CHICAGO BLOG » elettricità http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Lo spezzatino indigesto di Tremonti /2010/09/14/lo-spezzatino-indigesto-di-tremonti/ /2010/09/14/lo-spezzatino-indigesto-di-tremonti/#comments Tue, 14 Sep 2010 09:56:59 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7037 Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si è recentemente lamentato delle privatizzazioni all’italiana. In particolare, ha detto:

L’apparato produttivo del Paese ha perso la sua massa critica. Ci devono spiegare perche’ le privatizzazioni sono state fatte cosi’. Lo ’spezzatino’ indica quali erano gli appetiti… L’unica struttura dimensionale all’altezza la conservano i gruppi che sono ancora dello Stato. Mi chiedo a cosa sia servito, ad esempio, lo spezzatino dell’Enel, mentre la Francia oggi puo’ contare in questo settore su un colosso di dimensioni internazionali.

A parte che, l’ultima volta che ho controllato, l’Enel – sia pure spezzatinata – aveva ancora lo Stato come azionista di controllo, forse il ministro non si è accorto di alcuni, trascurabili risultati che sono stati raggiunti negli ultimi anni.

Anzitutto, la storia. Enel nasce nel 1962 con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e assorbe tutta la pluralità di operatori privati allora esistenti. Sopravvivono solo un pugno di municipalizzate. Rimane un ente di Stato fino al 1992, quando viene trasformata in società per azioni (il cui capitale è interamente nelle mani del Tesoro). Gli anni fino al 1998 sono un periodo di profonda riorganizzazione, durante i quali la trasformazione da “ministero” a società deve prendere, e prende, sostanza. Sono anche gli anni in cui matura il progetto (poi abortito) dell’Enel “multiutility”, ma questa è una storia diversa (e sovrapposta). Contemporaneamente, il paese inizia a dotarsi degli strumenti richiesti dalle direttive europee in vista della liberalizzazione: la stessa Autorità per l’energia diventa operativa nel 1997, sotto la guida di Pippo Ranci.

La svolta è però nel 1999, quando il decreto Bersani apre formalmente il mercato alla concorrenza, imponendo tra l’altro un tetto antitrust del 50 per cento alla quota di mercato dell’Enel. Da qui nasce l’esigenza dello spezzatino: esso viene fatto per “liberare” i consumatori dal monopolio. L’effettiva libertà di scelta è ancora lontana, ma il frutto non può essere distinto dall’albero. E alle radici dell’albero c’è questa scelta che è virtuosa e, come vedremo, conveniente. Ma, prima ancora dello spezzatino, Enel viene quotata in borsa. Questo è l’inizio della “privatizzazione”: l’anno è il 1999, cioè l’anno del decreto Bersani, l’anno in cui lo Stato deve far tornare i conti per entrare nell’euro, l’anno in cui tutte le decisioni successive vengono, se non prese, almeno impostate.

Lo spezzatino si sostanzia col conferimento di un pacchetto di centrali a tre GenCo – Eurogen, Elettrogen, Interpower – attraverso le quali Enel aliena circa 15.000 MW di potenza. Teoricamente i tre portafogli vengono composti in modo “equo”, cioè in modo tale da non mantenere i gioielli nel recinto Enel e le carrette al di fuori. Non sempre le ciambelle riescono col buco, e non tutti i buchi sono delle dimensioni adatte, ma – ancora una volta – il meglio è nemico del bene e qui, indubbiamente, di bene stiamo parlando. I primi acquirenti delle Genco sono, rispettivamente, Edipower (2002), un consorzio tra Endesa Italia e Asm Brescia (2001), e un consorzio tra Acea ed Electrabel-Suez (2002). Successive riorganizzazioni societarie, e soprattutto l’incredibile e (per quel che ne so) senza precedenti ondata di investimenti che dopo il 2003 ha rinnovato gran parte della flotta esistente ha infine plasmato il mercato e determinato la struttura dei principali attori. Una sorta analoga segue la rete di trasmissione nazionale, conferita inizialmente a una società del gruppo Enel (Terna) e gestita da un organismo pubblico (il Grtn): il sistena troverà la sua razionalità nel 2004, con l’alienazione di Terna e la sua “privatizzazione” e la conseguente unificazione di proprietà e gestione. Anche qui, l’ultima volta che ho controllato Terna aveva lo Stato come azionista di controllo. Sempre l’ultima volta che ho controllato, negli anni in cui tutto questo avveniva (2001-2004) il presidente del consiglio era Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia era Giulio Tremonti, che nella sua “lettera d’addio” (quando a Via XX Settembre fu sostituito da Domenico Siniscalco) rivendicò i risultati raggiunti:

nel periodo in cui ho avuto l’onore di servire il Paese come ministro dell’Economia nel governo Berlusconi, l’Italia ha operato circa un terzo delle privatizzazioni operate in tutto il mondo, in pari periodo, e ha centrato il record europeo delle privatizzazioni.

(Hat tipo: Goffredo Galeazzi).

Il resto non è storia ma cronaca, o qualcosa che sta nel mezzo. Enel è cresciuta sana e robusta (seppure indebitata per l’importante campagna di acquisizioni) e oggi si definisce ”una multinazionale dell’energia”: non sono sicuro che, potendo scegliere tra l’essere azionista di Enel o di Edf (il presunto esempio positivo nella citazione iniziale di Tremonti), il ministro dell’Economia preferirebbe il gruppo francese. L’apparente paradosso è che, contemporaneamente, sono cresciute sia Enel, sia i concorrenti, tanto che oggi esistono almeno cinque gruppi di grandi dimensioni nella generazione elettrica (Enel, Edison, Eni, Edip0wer, E.On) e svariati altri di dimensioni medie o piccole.

