CHICAGO BLOG » derivati http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 L’ontologia degli oggetti sociali / 2. Di Andrea Gilli /2010/06/29/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-2-di-andrea-gilli/ /2010/06/29/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-2-di-andrea-gilli/#comments Tue, 29 Jun 2010 15:27:31 +0000 Guest /?p=6400 Riceviamo da Andrea Gilli e volentieri pubblichiamo:

Ho letto con interesse l’articolo del prof. Lottieri sull’ontologia degli oggetti sociali. L’analisi merita attenzione per due motivi. In primo luogo, in un periodo nel quale attaccare la finanza porta consensi, Lottieri va coraggiosamente contro corrente, e offre una difesa non convenzionale degli strumenti finanziari incriminati. In secondo luogo, in un dibattito politico e culturale – quello italiano – atrofizzato da schemi concettuali vecchi di settant’anni, Lottieri porta una ventata di novità discutendo di ontologia nelle scienze sociali.

Purtroppo, è però proprio su questo punto che mi trovo in forte disaccordo con il professor Lottieri. Non sono un filosofo. Umilmente mi considero uno studente, che per svago si legge testi di filosofia della scienza. Ho studiato Searle, Berger e Luckmann, Lakatos, Giddens, Kuhn e tutti gli altri per capire prima gli assunti epistemologici e ontologici della mia disciplina e poi, soprattutto, quelli di una sua scuola di pensiero particolarmente in voga nel campo delle relazioni internazionali: il costruttivismo.
Sono partito ben disposto verso gli studiosi costruttivisti. Li ho letti. Non li ho trovati utili. Soprattutto, credo che il loro contributo sia più dannoso che benefico. Spiegherò qui di seguito la mia posizione, e più precisamente come mai non condivido la scelta di Lottieri di affidarsi a questa scuola di pensiero per giustificare strumenti di mercato.
Partiamo innanzitutto dalla base. Le scienze sociali si possono dividere secondo due grandi logiche. March e Olsen (1985) parlano di logic of consequence e logic of appropriateness. Secondo il primo approccio, gli individui sono consequenzialisti. Sono razionali e quindi mossi dalla volontà di raggiungere un determinato fine (questo è quello che più comunemente viene chiamato l’homo oeconomicus). In economia politica, parliamo quindi di massimizzazione dell’utilità del consumatore o massimizzazione del profitto dell’azienda. In scienza politica parliamo di vittoria alle elezioni, cattura del controllore da parte del controllato, etc. La meta-logica sottostante è cartesiana: le relazioni umane sono regolate da leggi oggettive che valgono nel tempo e nello spazio. La tecnologia sia fisica (tecnica) che sociale (internazioni umane) può aumentare l’intensità o il raggio d’azione di questi meccanismi, ma non può alterarne la logica, che infatti resta immutata. L’incrocio tra domanda e offerta, dunque, tende a portare i prezzi in equilibrio sia nell’antichità che oggi (Friedman, 1963), così come la concentrazione di potere in una sola unità politica porta alla formazione di schieramenti anti-egemonici (Waltz, 1979; e Snyder, 2002). Compito dello studioso è dunque identificare queste leggi universali.

La seconda logica, quella dell’appropriateness diparte completamente da questi assunti e giunge a postulati completamente differenti. Il punto di partenza è che gli individui non sono consequenzialisti. Sono animali sociali il cui comportamento è guidato dalle norme condivise del loro ambiente esterno. Non c’è una cosa come l’individuo. C’è la società che prescrive i comportamenti da seguire. È chiaro che negare queste intuizioni sarebbe banale. Chiunque sarà d’accordo nel sostenere che la società nella quale un individuo vive influenza il suo modo di pensare e di agire. Vi sono però almeno tre domande, alle quali il costruttivismo non risponde in modo esaustivo ed esauriente: in primo luogo, quale è lo spazio dell’individuo? Inoltre, fino a che punto le norme sociali non sono in contraddizione con i vincoli materiali ai quali gli individui sono sottoposti (e, dunque, con una teoria dei vincoli)? Infine, fino a che punto le norme sociali non sono il semplice prodotto di fattori materiali.

