CHICAGO BLOG » Europa http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Agenzia nucleare: si parte con Veronesi per arrivare dove? Ecco i nomi mancanti /2010/10/16/agenzia-nucleare-si-parte-con-veronesi-per-arrivare-dove-ecco-i-nomi-mancanti/ /2010/10/16/agenzia-nucleare-si-parte-con-veronesi-per-arrivare-dove-ecco-i-nomi-mancanti/#comments Sat, 16 Oct 2010 13:43:49 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7314 Umberto Veronesi ha accettato di presiedere la costituenda Agenzia per la sicurezza nucleare, elemento pivotale nella strategia di ritorno all’atomo. Non possiamo che rallegrarcene, visto che Chicago-blog fu tra i primi ad avanzare la candidatura dell’oncologo e senatore del Pd. Vediamo quali sono gli altri nomi in pista, e quali le prime sfide, e i primi test, che l’organismo dovrà affrontare.

Fino all’ultimo Veronesi è stato in “ballottaggio” con altri due potenziali presidenti, ciascuno – in modo e per ragioni diverse – in possesso di tutti i requisiti necessari. Alessandro Ortis, presidente uscente (scadrà a dicembre) dell’Autorità per l’energia, è per formazione ingegnere nucleare e non ha mai nascosto di vedere di buon occhio la possibilità che il paese torni all’atomo. Molti hanno visto nel documento di consultazione pubblicato dall’Autorità sui contratti a lungo termine per le tecnologie caratterizzate da alti investimenti upfront una mano tesa al piano del governo. Nei sette anni di presidenza del regolatore, Ortis si è conquistato la fama di tecnico competente e indipendente sia dai soggetti regolati (con cui spesso si è scontrato), sia dalla politica. L’altro candidato, Maurizio Cumo, professore di impianti nucleari alla Sapienza di Roma, è ancora in pista come consigliere, quindi ne parlerò dopo.

La scelta di Veronesi segna una svolta, nel modo in cui il governo ha gestito il nucleare, in almeno tre sensi. Anzitutto implica l’affermazione di Stefano Saglia, sottosegretario allo Sviluppo, che da subito ha caldeggiato la nomina consapevole che il nucleare, per essere, deve essere una scelta bipartisan. Poi è la dimostrazione che l’arrivo di Paolo Romani al ministero non è stato una scelta pro forma, se ha sbloccato immediatamente uno dei dossier più caldi per l’esecutivo. Infine, rappresenta una sfida al centrosinistra, che finora ha dato la sensazione di condurre un’opposizione pregiudiziale e ideologica e, oggi, non può rimanere indifferente all’insediamento di un suo uomo alla guida dell’organismo tecnico che dovrà pilotare la strada italiana al nucleare. Va da sé che, pur non essendo strettamente necessario ai sensi dello statuto (ed è un male), Veronesi dovrà dimettersi da senatore, come hanno subito chiesto un po’ maliziosamente Roberto Della Seta e Francesco Ferrante e come lo stesso Veronesi aveva promesso, in seguito a una schermaglia col segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Proprio il segretario del Pd esce paradossalmente sconfitto da una scelta nel nome del dialogo, visto che, per evitare di pronunciarsi con chiarezza e mantenersi equidistante tra l’anima più dialogante del partito e quella massimalista, aveva puntato tutto sulla guerra senza se e senza ma al “modo in cui” il governo stava conducendo il programma. Va da sé che il clima distensivo innescato dalla nomina di Veronesi delegittima i toni guerrafondai di una parte del Pd (che peraltro si trova nell’imbarazzante situazione di aver condotto un’opposizione massimalista nel paese, razionale in aula, e non può dunque oggi – per le scelte fatte in tema di comunicazione – rivendicare un ruolo nell’oggettivo ammorbidimento dell’esecutivo).

Chi dovrà affiancare Veronesi alla testa dell’Agenzia? Secondo la legge istitutiva, se la nomina del presidente spetta formalmente alla presidenza del consiglio, i quattro componenti vengono decisi due dal ministero dell’Ambiente e due dal ministero dello Sviluppo economico. Stefania Prestigiacomo avrebbe scelto i nomi di Bernadette Nicotra, magistrato e vicecapo di gabinetto del ministro, e il geologo Gualtiero Bellomo, membro della Commissione Via (in precedenza si era parlato di Aldo Cosentino, direttore generale del ministero dell’Ambiente). Alcuni ritengono che Nicotra e Bellomo (o, se è per questo, Cosentino), pur essendo professionisti di indubbia competenza, abbiano due limiti che, potenzialmente, potrebbero sollevare qualche malumore: non si sono occupati di nucleare in precedenza, e soprattutto sono troppo vicini – professionalmente – a Prestigiacomo. Su questo punto tornerò a breve.

Più ampia la rosa valutata dal Mse, che comprenderebbe – tra gli altri – il fisico Antonio Moccaldi, presidente dell’Ispesl, l’oncologo Umberto Tirelli, e l’ingegnere Paola Girdinio, preside della facoltà di ingegneria all’Università di Genova che ha fatto partire un master, destinato a diventare nel giro di uno o due anni un corso di laurea, in ingegneria nucleare. In realtà, però, la rosa si sarebbe ristretta a tre soli nomi: il già citato Cumo (unico limite, l’età: un commissario nato nel 1939 di fianco a un presidente leva 1925 non sarebbe il massimo dell’immagine), e i professori Marco Ricotti (che insegna impianti nucleari al Politecnico di Milano) e Giuseppe Zollino (impianti nucleari all’Università di Padova). Il curriculum di entrambi calza a pennello col ruolo che dovrebbero occupare. Poiché Cumo viene dato per certo, il vero nodo da sbrogliare sarebbe il derby tra Ricotti e Zollino. Ricotti può contare sul sostegno di Energy Lab, la Fondazione promossa dal gotha politico lombardo su impulso del capo di A2a, e presidente di Assoelettrica, Giuliano Zuccoli. Zollino ha però un vantaggio curricolare: dal 2001 al 2007 è stato segretario della Commissione Parlamentare Industria, Ricerca ed Energia del Parlamento Europeo, per la quale si è occupato, in particolare, del monitoraggio delle agenzie nucleari dei nuovi Stati membri al momento dell’allargamento.

