovi dati su andamento dei prezzi immobiliari – ancora in caduta – e delle foreclosures- i pignoramenti - testimoniano che la caduta della capacità di consumo è ancora potentemente in corso, per riallinearsi a un reddito disponibile in doppia contrazione a motivo della perdita rilevante di base occupazionale e del rapido innalzarsi della propensione al risparmio.  In tali condizioni, fossi un’industriale italiano nel settore dell’export manifatturiero, starei molto attento a credere che il peggio è alle spalle.

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Il governo sottovaluta, temo /2009/06/26/il-governo-sottovaluta-temo/ /2009/06/26/il-governo-sottovaluta-temo/#comments Thu, 25 Jun 2009 23:22:26 +0000 Oscar Giannino /?p=1143 Reduce dalla sedicesima assemblea provinciale di imprenditori in poco più di due mesi,  era a Lecco dopo Lucca, Ancona, Brescia, Mantova, Piacenza, Padova, Rimini, Fermo, Milano, Alessandria e continuando, temo di avere proprio un’impressione dominante. Il governo sottovaluta la legnata in corso di incassamento da parte delle imprese, le manifatturiere esportatrici indebitate perché più avevano creduto nell’export, e soprattutto quelle che hanno capofiliere germaniche in testa, alle quali offrono semilavorati e componentistica. Dovunque, nella fascia pedemtonana del Nord come in quella adriatica fino all’Abruzzo, il pianto è greco, i dati sconfortanti, le prospettive peggio che atre.

Vedremo le misure nuove annunciate dal governo tra poche ore, col decreto che introduce la Tremonti- ter - oggi le mie orecchie l’hanno sentita fare a pezzi tra diluvi di applausi polemici a Lecco, dove pure la maggioranza nettissima è per PdL-Lega, al grido “ma chi farà utili da reinvestire, quest’anno?” –  il bonus a chi non licenzia, e via continuando. Ma mi sembra sempre più che il problema del baratro che si apre sotto i piedi di migliaia di imprese manifatturiere esportatrici non si possa colmare solo con palliativi prenditempo. E’ l’ora di una strategia di interventi strutturali, per un quadro pluriennale di riduzione del gap che grava sulla terribile triade costo del lavoro- energia- tasse. Reggere a venti o trenta punti di svantaggio competitivo su questi tre input, quando i concorrenti europei si avvantaggiano purtroppo di interventi statuali assai più generosi o di condizioni standard più favorevoli all’impresa, significa condannarsi ad anni di crescita flat e a una vera e propria morìa di aziende.

Non è solo la previdenza da rimodulare, in un quadro pluriennale, per liberare risorse dalla spesa pubblica superiore al 50% del Pil. Occorre un trade off tra maggior reddito disponibile ai lavoratori e più produttività alle imprese – non basta la decontribuzione poco più che simbolica del salario di produttività varata l’anno scorso – e nei 4 anni che ci separano dal federalismo fiscale attuato, annunciare sin d’ora che sparirà del tutto l’Irap e che la spesa sanitaria sarà ricondotta per tutti allo standard lombardo-veneto. Il che significa aggredire bubboni come quello campano, siciliano e calabro, che nulla hanno a che vedere con lo standard di servizio offerto ma solo con l’assistenzialismo di chi assume migliaia di dipendenti pubblici senza altro scopo che clientelismo.   La dimensione della spesa pubblica da abbattere è nell’ordine di 50 miliardi di euro. Una cifra analoga a quella che Passera vuole spendere in più ogni anno. Io sono per spenderla in meno, se vogliamo con meno tasse che le imprese vivano. Altrimenti, per carità, l’Italia non fallirà. Anni di declino resi meno evidenti dal troppo elevato stock patrimoniale di ricchezza delle famiglie: quello che Tremonti e Marco Fortis lodano come uno dei maggiori motivi di forza dell’Italia, e che io considero invece una classica e massiccia allocazione improduttiva di risorse finanziarie sottratte alla crescita.

