CHICAGO BLOG » Dollaro http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 I sogni di monete globali, il $ e il suo nemico /2010/07/13/i-sogni-di-monete-globali-il-e-il-suo-nemico/ /2010/07/13/i-sogni-di-monete-globali-il-e-il-suo-nemico/#comments Tue, 13 Jul 2010 15:36:41 +0000 Oscar Giannino /?p=6512 Ma quanto conta davvero, il fattore cambio tra le valute delle tre macroaree mondiali, ai fini dell’exit strategy? Se diamo un’occhiata alle tante proposte del post Lehman, c’è da perdere la testa. Mi faccio aiutare da una guida, elaborata in proposito da Kati Suominen del German Marshall Fund a Washington. La conclusione? Il dollaro ha un solo nemico al momento, checché dicano in tanti. Un nemico interno, però. Al G20 di Londra nell’aprile 2009, il governatore centrale della Cina, Zhou Xiaochuan, pose ufficialmente il tema. Il dollarocentrismo non andava più bene. Occorreva una profonda rivisitazione dell’attuale paniere sulla base dei quali sono definiti i Diritti Speciali di Prelievo (SDRs) in sede di FMI. Anche il presidente russo Dmitry Medvedev aggiunse la sua bocciatura al dollaro, invocando però un mix di valute regionali. Statisti ed economisti europei, timidamente, tentarono di sostenere un ruolo crescente dell’euro.

Washington rifiutò. Promise disciplina fiscale per mantenere solido il dollaro. Il governatore della BCE, Jean-Claude Trichet, prudentemente si astenne dalla partita, preferì dichiarare che il dollaro era lungi dall’aver terminato la sua missione. Una prudenza saggia, vista la crisi dell’eurodebito che sarebbe esplosa sui mercati da metà gennaio 2010.

Al G20 di Toronto a fine giugno, le valute sono scomparse dai comunicati finali. Per tre fattori diversi. L’eurocrisi del debito, appunto. La ripresa americana, comunque superiore al 3% anche se con segni di frenata da maggio. Il ritorno del renminmbi alla fluttuazione controllata già vista all’opera dal 2005 al 2008, prima di tornare nella crisi al cambio assolutamente fisso sul dollaro. In effetti, da fine 2009 a oggi la valuta cinese si è apprezzata di ben il 18% sull’euro, assai meno sul dollaro. I cinesi, fidandosi poco dell’euro a seguito della crisi di debiti sovrani del nostro continente, non sono tornati sul dollaro ma hanno ripreso a comprare massicciamente titoli in yen. Non capitava da anni.

Eppure, il tema continua a occupare la riflessione degli economisti.

Nella famosissima conferenza a Bretton Woods che mise le fondamenta di FMI e Banca Mondiale, John Maynard Keynes propose una valuta globale, il bancor, emessa da una International Clearing Union, e fondata sul valore di 30 commodities oro incluso, scambiabili a tassi fissi rispetto alle valute nazionali. I diversi Paesi avrebbero mantenuto conti in bancor presso l’ICU, attingendovi quando fossero incorsi in problemi di bilancia dei pagamenti. Le cose andarono diversamente. Ma ancora nel 1967, prima della tempesta che portò all’inconvertibilità del dollaro, il FMI prevedeva che a fine secolo gli SDRs avvrebbero rappresentato la metà delle riserve mondiali. Il Nobel Bob Mundell, teorico delle aree monetarie ottimali e padre putativo dell’euro, sposò la stessa tesi. Oggi ripresa da Zhou Xiaochuan.

Nel post Lehman diverse altre idee si sono fatte avanti. Fred Bergsten ha proposto la facoltà per i Paesi membri del Fmi di swappare dollari per SDRs, per diminuire l’esposizione sul biglietto verde. Un’apposita commissione ONU guidata da Joe Stiglitz è andata oltre, riprendendo l’idea di chi vorrebbe espandere i SDRs fino al bancor di Keynes. Strauss-Khan ha sostenuto a inizio 2010 che presto o tardi sarà l’FMI, a “stampare” SDRs. Una commissione nominata dal FMI ha invece proposto una vera e propria banca centrale indipendente globale, con un rating a quattro A senza rivali nel pianeta, capace di emettere bonds e altri strumenti finanziari denominati in una vera e propria valuta mondiale.

Lo scopo di tali proposte è comune. Assicurare stabilità ai cambi, benefici per ciascuno sulla base di economie di scala, abbattendo i privilegi impropri che al dollaro vengono dal signoraggio mondiale. Tuttavia, la realtà dista da questi intenti come gli oceani dai lavandini.

Il G20 ha espanso gli SDRs di 250 miliardi di dollari nella crisi. Ciò vale a malapena un 4% scarso delle riserve mondiali. Per superare il $ nelle riserve, ne occorrerebbero circa 4 triliardi in valore di SDRs neomessi. Il Fmi dovrebbe diventare una vera banca centrale mondiale. I nuovi SDRs dovrebbero essere trattati sui mercati e non solo attraverso operazioni di tesoreria tra Paesi membri del Fmi, per esporsi alla concorrenza con assets esistenti. Tutto questo non si vede come potrebbe avvenire, visto l’avverso interesse di Washington e il diritto di veto attribuito in sede FMI agli USA per emettere nuovi SDRs. Persino su una nuova composizione del basket di riferimento per gli SDRs atuali, basata su dollaro, euro, yen e sterlina, non si è riusciti a fare un solo passo avanti, rispetto a chi ha proposto di inserirvi valute come quella di Australia, Cile, Canada e altri detentori di materie prime.

