CHICAGO BLOG » Draghi http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Chi è più corruttore, lo Stato o l’evasore? /2010/06/07/chi-e-piu-corruttore-lo-stato-o-l%e2%80%99evasore/ /2010/06/07/chi-e-piu-corruttore-lo-stato-o-l%e2%80%99evasore/#comments Mon, 07 Jun 2010 14:44:20 +0000 Oscar Giannino /?p=6218 Chi è più corruttore, lo Stato o l’evasore? Per me lo Stato. E poiché è un giudizio tagliente, abbisogna di considerazioni adeguate, per non sembrare provocazione o difesa di illegalità. Il punto è che lo Stato, in Italia, è l’illegalità.

Non c’è peggior vizio di quello che si traveste da virtù. Nel campo della morale politica, un terreno assai scivoloso che quasi sempre viene evocato dagli attori dell’azione pubblica per far guadagnare consensi alle proprie posizioni  con battute a effetto, non c’è luogo comunque più efficace che invocare “l’interesse collettivo” o l’”interesse generale”, a seconda che il predicatore sia di reminiscenze socialiste oppure un democratico radicale giacobin-roussoiano.  In entrambi i casi, l’esperienza pluridecennale mi ha insegnato a diffidare. Mi esaltavo a sentir parlare di interesse generale, quando ero giovane. Dopo un bel pezzo di tempo passato a toccar con mano e studiare ciò che in Italia in concreto si realizza, con la scusa dell’interesse generale, mi si rizzano subito le antenne quando sento le magiche parolette.

Inizio con un po’ di filosofia spicciola, perché la peggior colpa della politica non è affatto, con credono i più, quella di perseguire interessi, bensì proprio di aver abbandonato la filosofia. Più gli interessi rappresentati e perseguiti in politica sono manifesti, meglio è per tutti. Quando evocando gli  “interessi generali” si tende a dire che una cosa o l’altra è nell’interesse di tutti, l’assenza di filosofia rende la politica incapace di alcuna dialettica. E dunque si finisce dritti nella deontologia: per cui chi si oppone sta con le le forze del male. E’, anzi, il male.

Nell’Italia di oggi, il ritornello quotidiano è quello contro i famigerati evasori fiscali. I nemici della Repubblica intesa come quella d’Italia, non  quell’altra di Largo Fochetti che ogni giorno tende a sussumere la rappresentanza etica della prima. Chiunque non imbracci la tonante scomunica verso gli evasori è sospetto come gli untori nella Milano della peste. Con mio stupore, anche il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, nelle sue considerazioni annuali una settimana fa, ha imbracciato il fucile. “Sono gli evasori, i veri responsabili della macelleria sociale”, ha detto, evocando un’altra formuletta che mi fa accapponare, col suo carico di sangue rappreso da vocabolario barricadiero, più che da banchiere. Mi è bastato criticare duramente lo sciopero dei magistrati – che hanno in automatismo nell’Italia di oggi progressioni di carriera, di retribuzione superiori a quelli dei prefetti – per veder apparire sul mio Chicago-blog una bella reprimenda di signori procuratori che duramente mi incalzavano chiedendo quanto mai guadagnassi e quante tasse pagassi io, visto che osavo criticare loro. Tra la partita IVA e le due società, il 66% del reddito lordo sarà quest’anno, ho risposto. Che ne dite: può bastare, per allontanare da me il sospetto di parlare per fatto personale?

Diciamola fuori dai denti, allora, senza paura di essere considerati politicamente scorretti. Molti cittadini sono in buona fede, quando ripetono a voce spiegata che i signori evasori sono il male del secolo italiano, perché se non ci fossero loro non avremmo il debito pubblico al 118% di Pil né il deficit pubblico annuale, visto che con 100 o 120 miliardi di entrate in più – la stima corrente del mancato gettito da evasione – saremmo oggi in surplus. Ma una classe dirigente seria no, non può dirlo in buona fede. A meno di tre casi. Il primo è che condivida in realtà l’effetto vero che dispiega lo Stato oggi nella società italiana. Il secondo è che ritenga tale effetto un problema secondario, rispetto al fatto che prima tutti devono ottemperare, e solo dopo aver diritto di giudicare ciò che lo Stato è davvero. Il terzo è che in ogni caso lo Stato viene prima, rispetto alla persona.

Parto dal confutare la terza posizione, perché è appunto quella filosofica. Per ogni liberale personalista (idem se per fede è un cristiano e un cattolico), c’è un assunto invalicabile, quello che nella geometria euclidea si definirebbe un postulato. La persona con i suoi diritti naturali – vita, libertà, proprietà  – che spettano inviolabilmente in quanto persona e non in quanto garantiti da un qualsivoglia ordinamento, viene prima dello Stato. Di ogni Stato, e di qualunque statuizione del suo diritto positivo.

Intendiamoci bene: ribadire questa primazia della persona e dei suoi diritti naturali sullo Stato non significa affatto desumerne che ciascuno può comportarsi come crede, rispetto agli obblighi di legge. Compresi quelli fiscali, naturalmente. Significa solo che tre secoli di Stato moderno, dai tempi della Glorious Revolution e di Hobbes e Locke, e poi della Rivoluzione francese e di Stati etici rossi e neri nel sanguinoso Novecento, ci hanno insegnato il dovere a stare sempre sul chi vive, di fronte a ogni pretesa di “interesse generale” avanzata e affermata dallo Stato. E a sempre, quotidianamente e incessantemente,  porci il problema, se per caso i diritti inviolabili della persona non ne risultino coartati, calpestati e denegati.

Se e per chi vale questo postulato,  prendiamo infine la questione dell’evasione per le corna, entriamo nel merito. Alla domanda: chi è più corruttore, nell’Italia di oggi? Gli evasori? Oppure lo Stato? La mia risposta è netta: lo Stato. Non dipende affatto, tale opinione, dalla diffidenza verso lo Stato annessa al postulato numero uno di cu sopra. Dipende da una fatturale e concreta analisi di che cosa in concreto lo Stato faccia, oggi, nella società italiana, coi 53 punti di PIL destinati nel 2009 in spesa pubblica, e i suoi 47 punti di Pil di entrate fiscali tributarie, contributive, e a titolo diverso.