Non appena nominato, il collegio dovrà procedere alla selezione del personale, proveniente per la maggior parte (ma nelle intenzioni del ministro dell’Economia, del tutto, compreso il direttore generale) dall’Enea e dall’Ispra. Non è detto che le caratteristiche delle risorse umane disponibili siano del tutto soddisfacenti, perché – tra l’altro – si tratta di persone non lontanissime dalla pensione e che di queste cose, in molti casi, hanno smesso di occuparsi negli anni immediatamente successivi al referendum dell’87.

La selezione del personale è fondamentale non solo perché, ovviamente, dalla sua qualità dipenderà l’efficienza e l’affidabilità dell’Agenzia. E’ importante anche perché, non appena formalmente insediata, essa entrerà nel mirino della Commissione europea, che dovrà valutarne la disponibilità finanziaria (che è un problema, vista la determinazione tremontiana di fare sostanzialmente a costo zero, facendo leva su personale già assunto nella PA e dotando l’Agenzia di un budget di appena 1,5 milioni di euro), la competenza e l’indipendenza. E’ sotto questo profilo che le due nomine dell’Ambiente potrebbero incontrare qualche resistenza. Il problema numero uno è che, pur avendo competenze utili al nucleare non ne hanno (per quel che se ne sa) sul nucleare. Il problema numero due è che il governo ha ritenuto di superare il problema dell’indipendenza creando sì un’Agenzia i cui componenti sono di nomina governativa, ma che dovrebbero essere protetti dall’irrevocabilità dell’incarico. Tuttavia, nominare due dirigenti del ministero che, ovviamente, hanno uno specifico rapporto di fiducia col ministro non è, forse, il migliore degli inizi.

Detto questo, sbaglia chi pensa di fare subito le barricate. L’Agenzia viene sì creata nell’ambito del progetto del governo di tornare all’atomo, ma la prima grana che dovrà affrontare sarà quella del deposito per le scorie. Un deposito che è necessario, dato che l’Italia ha comunque quattro centrali dismesse o in via di dismissione e che produce una quantità di scorie ospedaliere, a prescindere da qualunque scelta si faccia in merito alla produzione di energia nucleare. Pur coi limiti (attuali o potenziali) evidenziati, il nuovo collegio sembra avere un profilo indubbiamente alto. Speriamo che la “macchina” di cui verranno dotati sia all’altezza dei piloti.

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Sindacato per meno tasse? Evviva! /2010/09/13/sindacato-per-meno-tasse-evviva/ /2010/09/13/sindacato-per-meno-tasse-evviva/#comments Mon, 13 Sep 2010 19:54:07 +0000 Oscar Giannino /?p=7032 Domattina dedico la “versione di oscar” su radio24 all’annuncio venuto oggi da Cisl e Uil: le due confederazioni riuniranno congiuntamente le segreterie il 15 settembre, per varare una piattaforma di riduzione delle tasse, e scenderanno in piazza per questo il 9 ottobre. Lo dico prima di entrare nel merito delle loro proposte, prima di conoscerle in dettaglio anche se le immagino: dico e grido evviva. Evviva anche se magari dirò nel merito che è troppo poco e troppo tardi. Ma un evviva netto e chiaro. Non solo perché qualunque alleato per la riduzione della schiavitù fiscale è ben accetto. Ma perché il sindacato notoriamente nella storia italiana è un alleato potente. E se finalmente il sindacato si smuove dal solo mantra della lotta all’evasione per destinare più risorse ancora alla spesa pubblica ma – immagino – alla lotta all’evasione che resterà affianca finalmente anche richieste di riduzioni delle imposte, allora vuol dire che finalmente anche il lavoro dipendente comincerà a sentirsi dire da chi – ci piaccia o meno è altro discorso – lo rappresenta, che pagare le tasse NON è bellissimo, e quando poi le tasse sono abnormi è osceno. Non solo perché in cambio lo Stato offre quel che sappiamo. Ma perché più alte sono le tasse, maggiore è l’ingiustizia e l’inefficienza. E poiché nel nostro Paese le tasse sono altissime sia sul lavoro sia sull’impresa, è su entrambe che devono scendere per diminuire ingiustizia e inefficienza. Se avete dubbi, vi invito a leggere questo paper. E’ assolutamente illuminante. Lo ha scritto Richard Rogerson, fellow dell’American Enterprise.

Lo studio nasce in realtà dalla domanda se sia giusto, il tentativo di Obama in atto negli USA di estendere lo Stato e il suo prelievo fiscale sempre più verso grandezze europee. Ma poiché  per dimostrare la sua risposta – che è no – deve dimostrarne la ragione, e per farlo prende in considerazione gli effetti comparati che la tassazione sul lavoro esercita in concreto sulle ore lavorate in tutti i Paesi Ocse, ecco che i dati servono benissimo a riflettere anche a casa nostra, in Italia. Perché i dati mostrano inequivocabilmente che continua ad aver ragione il buon Ted Prescott, che ci ha preso il Nobel coi suoi studi sul rapporto che l’alta pressione fiscale esercita, disincentivando l’offerta di lavoro.