La privatizzazione e lo spezzatino si sono sviluppati di pari passo con la progressiva apertura del mercato, che dal 1 luglio 2007 riguarda tutti i consumatori, compresi quelli domestici. Come spieghiamo nell’Indice delle liberalizzazioni, il mercato ha così raggiunto un grado di apertura dignitoso sia in assoluto, sia rispetto ai benchmark più sfidanti (nel nostro caso, la Gran Bretagna). Con o senza benefici per i consumatori? La risposta sta non solo nei risultati raggiunti in termini di “switch” (cioè l’effettiva mobilità dei consumatori) che non sono disprezzabili, ma anche e soprattutto nel mutamento generale che privatizzazione e liberalizzazione e spezzatino hanno imposto al settore. Il bilancio di questi anni sta nella presentazione della relazione annuale del Presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis:

A questi fini serve pure completare e sostenere le liberalizzazioni e le regolazioni che hanno già garantito risultati importanti: nel settore elettrico del nostro Paese, ad esempio, una riduzione di oneri stimabile in più di 4,5 miliardi di euro all’anno, rispetto al 1999. A questo dato ha contribuito, per il 40%, la riduzione di componenti tariffarie regolate e, per il 60%, la pressione competitiva che ha indotto investimenti per impianti nuovi e più efficienti.

Ciascuno è libero di valutare autonomamente questi dati – se siano positivi o negativi, meglio o peggio di quanto si attendeva – ma sarebbe sbagliato ignorarli. E’ appena il caso di osservare che, nonostante l’aumento esponenziale dei prezzi dei combustibili nel periodo pre-crisi, i prezzi dell’energia elettrica in Italia sono restati (in termini reali) costanti o moderatamente crescenti, e ciò per effetto proprio della cornice competitiva che è stata creata. Dunque, per tornare al punto di partenza, è difficile sostenere che la somma di privatizzazione, spezzatino e liberalizzazione abbia penalizzato l’Italia. E sarebbe ingeneroso pensare che la sola liberalizzazione, senza la (parziale) privatizzazione e senza lo spezzatino, avrebbe sortito risultati altrettanto significativi in così poco tempo. Chi è sfiorato da questo dubbio, dovrebbe chiedersi perché nulla del genere si sia verificato nel contiguo settore del gas, dove – a una liberalizzazione formale – non ha corrisposto il tentativo di “smontare” il monopolio dando respiro alla concorrenza (in parte, va riconosciuto, perché i fondamentali del business sono diversi: ma non così diversi da impedire un’evoluzione parallela). Questo non significa che tutto va bene: significa che tutto va meglio (e potrebbe andare ancora meglio se applicassimo, con più convinzione, gli insegnamenti di questo decennio). Per usare una formula abusata, rovesciandola, molto resta da fare, ma molto è stato fatto. Con errori e ingenuità, ma nondimeno nella direzione giusta e con conseguenze concrete.

Il ministro Tremonti ci ha abituati al suo gusto per la provocazione, ma la provocazione non può prescindere da una base fattuale che, nel caso in questione, esiste, è facilmente accessibile e si suppone sia nota al responsabile dell’Economia, quanto meno nella sua veste di azionista di Enel (e percettore di dividendi forse perfino troppo lauti). Dunque, la domanda di Tremonti non è retorica. Il ministro si chiedeva “a cosa sia servito… lo spezzatino dell’Enel”. E’ servito a creare un’azienda seria, un mercato che funziona abbastanza bene, e un sistema elettrico che non ha nulla da invidiare, e molto da insegnare, ai competitor europei.

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Nucleare. Tre proposte per migliorare il decreto /2010/01/19/nucleare-tre-proposte-per-migliorare-il-decreto/ /2010/01/19/nucleare-tre-proposte-per-migliorare-il-decreto/#comments Tue, 19 Jan 2010 10:14:11 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4836 Oggi inizia, nelle Commissioni parlamentari competenti, l’esame dello schema di decreto approvato dal governo il 22 dicembre 2009, sulla realizzazione e l’esercizio degli impianti nucleari. Il decreto, segnato chiaramente dalla mano del ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, rappresenta finalmente un solido elemento di discussione: si cominciano, insomma, a vedere i contorni di un fatto reale, e non più mere parole o promesse. Rispetto alle intenzioni originali, è possibile constatare significativi passi avanti, tesi a calare la tecnologia atomica nel contesto di un mercato liberalizzato. Diego Menegon, in questo Briefing Paper dell’IBL, entra nel merito dei problemi.

Il giudizio è generalmente positivo, soprattutto rispetto alla scelta di lasciare al mercato (cioè agli operatori) l’individuazione dei siti. L’Agenzia per la sicurezza, infatti, emanerà delle linee guida ad excludendum, che consentiranno di definire le condizioni ostative alla creazione di un impianto. Spetterà però a chi è materialmente interessato a investire nell’atomo – in primis la cordata Enel/Edf, a seguire altre eventuali cordate concorrenti – trovare un sito appropriato e presentare un progetto alla roulette autorizzativa. Questo processo è molto più logico del contrario – lo Stato individua i siti e li assegna tramite gara – non solo perché scorre parallelo a quanto avviene per qualunque altro impianto di produzione elettrica, ma anche e soprattutto perché indebolisce, e molto, le possibilità governative di pianificazione numerica e, dunque, di decidere direttamente chi deve fare cosa e quanto.