Il primo problema è etico-metodologico. Se noi assumiamo che il comportamento degli individui sia dettato dalle norme sociali dei contesti nei quali questi vivono, allora eliminiamo la volizione (quello che in scienza politica anglo-sassone si chiama “agency”). L’analista, in questo caso lo scienziato politico, si pone dunque al di sopra degli altri (con arroganza) e si dice in grado di interpretare quello che essi fanno. Si badi bene: l’analista costruttivista non spiega, ma comprende (Hollis and Smith, 1991). Mentre uno studioso positivista ritiene che gli attori siano dotati di ragione e il suo scopo sia spiegare le loro ragioni, lo studioso costruttivista crede di essere il solo a capire la realtà, e dunque debba spiegare il comportamento pecorile degli individui. La ragione è epistemologica: il positivista crede che vi sia una realtà oggettiva che va analizzata e spiegata. Il costruttivista crede nell’interpretazione intersoggettiva. La realtà è creata e ricreata dalle pratica delle relazioni sociali: domanda e offerta non sarebbero altro che costrutti sociali in grado di guidare la realtà. Questi costrutti però, in sostanza, non esistono. Le conseguenze sono molteplici. Tralasciamo quelle morali, perchè sono evidenti. Secondo la logica costruttivista gli individui non sono consequenzialisti. L’implicazione più evidente emerge quando si pensa al mercato, probabilmente la più importante e più potente istituzione sociale create dall’uomo. Se Searle (citato da Lottieri) ha ragione, allora il mercato funziona perchè gli agenti economici credono che esso funzioni, non perchè è il sistema di allocazione delle risorse più efficiente tra quelli disponibili. E infatti questa è la conclusione accettata dai costruttivisti: il mercato – che per loro è una costruzione sociale – esiste perchè qualcuno ci ha convinto che esso funziona. Se la norma sociale legittimata fosse il sistema pianificato, anche questo funzionerebbe.

Il secondo problema è di teoria sociale. L’assunto di razionalità in economia come in scienza politica è, appunto, un assunto: una semplificazione. Gli individui possono tranquillamente essere irrazionali. L’economia politica è però una teoria di limiti: chi va contro il mercato si brucia le dita. Un approccio costruttivista, dunque, non sostituisce uno positivista. Al massimo, aggiunge qualcosa di marginale. Il problema del costruttivismo, però, è la sua epistemologia. Non ci sono fenomeni ricorrenti nel tempo e nello spazio, ma invece questi sono il prodotto di come la realtà è intersoggettivamente condivisa tra gli individui. Dunque, se vogliamo capire come mai il regno di Filippo II andò in bancarotta alla fine del 1500, non dobbiamo analizzare fenomeni come l’inflazione monetaria, i deficit nelle partite correnti o la bassa produttività. Piuttosto, dovremmo guardare alla legittimità del suo regno e alle norme esistenti tra i banchieri del tempo. In altri termini, la causa va ricercata non in fattori oggettivi ma in fattori intersoggetivi: l’interpretazione collettiva della realtà. Ad una differente interpretazione intersoggettiva della realtà corrisponde una diversa realtà sociale. Allo stesso modo, per comprendere la crisi di oggi, dovremmo comprendere il modo con cui gli attori finanziari concettualizzano il mercato, e come questa concettualizzazione guidi i loro comportamenti. Non, invece, cercare di analizzare i loro sistemi di incentivi e come questi influenzino i loro calcoli. Difatti questo è quello che una branca della international political economy sta facendo: la diffusione del liberismo nel mondo non sarebbe dovuta al fatto che funziona, ma invece al fatto che gli attori chiave sarebbero socializzati (leggi: abbagliati) da questa ideologia (Chiewroth, 2007, 2009; Sinclair, 2003). Gli unici che capiscono come stanno realmente le cose sono, ovviamente, i soli costruttivisti. Gli unici, si badi la contraddizione, che riescono a sfuggire alla rete possente della socializzazione delle idee.

Questa discussione ci porta al mio ultimo punto: l’influenza dei fattori materiali su quelli sociali. Le norme sociali esistono: è evidente. Ma da dove nascono? Per esempio, il bando sul prestito ad interesse che la Chiesa ha tenuto in piedi per diversi secoli: da dove viene fuori? Secondo una logica costruttivista bisogna guardare alle norme sociali della Chiesa e ai suoi valori solidaristici e a come questi fossero condivisi intersoggettivamente tra tutti gli attori del tempo. Possibile. Ma quanto è credibile un tale quadro di fronte ad una Chiesa che riceveva emolumenti da mezza Europa per rafforzare il suo regno? Ad una una Chiesa che rafforzava il suo esercito ed edificava su tutto il continente? Da un punto di vista di political econonomy, la spiegazione è molto più semplice (e intuitiva): prestito ad interessi significano crescita economica, crescita economica significa nascita di attori economici, poi sociali e infine politici. La nascita di attori politici implica l’emergere di possibili sfidanti al potere ecclesiastico. Mettendo un bando morale sul tasso di interesse, la Chiesa ha rafforzato il suo potere politico materiale. Dunque, dietro ad una posizione morale c’erano solidi fattori materiali. Il lettore può autonomamente decidere quale delle due spiegazioni sia più credibile.