Il fronte dei limitati sostenitori del renminmbi o dell’euro come nuove valute di riserva mondiale destinate a scalzare il dollaro si è raffreddato, dopo i primi entusiasmi post Lehman (pensate solo all’entusiasmo con cui tedeschi e italiani hanno salutato la recente svalutazione dell’euro sul dollaro). C’è infine l’idea di tornare ad avere più valute di riserva in concorrenza, come avveniva nel sistema finanziario mondiale precedente al 1914. E’ effettivamente a mio giudizio un’idea meno balzana di quanto appaia. L’Asia potrebbe avviarsi a una vera e propria unione dei mercati finanziari, fino a sfociare in una comune e molto potente area monetaria. E a quel punto le tre macroaree potrebbero trovare accordi temporalmente variabili di cambio, una sorta di maxi accordi tipo Plaza di anni fa, ma su basi valutarie integrate in ciascuna delle tre maggiori aree del mondo.

Fatto sta che siamo ancora molto lontani, da questi che al momento restano sogni ambiziosi. Dal che si deduce una sola cosa. Che il dollaro non corre alcun rischio, checché si dica, come vero sovrano monetario. Il vero nemico del re-dollaro è solo interno: l’eccesso di debito pubblico acceso da mister Obama. E servià probabilmente – penso io, assumendomi l’impopolarità del vaticinio – un altro presidente, per spegnerlo e tenere il dollaro in salvo.