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L’Italia, la Cina e una raffica di cattive notizie /2009/05/14/litalia-la-cina-e-una-raffica-di-cattive-notizie/ /2009/05/14/litalia-la-cina-e-una-raffica-di-cattive-notizie/#comments Thu, 14 May 2009 19:11:22 +0000 Oscar Giannino /index.php/2009/05/litalia-la-cina-e-una-raffica-di-cattive-notizie/ Sono in giro per una serie di incontri e convegni, in licei, cooperative, armatori, i Giovani di Confindustria, il Forum della PA con Brunetta, e via continuando. Per questo mi scuso di esser mancato un giorno, e ne approfitto per un post al volo. Mi ha molto sorpreso dieci minuti fa leggere l’editoriale di Nouriel Roubini sul New York Times di oggi, perché è raro che le sue tesi sopra le righe mi convincano. Ma mi sono ritrovato esattamente nel ragionamento che avevo esposto ieri agli studenti del Sacro Cuore di Milano e oggi al parlamentino nazionale degli juniores di Confindustria guidati da Federica Guidi. Si tratta delle conseguenze che potrebbe avere per tutti i paesi grandi esportatori in semilavorati e componentistica a non altissimo valore aggiunto – come l’Italia – un eventuale cambio del tallone monetario del commercio mondiale. In altre parole: dello scioglimento del peg semi fisso tra dollaro e reminmbi, che negli anni alle nostre spalle ha “aggiunto” competitività monetaria, attraverso il collegamento automatico alla svalutazione del dollaro sull’euro, ai prodotti cinesi già avvantaggiati da basso costo congenito. Secondo stime riservate che l’Ice esita comprensibilmente a rendere note, potrebbero essere dolori per almeno due delle famose “4 A” che costituiscono i due terzi dell’export italiano. Per l’automazione e componentistica elettromeccanica, e per l’abbigliamento-tessile-moda, ciò potrebbe costituire un cambio rilevante delle ragioni di scambio, in grado di convincere molte grandi aziende capofiliere – soprattutto tedesche, nel primo settore – a rinviare il più possibile la ripresa di ordini ad aziende fornitrici italiane, in attesa di verificare se non convenga spostare altrove le proprie catene di supply.
Quel che in apparenza è un tema “alto e lontano” – la proposta cinese di una seria modifica dei diritti di prelievo e relativo paniere monetario di riferimento, in sede di Fmi – in realtà potrebbe colpire in profondità le possibilità di ripresa dell’export italiano. Gli americani sono convinti che i cinesi si convinceranno presto a rivalutare, pur di riavviare comunque il proprio export. I cinesi sono persuasi che saranno gli americani per primi a dover mollare la loro pretesa, perché di mese in mese i disoccupati aggiuntivi Usa da ottobre passeranno dagli attuali 5,7 milioni a 7 e oltre entro l’estate, e a quel punto Obama sarà costretto a piantarla e a rassegnarsi, se vuole che i cinesi riprendano ad acquistare asset in dollari, cioè a finanziare a debito il risanamento Usa come fino ad ottobre ne finanziavano la crescita dei consumi.
Purtroppo, se è corretto ipersemplificare in questi termini il braccio di ferro monetario sotteso alla ripresa del commercio mondiale, occorre ricordare che i cinesi possono contare su di uno strumento assai più efficace di quello americano. L’Armata Popolare Cinese mette sui treni e rispedisce in campagna ogni mese dai 3 ai 5 milioni di cinesi risospingendoli all’economia di sussistenza agricola, nel mentre si attua il colossale shift della crescita da estero-trainata a focalizzata su infrastrutture e domanda interna. Gli americani, al contrario non possono certo arruolare milioni di disoccupati nella Guardia Nazionale. Di conseguenza, al il nostro export converrebbe una posizione filocinese anzichenò.
Nel frattempo, una raffica di notizie che mi sembrano smentiscano gli ottimismi di circostanza: il deficit tedesco a 50 miliardi di euro quest’anno da 11 nel 2008 con tanto di addio ai tagli fiscali preannunciati; la cattiva – e giustificata – reazione del mercato alle trimestrali di Unicredit e Intesa; la scontata sconfitta degli imprenditori privati in Assolombarda, vista la sconsideratezza con cui la presidente uscente ha cercato di pilotare la sua successione su un candidato debole come già avevo scritto, con inevitabile vittoria del candidato “pubblico”, Maugeri dell’Eni, che dopo un anno di ridicolaggini su Expò 2015 infligge una nuova bella ridimensionata alle pretesi milanesi; il venir meno della residua finzione di Cai su Malpensa, e scontate chiacchiere dei governatorid el Nord che solo ora riscoprono la necessità di liberalizzare gli slot intanto riassicurati ad Alitalia anche se non li usa; la conferma che nella riscrittura a puntate del rapporto Caio riemerge lo scorporo “tutto pubblico” della rete fissa di Telecom Italia… e poi vi chiedete perché Mike Bongiorno è andato da Murdoch per riprendere a scandire tutte le sere il suo proverbiale “allegriaaaa”: perché qui da noi c’è poco da ridere, e lo sa anche lui.

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