Ciò vale, allo stesso modo, per quanto riguarda la finanziariarizzazione dell’economia, e qui arriviamo al mio diasccordo con quanto scritto dal professor Lottieri. I prodotti finanziari sono sempre più complicati, astratti e invisibili. Ma esistono. L’esistenza di questi prodotti non si deve tanto al loro valore sociale o alla condivisione intersoggettiva del loro ruolo, ma piuttosto alla loro utilità materiale. Quanto scrive Searle sulla moneta – mi si passi l’espressione – non ha senso: secondo Searle, la moneta non avrebbe assunto il suo ruolo in virtù delle funzioni che essa svolge (riserva di valore, mezzo di scambio, unità di conto), piuttosto per via di norme sociali. Vale a dire, se le norme sociali fossero state diverse, oggi potremmo usare i cammelli anzichè la moneta. Analogamente, l’URSS potrebbe essere il modello dominante se solo fosse diventato legittimo… Insomma, tutto sarebbe possibile, se solo le norme e la cultura lo credessero tale.

Ho molta stima per il prof. Lottieri. Ritengo però che affidarsi al costruttivismo per difendere i mercati finanziari rischi di portare più danni che benefici. La positive political economy ci dà sufficienti strumenti per spiegare la realtà. La realtà esiste, è il prodotto di incentivi e vincoli ai quali gli attori rispondono. Se pensiamo che la realtà sociale sia costruita,il passo è troppo breve per finire con Berger e Luckmann dove la realtà intera è socialmente costruita. Ciò significa che la battaglia delle idee non è più una battaglia basata su fatti reali (il libero mercato funziona, la pianificazione centralizzata no), ma una battaglia ideologica in cui ogni tipo di proposizione è validea, in quanto mira a creare norme mutualmente condivise che creano una realtà intersoggettiva.

Secondo questa logica, infatti, il mercato non è il sistema più efficace ed efficiente per produrre e distribuire ricchezza, ma un costrutto sociale storicamente determinato, che si riproduce attraverso la socializzazione degli attori alle sue norme. A dominare non sono domanda, offerta e prezzi, ma la socializzione di questi concetti tra gli attori. Con norme sociali diverse, avremmo quindi sistemi economici diversi ma pur sempre in grado di funzionare: perchè cosa conta non sono i fattori materiali ma la condivisione intersoggettiva della concettualizzazione della realtà. Tradotto: se una società ignora il concetto di produttività marginale, allora nella realtà, gli effetti della produttività marginale non si riscontrano. Le liberalizzazioni della Thatcher e di Reagan, secondo questa prospettiva, non furono la risposta necessaria all’inefficienza delle politiche keynesiane degli anni ’70 ma invece il frutto della socializzazione dei policy-makers alle nuove idee monetariste. Per i costruttivisti, se Friedman non ci fosse mai stato, avremmo ancora economie keynesiane e, si badi, in perfetto funzionamento: perchè nessuno sarebbe stato socializzato all’idea che alte tasse e alta spesa pubblica portino, nel lungo termine, a minore crescita economica.

Ma il problema vero del costruttivismo è ancora un altro: ed è quello etico-politico. Se con la teoria positivista nelle scienze sociali, il compito dello studioso è quello di spiegare i meccanismi oggettivi della realtà, con l’approccio post-positivita (logic of appropriateness), il compito del ricercatore diventa quello di capire come il genere umano concettualizza intersoggettivamente la realtà. Il passo successivo, che tutti i costruttivisti fanno, è ovvio: cercare di alterare questa concettualizzazione per promuovere la loro visione del mondo. Ecco perchè, per esempio, i costruttivisti ci spiegano la base sociologica e non oggettiva dell’economia di mercato: perchè l’obiettivo è socializzarci all’idea che alte tasse, big-government e tutto quanto comunmente non funziona, possono invece funzionare. Basta che ci sia una comprensione intersoggettiva che accetti tutto ciò come legittimo. Se la moneta è un costrutto sociale che funziona, allora qualsiasi altro costrutto sociale può funzionare.