Restano, però, degli elementi ambigui, che meritano un intervento. I tempi ci sono e, se il governo continuerà a gestire il nucleare in un’ottica di dialogo con l’opposizione, non è improbabile che almeno alcuni punti vengano fissati. In particolare, Menegon avanza tre proposte:

-          ribaltare le regole del dialogo tra poteri pubblici e operatori privati nella definizione delle linee strategiche. Il testo trasmesso al parlamento prevede che l’esecutivo definisca una strategia nucleare alla quale le imprese sono tenute a dare attuazione con propri programmi equiparati per molti aspetti ad atti della pubblica amministrazione. Occorre, invece, chiarire la natura di soft law della strategia nucleare, garantire la partecipazione degli operatori alla sua definizione e liberare i successivi passi della politica nucleare (definizione dei parametri per l’individuazione dei siti e presentazione delle istanze di autorizzazione) dall’adozione definitiva della strategia nucleare.

-          unificare (davvero) il procedimento. Attualmente è previsto un procedimento di certificazione dei siti, su iniziativa degli operatori, distinto dal procedimento autorizzativo degli impianti. Accorpando i due procedimenti si avrebbe non solo una semplificazione ed una significativa riduzione dei tempi (probabilmente di oltre 14 mesi), ma si garantirebbe in modo più efficace la certezza del diritto e il principio di legittimo affidamento; concentrando il momento della concertazione con regioni ed enti locali in alcuni momenti salienti del processo decisionale, infatti, si conterrebbe il rischio di veder sconfessata da una nuova maggioranza politica un’intesa conseguita con l’amministrazione regionale uscente.

-          affidare le attività di smantellamento degli impianti a fine vita agli esercenti. Lo schema di decreto contraddice l’orientamento del legislatore comunitario, conferendo ad un unico soggetto un diritto di esclusiva sull’espletamento delle medesime attività, per altro in un regime di fissazione dei costi che sfugge ad ogni controllo e che espone gli operatori all’impossibilità di poter verificare la giustezza delle richieste economiche loro avanzate. È opportuno, invece, che siano gli operatori a provvedere al decommissioning e che il relativo fondo sia istituito per garantire le risorse in caso di default dell’operatore.

A queste criticità se ne aggiungono altre due, una interna e una esterna al decreto. Quella interna riguarda le modalità di compensazione a favore dei cittadini delle aree interessate. Pensare di applicarle alla bolletta della luce è discutibile, sia per ragioni antitrust, sia perché di fatto significherebbe fiscalizzarle, secondo processi tortuosi e ambigui. Si possono considerare diverse opzioni: io resto persuaso che il modo migliore sia attraverso un contributo cash, che sia una tantum o ricorrente. Il secondo problema è quello dell’Agenzia di sicurezza, il cui ruolo – tecnico e di comunicazione – è, contemporaneamente, la pietra di volta e l’anello debole della catena nucleare. Vuoi per il sottofinanziamento (1,5 milioni di euro nel 2010…), vuoi per la procedura di nomina insufficiente a garantire l’indipendenza (nomina governativa senza ratifica parlamentare a maggioranza qualificata) è forte il rischio che tale organismo venga visto come un’emanazione diretta dell’esecutivo, piuttosto che un ente di garanzia, tecnicamente credibile e socialmente accettato. La qualità delle nomine potrà davvero fare la differenza.

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Put your policies where your mouth is /2009/10/07/put-your-policies-where-your-mouth-is/ /2009/10/07/put-your-policies-where-your-mouth-is/#comments Wed, 07 Oct 2009 08:39:02 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3149 Il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, lamenta spesso lo svantaggio competitivo di cui le imprese italiane sono gravate, a causa di costi energetici più alti della media europea e di un sistema energetico meno efficiente e meno flessibile. Con l’ultima segnalazione al Mse, l’Autorità per l’energia offre risposte esaustive e convincenti a una serie di problemi strutturali e gravi. Non sono d’accordo su tutto (per esempio ho dei dubbi sul ricorso estensivo alle gas release e sull’approccio del regolatore alla distribuzione locale del gas) ma, nella maggior parte dei casi, l’organismo presieduto da Alessandro Ortis si puntella su un’analisi corretta e avanza suggerimenti interessanti. Non sarebbe forse il caso di prenderlo sul serio e applicare almeno alcune delle ricette presentate?

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Una domanda (atomica) per Claudio Scajola /2009/09/23/una-domanda-atomica-per-claudio-scajola/ /2009/09/23/una-domanda-atomica-per-claudio-scajola/#comments Wed, 23 Sep 2009 12:31:50 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2934 Fin dal suo insediamento, il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha preso l’impegno di riportare l’Italia nel club nucleare. Condividiamo questo sforzo e gliene siamo grati. Scajola ha spesso detto – lo ha ribadito ancora oggi nell’intervista con Fausto Carioti per Libero – che

abbiamo previsto un mix equilibrato e realistico: 25 per cento di elettricità dalle rinnovabili, 25 per cento dal nucleare e il restante 50 per cento dalle fonti fossili.

Non intendo oggi contestare il principio della determinazione politica della quota di mercato delle varie fonti. Mi limito a sottolineare che trovo questo modo di procedere incompatibile col buon funzionamento di un mercato liberalizzato (per la stessa ragione per cui è ferocemente distorsivo il piano 20-20-20 dell’Unione europea). Inoltre, come dimostra il bel libro di Alberto Clò, Il rebus energetico, questo genere di piani è generalmente buono solo per prender muffa. Voglio invece prendere sul serio l’obiettivo scajoliano, e fingere che, in qualche modo, nel 2020 avremo davvero quella ripartizione nella generazione elettrica. La mia domanda è:

Signor ministro, che ce ne facciamo della capacità termoelettrica in eccesso, e come saranno risarcite, se lo saranno, quelle compagnie che hanno investito sulla base di un’aspettativa completamente diversa riguardo il futuro della regolazione nel settore elettrico?

