Ma quanto conta davvero, il fattore cambio tra le valute delle tre macroaree mondiali, ai fini dell’exit strategy? Se diamo un’occhiata alle tante proposte del post Lehman, c’è da perdere la testa. Mi faccio aiutare da una guida, elaborata in proposito da Kati Suominen del German Marshall Fund a Washington. La conclusione? Il dollaro ha un solo nemico al momento, checché dicano in tanti. Un nemico interno, però. Prosegui la lettura…
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Capisco che a inizio anno potrebbe essere considerato menagramo. Ma io continuo a non essere molto ottimista, sul decorso della crisi mondiale. Capisco che i governi debbano impegnarsi nel convincere le opinioni pubbliche che ormai si tratta solo di tirare il fiato e andare avanti, perché la grande rete di sicurezza ha funzionato e non si può che migliorare, senza troppi patemi. Ma la lettura dell’intervento pronunciato da Ben Bernanke al meeting annuale dell’American Economic Association mi ha gettato nello scoramento. Per fortuna invece Ambrose Evans-Pritchard mi ha tirato su il morale, con il suo sarcasmo che in realtà dipinge uno scenario da film horror. Prosegui la lettura…
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L’Italia è finalmente ripartita nel terzo trimestre, e col suo più 0,6% di Pil insieme alla Germania va meglio della media europea, meglio della Francia e BeNeLux, molto meglio dei Paesi in cui l’economia è ancora a segno meno, come Regno Unito, Grecia e Spagna. È financo ovvio che cresciamo di più insieme alla Germania sul trimestre precedente, perché avevamo perso di più: ma vale la pena di ripeterlo. Dopo un anno e mezzo, l’inversione del ciclo deve vedere tutti – imprese e governo, banche e sindacati – concentrati nello sforzo di sfruttare ogni margine possibile della ripresa del commercio internazionale, il vero motore della crescita italiana. Proprio poiché la nostra crescita aggiuntiva è creata per circa il 70% dalle esportazioni e non dalla domanda interna – e un giorno o l’altro bisognerà mettere mano al riequilibrio – bisogna però prestare attenzione a un aspetto il più delle volte trascurato: il metro monetario che misura prezzi e valori del commercio estero. Prosegui la lettura…
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Stamane con Alberto Mingardi ci siamo scambiati messaggi di esultanza, per il fondo del Sole 24 ore in cui si esalta Ayn Rand. Non è esattamente l’inno alle forze più energiche del capitalismo basato sull’irriducibile determinazione degli individui, al di là di ogni logica collettiva e statalista, il mantra quotidiano dei giornali italiani. Detto questo fa anche un po’ ridere, che i neodirettori di grandi quotidiani come  Sole e Stampa preferiscano sistematicamente scrivere dell’America, invece che dedicare la loro penna all’Italia. Un bel modo per trarsi d’impaccio e volare alto, senza esprimere giudizi scomodi, su economia e politica nostrane. Quanto all’America, se guardassero i numeri l’esaltazione mediatica obamiana andrebbe fortemente ridimensionata. Irwin Stelzer dell’Hudson Institute sul Times di oggi è molto meglio di tutto il piombo italiano filo obamiano. Per almeno tre ragioni. Prosegui la lettura…
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Gli andamenti dei Paesi del vecchio mondo avanzato – il G7 – divergono sempre più sostanzialmente da quelli dei Paesi leader – il G5 composto da Brasile, India, Cina, Messico e Sud Africa — del blocco precedentemente noto come Brics, che nel frattempo ha perso la Russia, troppo instabile e troppo dipendente dal solo andamento del prezzo energetico. La divergenza comporta conseguenze sulla exit strategy, ma non solo su di essa. Prosegui la lettura…