I 25 punti di Pil che vanno in sanità, assistenza e istruzione, disegnano di fronte a noi la seguente realtà. Una sanità gravata da pesantissime intromissioni politiche e partitiche, vastissime inefficienze sui costi a fronte della impari qualità offerta sul territorio, ritardi intollerabili – fino ad anni interi – nei pagamenti ai fornitori. Se la commissione per il federalismo fiscale adotterà come standard il livello costi-efficienza della regione Lombardia, si risparmierebbero 18 miliardi su 125 del fondo sanitario nazionale. Se invece si adotterà come standard quello della media di quattro Regioni, Veneto Emilia e Toscana oltre alla Lombardia per non imporre rientri energici a Lazio e Sud dove si concentra il problema, ecco che i risparmi e le maggiori efficienze si ridurranno a 2,4 miliardi. E il federalismo fiscale, a quel punto, sarà presa pei fondelli dopo 20 anni di polemiche.

Quanto all’istruzione, a furia di privilegiare gli insegnanti da assumere sulla qualità del servizio, e a furia di incentrare sulla scuola di Stato invece che sulla libera scelta delle famiglie l’allocazione delle risorse per premiare la migliore offerta formativa, il quadro è quello che ci vede perdenti in tutte le graduatorie internazionali.  Nel welfare, l’ipertutela ai lavori dipendenti a tempo determinato taglia fuori giovani e donne, e ha imposto un doppio status dal quale non si esce con meno flessibilità ma con tutele nella flessibilità a chi non le ha, con meno privilegi a chi troppi ne ha goduto. La famiglia e la fecondità sono i nemici pubblici numeri uno del fisco e del welfare italiano: dovunque in Europa, con sistemi diversi, esse sono scoraggiate assai meno che in Italia., e ne va appunto dei diritti naturali di persone e famiglie, oltre che della sostenibilità dei conti intergenerazionali del nostro Paese. Idem dicasi del 16% di Pil speso in pensioni, con generazioni a venire per le quali il tasso di sostituzione dei nuovi trattamenti sarà anche di 20 punti inferiore a quello delle generazioni precedenti, senza che il fisco senta la necessità di premiare energicamente forme aggiuntive di impiego del risparmio a questo fine. Degli 11 punti di Pil spesi in stipendi ai pubblici dipendenti, voglio solo dire che da anni sono tutti d’accordo sulla bassa produttività delle logiche gestionali di una pubblica amministrazione che ci impone le posizioni più arretrate in ogni graduatoria internazionale, sui tempi delle procedure, licenze, gare e concessioni, come su sprechi e inefficienze dalle 600mila e oltre auto blu, agli emolumenti insopporabilmente elevati dei 250mila politici di professione.

Non è un caso e tanto meno frutto di deficienza antropologica dei loro cittadini, che il più dell’evasione fiscale, sull’IVA come sui redditi personali e d’impresa come sui contributi previdenziali, secondo ogni serio studio nazionale  e internazionale, si annidi in 6 Regioni italiane del Sud, a cominciare da Calabria e Basilicata, Puglia, Campania e Sicilia. Sono le aree del Paese in cui politica e Stato hanno avuto la pretesa in 65 anni di esercitare il massimo dell’intermediazione discrezionale dei redditi locali, attraverso trasferimenti diretti alle persone e alle imprese a fondo perduto, con la scusa dello sviluppo e del gap da sanare che è rimasto invece totalmente insanato, mentre la Germania in 20 anni risolveva i due terzi delle disparità di reddito procapite tra Est e Ovest. Il risultato è sotto i nostro occhi. Sono lo Stato e la politica, a Sud, con  loro logiche di patronnage clientelare, intromissivo e discrezionale,ad aver radicato il male dell’illegalità diffusa.

Per tutto questo penso, dico e ribadisco che in Italia oggi la corruzione è lo Stato, non gli italiani. La lezione di decine di Paesi, avanzati e in via di sviluppo, è che dovunque uno Stato sia meno intrusivo ed esoso, dovunque l’adesione spontanea dei cittadini all’ordinamento, alle leggi e alle tasse, migliora e si innalza. Chiunque dica che sono gli italiani a doversi vergognare, chiunque ripete la balla che le tasse sono alte perché ci sono gli evasori – un falso assoluto, se gli evasori pagassero le tasse non scenderebbero, salirebbe solo la pressione fiscale che da noi ha sempre inseguito la spesa pubblica crescente decisa dalla politica, per sfamare se stessa e i  suoi apparati – chiunque divida gli italiani in una costante guerra civile tra redditi dipendenti soggetti alla tasse ed autonomi e professionisti invece evasori certi e conclamati, chiunque faccia questo, se appartiene alla classe dirigente consapevole dei numeri italiani, non può essere che in malafede. Sognare ancora più Stato dimenticando che da noi sarebbe solo più corruttore e inefficiente. Oppure, semplicemente, ha paura di chi esercita il potere protempore, e preferisce scomunicare gli evasori invece dei politici.

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Postilla al Draghi Reloaded: più concorrenza tra le agenzie di rating /2010/05/31/postilla-al-draghi-reloaded-piu-concorrenza-tra-le-agenzie-di-rating/ /2010/05/31/postilla-al-draghi-reloaded-piu-concorrenza-tra-le-agenzie-di-rating/#comments Mon, 31 May 2010 15:00:23 +0000 Piercamillo Falasca /?p=6110 Breve postilla al Draghi Reloaded di Carlo Stagnaro: il cenno di Draghi alle agenzie di rating. Tra tante parole al vento, propositi di spezzare le reni alle tre sorelle della valutazione e sogni di una super-agenzia europea, il Governatore getta un po’ di buon senso sul fuoco del populismo, sottolineando come l’agenda del Financial Stability Board punti, tra l’altro, a:

ridurre la rilevanza dei rating nella supervisione, al tempo stesso accrescendo la concorrenza tra le agenzie di rating e controllando efficacemente l’integrità dei loro processi decisionali, la trasparenza dei loro giudizi;

Trasparenza e concorrenza per il rating, altro che statalizzazione della valutazione. Siamo in pochi a dirlo, ma per fortuna nel gruppetto sparuto c’è anche Mario.

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Draghi reloaded: bene Tremonti, però… /2010/05/31/draghi-reloaded-bene-tremonti-pero/ /2010/05/31/draghi-reloaded-bene-tremonti-pero/#comments Mon, 31 May 2010 10:15:54 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6099 In un paese sempre uguale a se stesso, è forse inevitabile che anche le Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia - che Mario Draghi ha finito poco fa di leggere – abbiano il sapore acre del “già detto“. Non è, chiaramente, una critica a Draghi: il suo ripetersi è una risposta inevitabile all’essere sistematicamente “non ascoltato”. Lo si intuisce fin da quando il gov. chiarisce che le vendite di titoli di Stato colpiscono soprattutto paesi

titoli di Stati che hanno ampi deficit di bilancio o alti livelli di debito pubblico; soprattutto, quelli di paesi dove queste due caratteristiche si combinano con una bassa crescita economica. Per questi paesi non c’è alternativa al fissare rapidamente un itinerario di riequilibrio del bilancio, con una ricomposizione della spesa corrente e con riforme strutturali che favoriscano l’innalzamento del potenziale produttivo e la competitività.