Per averne evidenza, prima ancora di leggere il paper andate direttamente alle due tabelle.  Nella tabella 1 trovate il totale della pressione fiscale e contributiva sul lavoro nei maggiori Paesi OCSE, nel 1960, 1980. e nel 2000. La media OCSE passa dal 25,4% del ’60, al 36% dell’80, al 41,9% nel 2000, cioè cresce in 40 anni di 16,5 punti. Gli Stati Uniti però sono il Paese che resta assolutamente sotto media, passando dal 22,1% del ’60 al 28,6% nel 2000, con un aumento di soli 6,5 punti. Tutti i Paesi europei hanno incrementi a doppia cifra e quasi sempre partendo da una  base iniziale più alta: la Germania passa da 33,5% al 47,7% con un più 14,2; la Francia passa da un 36,6% al 49,7% con un più 13,1; la Finlandia da un 26% al 52,4% con più 26,4. L’Italia è il Paese con la maggior crescita del prelievo sul lavoro nel quarantennio dopo appunto Finlandia e Svezia (quest’ultima passa dal 31,6% al 59,1% con un più 27,5). Sul lavoro italiano, la pressione ficale e contributiva  passa dal 25,5% del 1960 – una media pari allora a quella del Regno Unito – al 49,1% con un aumento di 23,6 punti (mentre il Regno Unito sale solo di 10 punti, e si ferma nel 2000 a un prelievo del 36%).

Qual è l’effetto sulle ore lavorate esercitato dal diverso andamento del prelievo tributario e contribuitivo? Andate alla tabella 2. In media le ore lavorate  settimanalmente per persona di età 15-64 nei Paesi Ocse passano da 28,1 nel 1960 a 23,3 nel 1980 a 22,5 nel 2000: in media cioè a un aumento nel quarantennio del 16,5% di tax rate reale corrisponde una diminuzione di ore lavorate pari a -18,7% in area Ocse.

Solo che questo dato è la media di due sottoinsieme assai diversi. Da una parte ci sono gli Stati Uniti (e il Canada), in cui la limitata crescita della pressione fiscale sul lavoro pari al solo 6,5% ha prodotto un aumento delle ore lavorate del 10% tra il 1960 e il 2000 (state attenti, la cifra delle ore lavorate nel 2000 USA è sbagliata per un refuso: ripetete quella sovrastante del Regno Unito ma ho controllato, in realtà non è 23,3 ma 25,3 rispetto alle 23,7 del 1960, dunque più 10% appunto). Nei Paesi europei, invece, in media maggiore è l’aumento della pressione fiscale maggiore è il decremento di ore lavorate:  in Germania il calo è del 30% passando dalle 28,7 del 1960 a 19,8; in Francia è del 35,3% passando dalle 29,8 a 19,3. In Italia il decremento è del 32,3%, passando da 31,2 ore settimanali a 21,2. L’unico Paese a fare vera eccezione alla regola è la Svezia, dove malgrado l’incremento di 27,5 punti di presione fiscale fino allo spaventoso 59%, il decremento di ore lavorate sui limita nel quarantennio al 7% cioè da 25,3 a 23,5: ma la spiegazione è che nel 1960 la media settimanale svedese era già la più bassa dell’Europa continentale, di 7,5 ore inferiore alla media britannica, d 5,9 rispetto all’Italia, di 3,4 rispetto alla Germania.

La conclusione è evidente. Più aumentano tasse e contributi, più la gente sta a casa invece di lavorare. Trovate tutta la letteratura del caso per approfondire indicata a fine saggio, se pensate che le differenze culturali abbiano un peso – ce l’hanno – come i più o meno efficienti sistemi nazionali di welfare – ce l’hanno anch’essi, e il nostro è inefficiente, basato sulle ipertutele rigide concentrate in capo ai dipendenti a tempo indeterminato.  Ma l’andamento dell’Olanda, disaggregato per periodi di tempo in cui tasse e contributi sono saliti rispetto a quando la politica ha deciso di abbassarli ( a differenza degli altri Paesi dove l’aumento non ha praticamente mai conosciuto se non soste, ma senza mai invertire segno), testimonia che a ogni discesa e risalita fiscale ha corrisposto inversamente un aumento o una diminuzione delle ore lavorate. Come volevasi dimostrare.

Per questo dico: evviva il sidnacato che si decide a scendere in piazze per meno tasse. Inevitabilmente anche di qui, passa la possibilità – per me: necessità – di una maggior produttività per l’Italia. Noi diremo sicuramente che i tagli a tasse e spesa servono più incisivi, ma il sindacato in questo caso dà una mano eccome. Perché rompe finalmente un tabù storico. Era tempo, santiddio.

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Zopa a ottobre ripartirà: ovvero, le “liberalizzazioni” alla prova dei fatti /2010/07/07/zopa-a-ottobre-ripartira-ovvero-le-%e2%80%9cliberalizzazioni%e2%80%9d-alla-prova-dei-fatti/ /2010/07/07/zopa-a-ottobre-ripartira-ovvero-le-%e2%80%9cliberalizzazioni%e2%80%9d-alla-prova-dei-fatti/#comments Wed, 07 Jul 2010 12:51:47 +0000 Carlo Lottieri /?p=6460 Esattamente un anno fa, Zopa Italia srl. (l’impresa che ha introdotto in Italia il “social lending”, ossia la possibilità di scambiarsi denaro direttamente tra privati, senza banche e finanziarie di mezzo) era stata bloccata dalle autorità incaricate di vigilare sul mercato.