Oscar Giannino finanza, mercato crescita, Dollaro, domanda interna, inflazione, tassi d'interesse
Negli States, dopo lo smacco sulla riforma sanitaria e quello sulle Olimpiadi, su Obama continua a piovere. Ora i maggiori media sono pieni di analisi come questa e questa. Dopo la dichiarazione congiunta di Brasile, Russia, India e Cina sulla preoccupazione di un dollaro dagli andamenti di cambio troppo unilateralmente indotti alla svalutazione e la loro conseguente richiesta di un sistema monetario internazionale più bilanciato in ragione dei rispettivi pesi nell’economia mondiale, in America si parla esplicitamente di dollaro sotto attacco da una parte, e dall’altra ci si interroga però sugli effetti reali di un dollaro inevitabilmente portato a indebolirsi ulteriormente. Prosegui la lettura…
Oscar Giannino Senza categoria BCE, Dollaro, euro, Fed, FMI, yuan
Ci cono grafici che da soli valgono mille parole. Date un occhio a questo, elaborato da Sean Malone del Mises Institute. In un solo colpo d’occhio, l’andamento del valore del dollaro dal 1800 a oggi. Dopo un apprezzamento superiore al 100% fino a fine Ottocento, una perdita del 196% al valori attuali. Solo gli stolti, a mio giudizio, possono credere che l’inflazione della base monetaria praticata dalla FED nell’ordine del 6000% negli ultimi 60 anni non sia “la” causa largamente prevalente nel determinare tale effetto. Ma si sa, la moneta è di solito trascurata come principale causa dei fenomeni economici…
Oscar Giannino Senza categoria, mercato Dollaro, Fed
Segnalo due report di straordinario interesse sulle condizioni del mercato americano. Il primo è di Bob Chapman per Global Research , e la sua conclusione è che “the depression is only pausing to catch its breath”. Il secondo è di Naufal Sanaullah, Qasim Khan e Tyler DeBoer, per www.shadowcapitalism.com. e conclude drasticamente: “a market crash is imminent and necessary”. Vediamoli nel merito.
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Perché, come e quanto scenderà ancora il dollaro, che ha perso più di 10 punti percentuali da marzo a oggi? Una buona risposta agli interessati da un paper fresco di rilascio, opera di due economisti che operano a Oxford, UK, David Vines e Karlygash Kuralbayeva. I due studiosi estendono ed aggiornano al comportamento dei consumatori il modello già messo a punto nel 2005, per studiare gli andamenti del dollaro, da Francesco Giavazzi e Olivier Blanchard. E’ uno studio che si adatta esattamente alla situazione oggi in corso negli States: quando i consumatori “anticipano” l’aggiustamento  della bilancia commerciale e dei pagamenti, riducono i consumi ancor più di quanto lo farebbero in situazioni – come l’attuale – di contrazione del reddito disponibile. In conseguenza di questo processo, il regolatore monetario dovrebbe abbassare il tasso d’interesse, e scontando questo effetto il tasso di cambio della valuta si deprezza in maniera ancor più significativa. L’effetto sul cambio sarebbe contenuto qualora il tasso d’interesse non fosse sceso rapidamente. Ma quando esso è a tasso reale negativo – come oggi – e con la prospettiva inoltre di restarci molto a lungo, ecco che il presumibile deprezzamento del dollaro diventa rapido ed energico. E la Cina col suo reminmbi gode.