Gary Becker ha mostrato la fallacia della sociologia. Credo che sia stato un grande passo in avanti nelle scienze sociali: l’abbandono di modelli tautologici e non falsificabili per una scienza della società. Non vedo proprio motivo per tornare indietro.

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L’ontologia degli oggetti sociali e la nostra difficoltà a comprendere la finanza /2010/06/27/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-e-la-nostra-difficolta-a-comprendere-la-finanza/ /2010/06/27/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-e-la-nostra-difficolta-a-comprendere-la-finanza/#comments Sun, 27 Jun 2010 10:13:04 +0000 Carlo Lottieri /?p=6386 Sia concessa un piccola divagazione, che forse a qualcuno apparirà astrusa, in merito a taluni presupposti teoretici, sociali e psicologici che stanno alla base del diffuso rigetto del capitalismo finanziario.

Una parte rilevante della propaganda anti-liberale degli ultimi anni ha fatto perno sul carattere relativamente astratto di alcuni strumenti che sono comunemente utilizzati all’interno di un’economia libera. La polemica tremontiana contro la “finanziarizzazione” dell’economia e in difesa delle attività produttive – contro chi produce titoli (i derivati, ad esempio) e a difesa di chi produce cose (indumenti, alimenti, mezzi di trasporto ecc.) – è rappresentativa di tutto questo, ma non è molto dissimile dalle offensive anti-mercato che si sono registrate in altre parti del mondo.

Si tratta di un’impostazione facilmente contestabile, dato che si può fare una buona finanza e una cattiva (basti pensare, quale esempio di gestioni fallimentari, alle banche centrali), così come si può produrre bene e anche molto male (ed è questo il caso di tutti i settori protetti e assistiti).

Una lettura manichea che difenda la produzione di beni contro la produzione di titoli è indifendibile, ma si può iniziare a comprenderla quale conseguenza di una diffusa difficoltà a intendere la natura di oggetti sociali quali i “debiti”, le “opzioni”, i “contratti”, e così via. In fondo, per tutti noi è assai più semplice credere nell’esistenza di case e autovetture, di terreni e lingotti d’oro, che non nell’esistenza di questi costrutti sociali che esistono solo in virtù delle interazioni umane e traggono interamente dalle nostre intenzioni ed azioni il senso della loro esistenza.

È come se lo strumentario ermeneutico di cui disponiamo fosse sempre un po’ primitivo di fronte a una società che moltiplica il panorama degli enti possibili e ci obbliga sempre più a fare i conti con entità di ardua definizione. Per fortuna, un aiuto ad accostare la complessità di tali problemi può venire dagli studi di ontologia sociale.

A partire da un importante lavoro di John Searle, La costruzione della realtà sociale (del 1995), alcuni studiosi hanno iniziato a riflettere sul fatto che vi sono oggetti X (un biglietto verde con l’effige di George Washington) che significano Y (valgono un dollaro) nel contesto C (entro molte transazioni economiche, specialmente negli Stati Uniti). Le opinioni e le intenzioni degli attori creano un quadro sociale che non solo attribuisce una funzione e un ruolo a oggetti che di per sé potrebbero anche non averli, ma soprattutto delineano un quadro sempre più smaterializzato.

A giudizio di Barry Smith, in particolare, lo stesso riferimento ad oggetti materiali – come nel caso del biglietto verde – non è poi così essenziale. Usando l’esempio degli “scacchi alla cieca” (dove si gioca in assenza di una scacchiera), egli rileva come gli uomini siano in grado di generare un numero potenzialmente illimitato di costrutti, e come talune di queste realtà siano al tempo stesso astratte (non fisiche) e storicamente situate (perché legate al tempo). Mentre le idee di Platone sono “forme atemporali”, l’universo sociale è ricco di quasi-abstract patterns al cui interno vi sono “forme temporali”, che pur non essendo fisiche né psicologiche, pure sono radicate nelle diverse società storicamente situate.