In sostanza, per un lungo periodo era stato possibile dare e ricevere denaro grazie a un sito (www.zopa.it) che operava come strumento di connessione, raggruppando i potenziali debitori secondo classi di rischio, ripartendo i contributi destinati a vari debitori tra un ampio numero di offerenti (così che chi riceveva 10 mila euro per acquistare un’autovettura, in realtà, doveva ridare 20 euro a 500 soggetti diversi), attrezzando strumenti per la riscossione dei crediti.

Poi d’improvviso tutto viene sospeso. Ecco il comunicato dell’azienda, che ancora è leggibile sul sito di Zopa:

“In data 10 luglio 2009 è stato notificato a Zopa il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze che, su indicazione di Banca d’Italia, ha cancellato dall’elenco degli intermediari finanziari ex art. 106 la nostra società. Come conseguenza immediata ci vediamo costretti a sospendere la trattazione di nuovi prestiti e l’ingresso di nuovi Prestatori”.

Nelle scorse ore, però, la società ha informato i clienti che potrà tornare ad essere operativa a breve. È stato individuato un nuovo socio di riferimento e con esso l’opportunità di integrarsi in un gruppo finanziario indipendente. A questo punto – anche grazie all’entrata in vigore della direttiva 2007/64/CE del Parlamento Europeo e la creazione di una nuova tipologia di operatore finanziario a livello europeo (l’Istituto di Pagamento) – Zopa può presentare richiesta alla Banca d’Italia per operare come Istituto di Pagamento.

Se ogni va secondo le previsioni, a ottobre Zopa tornerà a servire i propri clienti.

Tutto bene è quel che finisce bene, se non ci fosse un “se”. E cioè il fatto che istituzioni europee, ministri dell’Economia e governatori delle Banche centrali da tempo hanno un solo mantra: le “liberalizzazioni”. Il guaio è che si parla in un modo e si razzola in un altro.

Questa vicenda di un’impresa chiusa per un anno solo perché permetteva di accedere a crediti a buon mercato e al tempo stesso assicurava redditi discreti (dato che veniva saltata l’intermediazione bancaria) sembra allora attestare più di molte altre cose come vi sia una discrasia tra le parole e i fatti, tra la retorica e l’azione.

Speriamo davvero che Zopa, a ottobre, possa riaccendere i motori. E che più in generale l’esigenza di aprire i mercati venga avvertita da tutti come un’esigenza veramente cruciale.

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Globalizzazione e civiltà: una lezione italo-polacca /2010/06/20/globalizzazione-e-civilta-una-lezione-italo-polacca/ /2010/06/20/globalizzazione-e-civilta-una-lezione-italo-polacca/#comments Sun, 20 Jun 2010 10:37:53 +0000 Carlo Lottieri /?p=6313 In queste ore i polacchi sono chiamate alle urne per eleggere il presidente che succederà a Lech Kaczynski, morto in occasione della sciagura aerea di Smolensk. Sono stato a Varsavia nei giorni scorsi ed è stato facile avvertire la tensione che accompagna tale decisione. Non è però di questo che intendo parlare, ma invece di un qualcosa che ho scoperto nella mia breve permanenza in Polonia e che ai miei occhi è assai più interessante di un semplice voto messo entro un’urna.

Due giorni possono essere pochi o molti. Ma confesso che le 48 ore trascorse a Varsavia tra mercoledì e venerdì, su invito di IC&Partners Warsaw, mi sono apparse un tempo importante, poiché mi hanno dato l’opportunità di accostare quel pezzo del nostro Paese che con più coraggio e intraprendenza sa guardare al mondo come al proprio orizzonte naturale; e quel pezzo di Polonia che ha saputo cogliere questa opportunità per crescere e progredire, valorizzando al meglio la propria antica tempra e il nuovo entusiasmo di chi finalmente – dopo l’89 – è uscito da un lungo incubo.

L’occasione è venuta da un convegno intitolato “Crisi economica: casualità o necessità?” con cui la IC&Partners di Varsavia ha inteso festeggiare i suoi primi dieci di attività. E se le relazioni e le discussioni sono state certamente interessanti (mi riferisco in particolare agli interventi di Mateusz Machaj e Robert Gwiazdowski del locale Mises Institute), ancor più sono rimasto colpito dalla qualità delle persone – imprenditori, professionisti, dirigenti, ecc. – incontrate in tale circostanza.

La IC&Partners è una struttura di professionisti e consulenti (presieduta da Roberto Corciulo, con sede a Udine) che è specializzata nell’assistere imprese, principalmente italiane, che vogliano sviluppare progetti di internazionalizzazione nei Paesi dell’Europa centro-orientale: Croazia, Serbia, Ungheria, Romania, Moldavia, Russia, Estonia, Cechia, Slovacchia e, certamente, Polonia. Il presidente della struttura polacca è Jacek Juszkiewicz, che ha alle proprie spalle studi di teologia morale e giurisprudenza, ha un’ottima conoscenza dell’italiano e molti amici, colleghi e clienti provenienti dal nostro Nord-est con i quali da tempo condivide molto più che le relazioni di lavoro.

Questo è un po’ il punto che vorrei enfatizzare. A Varsavia ho incontrato responsabili di aziende manifatturiere, costruttori edili, imprenditori attivi nel commercio e nella distribuzione, e altri ancora nei settori più diversi, e mi è parso subito chiaro come alla base della loro cooperazione vi fosse uno spessore umano che deriva certo dalle loro qualità personali, ma è egualmente espressione del miglior spirito capitalistico.

In un mercato davvero libero, l’esigenza di acquisire credibilità induce a comportamenti corretti e, nel corso del tempo, tutto questo diventa un qualcosa di naturale. Come già nella Venezia che nei secoli scorsi ha reinventato il commercio internazionale, l’imprenditoria e la civiltà procedono assieme, poiché non ci può essere sviluppo se taluni principi non sono saldi e se talune virtù non vengono custodite e valorizzate.