E’ evidente che il principale interlocutore di Draghi è il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti.

Draghi, naturalmente, promuove la manovra da 25 miliardi di euro messa in campo dall’inquilino di Via XX Settembre. Lo fa dopo aver brevemente ricordato le caratteristiche ancora critiche del contesto internazionale, e dopo aver rimarcato che nel 2010 i paesi emergenti avranno tassi di crescita decisamente buoni, mentre tra quelli industrializzati, a fronte di una crescita “significativa” negli Usa e in Giappone, i segnali in Europa sono “deboli”. Draghi coglie l’occasione anche per difendere (con un tono un po’ da avvocato d’ufficio, onestamente) la riforma della finanza globale e, di striscio, i cambiamenti introdotti negli Stati Uniti dall’amministrazione Obama; e dà una pagella dignitosa al sistema bancario italiano.

L’operazione di avvicinamento alle questioni italiani procede attraverso una riflessione critica sull’Europa. Per Draghi, era inevitabile che la reazione alla crisi comportasse l’aumento vertiginoso del debito e del deficit pubblico quasi ovunque nel Vecchio Continente (rispetto al quale l’Italia segna una performance di relativo rigore). Per questo, la “exit strategy” rende

urgente un rafforzamento del Patto di stabilità e crescita: l’impegno a raggiungere un saldo di bilancio strutturale in pareggio o in avanzo va reso cogente, introducendo sanzioni, anche politiche, in caso di inadempienze; va assicurata l’integrità delle informazioni statistiche, in particolare quelle di finanza pubblica va assicurata l’integrità delle informazioni statistiche, in particolare quelle di finanza pubblica.

Per il Gov., insomma, l’Ue ha senso nella misura in cui riesce a essere guardiano efficace della solidità delle finanze pubbliche. E questo perché senza credibilità delle regole e dei bilanci degli Stati, difficilmente si creano le condizioni per avere investimenti e crescita. E’ in questo snodo che si innesta la riflessione sull’Italia – di cui Draghi ha ricordato l’imbarazzante deficit di crescita nel periodo pre-crisi: nel decennio scorso, l’Italia è cresciuta del 15 per cento contro il 25 per cento medio dell’Ue, il tasso di occupazione è inferiore di 7 punti (che diventano 12 per le donne), la produttività per ora lavorata è salita appena del 3 per cento contro il 14 per cento dell’eurozona.

In breve, la crisi italiana non coincide con la crisi europea e globale. Quella è transitoria; la nostra è strutturale. Per questo, gli interventi anticrisi non possono aver natura di eri provvedimenti d’urgenza. Draghi condisce la sua invettiva (oddio, non era proprio un’invettiva) con parole di fuoco per l’evasione fiscale (“macelleria sociale è una espressione rozza ma efficace: io credo che gli evasori fiscali siano i primi responsabili della macelleria sociale“, dice discostandosi dal testo scritto) e la corruzione. Ma il fulcro delle sue valutazioni sta qui:

La gestione del turnover nel pubblico impiego e i tagli alle spese discrezionali dei ministeri recentemente decisi dal Governo devono fornire l’occasione per ripensare il perimetro e l’articolazione delle amministrazioni, per razionalizzare l’allocazione delle risorse, riducendo sprechi e duplicazioni tra enti e livelli di governo. Occorre un disegno esteso all’intero comparto pubblico, che accompagni le iniziative già avviate per aumentare la produttività della pubblica amministrazione attraverso la valutazione dell’operato dei dirigenti e dei risultati delle strutture.

Il Governo ha introdotto misure di contrasto all’evasione fiscale. L’obiettivo immediato è il contenimento del disavanzo, ma in una prospettiva di medio termine la riduzione dell’evasione deve essere una leva di sviluppo, deve consentire quella delle aliquote; il nesso fra le due azioni va reso visibile ai contribuenti.

In breve,

In molte altre occasioni abbiamo affrontato il tema delle riforme strutturali. La crisi le rende più urgenti.

In sostanza, Draghi invita il governo a essere più coraggioso, a guardare al lungo termine e trasformare le necessità imposte dalla crisi nell’occasione virtuosa per completare riforme a lungo attese, dall’aumento dell’età pensionabile al taglio strutturale della spesa pubblica, dalle liberalizzazioni alla razionalizzazione della spesa locale, dalla trasparenza nell’informazione statistica alla riduzione delle tasse. Solo così il paese potrà tornare a crescere. E solo crescendo potrà convergere verso i tassi di crescita della parte più dinamica dell’eurozona. L’esortazione di Draghi, dunque, suona come una promozione solo parziale della manovra di Tremonti, giudicata necessaria ma non sufficiente, coraggiosa ma non ambiziosa.

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Tre lezioni da Davos. Una su tutte, la politica velleitaria /2010/02/01/5023/ /2010/02/01/5023/#comments Mon, 01 Feb 2010 18:49:35 +0000 Oscar Giannino /?p=5023   In sintesi sono state tre, le lezioni della quarantesima edizione del World Economic Forum, il grande circo Barnum della globalizzazione messo in piedi da quel geniaccio della comunicazione strategica che è Klaus Schwab. La prima: siamo ancora lontani dal sapere come darci regole nuove condivise per banche e intermediari finanziari. La seconda: possiamo dirlo ufficialmente, a 17 mesi dall’inizio della grande paura con Lehman Brothers, nel mondo post crisi le istituzioni nate a Bretton Woods, Fondo Monetario e Banca Mondiale, hanno perso ogni primazia. Terzo: è inutile illudersi, i timori per la solidità della ripresa in campo europeo sono ancora molto forti. E, quel che è peggio, molto motivati.