Nel nostro rapporto ordinario con la realtà, però, siamo portati a credere che ciò che è reale deve essere tangibile, mentre ciò che ha un’esistenza non facilmente riconducibile a cose e oggetti rischia di essere costantemente spinto verso l’irrealtà: insieme alle fate, alle sirene e ai grifoni. In questo senso, è probabile che, in età medievale, la riflessione scolastica sull’intenzionalità e quindi sul ruolo che svolge il soggetto nel definire e ridefinire il mondo possa aver dato un contributo significativo all’elaborazione di quei paradigmi concettuali che hanno portato alla legittimazione del prestito a interesse e, di conseguenza, delle più diverse pratiche finanziarie.

Come spesso succede, però, i medesimi errori tendono a riproporsi in epoche diverse, in forme solo parzialmente diverse: basti pensare ai ripetuti revival delle teorie protezioniste.

Il persistere di nostre attitudine ataviche continua a rendere meno reali, agli occhi di molti, i contratti e i diritti rispetto ai cani e ai marciapiedi. È anche per questo motivo che gli strumenti derivati, che sono oggetti sociali al quadrato, sono talmente malvisti. Qui abbiamo contratti (e quindi oggetti sociali) che il più delle volte si basano su azioni, indici, obbligazioni, valute ecc. (e quindi su altri oggetti sociali). La creatività umana costruisce un grattacielo che, un piano dopo l’altro, si avvicina sempre di più alle nuvole e anche se, ovviamente, poggia come ogni altra costruzione sulla terra, pure viene percepito come sperduto nel nulla e totalmente irreale.

In un suo testo su Searle e Hernando de Soto, Barry Smith sottolinea espressamente come molta parte degli attacchi agli speculatori vengano proprio dal greve naturalismo di quanti non riescono a cogliere altra realtà che negli oggetti materiali, e magari continuano a pensare che il valore sia qualcosa che discende unicamente dal lavoro fisico.

Per questo motivo, affinare la nostra capacità di comprendere il mondo può certamente aiutarci a proteggere al meglio le nostre libertà.

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Pittsburgh, teniamoci bassi /2009/09/24/pittsburgh-teniamoci-bassi/ /2009/09/24/pittsburgh-teniamoci-bassi/#comments Thu, 24 Sep 2009 18:36:46 +0000 Oscar Giannino /?p=2956 È un consiglio programmatico: dopo un anno di chiacchiere e distintivo, preferisco non continuare a inseguire il proliferare astronomico di ricette e proposte che in teoria a Puittsburgh domani e dopodomani dovrebbero essere varate, delibate, indicate e sussunte. Quando capiremo qualcosa di concreto, se ci sarà qualcosa di concreto e non solo la recita di un quadro coordinato di princìpi generali che ognuno attua o meno come però vuole a casa sua, allora varrà la pena di commentare e analizzare. Per oggi, come viatico programmatico al tenersi bassi, mi limito a due indicazioni. La prima: ha ragione Taylor, l’exit strategy può cominciare subito dal NON PIU’ attribuire al FMI tutte le risorse che erano state deliberate, perché NON servono.  La seconda: come al solito è la Banca dei Regolamenti Internazionali, a vincere la gara dei papers preparatori più seri e concreti e meno pindarici.

Sul primo punto, mi limito a segnalare il post di John Taylor sul suo blog. Il FMI ha finora impegnato in prestiti solo il 7 % dei 750 milardi di diritti speciali di prelievo che gli erano stati straordinariamente assegnati all’inizio dell’aprile scorso, molto meno ancora di quanto non avvenne nella raffica di crisi finanziarie dei Paesi emergenti, nella seconda metà degli anni Novanta. In più, oggi l’economia mondiale è trainata proprio da quei Paesi, e non sono le crisi potenziali dell’Est Europa o Russia a giustificare una simile panoplia di risorse a disposizione. Si inizi a tagliare, perché troppi denari  a disposizione di enti pubblici alla ricerca di ruolo sono sempre una ghiotta occasione per sprechi inutili.

Quanto al ruolo della BRI o BIS se seguite l’acronimo inglese, segnalo dalla bellissima Quarterly Review appena uscita:

-   questa proposta in materia di derivati Over The Counter, volta a creare camere di compensazione assai meno ideologicamente vincolanti dei tanti deliri proibizionisti fioriti ultimamente sulle bocche di tanti insospettabili economisti ammazza-finanza;

-   questa analisi su una possibile eventuale metodologia per classificare i diversi tipi di intermediari finanziari in classi di rischio macrosistemico, con esempi concreti rispetto al situazione attuale mondiale;

- infine questa ricerca su come  e perché il costo dell’equity bancario divenisse sempre meno sensibile, nel quindicennio 1990-2005, al crescere del rischio sul mercato e di mercato.