Mentre ascoltavo tali formidabili imprenditori (per lo più piccoli e medi) sempre pronti a lanciarsi in nuove iniziative – che si tratti della Bosnia come di Dubai, della Cina come dell’India, e così via – non potevo non pensare però a quegli universi politico-burocratici che le risorse non le costruiscono, ma invece le distruggono; a quegli apparati che non aprono le distinte società alla cooperazione e alla reciproca comprensione, ma invece alzano barriere; a quei poteri che costantemente progettano banche, imprese e infrastrutture non rischiando un solo euro di tasca loro, ma quasi sempre dilapidando la ricchezza prodotta da altri.

Sempre in questa logica, mi ha fatto un certo effetto il contrasto (tanto evidente) tra il vero spirito europeo che questa compagnia di amici con radici variamente polacche e italiane sta costruendo quotidianamente grazie al proprio lavoro, e il carattere totalmente artificioso degli apparati burocratici che, a Bruxelles, sembrano costantemente in guerra con il buon senso e la libertà d’impresa.

Nelle prossime ore l’informazione, anche da noi, si soffermerà sul nuovo presidente polacco, sul candidato sconfitto e così via. È l’albero che crolla e che, certamente, fa molto rumore. A me sembrano infinitamente più interessanti gli imprenditori incontrati a Varsavia: uomini che, lontani dai riflettori, costruiscono sviluppo economico e relazioni personali, opportunità di lavoro e nuove condizioni di vita. Sono alberi che crescono lentamente, sono la gloria del migliore capitalismo e una buona ragione per continuare a battersi e a sperare.

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Land grabbing /2010/05/19/land-grabbing/ /2010/05/19/land-grabbing/#comments Wed, 19 May 2010 06:48:33 +0000 Giordano Masini /?p=6002 Salmone.org è un sito ben fatto, dove ci si occupa di biotecnologie e OGM con la competenza degli addetti ai lavori. Oggi pubblica i risultati di una ricerca dell’Università Sacro Cuore di Piacenza, dove si evidenzia come l’Europa sia il più grande importatore di prodotti agricoli: solo nella stagione 2007-2008, mentre incentivavamo con ogni mezzo le aziende a rinunciare a produrre, abbiamo di fatto utilizzato 35 milioni di ettari altrui per soddisfare il nostro fabbisogno.

In pratica l’Europa importa derrate alimentari per 45 miliardi di dollari ed il resto del pianeta produce (non certo a chilometri zero) cibo per consentire agli europei di parlare di agricoltura non intensiva, di decrescita, di basso impatto, scandalizzandosi del fatto che la Cina compra milioni di ettari in giro per il mondo per produrre alimenti

C’è bisogno di aggiungere altro?

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Il telefono senza fili. Fantacronaca climatica /2010/04/30/il-telefono-senza-fili-fantacronaca-climatica/ /2010/04/30/il-telefono-senza-fili-fantacronaca-climatica/#comments Fri, 30 Apr 2010 13:44:56 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5835 Annunciata l’istituzione di un “telefono rosso” sul clima tra Europa e Cina. Provo a immaginare la tipica telefonata rossa tra Connie Hedegaard, commissaria europea per il cambiamento climatico, e Xie Zhenhua, capo negoziatore cinese sul clima e vicepresidente della commissione sviluppo e riforme.

Connie: Pronto Xie?

Xie: Pronto Connie. Come stai?

Connie: Qui a Bruxelles non smette di piovere e fa un freddo cane. Comunque abbiamo un nuovo rapporto che dimostra che questo è l’inverno più caldo degli ultimi centomila anni, il clima si è ormai tropicalizzato.

Xie (in sottofondo rumore di tastiera): Sì sì, lo penso anch’io.

Connie: Il nostro rapporto dimostra che la colpa è anche delle vostre emissioni.

Xie (in sottofondo rumore di tastiera): Sì sì, giovedì.

Connie: Come scusa?

Xie: Eh? Ah scusa, mi ero distratto un attimo. Temo anch’io. Bisogna fare qualcosa.

Connie: Un altro rapporto dimostra che con le fonti verdi creeremo sei miliardi di posti di lavoro, taglieremo i costi energetici del settemila per cento, e vivremo in un mondo ecocompatibile e senza più guerre.

Xie: Sì sì.

(cade la linea) tu… tu… tu…

Connie (ad alta voce): CHE CAZZO E’ SUCCESSO? PERCHE’ NON C’è PIù LUCE? CHIAMATE SUBITO QUEL CAZZO DI CINESE!

(voce fuori campo): SCUSA CONNIE, NON SOFFIA PIù IL VENTO IN NORDEUROPA. MA IL METEO DICE CHE TRA POCO DOVREBBE TORNARE, APPENA ABBIAMO LA CORRENTE RISTABILIAMO LA LINEA.

Connie: Pronto Xie? Scusa, abbiamo avuto un inconveniente tecnico.

Xie (in sottofondo rumore di tastiera): Sì sì… (ad alta voce) CAZZO, HU, MI HAI MANGIATO LA REGINA! (torna normale) Ehm, scusa Connie, una cosa urgente. Dicevi?

Connie (irritata): Dicevo che bisogna fare qualcosa sul clima. Noi taglieremo le nostre emissioni del 99% entro il 2099. E voi?

Xie: Anche noi, figurati.

Connie: Bene. E abbiamo un target intermedio del 50% entro il 2050. E voi?

Xie: Anche noi, come no. (ad alta voce) MERDA, IL PEDONE NO! (normale) Ehm, sì, il 50%, sicuramente.