Mi spiego.

Anzitutto, non è chiaro se la ripartizione 25-25-50 si riferisca, nelle intenzioni del ministro, alla capacità installata oppure all’elettricità prodotta. Prenderò in considerazione entrambe le ipotesi.

Secondo i dati Terna, nel 2008 il parco elettrico italiano comprendeva circa 70 GW termoelettrici, 21,5 idroelettrici, poco meno di 4 rinnovabili, e ovviamente zero nucleari. Queste fonti hanno prodotto, rispettivamente, 249 TWh, 46 TWh, 5 TWh, e ovviamente zero terawattora nucleari. Ne segue che, mediamente, il parco termoelettrico ha lavorato per circa 3500 ore, quello idroelettrico per 2160 ore, quello rinnovabile per 1273 ore, quello nucleare per zero ore. Come dovranno cambiare questi dati, per consentire (a) il soddisfacimento del fabbisogno, che realisticamente sarà più alto di quello attuale, e contemporaneamente (b) gli obiettivi di Scajola?

Per rispondere, bisogna fare alcune ipotesi. Anzitutto, riguardo i consumi prendo per buone le previsioni della Commissione europea, secondo cui nel 2020 il nostro paese richiederà 437 TWh. Questa previsione rappresenta quasi certamente una sovrastima del reale consumo, perché risale a prima della crisi: tuttavia, questo mi pone in una posizione favorevole a Scajola. Suppongo inoltre che la realizzazione di nuova capacità (nucleare e rinnovabili) sostituirà le importazioni, che si ridurranno a zero. Faccio infine alcune ipotesi sulle ore di funzionamento e sulla capacità installata:

  • Termoelettrico: suppongo che le ore di funzionamento medie resteranno immutate, cioè 3500;
  • Idroelettrico: suppongo che sia la potenza installata, sia le ore di funzionamento, e quindi la quantità di energia generata, rimarrà invariata da qui al 2020;
  • Rinnovabili: suppongo che ci sarà una forte innovazione tecnologica, quindi le ore di funzionamento medie del parco rinnovabile non-idro cresceranno da meno di 1300 a 2000;
  • Nucleare: suppongo che le ore medie di funzionamento dei nuovi impianti nucleari saranno circa 7000 all’anno; inoltre suppongo che, da qui al 2020, sarà possibile installare tutta la capacità necessaria a raggiungere l’obiettivo scajoliano, comunque definito.

A questo punto, è facile procedere ai conti della serva – del tutto privi, naturalmente, di qualunque affidabilità riguardo ai valori assoluti, ma ritengo ragionevoli in relazione agli ordini di grandezza.

Se l’obiettivo 25-25-50 si riferisce all’energia prodotta, la produzione termoelettrica dovrà scendere da 249 TWh a 219, con un eccesso di circa il 12 per cento. Se ipotizziamo di mantenere le stesse ore medie di funzionamento del 2008, in termini di capacità questo significa che dovremo “buttare via” circa 8500 MW termoelettrici. Quanto al nucleare, utilizzarlo per soddisfare un quarto dei consumi significa assegnargli una produzione di quasi 110 TWh, per i quali sarà necessario installare tra i 15 e i 16 GW di potenza, pari a una decina di centrali da 1,6 GW (sotto la mia ipotesi di 7000 ore).

Se invece l’obiettivo di Scajola va letto in termini di capacità, il percorso è un po’ più laborioso, ma il risultato ancora più clamoroso. Infatti, la capacità termoelettrica dovrebbe scendere ancor più vistosamente da 71 GW a circa 55 GW, un calo del 22 per cento. Parallelamente, sarà necessario installare 27,5 GW nucleari, cioè circa 17 centrali da 1,6 GW.

La mia conclusione provvisoria è che, comunque si interpreti l’obiettivo, (a) al 2020 è estremamente improbabile che sia raggiunto; (b) se verrà raggiunto, renderà obsoleta una quota molto importante dell’attuale parco termoelettrico, parte della quale non sarà ancora stata ammortizzata e quindi determinerà una perdita secca nei bilanci delle aziende (perché realisticamente ciò significherebbe una riduzione delle ore di funzionamento). Inoltre, lo stesso tipo di ragionamento andrebbe svolto riguardo agli approvvigionamenti di gas: un calo della produzione termoelettrica equivale a una riduzione della domanda di gas, a dispetto dell’enfasi (anche politica) che è stata posta negli ultimi anni sull’esigenza di realizzare nuove infrastrutture di adduzione. Quindi, una domanda del tutto analoga a quella che ho posto, andrebbe declinata riguardo al metano.

Torno alla mia domanda iniziale, allora, e la integro:

1. Signor ministro, che ce ne facciamo della capacità termoelettrica in eccesso, e come saranno risarcite, se lo saranno, quelle compagnie che hanno investito sulla base di un’aspettativa completamente diversa riguardo il futuro della regolazione nel settore elettrico?

2. Signor ministro, poiché una penetrazione tanto capillare della fonte nucleare ridurrebbe la domanda di gas, come pensa di rispondere alle proteste di quelle aziende che hanno investito nella realizzazione di nuove infrastrutture (terminali di rigassificazione e pipeline) sulla base di un’aspettativa di maggiore domanda, trainata anche dal settore termoelettrico e accreditata da tutti i governi che si sono finora succeduti?