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Compra che ti passa /2009/09/06/compra-che-ti-passa/ /2009/09/06/compra-che-ti-passa/#comments Sun, 06 Sep 2009 07:16:51 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2533 Fino a che punto un ente locale può giocare d’azzardo? Il quotidiano di Genova, Il Secolo XIX, sta conducendo una meritoria inchiesta (qui e qui, il resto sul cartaceo di ieri e oggi) sull’enorme e incerto buco della Spim, la società controllata al 100 per cento dal comune, che ne possiede e gestisce il patrimonio immobiliare. Nel 2007, il gruppo – allora capitanato da Giorgio Alfieri – ha acceso un mutuo da 80 milioni di euro per comprare il Matitone, l’edificio che oggi ospita gran parte degli uffici comunali. Per coprirsi contro il tasso variabile, la Spim acquistò contemporaneamente, dalla banca Bnp Paribas, un prodotto che Alfieri definisce “assicurativo”. Nel primo anno il valore del fondo crebbe in effetti di 1,5 milioni, ma poi, con la crisi delle Borse, è precipitato a -24 milioni, per poi risalire e infine riprendere a calare. Attualmente siamo a -14 milioni. Non è detto che il prodotto, assicurazione o derivato che sia, alla scadenza (2016) non chiuda in attivo. Il problema è un altro: fino al 2016, sarà impossibile saperlo. Sarà quindi impossibile conoscere la reale situazione di Spim e, di riflesso, lo stato dei conti del comune.

La questione, resa più grave che l’amministrazione comunale non era stata informata dell’operazione e che è venuta a saperlo solo ora alla luce dei dati catastrofici e dell’intervento della Corte dei Conti, è sostanziale. Riguarda, infatti, lo status oggettivamente diverso delle amministrazioni pubbliche e dei loro veicoli (come la Spim) rispetto a qualunque altro individuo o società. Io non sono paternalista: se volete giocarvi tutto in borsa o al casinò, che siate ricchi o poveri, cavoli vostri. Ma un amministratore pubblico deve adottare una logica diversa: perché, se perde, in realtà perdiamo tutti. Saranno i soldi delle tasse a coprire i buchi. Quindi, non solo un amministratore pubblico dovrebbe mettersi nella condizione di comprendere quello che sta comprando – quando spesso non è stato così, come ha evidenziato la bella puntata di Report sui derivati – ma dovrebbe anche pesare con maggiore cautela le proprie scelte. Non è tanto una questione di norme, quanto di prassi. Un individuo può rischiare quanto cazzo gli pare, un amministratore pubblico no: ha il dovere di contenere il rischio, perché c’è una inevitabile asimmetria tra chi apre le posizioni e chi poi si trova a subirne le conseguenze (come in questo caso, quando la magagna viene fuori con un nuovo capo di Spim e un diverso sindaco).

Quello che sto dicendo è che gli amministratori pubblici dovrebbero smetterla di fare gli splendidi. Battere le vie normali per la raccolta dei capitali: e se non ci riescono o se i capitali costano troppo (che è lo stesso), ridimensionare i loro progetti di spesa. Non so se fosse davvero necessario comprare il Matitone: forse si poteva restare in affitto, o forse si poteva rinunciare ad altre spese per dare la scalata al grattacielo genovese. Oltre a questo, l’amara vicenda con cui Marta Vincenzi (primo cittadino del capoluogo ligure) e Sara Armella (ad di Spim) dovranno fare i conti fornisce una lezione importante alla stessa Vincenzi e a tutti gli altri sindaci. La lezione è che aprire delle società controllate interamente dal comune per allocare la gestione di questo e quello può rispondere, in alcuni casi, a esigenze di razionalità: ma in ogni caso crea uno schermo di opacità su operazioni che dovrebbero essere le più trasparenti. E, parallelamente, riducono l’efficacia del controllo, perfino in un sistema imperfetto come quello attuale, al punto che della vicenda Spim non solo non erano informati il consiglio comuinale e la cittadinanza, ma neppure la Vincenzi e, secondo quanto riferisce al Secolo oggi, lo stesso Giuseppe Pericu, all’epoca sindaco di Genova e padrino politico di Alfieri.

Margaret Thatcher disse una volta che la Gran Bretagna degli anni Settanta era un paese dove le imprese private erano controllate dal settore pubblico, le imprese pubblico da nessuno. Ho la sensazione che non ci troviamo in una situazione tanto diversa.