Connie: Il primo irrinunciabile target deve essere però del 20% entro il 2020. Firmate l’accordo?

Xie: Connie, lo sai, lo penso anch’io, dobbiamo farlo, fosse per me anche subito… Ma in questo momento non posso impegnarmi formalmente, sai, devo vedere Hu e Wen la settimana prossima, abbiamo una riunione e la riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020 è proprio il primo punto all’ordine del giorno. Intanto però voi andate avanti, che poi noi vi seguiamo.

Connie: Bene, allora do subito l’annuncio a tutto il mondo. A presto. Buona giornata.

Xie: ok ok. Ciao. (ad alta voce) BASTARDO, E ORA CHE SEI SENZA TORRE COSA MUOVI?

- clic –

Connie (ad alta voce): CONVOCATE SUBITO UNA CONFERENZA STAMPA! TITOLO: EUROPA E CINA CONCLUDONO UN TRATTATO PER LA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI. E PERCHè FA COSì FREDDO?

(voce fuori campo): SCUSA CONNIE, è DI NUOVO NUVOLO, MA IL METEO DICE CHE TRA POCO SMETTE DI PIOVERE E TORNA IL SOLE, UN PO’ DI PAZIENZA CHE BASTA UN RAGGIO E I PANNELLI SI METTONO SUBITO A PRODURRE, AVREMO DI NUOVO IL RISCALDAMENTO. GUARDA COMUNQUE CHE NELL’ARMADIO C’è UNA PELLICCIA BIOLOGICA.

(intanto a Pechino…)

Xie: Questa volta ti è andata bene, ma solo perché dovevo parlare al telfono.

Hu: Chi era?

Xie: Quella tizia europea, quella del clima.

Hu: E che voleva?

Xie: Le solite robe, le ho detto di andare avanti che noi faremo la nostra parte.

Hu: Ah, vabbé. Settimana prossima ricordati la riunione, che dobbiamo parlare del nuovo programma nucleare e di quel progetto di gasdotto.

Xie: Sì sì, non dimenticarti di far scrivere nel comunicato stampa che siamo sensibili al clima eccetera.

Hu: Certo, ho pronta la solita dichiarazione. Tra l’altro hai sentito di quell’altra grande industria italiana che vuole delocalizzare da noi perché da loro l’energia costa troppo? Sai, quella che recentemente ha fottuto anche Obama con le auto elettriche, i camion a gpl, o che cazzo era. Proprio bravi quelli, dovremmo studiare il modello. Noi con gli americani ci abbiamo sempre smenato, ci hanno riempiti di bond che non valgono più un cazzo. Comunque, prima della riunione la rivincita a scacchi?

Xie: Guarda, proprio non ce la faccio. Devo inaugurare la nuova centrale a carbone.

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Non è la panacea di ogni male, ma il Fme è meglio delle sue concrete alternative /2010/03/10/non-e-la-panacea-di-ogni-male-ma-il-fme-e-meglio-delle-sue-concrete-alternative/ /2010/03/10/non-e-la-panacea-di-ogni-male-ma-il-fme-e-meglio-delle-sue-concrete-alternative/#comments Wed, 10 Mar 2010 12:11:44 +0000 Piercamillo Falasca /?p=5354 - Lo dico apertis verbis: a differenza di Oscar Giannino, a me la proposta di Daniel Gros e Thomas Mayer d’istituire un Fondo monetario europeo non dispiace. L’idea dei due mi convince alquanto soprattutto in termini ‘relativi’, e cioè rispetto alle alternative immaginabili: il governo economico della politica monetaria (di cui Sarkozy e sodali vanno troppo spesso discorrendo), la discrezionalità e la violazione sistematica del Trattato UE in materia di salvataggio degli Stati membri, la sempreverde armonizzazione fiscale.

Tra l’esercizio intellettuale di Gros e Mayer e l’eventuale implementazione c’è una distanza siderale, ovviamente, soprattutto se si considera quanti e quali passaggi politici ci vorrebbero per trasformare la proposta in un’istituzione reale, con tutti i danni che i Governi nazionali potrebbero arrecare al progetto originario. In concreto, Gros e Mayer partono da due assunti: primo, di fronte al dirompere di crisi finanziarie come quella greca, l’obiettivo delle istituzioni politiche non può essere quello di prevenire a tutti i costi i default sovrani, quanto quello di renderli possibili e possibilmente più ‘ordinati’; secondo, va limitato l’azzardo morale.

Il secondo assunto ispira il meccanismo di finanziamento del Fme immaginato da Gros e Mayer: contribuirebbero al Fondo solo i paesi che non rispettano i criteri di Maastricht. Si può discutere delle cifre, ma per mettere più carne al fuoco i due propongono un contributo pari all’1 per cento della quota di debito superiore al livello del 60 per cento del Pil e della quota di deficit eccedente il limite del 3 per cento del Pil. Fatti due conti, per fare un esempio, nel 2009 il governo di Atene avrebbe dovuto pagare al Fondo lo 0,65 per cento del proprio prodotto interno lordo. A spanne, il meccanismo determinerebbe una sorta di premio assicurativo a carico dei paesi membri, che sarebbero esenti nel caso i loro conti fossero disciplinatamente entro i margini fissati nel Patto di Stabilità. In questo modo, oltre che disincentivare – come si diceva – l’azzardo morale, si darebbe maggiore robustezza agli stessi parametri di Maastricht (finora essi sono poco più che un accordo tra gentilStati).