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Dopo il no di Bernanke a Taylor, un cero a sant’Ambrose e al suo pessimismo /2010/01/05/dopo-il-no-di-bernanke-a-taylor-un-cero-a-santambrose-e-al-suo-aureo-pessimismo/ /2010/01/05/dopo-il-no-di-bernanke-a-taylor-un-cero-a-santambrose-e-al-suo-aureo-pessimismo/#comments Tue, 05 Jan 2010 18:55:05 +0000 Oscar Giannino /?p=4616 Capisco che a inizio anno potrebbe essere considerato menagramo. Ma io continuo a non essere molto ottimista, sul decorso della crisi mondiale. Capisco che i governi debbano impegnarsi nel convincere le opinioni pubbliche che ormai si tratta solo di tirare il fiato e andare avanti, perché la grande rete di sicurezza ha funzionato e non si può che migliorare, senza troppi patemi. Ma la lettura dell’intervento pronunciato da Ben Bernanke al meeting annuale dell’American Economic Association mi ha gettato nello scoramento. Per fortuna invece Ambrose Evans-Pritchard mi ha tirato su il morale, con il suo sarcasmo che in realtà dipinge uno scenario da film horror.
Bernanke prova a demolire dalle fondamenta proprio la critica che su questo blog ha costituito il refrain dell’intero 2009, a proposito degli errori di politica monetaria americana di cui la crisi finanziaria è stata figlia. L’intero paper infatti è una risposta alle severe critiche portate da John Taylor allo stance di politica monetaria seguita da Alan Greenspan negli anni Duemila. Immagino molti di voi abbiano letto Getting Off Track di Taylor, che al Bruno Leoni abbiamo tradotto in italiano col titolo Fuori Strada. A me pare che le argomentazioni di Bernanke siano non condivisibili in punta di teoria, e molto preoccupanti per le conseguenze implicite. Vediamo di chiarire.
Bernanke parte dalla legge di Taylor (la ritrovate qui alla slide 2), e ripercorre la distanza tra i bassi tassi praticati dalla Fed e quelli indicati dalla cautela (fino a 400 punti base più bassi a fine 2004, oltre 600 punti base più bassi a inizio 2008, nella slide 3). Dopodiché Bernanke sostiene che in realtà la norma di Taylor è sbagliata per almeno tre ragioni: la prima è che incorpora valutazioni di inflazione al momento reale, la seconda è che dovrebbe incorporare valutazioni di inflazione perduranti e non contingenti, la terza è che anzi dovrebbe incorporare poi solo previsioni di inflazione, e non andamenti reali. Per il presidente della FED, in altre parole, l’inflazione da fronteggiare con i tassi d’interesse e foriera di destabilizzazione non è affatto quella, per esempio, dovuta allo schizzare verso l’alto delle commodities come quando il barile toccò i 147 dollari, perché al contrario è il regolatore monetario che deve distinguere  l’inflazione a carattere strutturale da quella dovuta a fiammate contingenti e speculative; e anzi la cosa migliore, visto che il regolatore lavora avendo davanti a sé una finestra temporale della quale bisogna tener conto per gli effetti che lo stance di politica monetaria eserciterà poi sull’economia reale, è quella che la FED non lavori neppure incorporando nei suoi modelli econometrici l’inflazione long-lasting, bensì solo le previsioni per il futuro sull’andamento dei prezzi. Così corretta la legge di Taylor, come si vede nella slide 4, Bernanke crede di aver dimostrato che la forbice tra i tassi concretamente seguiti dalla FED e quelli più prudenti indicati da Taylor si riduce considerevolissimevolmente. Fino al punto tale da far perdere consistenza alla critica  monetarista.  Ma così argomentando non è che si corregge la legge di Taylor. Semplicemente, la si disconosce riducendola a tutt’altra cosa rispetto a quella che è e vuole essere: un’indicazione alla cautela nei tassi rispetto all’andamento che lega inflazione e differenza tra output potenziale e reale. Al suo posto, Bernanke afferma invece un’assoluta discrezionalità della FED. È dunque la più completa difesa del passato greenspaniano prodotta da Bernanke sin dall’inizio della crisi, finanziaria prima e reale poi. Capisco che Helicopter Ben abbia atteso che venisse la conferma da parte del Congresso al secondo mandato, prima di esporla in termini tanto espliciti. È la conferma che viviamo in tempi che pensano la crisi passerà semplicemente mettendone sotto il tappeto la polvere dei cocci prodotti.
Da tale premessa, poi, Bernanke nella seconda parte del paper passa a una difesa ancor più estrema. I tassi non sono stati spericolati, ed essi non hanno avuto alcuna responsabilità nell’alimentare la bolla immobiliare. Essa è stata solo figlia della finanza sintetica intervenuta sempre più massicciamente nel settore dei mortgages, afferma il presidente della FED. Dunque il problema è di regolazione di quegli strumenti di finanza sintetica, non di eccesso di liquidità al sistema grazi al quale quegli strumenti hanno avuto modo di prosperare. Per dimostrarlo, alla slide 9, Bernanke  raffigura il rapporto tra politica dei tassi e incremento di valore immobiliare in molti Paesi, in un grafico che assolve ictu oculi la FED da ogni colpa. Ma è una maniera di procedere del tutto inaccettabile: perché i tassi americani – cioè sulla valuta di riferimento mondiale – esprimevano quella liquidità oceanica nella quale il mercato leader degli impieghi finanziari annegava ogni rischio di emittente, controparte e prenditore per la finanza sintetica che veniva rimbalzata in tutto il mondo, e così facendo garantiva la redditività a doppia cifra e gli utili crescenti dell’intermediazione finanziaria USA che attiravano il flusso di capitali dal Far East necessario a pareggiare l’altrimenti insostenibile crescente sbilancio commerciale e delle partite correnti americane. Mettere sullo stesso piano il dollaro e valute di Paesi diversi, quando il dollaro ha la funzione mondiale che ha, falsa ogni paragone tra relazioni dei tassi e degli asset – immobiliari e mobiliari – che non sia corretto per quella funzione esercitata.
Che cosa implica, questa totale assoluzione della FED? Almeno due cose. La prima è che il regolatore monetario USA continuerà a restare indifferente a eventuali effetti inflazionistici del suo attuale tasso zero. La seconda è che scommette su un andamento di cambio del dollaro totalmente legato alle notizie congiunturali che vengono dall’economia reale USA, scommettendo cioè che il debito pubblico massiccio americano in via di tumultuoso accumulo non lo porti sempre più giù, verso quota 2 dollari per euro (ricordo a tutti che la cosa arrecherebbe ulteriori vantaggi competitivi allo yuan-renminmbi). Capisco che queste due conclusioni piacciano molto a Paul Krugman, che anzi critica Bernanke perché avrebbe dovuto, a suo modo di vedere, aggiungere richieste di deficit  e debito pubblico ulteriori. Ma a me le parole di Bernanke sembrano solo la fedeltà a vecchi e spaventevoli errori.
Dai quali credo si accrediti ulteriormente la versione iperpessimistica di Evans-Pritchard. La contrazione di M3 e degli impieghi alle imprese nell’Eurozona ha toccato il record negativo da che i dati si raccolgono, negli anni 70, I Paesi in surplus commerciale o finanziario - Germania, Cina, Giappone, India, Emirati – non hanno potuto o voluto compensare il drastico calo della domanda verificatosi negli Usa, Eurozona ed Europa. Lo squilibrio Est-Ovest del mondo non è meno grave di un anno e mezzo fa. I debiti delle famiglie dei paesi avanzati sono ancora due quinti del GDP mondiale e i debiti pubblici salgono a ritmi forsennati, trasferendo sul Tesoro sovrano i rischi di patrimonio privati. L’instabilità comporta rischi imprevisti, vedi il no dell’Islanda oggi al 5,5 bn $ di rimborso ai depositanti britannici e olandesi della fallita Icegate. Non abbiamo ancora toccato il fondo. No. Io almeno la penso così.

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Perché non tifare Obama sul $ nel week end /2009/11/13/perche-non-tifare-obama-sul-nel-week-end/ /2009/11/13/perche-non-tifare-obama-sul-nel-week-end/#comments Fri, 13 Nov 2009 18:06:44 +0000 Oscar Giannino /?p=3753 L’Italia è finalmente ripartita nel terzo trimestre, e col suo più 0,6% di Pil insieme alla Germania va meglio della media europea, meglio della Francia e BeNeLux, molto meglio dei Paesi in cui l’economia è ancora a segno meno, come Regno Unito, Grecia e Spagna. È financo ovvio che cresciamo di più insieme alla Germania sul trimestre precedente, perché avevamo perso di più: ma vale la pena di ripeterlo. Dopo un anno e mezzo, l’inversione del ciclo deve vedere tutti – imprese e governo, banche e sindacati – concentrati nello sforzo di sfruttare ogni margine possibile della ripresa del commercio internazionale, il vero motore della crescita italiana. Proprio poiché la nostra crescita aggiuntiva è creata per circa il 70% dalle esportazioni e non dalla domanda interna – e un giorno o l’altro bisognerà mettere mano al riequilibrio – bisogna però prestare attenzione a un aspetto il più delle volte trascurato: il metro monetario che misura prezzi e valori del commercio estero.