La prima lezione è stata quella che ha tenuto più banco, quella più evidente. I capi delle grandi banche americane sono in maggioranza nettamente contrari alla svolta “alla Volcker” annunciata da Obama per recuperare populisticamente consenso dopo la sconfitta in Massachussetts. In ogni caso, è stato assolutamente irresponsabile da parte di una personalità come il presidente degli Stati Uniti annunciare pubblicamente di punto in bianco la volontà netta di separare attività bancarie commerciali da quelle d’investimento. E’ un tema delicatissimo, mai posto nelle sedi tecniche e riservate – il Financial Stabilty Forum – che per mandato del G20 approfondiscono l’agenda di una riforma condivisa tra le tre macroaree finanziarie del mondo, America, Europa e Asia. Inoltre, non corrisponde ad alcuna proposta tecnica si qui avanzata dalla stesa Amministrazione in Congresso, un Congresso nel quale il denaro delle grandi banche conta eccome , per aver contribuito alla vittoria dei democratici. La sparata populista di Obama avrà sollevato l’entusiasmo di tutti coloro che sognano la rivincita della politica contro banchieri avidi e regolatori tecnici troppo vicini alle ragioni dei banchieri, ma di fatto a Davos non si è minimamente capito come possa porre le basi di una svolta politica vera, approfondita e condivisa con europei e asiatici. E’ a Mario Draghi, che nella seduta a porte chiuse dei banchieri Larry Summers si è rivolto dicendo “a te il compito di salvare il mondo”. Non a Obama. Tanto meno alla sua scolorita copia europea, Sarkozy. Quella che piace tanto a Tremonti, “quello del presidente francese è stato l’unico intervento di livello a Davos”, continua a dire. 

Quanto alla triade del Washington Consensus che per decenni ha retto le sorti della globalizzazione e degli interventi straordinari di stabilizzazione in occasione delle crisi – Usa, Fmi e World Bank – essa appare ferita a morte. Politici americani di rilievo, cioè dell’Amministrazione, a Davos tranne Summers non ce n’erano neanche. I rappresentanti del FMI e della WB sedevano in quarta o quinta fila, asiatici e latinoamericani hanno perfettamente capito che gli interventi di stabilizzazione finanziaria in caso di crisi nelle loro aree verranno da altre sedi, come l’ASEAN+3 che accomuna Cina, Giappone e Corea del Sud in un’idea primigenia di unione monetaria asiatica, e dalla convergenza tra Mercosur e Comunità Andina nel Sudamerica in vista della nascita di un comune Banco del Sur. Sarà pure un’idea all’inizio partorita da quel pazzo bolivarista di Chavez, ma nell’intero continente – tranne che in Cile – piace più del vecchio NAFTA nordamericano. A parole, dell’eclisse dell’intera cornice nata a Bretton Woods nel 1944 tutti si dicono convinti da più di un anno. Di fatto, non un solo passo avanti è stato compiuto per una nuova architettura di governo efficace, come non è il G20 inutilmente ampio e che è in realtà un G2 tra Usa e Cina profondamente diviso. Ricordo a tutti che nell’attuale Board del FMI la Cina “pesa” per soli tre quarti rispetto ai voti della Francia, il Belgio ha il 50% di voti più del Brasile, 8 dei 24 membri sono europei. Queste e altre amenità di tal fatta nel mondo d’oggi candidano il Fmi a non contare più niente, in quanto costruito su criteri preistorici.

La terza lezione riguarda noi europei. Tutti, nei corridoi, parlavano in realtà della crisi dei debiti sovrani nell’euroarea, Grecia prima, Portogallo e Spagna poi, e via continuando. Lo stesso tema che ci appassiona sul nostro blog in questi giorni. L’Italia può essere ragionevolmente grata alla prudenza di Tremonti, che ci tiene lontani dall’elenco dei Paesi potenzialmente considerati a rischio di uscita dall’euro. Ma è l’euro stesso, che appare un nano: aveva ragione Milton Friedman, ammonendo inascoltato più di 20 anni fa gli europei che una moneta comune sarebbe stata a rischio nella prima grande crisi, senza riunificazione dei mercati sottostanti e delle politiche sovrastanti. L’Europa vedrà il suo debito esplodere, ed è irrimediabilmente avviata all’invecchiamento. O è capace di grandi riforme per efficienza e produttività, oppure perderà altri punti nelle graduatorie del mondo nuovo, centrato sul Pacifico.

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Il Corriere sostiene Draghi. C’è chi sfida il silenzio /2010/01/24/il-corriere-sostiene-draghi-ce-chi-sfida-il-silenzio/ /2010/01/24/il-corriere-sostiene-draghi-ce-chi-sfida-il-silenzio/#comments Sun, 24 Jan 2010 16:50:29 +0000 Oscar Giannino /?p=4921 Desidero ringraziare pubblicamente Ferruccio De Bortoli, per il suo editoriale stamane sul Corriere della sera. Ero il solo giornalista italiano ad aver posto  – qui sul nostro blog e sui tre quotidiani del gruppo Caltagirone, Messaggero, Mattino e Gazzettino –  il problema della candidatura di Mario Draghi alla presidenza della BCE. Candidatura che si gioca nelle prossime due settimane visto che all’Ecofin del 15 febbraio si decide il vicepresidente della BCE, e se passa il candidato portoghese è game over, con presidenza impossibile nel 2011 per un altro banchiere centrale della fascia eurosud.  La decisione di De Bortoli di schierare il Corriere, e di firmare lui stesso l’editoriale,  riconcilia almeno per un giorno con la stampa itaiana. Perché? Bisogna dirlo, il perché. E’ lo stesso che riguarda un paio di altre grndi vicende italiane che passano sotto totale silenzio, o quasi.

Naturalmente, non siamo qui affatto più bravi di tutti i colleghi. Non è che io abbia antenne a Francoforte e Bruxelles che manchino ai grandi giornali italiani. Le mosse preparatorie della successione a Trichet sono seguite da grandi giornali europei da almeno sei mesi. Ft e Ft Deutschland, Figaro, Les Echos, Telegraph, Times, Faz. Basta fare una ricerca, e troverete decine di articoli. Nei quali si segnala il come e il perché i tedeschi vogliano alla guida della BCE Axel Weber d’accordo coi francesi. Mentre la candidatura portoghese alla vicepresidenza brucia Draghi. La domanda è: come mai nessun grande giornale italiano aveva considerato utile occuparsi della faccenda che riguarda il governatore di Bankitalia, e il resto d’Europa sì?

La risposta è: perché nella stampa italiana oggi molti preferiscono evitare di toccare temi che possano provocare pericolosi e temibili mal di pancia. Non succede nella politica. Ma nell’economia sì. E’ la regola pressoché ferrea. Personalmente so anch’io bene che sollevare il tema della candidatura Draghi non può, per esempio,  piacere al ministro Tremonti. Parlarne non tocca certo i meriti di Tremonti. Ma sappiamo tutti che invece, facendolo, si urtano sensibilità. Sapevo che scrivendone mi sarei esposto alla reazioni. Che sono puntualmente arrivate. Ma se uno fa questo mestiere con un minimo di dignità, si tratta di reazioni che deve mettere in conto e andare avanti. Per questo plaudo a De Bortoli. Il suo editoriale coglie nel segno, secondo me, quando dice che l’Italia rischia di rimpannucciarsi nel tradizionale e silenzioso compiacimento della puntuale bocciatura europea dei propri acerrimi avversari in patria.  