Il primo dei due assunti è, manco a dirlo, quello di cui meno avete sentito e sentirete parlare sui giornali, sebbene sia particolarmente ricco di significati: il Fondo non dovrebbe avere il compito di evitare i default (perché questi, come ripete la vulgata, determinano insostenibili rischi sistemici), ma quello di minimizzare le peggiori conseguenze risultanti dai default. Detto in altri termini, i default ci devono essere, perché solo così si restaura la disciplina di mercato, mentre il Fondo dovrebbe provvedere a che i loro effetti siano il più possibile circoscritti. A tal uopo, Gros e Mayer immaginano un sistema stile Brady bonds, con il Fondo che scambia il debito del paese in default con dei nuovi titoli, entro il limite del 60 per cento del Pil del paese. Il paese dichiarerebbe default, i creditori si accollerrebbero parte del costo del default ricevendo solo una quota dei titoli che avevano in portafoglio, ma il rischio sistemico sarebbe contenuto entro margini accettabili. Un interessante corollario, nella proposta formulata, è il seguente: il Fondo scambierebbe i propri bond solo con le obbligazioni precedentemente certificate e non con titoli risultanti da operazioni opache o segrete da parte dei governi nazionali.

Le obiezioni di Giannino sono comprensibil e largamente condivisibili. E’ vero, ad esempio, che prima di istituire il Fme, andrebbe sciolto il nodo del peso dell’Europa nel Fmi. Ed entrando più nel merito, ha ragione Giannino quando individua un’incongruenza di architettura istituzionale tra il Fme e la Bce e quando sottolinea il forte rischio di impopolarità della nuova istituzione. Allo stesso tempo, il meccanismo di finanziamento del Fondo (al netto dei problemi di enforcement dello stesso, non banali) è ovviamente ‘pro-ciclico’, inguaia chi è già di per se inguaiato.

Tuttavia, continuo a credere che non vi sia nessuna obiezione di Giannino che non possa essere affrontata con un buon finetuning dello strumento. Sul meccanismo di finanziamento, ad esempio, si può discutere a lungo e si possono trovare soluzioni più accettabili (ad esempio allargando la contribuzione anche ai paesi più virtuosi, a cui si può chiedere un prezzo per l’esistenza stessa dell’unione monetaria), a costo di non perdere la logica – a mio parere sana – del premio assicurativo. Più in generale, nessuno può pensare che il Fondo, individuando soluzioni solo per le politiche di bilancio, sia la panacea di tutti i mali dell’unione monetaria. Per quelli, restano valide tutte le necessarie riforme sul lato dell’offerta, le liberalizzazioni, le integrazioni dei mercati del lavoro, l’abbattimento delle barriere alla mobilità.

Ma se crediamo che il meglio sia nemico del bene, non possiamo non porci il problema delle alternative reali al Fme, molto peggiori del Fondo stesso da ogni punto di vista, istituzionale, giuridico, economico e politico.

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Un divertissement per convincere gli americani a non europeizzarsi /2010/01/22/un-divertissement-per-convincere-gli-americani-a-non-europeizzarsi/ /2010/01/22/un-divertissement-per-convincere-gli-americani-a-non-europeizzarsi/#comments Fri, 22 Jan 2010 18:35:33 +0000 Piercamillo Falasca /?p=4882 Qualche giorno fa Paul Krugman sentenziò sulle pagine del New York Times che gli Stati Uniti avrebbero dovuto imparare dall’Europa (“Learning from Europe”), un’economia dinamica quanto quell’americana – a detta dell’economista liberal – che avrebbe dimostrato come “la giustizia sociale ed il progresso possono andare mano nella mano”. Per Krugman è solo un vecchio luogo comune quello che dipingerebbe la socialdemocrazia europea come un modello economico rigido, lento e decadente.
Insomma, in vista di un’incombente europeizzazione degli Stati Uniti dell’era Obama (ma di “era” si potrà davvero parlare solo se il presidente supererà le forche caudine delle elezioni di mid-term e, soprattutto, il Mar Rosso delle presidenziali del 2012), ecco che i profeti liberal edulcorano il racconto di cosa sarà l’America all’europea.

Per chi nella vecchia Europa socialdemocratica ci vive – e noi italiani siamo più europei degli altri da questo punto di vista – il ragionamento di Krugman solleva due istinti diversi: da un lato, ci sono i sempreverdi anti-americani che esultano e cantano le lodi dell’economia sociale di mercato; dall’altro lato, stanno coloro che tristemente osservano il loro mondo ideale diventare sempre più simile al loro mondo reale.
Spetta agli americani decidere la via che intendono seguire. Da parte nostra, consigliamo loro di guardare lo schema che segue, che riprendiamo dal blog Super-Economy, curato dallo stravagante Tino Sanandaji, studente PhD a Chicago (e coinquilino di un mio grande amico, tra l’altro). E’ un divertissement per il fine settimana, non ha valore né pretese scientifiche, ma fa riflettere.

Prendiamo i circa 196 milioni di americani che si auto-classificano discendenti da uno dei paesi dell’Europa dei Quindici (escludiamo quindi coloro che si definiscono genericamente “europei”, “anglosassoni in senso lato” o “scandinavi”) ed osserviamo il reddito pro-capite per l’anno 2007 dei diversi gruppi. Se ogni paese Ue avesse un reddito pro-capite pari a quello degli americani che da quello stesso paese discendono, il reddito pro-capite dei Quindici sarebbe stato nel 2007 di circa 53mila dollari, anziché 33mila. Interessante.

Se gli americani riflettessero su queste cifre, siamo sicuri che vorrebbero davvero l’europeizzazione degli Stati Uniti?