È giusto pensare che con più tecnologia e innovazione cresce il valore aggiunto dei prodotti italiani, e dunque che fisco e banche dovrebbero  agevolarli. Ma anche per i più innovativi la ripresa può diventare una chimera, se ci si misura con una propria valuta troppo forte, l’euro, rispetto a quella che resta prevalente nel mondo, il dollaro.
Questo fine settimana avverrà un evento che rischia di avere conseguenze dirette proprio sul rapporto tra euro e dollaro. È un evento totalmente fuori dal controllo europeo e italiano. E conosco sin qui un solo economista che giustamente inviti tutti a prestarvi grande attenzione, fino a chiedere che Bce ed Ecofin lo seguano in diretta, per essere pronti a reagire all’indomani. Quell’economista è Paolo Savona. E l’evento in questione è la prima visita in Cina di Barack Obama.
Semplificando, gli Stati Uniti avrebbero tutto l’interesse a che il dollaro svalutasse ulteriormente. Nei mesi dalla crisi Lehman Brothers fino al marzo scorso, il dollaro era salito dell’11% rispetto al paniere misto di valute del Fondo Monetario. Nella paura generale, malgrado la crisi si originasse in America anche per i suoi paurosi squilibri della bilancia dei pagamenti, in molti si rifugiavano nel dollaro come valuta di riserva. Dacché a marzo i mercati finanziari hanno ripreso fiducia, il dollaro si è svalutato di oltre il 13%, varcando la soglia di 1,5 biglietti verdi per un euro. La Cina se n’è molto avvantaggiata, giacché il suo renminbi ha un rapporto di cambio semifisso rispetto al dollaro. Da anni gli americani chiedono a Pechino di rivalutare, visto che la valuta cinese debole comprime ulteriormente in termini reali i costi già bassissimi della merci cinesi. Ma Pechino è stata ferrea, ha dosato gradualmente una rivalutazione sul dollaro del 15% in un quinquennio, più che compensata dalla svalutazione del dollaro stesso sull’euro.
La rivalutazione della moneta cinese dovrebbe spingere Pechino a esportare meno, e importare di più, cosa di cui il mondo ha bisogno. Dall’inizio dell’anno, anche se i consumi cinesi hanno avuto uno spettacolare aumento di quasi il 15%, le importazioni sono scese in realtà di quasi il 20%. Ma i cinesi hanno un buon motivo per dire no a Obama: Pechino non è interessata alla svalutazione del dollaro, perché significa deprezzare i quasi 3mila miliardi di dollari in riserve che detiene in dollari.
Qual è l’interesse italiano? Un dollaro in caduta libera e un euro più forte significa meno competitività per chi esporta made in Italy in America. E significa competitività più difficile per la nostra meccanica fine, macchine utensili e metallurgia di qualità, settori a rischio di potente ridislocazione verso Far East, India e Brasile. Lo sanno bene sulla propria pelle gli imprenditori, che in duemila ieri ad Assago hanno fatto tremare la sala dagli applausi, quando Emma Marcegaglia ha lamentato il dollaro a un euro e mezzo.
Eppure, a giudicare dalle dichiarazioni ufficiali, l’Europa sembra appoggiare la richiesta americana di una rivalutazione cinese, dimenticando che il suo effetto sarebbe una caduta ancor più libera del dollaro, sotto la triplice pressione dell’enorme deficit pubblico americano, dell’opportunità così facendo di ridurre il valore reale dei debiti USA, e di alimentare un po’ di inflazione da spargere in tutto il mondo attraverso il dollaro fluttuante.
L’Europa si illude, così facendo, che l’euro diventi una valuta di riserva in grado di sostituire gradualmente il dollaro. Ma mentre sarebbe tutta da verificare, tale ipotesi nel medio e lungo periodo, nel breve l’effetto certo sarebbe di rendere più difficile la ripresa proprio a chi esporta di più e a chi più dipende dall’export: cioè all’Italia. Altri Paesi europei hanno interessi diversi dai nostri,  a loro più anche spiacere meno il dollaro debole. Ma per i nostri politici e banchieri, tifare Obama in questo fine settimana significa solo far male all’impresa italiana.

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Oba-maniacs a iosa, ma i numeri dicono che… /2009/11/01/oba-maniacs-a-iosa-ma-i-numeri-dicono-che/ /2009/11/01/oba-maniacs-a-iosa-ma-i-numeri-dicono-che/#comments Sun, 01 Nov 2009 18:30:19 +0000 Oscar Giannino /?p=3541 Stamane con Alberto Mingardi ci siamo scambiati messaggi di esultanza, per il fondo del Sole 24 ore in cui si esalta Ayn Rand. Non è esattamente l’inno alle forze più energiche del capitalismo basato sull’irriducibile determinazione degli individui, al di là di ogni logica collettiva e statalista, il mantra quotidiano dei giornali italiani. Detto questo fa anche un po’ ridere, che i neodirettori di grandi quotidiani come  Sole e Stampa preferiscano sistematicamente scrivere dell’America, invece che dedicare la loro penna all’Italia. Un bel modo per trarsi d’impaccio e volare alto, senza esprimere giudizi scomodi, su economia  e politica nostrane. Quanto all’America, se guardassero i numeri l’esaltazione mediatica obamiana andrebbe fortemente ridimensionata. Irwin Stelzer dell’Hudson Institute sul Times di oggi è molto meglio di tutto il piombo italiano filo obamiano. Per almeno tre ragioni.