Poichè torno sul tema, ne approfitto per rispondere alle obiezioni venute alla proposta. Personalmente, non considero affatto l’esperienza in Goldman Sachs di Draghi, dopo la guida della direzione generale del Tesoro,  come un bias che lo renda solo per questo “agli ordini” delle grandi banche d’investimento. Per la conoscenza che ho di lui, è stato il modo per comprendere ”dal di dentro” tecnicalità e rischi della finanza ad alta leva e di quella derivata: il punto irrisolto che oggi spinge Obama alla repentina uscita polemica contro le grandi banche USA, tema sul quale la penso come Zingales. Disciplina del capitale di vigilanza e dei coefficienti patrimoniali diversificata per titpo di impiego de capitale intermediato – distinguendo impieghi commerciali dal proprietory trading – sono per me una soluzione da preferirsi al ritorno al passato, cioè alla nostra legge bancaria del 1936 o al Glass-Stegall Act. Aggiungo, inoltre, che se proprio devo guardare alla polemica italiana, considererei addirittura preferibile per il governo spedire Draghi in carrozza a Francoforte. Ma per me il punto non è questo: bensì sollevare con forza il tema dell’intollerabilità dell’atteggiamento sin qui seguito dai tedeschi, sugli attivi patrimoniali delle proprie banche.

Quanto a come sia diffuso nel giornalismo economico odierno in Italia l’”evitare di spiacere a chi può”, basti pensare a un paio di altre vicende. Il ritorno alla fusione Autostrade-Abertis. E soprattutto l’ipotesi Telefonica-Telecom Italia. Entrambe, negli anni alle nostre spalle, infuocarono il giornalismo e la politica italiana. Oggi appaiono come bagliori su qualche media, solo per riscomparire nella più fitta vnebbia l’indomani. Eppure tutti sappiamo che le trattative sono  buon punto, su due asset che nel panorama asfittico dell’economia e del capitalismo nazionale non è che siano proprio secondari. Lo dico senza alcuna tentazione di impancarmi a maestro di nessuno. E’ una mera contatazione, sulla quale ognuno è libero di pensarla come crede. Io, e noi qui, siamo l’ultima ruota del carro. Ma una ruotina fiera di dirla come la pensa.  Se e quando sbagliamo, nessuno può pensare che lo stiamo facendo in conto terzi.

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Draghi alla BCE, pochi giorni e si decide /2010/01/21/draghi-alla-bce-pochi-giorni-e-si-decide/ /2010/01/21/draghi-alla-bce-pochi-giorni-e-si-decide/#comments Thu, 21 Jan 2010 19:09:12 +0000 Oscar Giannino /?p=4863 Entro tre settimane, i Paesi dell’euro sono chiamati a una scelta importante. Per l’Europa, e per il peso dell’Italia in Europa. Mario Draghi ha delle buone chanches per diventare presidente della BCE, l’anno prossimo. Ma la partita è nei prossimi 10 giorni. Se l’Italia non si muove subito e con accortezza, i tedeschi ci fregano.
All’Ecofin di lunedì, i ministri delle Finanze dell’euroarea hanno concordato che l’indicazione del prossimo vicepresidente della Banca Centrale Europea avverrà il 15 febbraio. Com’è noto, il Trattato Europeo prevede che per la nomina del Comitato esecutivo della Bce – formato dal presidente, un vicepresidente e altri 4 membri; che esercita la gestione corrente della banca e l’attuazione della politica monetaria, conformemente agli orientamenti del Consiglio dei governatori di tutte le banche del sistema – la procedura di nomina prevede l’accordo dei governi degli Stati membri, con una decisione che verrà assunta al Consiglio Europeo di marzo, una volta che il nome indicato dall’Ecofin il 15 febbraio ottenga il parere favorevole del Parlamento Europeo e del Consiglio dei governatori.
Il vicepresidente in scadenza è il greco Lucas Papademos, che a fine maggio terminerà il mandato di 8 anni, e che subentrò al francese Christian Noyer. I membri del board hanno un mandato che scade in anni diversi, in modo da evitare un rinnovo complessivo che minerebbe la continuità della BCE e sottoporrebbe l’accordo politico a maggiori tensioni. Nel board esistono infatti pesi di rappresentanza espliciti, ed impliciti. Quelli espliciti sono rappresentati dalle rispettive quote detenute dalle diverse banche centrali nazionali nel capitale della Bce, a sua volta ripartito tra un 70% nelle mani dei membri dell’euroarea attuale, e un 30% riservato ai Paesi dell’Ue che non hanno adottato l’euro, che non partecipano agli utili o ai ripiani della BCE e non ne determinano la politica monetaria, ma partecipano al Sistema Europeo delle Banche Centrali che dà sostenibilità e stabilità alla politica comunitaria. Tra i paesi dell’eruoarea, i tedeschi hanno il 19% del capitale BCE, i francesi il 14%, l’Italia il 12,5%, la Spagna l’8,5%, e poi via via a scendere, in proporzione alla popolazione.
Ma, naturalmente, contano molto i pesi che derivano dall’influenza economica e politica dei diversi Paesi. La BCE è nata per sviluppo diretto della Bundesbank tedesca, assumendone modello gestionale, finalità antiinflazionistica, strumenti operativi. Perciò il primo presidente della BCE era sì un olandese, Wim Diusenberg, ma di comprovata osservanza germanica, e “invigilato”, per così dire, nel board da Otmar Issing, un falco nemico dell’inflazione che con la delega alla ricerca economica era di fatto, a nome della Bundesbank, il vero banchiere centrale europeo. Nel secondo comitato esecutivo, che ora inizia a vedere in scadenza i suoi membri, il presidente è il francese Jean-Claude Trichet, ma di fatto egli ha deluso le aspettative di Parigi di tassi d’interesse più laschi negli anni pre-crisi, perché il membro tedesco del board Juergen Stark (scade nel 2014) e quello italiano, Lorenzo Bini Smaghi (scade nel 2013), appartengono a una solida tradizione di rigore monetario.
Per gli equilibri attuali e futuri della BCE, la scelta del vicepresidente oggi significa una precisa ipoteca sull’identità del presidente da scegliere l’anno prossimo, poiché il mandato di Trichet scade nell’ottobre 2011. Detto in chiaro: se al posto del greco Papademos viene indicato un altro banchiere centrale dell’Europa del Sud, inevitabilmente il successore di Trichet sarà espresso dall’Europa del Nord. Ed è per questo che francesi e tedeschi vogliono come vicepresidente il portoghese Victor Constancio. Sarebbe un via libera pressoché certo alla guida della BCE, l’anno prossimo, per l’attuale capo della Bundesbank, Axel Weber.
Ed è per questo che l’Italia ha pochi giorni per giocare le sue carte. Ci sono almeno tre buone ragioni, per promuovere un’alleanza con austriaci e olandesi, greci e spagnoli, slovacchi, sloveni e irlandesi, per un vicepresidente appartenente all’area “nordica” del BeNeLux. Come il belga Peter Praet, se al lussemburghese Yves Mensch dovesse ostare la nomina del premier e ministro delle Finanze del suo Paese, Jean-Claude Juncker, appena confermato alla guida dell’Eurogruppo.
La prima ragione è semplice: la persona. L’Italia ha in Mario Draghi un candidato tra i più autorevoli, per la presidenza della BCE. Come presidente del Financial Stability Board, è al suo coordinamento che è stata affidata la messa a punto delle misure di riforma e stabilità della finanza globale che verranno sottoposte al G20 che, dopo Pittsburgh, tornerà a riunirsi quest’anno a maggio e novembre. Tra i banchieri centrali europei gode di vasti consensi e stima, come Oltreoceano alla FED e nella business community mondiale. L’Italia si è vista negare la presidenza del Parlamento europeo con l’onorevole Mauro, e la carica di mr Pesc con l’onorevole D’Alema. La guida della BCE è un’occasione ancor più impegnativa. Ma il candidato ha titoli di grande valore.
La seconda ragione riguarda la crisi. Che è stata originata dalle banche e dalla finanza ad alta leva. Se gli Stati Uniti hanno dovuto spendere 561 miliardi di euro per salvare e aiutare oltre 700 banche, e la Gran Bretagna 747 miliardi per 6 sole banche, non dimentichiamo che la Germania ha dovuto stanziare 262 miliardi del contribuente per 8 banche. Ai tedeschi non piace sentirselo dire, ma per via delle elezioni dello scorso novembre proprio la Germania è stato il Paese europeo che ha fatto meno chiarezza negli attivi patrimoniali del suo sistema bancario, come comprovato da molte Landesbanken pubbliche che hanno continuato a rivelare buchi pericolosi a ogni trimestrale. Proprio il governatore della Bundesbank, qualche mese fa, allineandosi alle pressioni del suo governo, ha tuonato da una pagina intera del Financial Times contro le richieste di chiarezza sul sistema bancario germanico che venivano dagli altri Paesi dell’Euroarea. Il problema è irrisolto. La prudenza sconsiglia di premiare chi l’ha tenuto aperto.
Il terzo motivo è conseguente. Il sistema bancario italiano, per la maggior prudenza dei banchieri privati e per i controlli della Banca d’Italia, è quello che si è trovato meno esposto al rischio di fallimenti e follie. Ha altri e antichi problemi, ma non la peste. A parole, ce lo hanno riconosciuto tutti. Esattamente come la prudenza di bilancio pubblico del governo e del ministro Tremonti – oltre a conseguenze non proprio esaltanti per rilancio della crescita e rinvio di riforme – hanno allontanato dall’Italia i sospetti di instabilità finanziaria.
Giochiamocela, allora. L’Italia, per una volta, ha tutte le carte in regola. Si tratta di dimostrarlo, con la giusta determinazione. Perché è nei prossimi dieci giorni, che si decide.