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Nucleare: il tempo della credibilità /2009/09/21/nucleare-il-tempo-della-credibilita/ /2009/09/21/nucleare-il-tempo-della-credibilita/#comments Mon, 21 Sep 2009 14:30:38 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2900 C’è un tempo per la propaganda, e c’è un tempo per la credibilità. Sul nucleare, le promesse un po’ fru-fru sulla “prima pietra in cinque anni” sembrano ormai lontani un secolo. Va dato atto al governo di essere riuscito a predisporre una “traccia” di quelle che saranno le tappe per il ritorno all’atomo, sebbene i problemi aperti siano ancora molti e non secondari. Alcune scelte le trovo molto giuste – come la determinazione a garantire la linearità del percorso amministrativo. Altre, molto discutibili – come i vari tracheggiamenti sull’Agenzia di sicurezza, per non dire dei siluri scajoliani all’Autorità per l’energia. Comunque, lo sfondo dell’azione governativa è impostato: si tratta ora di guardare avanti, cercando di correggere i passi falsi e indurre il paese a prendere le misure necessarie e sufficienti (non di più) alla realizzazione di nuova capacità nucleare, dopo un blackout durato trent’anni. Un interessante contributo alla comprensione di cosa la maggioranza abbia in mente viene dalla lettura della ricca intervista concessa da Stefano Saglia, sottosegretario allo Sviluppo economico con delega all’energia, a Quotidiano Energia (subscription required).

Saglia dice tre cose particolarmente interessanti. La prima:

L’indirizzo di Scajola è rispettare i tempi.

Questa intenzione – che segue a una serie di ritardi nell’approvazione delle norme finora votate dalle Camere – va letta in stretta connessione con quella seguente, che si riferisce al vero perno di breve termine dell’intera operazione: lo Statuto dell’agenzia di sicurezza nucleare, che dovrebbe essere chiuso entro metà novembre. Dice Saglia:

è questo il vero testo che abbiamo pronto, già collazionato dal tavolo degli esperti con l’ufficio legislativo del Mse e che verificheremo in maniera approfondita col Minambiente prima di emanarlo.

L’altra scadenza, quella per l’emanazione del decreto attuativo della delega, teoricamente dovuto entro metà febbraio, è meno rilevante, perché a monte e a valle di esso si farà un intenso lavoro di negoziazione con gli stakeholder. Lo statuto dell’agenzia è, invece, una delle cartine al tornasole sulla sostenibilità di lungo termine del progetto. Anche se Saglia parla di “un’autonomia decisionale molto spinta“, la natura dell’agenzia è proprio uno dei passaggi meno convincenti finora approvati. Infatti, la nomina dei commissari è di fatto affidata alla maggioranza di turno, ed è dunque politica. Non importa se poi i nominati sono effettivamente autorevoli: il punto è che il sospetto che siano lì per rispondere a una missione reale non totalmente coincidente con quella formale è ineliminabile. Cosa di cui si rende conto, pur senza dirlo esplicitamente, lo stesso Saglia, che infatti riconduce l’autorevolezza dell’istituzione non già al collegio, bensì alla struttura, tant’è che il passaggio chiave, secondo il sottosegretario, si materializzerà

affidando importanti responsabilità al direttore generale.

E’ una scelta legittima e, probabilmente, si tratta l’unico modo di mettere una pezza su una mossa avventata, ma i dubbi restanto – tanto più che la dotazione finanziaria dell’ente sarà, con rispetto parlando, ridicola (500 mila euro subito, 1,5 milioni i prossimi anni). Il problema è che, se gli enti tecnici mancano della necessaria credibilità e affidabilità, si complica sia la missione di convincere i territori a ospitare nuove centrali, sia quella di costruire un dialogo con l’opposizione (dialogo che è fondamentale perché queste scelte o sono condivise o non sono, ma di cui, al momento, non si ha notizia né formale né informale). 

Terzo tema sollevato da Saglia è quello della tecnologia, dove si legge un chiaro – e giusto – cambiamento di rotta rispetto alle intenzioni iniziali – un cambiamento di rotta che fa seguito ad analoghe correzioni dello stesso Scajola e che risponde a quel passaggio dell’intervista dell’ambasciatore americano, David Thorne, il quale ha sibillinamente alluso al programma nucleare del governo. (Fino a oggi l’orientamento è stato quello di individuare una e una sola tecnologia per il nostro paese: quelle francese, mandando su tutte le furie gli americani e facendo squagliare le aspettative di business di Ansaldo Energia, ricompensata però con lo scalpo di Sogin). Dice Saglia:

non faremo una scelta univoca perché le quattro più significative [tecnologie] possono essere idonee. Al governo non sfugge comunque che la proposta Enel-Edf ha dei punti di forza perché c’è uno scambio ormai da anni di competenze e conoscenze.

E’ un’ammissione importante, non tanto sul piano pratico – perché quel che si farà nel futuro prevedibile, se si farà, sarà francese – quanto su quello dell’impostazione generale, che diventa istantaneamente meno dirigista e più compatibile con un contesto liberalizzato. E’ ancora presto per vedere quanto di tutto questo si tradurrà in pratica, e come, ma mi pare di intravvedere in filigrana che la sensibilità di Saglia (insediatosi da pochi mesi) sta cominciando a fornire un contributo al processo che potrebbe portare l’Italia nel club atomico. Se così fosse, ne avrebbero tutti da guadagnare, compresi gli antinuclearisti che almeno si garantirebbero un nucleare “di mercato” anziché sussidiato.

Questo è probabilmente il momento più delicato nella strategia del governo: aggiungere nuovi errori, o non riuscire a correggere quelli vecchi, potrebbe essere fatale. Le scelte adottate e poi attuate devono anzitutto essere credibili: altrimenti tutto si ridurrà a una bolla di sapone.