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A400M, il bidone evitato da Martino: grazie Antonio! /2009/12/11/a400m-il-bidone-evitato-da-martino-grazie-antonio/ /2009/12/11/a400m-il-bidone-evitato-da-martino-grazie-antonio/#comments Fri, 11 Dec 2009 15:00:21 +0000 Oscar Giannino /?p=4273 Oggi primo volo dell’A400M, il velivolo da trasporto militare del consorzio pubblico Airbus-EADS. Nel 2001-02, l’allora ministro della Difesa Antonio Martino tenne fuori l’Italia dal megacontratto europeo, che accomuna Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Spagna, Regno Unito e Turchia. All’epoca, l’opposizione levò fuoco e  fiamme, accusandolo di antieuropeismo. Fui tra i pochi a difendere la bontà della scelta. Oggi più che mai penso sia giusto – lo faremo in pochi – tributare il giusto omaggio a Martino. Aveva visto lontano. Il contratto fu firmato nel 2003, le consegne dovevano cominciare nel 2010. Invece il programma è in ritardo di anni, e forse – forse – le prime vere consegne arriveranno nel 2014. Perché prima bisogna risolvere il problema degli extra costi, passati da 20 a 25 miliardi di euro. Con EADS, il gruppo franco-tedesco più strapuntino spagnolo di fatto pubblico, che rifiuta di addossarseli per la sua inefficienza come da contratto, e chiede invece li paghino i governi. Avremmo dovuto sobbarcarci a spese pazze, mentre tagliamo i bilanci della Difesa. Senza per altro avere gli aerei. È esattamente questa l’Europa statalista e sprecona dalla quale stare sempre lontano, tutte le volte che ci si riesce. Grazie Antonio!

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Think tank. Stato dell’Unione (europea) /2009/11/12/think-tank-stato-dellunione-europea/ /2009/11/12/think-tank-stato-dellunione-europea/#comments Thu, 12 Nov 2009 15:13:40 +0000 Pasquale Annicchino /?p=3737 Come per qualsiasi altra attività produttiva la produzione d’idee non è opera semplice. Uomini, mezzi, strutture e risorse non si creano dal nulla. Ancora più difficile diventa poi coordinare il tutto e mettere in campo delle idee non confinate o confinabili al mero dibattito accademico, ma capaci di “avere delle conseguenze”.

Se le istituzioni deputate alla produzione delle idee (spesso e soprattutto in Italia le università pubbliche) si rifugiano nel conservatorismo e nel nepotismo, a pagarne caro il prezzo sono i cittadini che ne hanno sovvenzionato le attività mediante la tassazione generale.

A tal proposito Chicago Blog ha già affrontato in alcuni interventi precedenti la rilevanza del fenomeno think tank e le pecche del sistema Italia.

 Diciamolo con serenità: sempre più spesso la cattiva qualità della nostra politica dipende anche dall’assenza delle idee o dalla mancanza di comunicazione tra il mondo accademico e quello dei decision makers. Come rimediare? Alcuni partiti hanno pensato di trasformare i vecchi “uffici studio” in think tank. I risultati? Sono stati pessimi. Il sottile equilibrio fra attendibilità accademica e capacità di diffusione delle idee prodotte non può reggere se delegato a strutture che fanno della fedeltà al leader e alla gerarchia il criterio unico di merito.

James McGann ha ben evidenziato queste difficoltà sottolineando le differenze fra l’Europa e gli Stati Uniti. Se i meriti, le strutture e le strategie del sistema dei think tank americani sono note, poco si è fin qui detto sulle  peculiarità del sistema europeo dei think tank.

Di fronte ad un incremento esponenziale del numero dei think tank europei, giunge dunque a proposito l’ultimo report del Think Tanks and Civil Society Program dell’Università della Pennsylvania: “European Think Tanks: regional and transatlantic trends”.

Come si comportano i think tank europei? Quasi per un effetto di path dependece i think tank europei sembrano assumere tutti i vizi del contesto accademico e sociale europeo. Risulta così che

  • c’è un’assenza di finanziamenti e donazioni da parte del settore privato, cui corrisponde anche l’errata percezione che possono essere solo le istituzioni pubbliche a condurre ricerche ed analisi a vantaggio della collettività;
  • la produzione dei think tank europei è molto accademica e poco attenta allo sviluppo di concreti obiettivi di policy;
  • rispetto ai think tank americani quelli europei hanno carenza di staff e di fondi (vedi punto 1) e quindi un impatto minore sul processo legislativo;

La storia dei think tank americani è una storia di successo. Dal punto di vista dell’impatto che sono riusciti ad avere sulle policies, della credibilità che queste istituzioni sono state capaci di ottenere e della capacità di produzione di classe dirigente.

Il fiorire di iniziative in questo settore in Europa, e soprattutto in Italia, non va invece nella direzione giusta. Troppi legami con le segreterie dei partiti, troppa voglia di imbrigliare le idee e le persone entro i ristretti confini delle necessità politiche dell’adesso. Solo strategie di lungo periodo, una continua interazione fra ricerca, accesso ai media ed ai decision makers, ed il rispetto della libertà di chi lavora in queste istituzioni potrà dar vita ad una esperienza di successo simile a quella americana.

A tal proposito il report offre alcuni interessanti suggerimenti:

  • Lo sviluppo di partnership pubblico/privato per lo sviluppo di think tank che si occupino di analisi pan-europee;
  • La necessità d’interazione fra i think tank nazionali per lo sviluppo di analisi regionali;
  • Progetti di finanziamento privato per lo sviluppo di analisi della legislazione comunitaria sui ventisette stati membri;
  • Sviluppo di strategie di comunicazione che possano raggiungere tutta l’opinione pubblica europea.

In buona sostanza, come rileva giustamente il report, i think tank europei dovranno dedicare particolare attenzione anche allo sviluppo di iniziative europee e non solo nazionali. L’Europa legifera e decide. Che piaccia o meno.

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