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La zampata di Draghi: ha ragione, basta TBTF /2009/12/08/la-zampata-di-draghi-ha-ragione-basta-tbtf/ /2009/12/08/la-zampata-di-draghi-ha-ragione-basta-tbtf/#comments Tue, 08 Dec 2009 20:13:42 +0000 Oscar Giannino /?p=4207 Il presidente del Financial Stability Forum ha tirato fuori gli artigli. Draghi ha giustamente ammonito su alcune scomode verità. Abbiamo dunque ragione a puntare il dito contro le banche troppo grandi per fallire, la cui disciplina patrimoniale e di capitale di vigilanza non è ancora mutata dopo l’inizio della crisi, e per le quali le Autorità delle tre macroaree mondiali non hanno ancora procedure ordinarie e straordinarie di vigilanza, sicurezza e salvataggio condivise. Col bel risultato che loro ne approfittano e continuano a fare più che mai utili da trading book e con finanza ad alta leva e alto rischio. Devono darsi una regolata, anzi sono i regolatori a doverlo fare, e per questo il FSB che Draghi presiede non si limiterà alle proposte di ratios di capitale più elevati, ma avanzerà proposte che bisogna sperare – dal tono con cui oggi ha parlato – stringenti. Si era già capito che oggi Draghi avrebbe tirato di fioretto e talora anche di sciabola, dalle parole inusualmente fuori dai denti anticipate ieri dalla baronessa lady Shriti Vadera,consulente del G20 e del FSB medesimo. “Le grandi banche europee devono ancora fare pulizia, aveva detto, più di quelle britanniche salvate dallo Stato”, aveva detto. Non è detto che tale franchezza giovi a Draghi per la sua candidatura a guidare la BCE, visto che ai franco tedeschi non piace sentirsi dire queste verità. Ma bisogna a maggior ragione ringraziare Draghi, per aver finalmente levato una voce severa che richiama tutti al molto d’infetto che occorre ancora rimuovere, nei libri e nelle procedure delle grandi banche internazionali. E’ avvenuto a Horsham, al convegno sul futuro della finanza organizzato dal WSJ. Uno dei principali rischi per il futuro, ha detto Draghi, è quello «dell’impressionante massa di debito pubblico e privato» in scadenza nel mondo, e che potrebbe fare i conti con un aumento dei tassi di interesse. Un evento che «che non succederà domani» ma che deve preoccupare e indurre ad agire in fretta, anche se «la situazione è migliore rispetto a quella di alcuni mesi fa». «Se per qualsiasi ragione i tassi di interesse dovessero tornare a salire prima che i bilanci delle banche siano a posto – ha spiegato -, e possono farlo per motivi di politica monetaria e perché il tempo per il risanamento dei conti durerà degli anni», allora «ci sarà da preoccuparsi». «In questo caso vedremo il rischio per i debiti degli Stati che si materializzerà». Il governatore ha ricordato a titolo di esempio la stima dei 4mila miliardi di dollari di debito «di bassa qualità garantito da proprietà commerciali, quelle che più risentono della crisi». Un debito che arriverà a scadenza nei prossimi cinque anni e «molto del quale probabilmente non sarà rifinanziato». A questo, ha spiegato Draghi, va aggiunto il debito pubblico di diversi Paesi europei, molti dei quali si sono indebitati per le misure di stimolo. «Quello degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Grecia o della Germania e il nostro», spiega, e questo «crea dei problemi».