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El nucleare xe venexian? /2009/07/20/el-nucleare-xe-venexian/ /2009/07/20/el-nucleare-xe-venexian/#comments Mon, 20 Jul 2009 12:34:41 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1701 Qualche giorno fa mi chiedevo: nucleare dove? Un indizio arriva oggi dal lungo articolo di Dario Di Vico sul Corriere Economia, che avvalora la tesi secondo cui almeno un impianto dovrebbe trovare sede in Veneto. All’indomani dell’approvazione del ddl Sviluppo, che per la prima volta apre la strada all’atomo, il governatore del Veneto, Giancarlo Galan, era stato l’unico a dichiararsi disponibile a ospitare una centrale. Oltre a lui, solo Raffaele Lombardo, presidente della Regione Sicilia, aveva lasciato uno spiraglio aperto, subordinando però la sua disponibilità all’esito positivo di un referendum popolare. Di Vico ricostruisce il dibattito veneto, sottolineando le perplessità già manifestate da esponenti di primo piano della Lega, pronti a cavalcare le opposizioni popolari (nonostante il partito sia ufficialmente favorevole al nucleare). Opposizioni non trascurabili, se bisogna dar retta al sondaggio condotto dalla Fondazione Nord Est e ricordato dallo stesso Di Vico: il 52,2 per cento dei cittadini sarebbe contrario, mentre solo il 7,2 per cento sarebbe favorevole a prescindere e un più incoraggiante, ma complicato, 32,2 per cento lo sarebbe “a patto di avere certezze sulla sua salute”.

Sul fronte del sì, ed è un’adesione significativa ancorché resta da capire se ci sia qualche contropartita implicita, il capo degli industriali, Andrea Tomat. Di Vico cita una serie di ragioni per cui il Delta del Po, Mestre e Marghera non potrebbero essere considerati: il primo è soggetto a frequenti alluvioni, le altre due sono troppo densamente popolati. Una centrale atomica, infatti, deve soddisfare una serie di requisiti, tra cui i più ovvi riguardano la disponibilità d’acqua (che potrebbe essere ovviata con una torre di raffreddamento, che in Italia sembra tabù) e una collocazione in una zona la meno popolata possibile. Oltre a questo, occorre una rete sufficientemente robusta da sostenere un carico significativo e costante come quello immesso da una centrale nucleare: un impianto di grande potenza (diciamo 1,6 GW) che lavora a ritmo continuo. Questo fornisce ulteriori elementi.

Il piano di sviluppo 2009 di Terna (attualmente in consultazione) parla chiaro:

La scarsa magliatura della rete ad altissima tensione già attualmente presenta situazioni critiche, in termini di profili di tensione e flussi di potenza prossimi ai limiti di sicurezza.

Questo significa che, al netto di massicci interventi (alcuni dei quali, ma non sufficienti, sono programmati) la rete non è in grado di supportare ulteriori carichi (a p.125 uno schema delle sezioni di maggior criticità). Analoghe criticità si riscontrano (p.116) sul lato lombardo del confine. Quindi qualunque progetto volto a installare un impianto atomico dovrebbe anzitutto guardare la questione da questa prospettiva, e risolvere rapidamente almeno le congestioni nel mantovano. L’afflusso d’acqua potrebbe essere garantito dai fiumi che scorrono nella zona, i maggiori dei quali essendo l’Adige (a nord) e il Po (a sud).

E’ naturalmente presto per parlarne. Meglio: è presto per dichiararlo. Ma, se i tempi sono quelli enunciati dal ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, non c’è dubbio che chi di dovere stia già studiando la cartina geografica, i regimi idrici, e le problematiche della rete ad alta e altissima tensione.

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Que viva el presidente! /2009/07/14/que-viva-el-presidente/ /2009/07/14/que-viva-el-presidente/#comments Tue, 14 Jul 2009 14:17:03 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1560 UPDATE: L’eterno ritorno dell’uguale.

 

Anche quest’anno non delude, l’intervento con cui Alessandro Ortis, presidente dell’Autorità per l’energia, presenta la “Relazione annuale sullo stato dei servizi e sull’attività svolta” (qui la relazione e qui il discorso di Ortis). Pur formalmente ineccepibile, Ortis ha approfittato del palcoscenico privilegiato della Sala della Lupa non solo per rivendicare i meriti suoi e dell’organismo da lui presieduto, ma soprattutto per difenderne l’autonomia e il ruolo in un mondo sempre più sballottato dalla crisi economica, e in un paese sempre più incerto riguardo a chi, come, cosa, quando e perché liberalizzare. Tre, in particolare, i passaggi che mi sembrano “caldi”, al di là della polemica (se posso permettermi, un po’ stucchevole) sulla speculazione petrolifera che invece è stata più ampiamente ripresa. (Il che, per inciso, non stupisce, essendo la speculazione petrolifera questione talmente complessa e lontana che, qualunque cosa se ne pensi, non rischia di disturbare alcun manovratore).