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Sono in giro per una serie di incontri e convegni, in licei, cooperative, armatori, i Giovani di Confindustria, il Forum della PA con Brunetta, e via continuando. Per questo mi scuso di esser mancato un giorno, e ne approfitto per un post al volo. Mi ha molto sorpreso dieci minuti fa leggere l’editoriale di Nouriel Roubini sul New York Times di oggi, perché è raro che le sue tesi sopra le righe mi convincano. Ma mi sono ritrovato esattamente nel ragionamento che avevo esposto ieri agli studenti del Sacro Cuore di Milano e oggi al parlamentino nazionale degli juniores di Confindustria guidati da Federica Guidi. Si tratta delle conseguenze che potrebbe avere per tutti i paesi grandi esportatori in semilavorati e componentistica a non altissimo valore aggiunto – come l’Italia – un eventuale cambio del tallone monetario del commercio mondiale. In altre parole: dello scioglimento del peg semi fisso tra dollaro e reminmbi, che negli anni alle nostre spalle ha “aggiunto” competitività monetaria, attraverso il collegamento automatico alla svalutazione del dollaro sull’euro, ai prodotti cinesi già avvantaggiati da basso costo congenito. Secondo stime riservate che l’Ice esita comprensibilmente a rendere note, potrebbero essere dolori per almeno due delle famose “4 A” che costituiscono i due terzi dell’export italiano. Per l’automazione e componentistica elettromeccanica, e per l’abbigliamento-tessile-moda, ciò potrebbe costituire un cambio rilevante delle ragioni di scambio, in grado di convincere molte grandi aziende capofiliere – soprattutto tedesche, nel primo settore – a rinviare il più possibile la ripresa di ordini ad aziende fornitrici italiane, in attesa di verificare se non convenga spostare altrove le proprie catene di supply.
Quel che in apparenza è un tema “alto e lontano” – la proposta cinese di una seria modifica dei diritti di prelievo e relativo paniere monetario di riferimento, in sede di Fmi – in realtà potrebbe colpire in profondità le possibilità di ripresa dell’export italiano. Gli americani sono convinti che i cinesi si convinceranno presto a rivalutare, pur di riavviare comunque il proprio export. I cinesi sono persuasi che saranno gli americani per primi a dover mollare la loro pretesa, perché di mese in mese i disoccupati aggiuntivi Usa da ottobre passeranno dagli attuali 5,7 milioni a 7 e oltre entro l’estate, e a quel punto Obama sarà costretto a piantarla e a rassegnarsi, se vuole che i cinesi riprendano ad acquistare asset in dollari, cioè a finanziare a debito il risanamento Usa come fino ad ottobre ne finanziavano la crescita dei consumi.
Purtroppo, se è corretto ipersemplificare in questi termini il braccio di ferro monetario sotteso alla ripresa del commercio mondiale, occorre ricordare che i cinesi possono contare su di uno strumento assai più efficace di quello americano. L’Armata Popolare Cinese mette sui treni e rispedisce in campagna ogni mese dai 3 ai 5 milioni di cinesi risospingendoli all’economia di sussistenza agricola, nel mentre si attua il colossale shift della crescita da estero-trainata a focalizzata su infrastrutture e domanda interna. Gli americani, al contrario non possono certo arruolare milioni di disoccupati nella Guardia Nazionale. Di conseguenza, al il nostro export converrebbe una posizione filocinese anzichenò.
Nel frattempo, una raffica di notizie che mi sembrano smentiscano gli ottimismi di circostanza: il deficit tedesco a 50 miliardi di euro quest’anno da 11 nel 2008 con tanto di addio ai tagli fiscali preannunciati; la cattiva – e giustificata – reazione del mercato alle trimestrali di Unicredit e Intesa; la scontata sconfitta degli imprenditori privati in Assolombarda, vista la sconsideratezza con cui la presidente uscente ha cercato di pilotare la sua successione su un candidato debole come già avevo scritto, con inevitabile vittoria del candidato “pubblico”, Maugeri dell’Eni, che dopo un anno di ridicolaggini su Expò 2015 infligge una nuova bella ridimensionata alle pretesi milanesi; il venir meno della residua finzione di Cai su Malpensa, e scontate chiacchiere dei governatorid el Nord che solo ora riscoprono la necessità di liberalizzare gli slot intanto riassicurati ad Alitalia anche se non li usa; la conferma che nella riscrittura a puntate del rapporto Caio riemerge lo scorporo “tutto pubblico” della rete fissa di Telecom Italia… e poi vi chiedete perché Mike Bongiorno è andato da Murdoch per riprendere a scandire tutte le sere il suo proverbiale “allegriaaaa”: perché qui da noi c’è poco da ridere, e lo sa anche lui.
Oscar Giannino Senza categoria Cina, Dollaro, export, Wto