La prima è la joyless recovery americana. Il più 3,5% di Gdp nel terzo trimestre, che inverte il ciclo depressivo iniziato negli USA a dicembre 2007, certamente è da sogno per noi in Italia ed Europa. Ma l’unico dato che conti davvero per il favore di Obama tra gli americani è l’occupazione. E quella a giudizio di tutti gli osservatori continuerà ad andare di male in peggio, ben oltre il 10% attuale del più “ristretto” tra gli aggregati statistici per misurarla. Date un’occhiata a questo grafico, per paragonare quanto sia più grave l’attuale perdita di occupazione americana rispetto a quella di tutte le altre crisi nel secondo dopoguerra.

La seconda ha a che vedere con l’inefficacia ormai percepita dagli americani della maxi manovra di sostegno all’economia. Ne ha scritto anche Carlo Lottieri l’altroieri. La fiducia in Obama è scesa dal 58% a sotto il 50 negli ultimi 6 mesi, l’approvazione al suo maxi deficit pubblico aggiuntivo è scesa dal 49% a sotto il 40.  Abbiamo spiegato tante volte perché il moltiplicatore della spesa keynesiana è fallace. Qui vi linko solo l’ultima riedizione abbreviata del più recente studio di Bob Barro e Charles Redlick, in materia.  Gli americani stanno iniziando a capire che la FED dovrà molto presto far salire i tassi non solo per continuare a sostenere un debito pubblico che dal 40% del GDP dove l’aveva lasciato Bush rischia di sfiorare il 100% al 2018, ma anche per sostenere il dollaro che altrimenti si svaluterebbe assai più rapidamente: gli americani non se lo possono permettere, visto che i cinesi non sono affatto d’accordo a vedersi le loro riserve in dollari  accumulate in anni tanto svalutate, e dei cinesi c’è un gran bisogno oggi più che mai visto che sono la locomotiva mondiale.

La terza ragione si identifica nel disastro di consensi in cui si sta risolvendo la riforma sanitaria. Malgrado un’adesione del più dei grandi media che resta ancor oggi militante (tra parentesi, pochi giorni fa al pubblico scelto di manager che si raccoglie a Milano intorno alle conferenze organizzate da Ruling Companies, ho tenuto un dibattito su “Obama un anno dopo” nel quale l’ambasciatore Sergio Romano lo ha dipinto come una sorta di liberatore del Paese e del mondo da una cricca di pazzi pericolosi, con tanto di fosca allusione all’ipoteca che sul successo di Obama sarebbe oggi proiettata dagli stati maggiori militari, falchi e guerrafondai…), il 67% degli americani oggi pensa che la riforma sanitaria avrà conseguenze aggiuntive sul deficit pubblico definite “molto preoccupanti”. Qualcuno tra i neokeynesiani più avvertiti, come Greg Mankiw sul New York Times, inizia a prendere le distanze. E la cosa per noi offertisti chicagoers più interessante è che lo fa proprio adottando un criterio della nostra scuola, cioè dimostrando che il sostegno poubblico sanitario proposto da Obama alle famiglie a minor reddito ne innalzerebbe l’aliquota marginale sui redditi con effetti economici negativi, in termini di reddito netto disponibile procapite in famiglia.

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G5 batte G7, nel mondo nuovo /2009/10/08/g5-batte-g7-nel-mondo-nuovo/ /2009/10/08/g5-batte-g7-nel-mondo-nuovo/#comments Thu, 08 Oct 2009 01:32:54 +0000 Oscar Giannino /?p=3165 Gli andamenti dei Paesi del vecchio mondo avanzato – il G7 – divergono sempre più sostanzialmente da quelli dei Paesi leader – il G5 composto da Brasile, India, Cina, Messico e Sud Africa — del blocco precedentemente noto come Brics, che nel frattempo ha perso la Russia, troppo instabile e troppo dipendente dal solo andamento del prezzo energetico. La divergenza comporta conseguenze sulla exit strategy, ma non solo su di essa.

Confrontate l’andamento del Pil nel G7 , che varia dal meno 7% del Giappone al meno 3% francese, a quello del G5, che va dal + 7,9% cinese e dal +6% indiano al -1% brasiliano (il Messico è l’eccezione negativa). Confrontate le vendite al dettaglio nella domanda interna del G7 - con l’eccezione britannica e francese, tutte abbondantemente a segno negativo, con gli USA in risalita solo ora verso un -6% da uno spaventoso e prolungato -10% - al tumultuoso andamento delle vendite di auto nel G5, con la Cina che è riuscita a toccare persino un +60% da aprile ad oggi. È evidente che le politiche monetarie e fiscali di sostegno alla domanda interna – di segno sostanzialmente omologo nel G7 e G5 – hanno effetti assai più apprezzabili nei Paesi emergenti che in quelli già sviluppati. Keynes è residualmente più efficace solo nei Paesi poveri, come l’Europa e gli USA dovrebbero aver imparato a proprie spese negli anni Settanta del secolo scorso, anche se oggi l’hanno inopinatamente dimenticato.  Come si legge anche dei diversi andamenti dell’ inflazione, quelli modestissimi e sostanzialmente deflattivi del G7, e quelli invece “robusti” del G5, con l’eccezione veramente impressionante della Cina.