Per il governatore inoltre uno dei problemi che sta peggiorando è quello «delle istituzioni finanziarie ‘too big to fail’, troppo grandi per fallire: sono un grande problema che sta peggiorando, con ripercussioni sulla competitività dell’industria che sta diventando ancora più concentrata di quanto fosse prima della crisi». Secondo Draghi, non si può far fallire le banche, ma invece «bisogna trovare un meccanismo e risorse per permettere alla banca di continuare la sua attività». Il governatore ha ricordato come molti «Paesi hanno questo meccanismo e in Italia lo abbiamo usato diverse volte senza incorrere nel rischio di fallimenti. Non dico che sia il migliore, ma può essere una soluzione». Nel nostro Paese, infatti, esiste il Fondo Tutela e Garanzia dei depositi da parte dello Stato che interviene per evitare gli effetti di un eventuale default, mentre nella prassi nessun istituto di credito è stato lasciato fallire ma ogni volta sono state sollecitate azioni di risanamento da parte della stessa banca, del mercato o l’intervento di un cavaliere bianco. Sul tema di tali istituzioni la conferenza ha visto un gruppo di lavoro cui ha partecipato l’ad di Unicredit Alessandro Profumo, il quale ha chiesto per le autorità di regolazione un «più forte mandato improntato alla stabilità finanziaria» e non «alla tutela dei consumatori», oltre a regole uguali per tutti Uno dei principali rischi per il futuro è quello «dell’impressionante massa di debito pubblico e privato» in scadenza nel mondo, e che potrebbe fare i conti con un aumento dei tassi di interesse. Un evento che «che non succederà domani» ma che deve preoccupare e indurre ad agire in fretta, anche se «la situazione è migliore rispetto a quella di alcuni mesi fa».

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Però! Pare che Roma voglia Draghi alla BCE /2009/12/03/pero-pare-che-roma-voglia-draghi-alla-bce/ /2009/12/03/pero-pare-che-roma-voglia-draghi-alla-bce/#comments Thu, 03 Dec 2009 12:03:09 +0000 Oscar Giannino /?p=4114 Sussurri e grida bruxellesi – sulla stampa italiana non hanno trovato alcuna eco – vogliono che dietro il mix dei portafogli Commissione Ue-presidenza Eurogruppo sia partita ufficialmente la gara per la successione a Trichet alla testa della BCE. Con Draghi in prima fila, sostenuto dal governo italiano.

Prima che vi sembri poco affidabile, vi rinvio al sito di Eurointelligence – ottimamente informato riservatamente da prime file della Commissione -, sito che pubblica le indiscrezioni oggi riprese solo da FT Deutschland. I giornali italiani hanno scritto a vanvera per mesi che Tremonti era candidato alla presidenza dell’Eurogruppo per fare le scarpe alla candidatura di Draghi alla BCE. Mi sento di assicurare che Tremonti non è stato mai interessato alla carica, né tanto meno al secondo fine attribuitogli. Diciamo che il suo atteggiamento era di benign neglect, visto che la candidatura Draghi è stata purtroppo rumorosamente lanciata mesi fa dal Wall Street Journal, cosa che non aiuta troppo con la finanza franco-tedesca, tanto meno di questi tempi. Fatto sta che i francesi con Barnier al mercato interno, che comprende banche e finanza, hanno fatto un colpaccio in Commissione, anche perché perderanno con Trichet la leadership BCE. Mentre i tedeschi, nei portafogli della Commissione, hanno spadroneggiato meno di un tempo. La traduzione possibile è che diffidino alla BCE di un Draghi capo del FSB e troppo tosto sui ratios bancari, visto che le banche pubbliche e private tedesche continuano coi loro malcerti attivi patrimoniali ad essere il vero guaio intatto a livello continentale.  Ma, dopo aver dettato le regole della BCE e aver commissariato di fatto per anni con Otmar Issing il primo vertice olandese della banca, è giusto pensare che sia un po’ troppo, avere dopo Trichet un Axel Weber (attuale governatore Bundesbank), o un altro candidato ombra dei tedeschi. Per questo Tremonti avrebbe davvero cominciato, aderendo alla soluzione Juncker franco-tedesca per l’Eurogruppo senza fare storie, a tessere le fila per la candidatura Draghi alla BCE. Oltre naturalmente a Tremonti, Gianni Letta per Berlusconi segue personalmente la cosa.  Vedere per credere, certo. E la partita è lunga e complessa. Ma l’essenziale è non immiserirsi in letture provinciali, specialità italiana di sempre.

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Draghi sul welfare: come sprecare buoni consigli /2009/10/13/draghi-sul-welfare-come-sprecare-buoni-consigli/ /2009/10/13/draghi-sul-welfare-come-sprecare-buoni-consigli/#comments Tue, 13 Oct 2009 18:08:21 +0000 Oscar Giannino /?p=3260 La lezione tenuta oggi dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi al Collegio Carlo Alberto di Moncalieri – solida istituzione di gloriosi tempi che furono – è un bell’esempio di spiegazione a studenti non versati nella questione dei princìpi di fondo, dei fini e degli strumenti attuativi dell’assicurazione sociale pubblica in tutte le sue forme, sostanzialmente per la garanzia contro i rischi da perdita di lavoro, e per il sostegno alla vecchiaia. È un intervento che riprende talvolta alla lettera le riflessioni e le proposte che, con decenni di anticipo, alla materia furon dedicati da quel grande attuarialista che era Onorato Castellino, maestro di Elsa Fornero. Non contiene solo analisi, ma anche indicazioni di punti critici irrisolti, e di eventuali proposte per affrontarli. La politica si è divisa in due: alcuni nella maggioranza, come Urso e Della Vedova, hanno apprezzato e condiviso. Il ministro Sacconi ha mostrato di non gradire.  Chi ha ragione, e perché? È nel merito, che non piacciono a taluni le indicazioni del governatore? O piuttosto è una questione di metodo? Per quanto mi riguarda, le proposte sono sagge. Il governo poteva e può non dico farle proprie integralmente, ma opportunamente farne uso per procedere sulla via del dialogo sociale e delle riforme. Infine, se la questione non è di merito ma di metodo, forse è il caso di approfittarne per chiarirsi le idee: su che cosa debba o non debba dire e fare, un governatore della Banca d’Italia.