Anzitutto, Ortis ha voluto sottolineare la funzione positiva della regolazione rispetto alla creazione di un contesto concorrenziale. Funzione che, per essere svolta in modo efficace, deve essere “stabile e indipendente”. Non solo: deve anche essere poca, perché certi punti dolenti non possono essere risolti neppure “con muraglie cinesi costruite da regolazioni troppo invasive”. Quindi, il garante chiede alla politica di farsi carico del completamento delle riforme iniziate, particolarmente nel settore del gas, e chiede poi – implicitamente ed esplicitamente – che sia rispettata l’autonomia e indipendenza del regolatore stesso (tema di cui avevo scritto pochi giorni fa). La sede e l’occasione istituzionali, dunque, non impediscono a Ortis di togliersi i sassolini dalle scarpe, e di avvertire tra le righe (neppure troppo) il governo che, se i propositi bellicosi manifestati a più riprese da alcune componenti della maggioranza dovessero trovare nuovo vigore, tutti gli equilibri di mercato ne risentirebbero. Ne risentirebbero, in particolare, gli investimenti. Sottinteso (ma forse sono troppo malizioso): ne risentirebbero quindi anche, e soprattutto, gli investimenti nel nucleare, che tanto stanno a cuore al governo. Particolare non secondario che avvalora la mia malizia: la parola “nucleare” (o simili) compare una sola volta nell’intero discorso, e solo in relazione al decommissioning. A questo proposito, Ortis riconosce che la Sogin di Massimo Romano ha “ben implementato” le indicazioni dell’Autorità. Si tratta di un tributo non scontato e denso di significati: Romano è stato appena giubilato come pendant del ddl sviluppo, a dispetto della sua ottima performance nel rimettere in moto un carrozzone pubblico e a dispetto del fatto che aveva interpretato il suo ruolo non solo in senso stretto, ma anche nel tentativo di fornire una sponda alla ripartenza nucleare.

Secondo tema sollevato da Ortis è quello dell’effettivo funzionamento del mercato. Qui due sono i demoni da lui indicati: in primo luogo la mancata separazione di Snam Rete Gas / Stogit da Eni. Si tratta di un vecchio cavallo di battaglia del presidente, di cui ci siamo occupati varie volte. Secondariamente, c’è un problema di investimenti, che egli riconduce a tre macro-cause: le lungaggini amministrative, la confusione delle concessioni, e appunto il permanere di “soggetti verticalmente integrati con posizioni dominanti sul mercato”. Qui non c’è nulla di nuovo, né si tratta di sottolineature fuori luogo, ma anche in questo caso è evidente come Ortis stia indicando criticità che stanno al di fuori del suo perimetro di azione. Insomma, il messaggio che vuole lanciare è che l’Autorità – al di là del giudizio che si può esprimere sui singoli provvedimenti – sta facendo il suo mestiere, ma il paese ha bisogno di portare a termine i processi iniziati alla fine degli anni Novanta.

Terzo aspetto rilevante del suo intervento è la preoccupazione manifestata per l’impatto che le politiche di incentivazione delle fonti rinnovabili potrebbero avere sulla bolletta elettrica. L’onere complessivo stimato per il paese dovrebbe raddoppiare tra oggi (circa 1,6 miliardi di euro all’anno) e il 2010, e raggiungere l’ammontare di 7 miliardi di euro all’anno nel 2020. Perciò, dice Ortis, “abbiamo già segnalato l’opportunità di una verifica di sostenibilità nel tempo e un riordino degli stessi meccanismi di incentivazione, tenendo conto delle specificità di ogni singola fonte, anche in termini di efficienza, costi, maturità tecnologica e ricadute industriali nazionali”. Quindi, il presidente dell’Aeeg suggerisce “una riflessione in merito alla possibilità di trasferire tali oneri, in tutto o in parte, a carico della più equa fiscalità generale”. Non entro nel merito: mi pare una soluzione migliore dal punto di vista distributivo, ho qualche dubbio sulla sua effettiva efficienza, e in ogni caso non risolverebbe la questione, perché comunque il paese quei benedetti sette miliardi li dovrebbe tirar fuori. Però, il semplice fatto che Ortis sollevi il tema spinge, per esempio, l’Adiconsum a rilanciarlo. Il che è bello e istruttivo, e quelli come noi che queste cose le dicono da tempi non sospetti se la ridono sotto i baffi (ma smettono di ridere quando gli arriva la bolletta).

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Grandi, grosse e stupide oppure intelligenti? /2009/07/12/grandi-grosse-e-stupide-oppure-intelligenti/ /2009/07/12/grandi-grosse-e-stupide-oppure-intelligenti/#comments Sun, 12 Jul 2009 16:05:06 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1497 Interessante dibattito sulle smart grid – una delle presunte panacee per salvare il sistema elettrico dal suo peccato originale – tra Lynne Kiesling (qui le parti uno, due, tre, quattro e cinque del suo intervento), Ken Maize (qui) e Robert Michaels (qui e qui). Le reti intelligenti possono essere un’idea furba da tanti punti di vista, ma certo l’argomento di Michaels secondo cui la sicurezza dell’approvvigionamento elettrico può essere garantita solo da reti robuste e ridondanti, ancorché stupide, non è da buttar via.

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Concorrenza bene, tasse male /2009/06/19/concorrenza-bene-tasse-male/ /2009/06/19/concorrenza-bene-tasse-male/#comments Fri, 19 Jun 2009 09:50:17 +0000 Carlo Stagnaro /?p=1077 Elettricità e gas in Italia sono più care che in Europa. Lo rivela un’indagine di Altroconsumo, i cui risultati sono stati anticipati oggi da Repubblica. L’aspetto interessante – e non scontato, vista la fonte – sta nel fatto che il “delta” di prezzo non viene ricondotto, come normalmente fanno le associazioni dei consumatori, alla cattiveria delle imprese, e neppure, come fanno molti esperti di energia, al destino cinico e baro che ci ha imposto un mix di generazione anomalo (quest’ultimo punto è reale, in verità, ma a mio avviso secondario). La principale ragione, secondo gli autori, e questo vale principalmente per il metano, sta nel carico fiscale, che “schiaccia” la quota di prezzo attribuibile alle dinamiche di mercato. A fronte di questo, e ciò vale soprattutto per l’elettrico, l’unico strumento reale di autodifesa dei consumatori sta nella pluralità di offerte rese possibili dalla liberalizzazione, ormai pienamente operativa a tutti i livelli seppure non senza criticità (come abbiamo evidenziato nell’Indice delle liberalizzazioni). Il problema, allora, sta nel fatto che non sempre i consumatori sono in possesso di tutte le informazioni necessarie a fare la scelta più conveniente, e spesso neppure sanno di poter effettuare questa scelta. Oltre a questo, è proprio la “strozzatura” fiscale a rendere apparentemente meno attraente la libertà di mercato, perché ha l’effetto di livellare (verso l’alto) i prezzi e ridurre l’entità percentuale dei risparmi sulla spesa annuale per luce e gas. Se il governo vuole andare incontro ai consumatori, in un momento di particolare difficoltà dovuta alla crisi, nell’indagine di Altroconsumo trova tutte le indicazioni necessarie a fare la cosa giusta.