La conclusione è duplice. Da una parte, l’inversione dei tassi a risalire appare assai più prossima nel 2010 per il G5, di quanto non si sposti ormai tendenzialmente verso il 2011 per il G7. Dall’altra, le tensioni monetarie internazionali sul dollaro sono fatalmente destinate a salire, in vista di un diverso ordine monetario mondiale.

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Il dollaro sotto attacco /2009/10/08/il-dollaro-sotto-attacco/ /2009/10/08/il-dollaro-sotto-attacco/#comments Thu, 08 Oct 2009 01:06:15 +0000 Oscar Giannino /?p=3162 Negli States, dopo lo smacco sulla riforma sanitaria e quello sulle Olimpiadi, su Obama continua a piovere. Ora i maggiori media sono pieni di analisi come questa e questa. Dopo la dichiarazione congiunta di Brasile, Russia, India e Cina sulla preoccupazione di un dollaro dagli andamenti di cambio troppo unilateralmente indotti alla svalutazione e la loro conseguente richiesta di un sistema monetario internazionale più bilanciato in ragione dei rispettivi pesi nell’economia mondiale, in America si parla esplicitamente di dollaro sotto attacco da una parte, e dall’altra ci si interroga però sugli effetti reali di un dollaro inevitabilmente portato a indebolirsi ulteriormente. Che il dollaro scenda per effetto dell’imponente messa in circolo di quantità di nuova moneta a fini anticrisi, è un fatto, come si vede dal grafico che registra la discesa da 0,80 euro per un biglietto verde ad aprile scorso, a 0,69 oggi. L’interlocutore essenziale nel breve è la Cina, che detiene oltre 2 trilioni di dollari di riserve in dollari e almeno 800 miliardi di dollari di titoli del debito pubblico americano. La svalutazione di tali asset non può piacere ai cinesi, e gli americani continuano ad aver bisogno più che mai oggi del loro sostegno. Il che potrebbe tradursi – in sede di G2 che è oggi il vero più potente forum d’indirizzo della politica economica mondiale, altro che il G20 promesso tra le fanfare a Pittsburg – in un doppio reciproco compromesso:  i cinesi ancora per un po’ protestano solo di facciata, di fronte alla svalutazione del dollaro se essa non è troppo veloce, ma in cambio gli americani la piantano una volta per tutte di rompere le scatole a Pechino chiedendo la rivalutazione dello yuan. Nel lungo periodo, però, è un equilibrio troppo instabile. Anche perché il dollaro debole significa, per gli americani, minor potere di acquisto e quindi più debole domanda interna, ulteriore compressione all’indebitamento oltre a quella già necessaria per riequilibrare l’eccesso di debito privato precedente, e più alte tasse per riequilibrare il deficit pubblico domani. Non è questione che si risolva solo con l’emissione di nuovi Diritti Speciali di Prelievo in sede FMI, come annunciato a Pittsburgh. Dal 65-67% delle riserve mondiali in dollari attuali, potremmo davvero aver imboccato la strada capace di portarci al 50% e magari ancora meno, nell’arco di un decennio. Seguendo l’esempio del lento declino della sterlina come riserva mondiale, tra fine Ottocento e seconda guerra mondiale.

L’euro, ad onta di tutte le sue velleità del recente passato, attualmente non ha chance reali. BCE e persino i politici meno euroretorici ne sono consapevoli, visto che nessuno in giro ha potuto gloriarsi dell’annunciata decisione dell’Iran, di sbarazzarsi definitivamente delle riserve in dollari per tramutarli in euro. È la nostra debole e purtroppo strutturale prospettiva di crescita, a impedirci di giocare un ruolo da protagonista rispetto alle due potenze del G2.

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L’inflazione della base monetaria piace ai governi deficisti ma impoverisce tutti. Come e perché un dollaro del 1800 vale oggi solo 8 centesimi /2009/08/30/linflazione-della-base-monetaria-piace-ai-governi-deficisti-ma-impoverisce-tutti-come-e-perche-un-dollaro-del-1800-vale-oggi-solo-8-centesimi/ /2009/08/30/linflazione-della-base-monetaria-piace-ai-governi-deficisti-ma-impoverisce-tutti-come-e-perche-un-dollaro-del-1800-vale-oggi-solo-8-centesimi/#comments Sun, 30 Aug 2009 13:43:14 +0000 Oscar Giannino /?p=2391 Ci cono grafici che da soli valgono mille parole. Date un occhio a questo, elaborato da Sean Malone del Mises Institute. In un solo colpo d’occhio, l’andamento del valore del dollaro dal 1800 a oggi. Dopo un apprezzamento superiore al 100% fino a fine Ottocento, una perdita del 196% al valori attuali. Solo gli stolti, a mio giudizio, possono credere che l’inflazione della base monetaria praticata dalla FED nell’ordine del 6000% negli ultimi 60 anni non sia “la” causa largamente prevalente nel determinare tale effetto. Ma si sa, la moneta è di solito trascurata come principale causa dei fenomeni economici…