Sugli ammortizzatori, come potete leggere Draghi riconosce che il governo molto ha fatto quest’anno per attenuare le disparità tra coloro che non ne erano coperti in terziario e artigianato, in caso di perdita dell’impiego. Ma aggiunge che ancora allo stato attuale almeno 1,2 milioni di lavoratori dipendenti ne restano esclusi, e quasi mezzo milione di lavoratori parasubordinati, oltre al fatto che il requisito dei 12 mesi di contributi versati nei due anni precedenti al sussidio non è solo distonico rispetto a criteri più limitati e diluiti nel tempo di altri grandi Paesi europei, ma soprattutto poco coerente alla flexicurity verso la quale il governo stesso vuole meritoriamente procedere. Per questo, dice Draghi, usciti dall’emergenza occorre una riforma complessiva. Poiché aggiunge chiaramente “usciti dall’emergenza”, mi pare che abbia ragione non una ma due volte. Non vedo contraddizione con quanto il governo ha sempre sostenuto.

In materia previdenziale, Draghi non solo sottolinea che pur dopo le correzioni recenti sui coefficienti di trasformazione a partire dal 2015 sembrano permanere problemi legati al basso tasso di sostituzione per chi ricadrà integralmente nella riforma Dini, a capitalizzazione “virtuale”, ma avanza l’ipotesi che al pilastro integrativo su base volontaria possano essere trasferiti parte di quel monte contributi del 33% individuale che sono attualmente il tetto più elevato in area Ocse. In che cosa consiste, a tale proposito, l’invasione indebita di campo rispetto al governo? Piuttosto, mi pare un utile osservazione che potrebbe essere utilizzata dall’esecutivo nel suo rapporto con i sindacati, per ottenere maggiore disponibilità a incentivare il rialzo dell’età media pensionabile effettiva. A ciò si aggiungono molte pertinenti osservazioni, sull’eccesso di costi e commissioni che continuano a gravare sulle gestioni e prodotti previdenziali integrativi, nonché sulle ripercussioni che derivano dall’essere troppi gestori non di adeguata  massa critica amministrata, nonché ancora sulla necessità di sottoporre le rendite a condizioni di trasparenza nelle modalità di erogazione, che oggi continuano a mancare per asimmetria informativa. Non vedo se non del bene, da tali proposte. Richiamano a più responsabilità non solo lo Stato, ma anche gli operatori finanziari e assicurativi.

Il punto di fondo è forse un altro. La politica diffida ormai dei tecnici non eletti, dopo anni nei quali proprio da essi venne una straordinaria supplenza politica al clamoroso fallimento di un’intera classe politico-istituzionale. In questo, posso capirla e anzi la capisco. Deve governare chi si presenta al giudizio dell’elettorato e ne ottiene la maggioranza. Ma se questo significa che un governatore della Banca d’Italia deve tacere su qualunque argomento abbia a che fare con la finanza pubblica e privata, vuol dire solo che la politica ha ancora poca stima di se stessa. Così facendo mostra non di avversare legittimamente ipotesi improprie – che oggi non esistono -  ma di temere fantasmi. Che sono figli della propria inadeguatezza, dei propri complessi di inferiorità.

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/2009/10/13/draghi-sul-welfare-come-sprecare-buoni-consigli/feed/ 9
Pittsburgh: vedere per credere, e Draghi sale /2009/09/26/pittsburgh-vedere-per-credere-e-draghi-sale/ /2009/09/26/pittsburgh-vedere-per-credere-e-draghi-sale/#comments Sat, 26 Sep 2009 19:10:37 +0000 Oscar Giannino /?p=2992 Ho passato parte della giornata a farmi un’idea dei documenti conclusivi del G20, di quel che c’è scritto, e di quel che resta tra le righe. Innanzitutto è meglio leggere i documenti originali. Qui il testo conclusivo del vertice, con i suoi 31 impegni e 50 aree tematiche – 50! – di implementazione delle misure da definire in maniera concordata, e variamente adottare visto che poi sono i livelli di sovranità nazionale a suonare la musica in concreto. Qui le proposte al G20 avanzate dal Financial Stability Board, 12 paginette con 55 paragrafi che hanno il pregio di essere molto chiari, e qui la relazione sempre del FSB al G20 sui progressi effettuati dal G20 di Londra di aprile a oggi. Qui infine il comunicato finale sempre del FSB, in cui si traduce in obiettivi concreto, in materia di rafforzamento della supervisione bancaria e finanziaria, quanto nel documento del G20 è assai più fumoso. Il bilancio? Non entusiasmante, a mio giudizio. Draghi va avanti bene sulla sua strada e il mondo intero gli è grato, però. Questo almeno è sicuro. E la politica italiana farebbe bene a rifletterci, invece di lasciar che sia il Wall Street Journal a candidarlo alla guida della BCE. 

Sulla morte del G8, l’unico foro in cui l’Italia aveva un ruolo da comprimario primattore, ho già scritto ieri sera per il Messaggero di oggi. Che davvero si debba prendere alla lettera l’impegno che il “Framework for Strong, Sustainable, and Balanced Growth” esponga nel G20 a una peer review incrociata che faccia rientrare gli eccessi di deficit commerciale americano e del saldo di parte corrente che lo pareggia, obbligando gli USA a importare di meno e la Cina a consumare di più, mi sembra un classico sogno alla Obama anche se mi rendo conto sia molto conveniente credere che siamo davvero alla svolta del XXI secolo. Mi accontenterei di vedere, di qui a fine anno come promesso, prender corpo in dettagli concreti le proposte del FSB sugli otto punti che sono poi la ciccia essenziale: i requisiti di capitale bancario da rafforzare in amount and quality, con cuscinetti anticlici per evitare effetti contrari (qui c’è il problema tedesco, che per l’Europa a leva tuttora maggiore degli USA è pesante, e voglio vedere come si risolve); un nuovo standard di liquidità cross border da introdurre, per evitare asfissie future del’interbancario; i criteri di macrostabilità per gli intermediari che pongano rischi sistemici a prescindere dal Paese in cui siano incardinati; un set comune tra IASB e FASB, Usa e Ue  sui criteri contabili-patrimoniali; l’adesione da parte FASB a standard comunque condivisi; la stretta annunciata a hedge funds e agenzie di rating; le camere di clearing per i derivati OTC, con innalzamento dei margini per partecipare al loro mercato; il rilancio della securitization su basi più solide. Lascio da parte la proposta sui compensi bancari, perché quella è fuffa per politici alla ricerca di applausi.

La parte più concreta, dunque, è affidata ai lavori coordinati da Draghi, ed entro fine anno si vedranno le prime proposte, da attuare tra fine 2010 per i requisiti di capitale bancari e 2012 per i derivati. Vedere per credere. Ma Draghi sale, eccome se sale.

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