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La fotografia della crisi /2009/06/11/la-fotografia-della-crisi/ /2009/06/11/la-fotografia-della-crisi/#comments Thu, 11 Jun 2009 15:01:48 +0000 Carlo Stagnaro /?p=915 Due notizie forniscono una interessante fotografia della crisi. Oggi, il ministero dello Sviluppo economico ha comunicato che i consumi petroliferi sono scesi dell’8,5 per cento. Si tratta dell’ottavo mese consecutivo di contrazione della domanda nel nostro paese. Punto più, punto meno, la stessa cosa sta accadendo ovunque nel mondo. Sebbene questi dati si riferiscano al solo petrolio (e prodotti raffinati), il messaggio che arriva dai consumi di gas ed elettricità sono identici: a testimonianza di un paese in paralisi, nel quale tutte le attività produttive sono in forte rallentamento, quando non in frenata o in retromarcia. Contemporaneamente, però, arriva una prima, buona notizia (anticipata, come spesso accade, dalla ripresa delle quotazioni del barile): dopo otto revisioni al ribasso, l’Agenzia internazionale per l’energia ha corretto al rialzo le stime sulla domanda petrolifera per il 2009. Anche in questo caso, si parla di greggio ma si potrebbe parlare benissimo di gas o elettricità; e si parla del mondo intero ma si potrebbe parlare benissimo dell’Italia. Cosa suggerisce l’incrocio di questi dati? Da un lato, che la crisi è gravissima. Nonostante il crollo del prezzo del petrolio, i consumi si sono vieppiù ridotti, principalmente perché la domanda è venuta meno. I consumi energetici sono un proxy interessante per valutare la severità della crisi, in quanto attraverso di essi si legge in controluce la sintesi sia delle attività industriali, sia dei comportamenti privati (meno consumi di benzina e gasolio significano che la gente lascia l’automobile in garage). Essi, dunque, riflettono al contempo la difficile situazione economica e le aspettative buie rispetto al futuro. Tutto ciò nonostante un fortissimo impegno dell’Opec in generale, e soprattutto dell’Arabia Saudita, nel rispettare quote di produzione che sono state ridotte in misura considerevole rispetto a quelle precedenti l’impatto della tempesta finanziaria sull’economia reale.

Dall’altro lato, si è osservata una dinamica dei prezzi molto istruttiva. Dapprima, essi non hanno risentito particolarmente del comportamento del cartello dei paesi produttori. E’ vero che, in assenza di provvedimenti, il greggio sarebbe probabilmente sceso più verso i 20 che sui 30 dollari, come credevo sarebbe successo (in realtà non è accaduto, principalmente grazie al rigore con cui le direttive Opec sono state rispettate, anche se poi, non appena i risultati si sono visti, la tentazione a sgarrare ha prevalso). Ma, insomma, l’operazione non si può dire non sia riuscita. Poi, dopo un lungo periodo di fluttuazione nella banda 35-50 dollari (a mio avviso, già indice di ricupero), finalmente il barile è tornato su valori più realistici, almeno rispetto allo scenario pre-crisi.

A questo punto, era inevitabile e facilmente prevedibile la revisione dell’Agenzia di Parigi. Inevitabile e prevedibile, ma comunque l’effetto, anche simbolico, di vederlo scritto nero su bianco non è secondario. A questo punto, direi che si può davvero cominciare a sperare. Che non significa, naturalmente, che si possa tirare un sospiro di sollievo e che tutto sia finito. E’ probabile che per un po’ l’economia resterà asfittica. Ma i segnali si stanno moltiplicando, su una uscita dal tunnel nel medio termine. La vera questione da affrontare, al momento aperta, è se questa ripresa – o almeno il rallentamento della caduta – stia avvenendo grazie, o nonostante, i vari piani di ricupero. Io temo che sia corretto il punto di vista pessimistico: gli stimoli fiscali, in primis quelli erogati con tanta generosità e bipartisan dai governi americani (tanto George W. quando Barack hanno pompato di tutto di più), possono aver gonfiato la domanda, e dunque aver contribuito pro quota al prezzo del barile. Ma, nel medio termine, essi pongono una enorme ipoteca sulle prospettive dell’economia globale. Per un verso, le generazioni future (cioè, noi…) dovranno fare i conti, in tutto il mondo industrializzato, con debiti pubblici di dimensioni italiane. Cioè, anziché vedere la Cenerentola italiana che si fa principessa, abbiamo visto le principesse anglosassoni farsi cenerentole. Per l’altro verso, i governi si sono talmente impastati le mani nell’economia che non si sa dove andremo a sbattere. Adesso più che mai, è il momento di interrogarsi sulle vie d’uscita: più a lungo rimaderemo questo dibattito, più soffriremo i postumi della sbornia statalista.

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