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Chi la pensa come noi: la bolla Fed si sgonfierà /2009/08/14/chi-la-pensa-come-noi-la-bolla-fed-si-sgonfiera/ /2009/08/14/chi-la-pensa-come-noi-la-bolla-fed-si-sgonfiera/#comments Fri, 14 Aug 2009 20:38:06 +0000 Oscar Giannino /?p=2099 Segnalo due report di straordinario interesse sulle condizioni del mercato americano. Il primo è di Bob Chapman per Global Research , e la sua conclusione è che “the depression is only pausing to catch its breath”. Il secondo è di Naufal Sanaullah, Qasim Khan e Tyler DeBoer, per www.shadowcapitalism.com. e conclude drasticamente: “a market crash is imminent and necessary”. Vediamoli nel merito.

Personalmente condivido le considerazioni di Chapman sul persistente alto livello di leverage di molte quotate Usa, sulle tendenze di medio periodo della disoccupazione in Usa, sul livello totalmente irrealistico del più dei prezzi odierni sul listino americano. Non condivido affatto invece il cuore del suo ragionamento che riguarda le conseguenze della globalizzazione sulle valute.  Se il carry trade è l’altra faccia della medaglia del dollaro debole per effetto dei tassi FED, il problema è la FED, non la globalizzazione che secondo l’autore sta sistematicamente “scavando la tomba” al primo mondo, a vantaggio del secondo e del terzo. Un dollaro sarebbe forte con politiche monetarie volte “anche” a questo fine: è debole perché l’idea di fondo del regolatore monetario americano è che la svalutazione è uno strumento necessario del riallineamento del deficit della bilancia dei pagamenti, visto che la teoria greenspaniana della solidità dell’economia Usa e della sua moneta basata sulla forte produttività è caduta vittima dell’eccesso di debito privato e di leverage.

Quanto al secondo studio, è molto più analitico e consente anche ai non strettissimamente dediti a operazioni sui mercati di comprendere come attualmente funzionino potentemente strumenti come le dark pools di liquidità per sostenere l’high frequency trading che recentemente è assurto agli onori delle cronache, come la modalità principe di esercizio di milioni di operazioni attraverso le quali salgono i corsi di Borsa. In particolare raccomando lepagine 9-13 del rapporto, in cui si spiega con dovizia di particolari come, attraverso le dark pools, gli acquisti e le vendite realizzati tramite high frequency trading, pur non essendo più del 3% numericamente del totale delle operazioni di mercato, possano giungere al 75% della liquidità – reale e virtuale – che “muove” il mercato, aggirando gli obblighi di compliance ai quali sono sottoposte le operazioni ordinarie.  Sono poi totalmente d’accordo con quanto sostenuto da pagina 15 in avanti:  che l’80% dello S&P500 sia oggi a livelli di P/E pari o superiori a 145 – 145 dollari di prezzo per ogni dollaro di utile atteso – è semplicemente paz-ze-sco. la media storica a 130 anni del P/E sullo S&P500 è di 15,6, e persino al livello più basso del mercato, nello scorso marzo, il rapporto era ancora troppo alto, poiché superava 20. Di qui le conclusioni dei tre autori: la FED con l’avviso sul “change of pace” dei suoi acquisti da ottobre in avanti sta preparando il terreno a un nuovo crash del mercato, inevitabile e giusto anche per sostenere uno switch off del mercato a favore dei bonds rispetto all’equity.  Questo secondo rapporto è pessimista ma nei limiti del giusto, a mio giudizio, anche se con qualche tono eccessivo. Il primo, al contrario, è ispirato a uno spirito di “America first” che finisce per considerare il mondo un nemico, e mi sembra un errore che non aiuta certo a tenere la mente fredda di fronte alla crisi e a come uscirne.

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Perché $ non potrà che scendere /2009/08/13/perche-non-potra-che-scendere/ /2009/08/13/perche-non-potra-che-scendere/#comments Thu, 13 Aug 2009 19:06:34 +0000 Oscar Giannino /?p=2056 Perché, come e quanto scenderà ancora il dollaro, che ha perso più di 10 punti percentuali da marzo a oggi? Una buona risposta agli interessati da un paper fresco di rilascio, opera di due economisti che operano a Oxford, UK, David Vines e Karlygash Kuralbayeva. I due studiosi estendono ed aggiornano al comportamento dei consumatori il modello già messo a punto nel 2005, per studiare gli andamenti del dollaro, da Francesco Giavazzi e Olivier Blanchard. E’ uno studio che si adatta esattamente alla situazione oggi in corso negli States: quando i consumatori “anticipano” l’aggiustamento  della bilancia commerciale e dei pagamenti, riducono i consumi ancor più di quanto lo farebbero in situazioni – come l’attuale – di contrazione del reddito disponibile. In conseguenza di questo processo, il regolatore monetario dovrebbe abbassare il tasso d’interesse, e scontando questo effetto il tasso di cambio della valuta si deprezza in maniera ancor più significativa. L’effetto sul cambio sarebbe contenuto qualora il tasso d’interesse non fosse sceso rapidamente. Ma quando esso è a tasso reale negativo – come oggi – e con la prospettiva inoltre di restarci molto a lungo, ecco che il presumibile deprezzamento del dollaro diventa rapido ed energico. E la Cina col suo reminmbi gode.

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L’Italia, la Cina e una raffica di cattive notizie /2009/05/14/litalia-la-cina-e-una-raffica-di-cattive-notizie/ /2009/05/14/litalia-la-cina-e-una-raffica-di-cattive-notizie/#comments Thu, 14 May 2009 19:11:22 +0000 Oscar Giannino /index.php/2009/05/litalia-la-cina-e-una-raffica-di-cattive-notizie/ Sono in giro per una serie di incontri e convegni, in licei, cooperative, armatori, i Giovani di Confindustria, il Forum della PA con Brunetta, e via continuando. Per questo mi scuso di esser mancato un giorno, e ne approfitto per un post al volo. Mi ha molto sorpreso dieci minuti fa leggere l’editoriale di Nouriel Roubini sul New York Times di oggi, perché è raro che le sue tesi sopra le righe mi convincano. Ma mi sono ritrovato esattamente nel ragionamento che avevo esposto ieri agli studenti del Sacro Cuore di Milano e oggi al parlamentino nazionale degli juniores di Confindustria guidati da Federica Guidi. Si tratta delle conseguenze che potrebbe avere per tutti i paesi grandi esportatori in semilavorati e componentistica a non altissimo valore aggiunto – come l’Italia – un eventuale cambio del tallone monetario del commercio mondiale. In altre parole: dello scioglimento del peg semi fisso tra dollaro e reminmbi, che negli anni alle nostre spalle ha “aggiunto” competitività monetaria, attraverso il collegamento automatico alla svalutazione del dollaro sull’euro, ai prodotti cinesi già avvantaggiati da basso costo congenito. Secondo stime riservate che l’Ice esita comprensibilmente a rendere note, potrebbero essere dolori per almeno due delle famose “4 A” che costituiscono i due terzi dell’export italiano. Per l’automazione e componentistica elettromeccanica, e per l’abbigliamento-tessile-moda, ciò potrebbe costituire un cambio rilevante delle ragioni di scambio, in grado di convincere molte grandi aziende capofiliere – soprattutto tedesche, nel primo settore – a rinviare il più possibile la ripresa di ordini ad aziende fornitrici italiane, in attesa di verificare se non convenga spostare altrove le proprie catene di supply.
Quel che in apparenza è un tema “alto e lontano” – la proposta cinese di una seria modifica dei diritti di prelievo e relativo paniere monetario di riferimento, in sede di Fmi – in realtà potrebbe colpire in profondità le possibilità di ripresa dell’export italiano. Gli americani sono convinti che i cinesi si convinceranno presto a rivalutare, pur di riavviare comunque il proprio export. I cinesi sono persuasi che saranno gli americani per primi a dover mollare la loro pretesa, perché di mese in mese i disoccupati aggiuntivi Usa da ottobre passeranno dagli attuali 5,7 milioni a 7 e oltre entro l’estate, e a quel punto Obama sarà costretto a piantarla e a rassegnarsi, se vuole che i cinesi riprendano ad acquistare asset in dollari, cioè a finanziare a debito il risanamento Usa come fino ad ottobre ne finanziavano la crescita dei consumi.
Purtroppo, se è corretto ipersemplificare in questi termini il braccio di ferro monetario sotteso alla ripresa del commercio mondiale, occorre ricordare che i cinesi possono contare su di uno strumento assai più efficace di quello americano. L’Armata Popolare Cinese mette sui treni e rispedisce in campagna ogni mese dai 3 ai 5 milioni di cinesi risospingendoli all’economia di sussistenza agricola, nel mentre si attua il colossale shift della crescita da estero-trainata a focalizzata su infrastrutture e domanda interna. Gli americani, al contrario non possono certo arruolare milioni di disoccupati nella Guardia Nazionale. Di conseguenza, al il nostro export converrebbe una posizione filocinese anzichenò.
Nel frattempo, una raffica di notizie che mi sembrano smentiscano gli ottimismi di circostanza: il deficit tedesco a 50 miliardi di euro quest’anno da 11 nel 2008 con tanto di addio ai tagli fiscali preannunciati; la cattiva – e giustificata – reazione del mercato alle trimestrali di Unicredit e Intesa; la scontata sconfitta degli imprenditori privati in Assolombarda, vista la sconsideratezza con cui la presidente uscente ha cercato di pilotare la sua successione su un candidato debole come già avevo scritto, con inevitabile vittoria del candidato “pubblico”, Maugeri dell’Eni, che dopo un anno di ridicolaggini su Expò 2015 infligge una nuova bella ridimensionata alle pretesi milanesi; il venir meno della residua finzione di Cai su Malpensa, e scontate chiacchiere dei governatorid el Nord che solo ora riscoprono la necessità di liberalizzare gli slot intanto riassicurati ad Alitalia anche se non li usa; la conferma che nella riscrittura a puntate del rapporto Caio riemerge lo scorporo “tutto pubblico” della rete fissa di Telecom Italia… e poi vi chiedete perché Mike Bongiorno è andato da Murdoch per riprendere a scandire tutte le sere il suo proverbiale “allegriaaaa”: perché qui da noi c’è poco da ridere, e lo sa anche lui.

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