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Goldman sotto inchiesta. E da noi sui derivati si tace sul rischio di esposizione /2009/08/05/goldman-sotto-inchiesta-e-da-noi-sui-derivati-si-tace-sul-rischio-di-esposizione/ /2009/08/05/goldman-sotto-inchiesta-e-da-noi-sui-derivati-si-tace-sul-rischio-di-esposizione/#comments Wed, 05 Aug 2009 19:34:18 +0000 Oscar Giannino /?p=1932 Il mascheramento dei dati macro ormai è la tendenza predominante in tutto il mondo, per “aiutare” le Borse nella tendenza rialzista. Per dire: in queste ore FT, WSJ e le testate americane  si affannano a sottolineare come molto positiva la stima di disoccupazione aggiuntiva relativa al mercato USA a luglio oggi rilasciata da ADP: sarebbero 378 mila i posti di lavoro persi dopo gli oltre 460 mila di giugno. La release ufficiale delle autorità federali è attesa tra qualche giorno, ma il fatto è che la stima convergente degli analisti era intorno ai 320 mila se non inferiore. Eppure, vai con la grancassa. Detto questo, Goldman Sachs ha oggi rivelato al mercato che parecchi dei suoi manager sono sotto indagine da parte di “diverse” autorità di regolazione e e federali. Inutile chiedere di più, del resto Goldman ancor oggi resta l’unica grande banca USA a non aver nemmeno rivelato al mercato l’ammontare delle sue operazioni in derivati. Tutto quel che si sa, è che le indagini sono appunto relative ai bonus dei manager – nel primo semestre 2009 GS ha accumulato oltre 11 miliardi di dollari a questo fine e si avvia a superare i 20 miliardi per l’intero 2009, direi che non c’è male no? – e proprio alle operazioni e posizioni su derivati. In ogni caso, almeno negli USA i regolatori intervengono. Qui da noi in Italia, abbiamo dovuto aspettare come al solito le Procure della Repubblica, per i vari casi in Lombardia, Campania, Puglia e compagnia. Al MEF da fine anno scorso funziona una banca dati “obbligatoria” di deposito delle posizioni aperte dagli Enti Locali sui derivati. Il rischio concreto è che di qui a pochi mesi – se davvero bisogna credere all’uscita a breve dalla crisi-  le curve dei tassi nell’euroarea cambino. A quel punto, il rischio di esposizioni inaspettate potrebbe salire di colpo. Perché nessuno allora ci informa con numeri precisi, relativi al rischio netto di chi si è impropriamente inderivato nelle Autonomie? Una crisi che procede nell’occultamento dei dati a fini precauzionali è l’opposto della total disclosure che per un anno tutti hanno predicato.

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TBTF: Fitch fa i conti ai nuovi mostri /2009/07/29/tbtf-fitch-fa-i-conti-ai-nuovi-mostri/ /2009/07/29/tbtf-fitch-fa-i-conti-ai-nuovi-mostri/#comments Wed, 29 Jul 2009 18:59:52 +0000 Oscar Giannino /?p=1817 Mentre noi qui chiacchieriamo coi nostri post intorno alle generalità della questione TBTF – gli intermediari finanziari che non possono essere lasciati fallire e che vanno salvati coi denari dei contribuenti, nonché come impedire che si arrivi a tale situazione – Fitch ha rilasciato ai suoi clienti uno spettacolare report in cui fa i conti in tasca all’intero mercato americano dei derivati, a data giugno 2009. È un’ottima base di partenza, per capire le dimensioni intatte del problema, a due anni esatti dall’inizio della crisi finanziaria. Il 99,7% dell’intero ammontare di attività e passività “derivatizzate” è interamente concentrato tra gli intermediari finanziari, ma solo cinque di loro ne totalizzano l’80%. Se ci chiediamo chi siano davvero i TBTF, a prescindere dalle grandi banche di deposito, è di loro che stiamo parlando. Le Big Five sembravano sparite, nella settimana dopo il 15 settembre 2008 che iniziò con il fallimento di Lehman Brothers, e che vide l’estinzione delle banche d’investimento, mangiate da banche di deposito o trasformate esse stesse in banche commerciali. Invece ci sono ancora. Eccome se ci sono! Cinque aziende, nei cui libri il valore nozionale dei derivati pesa per la bellezza di 280 mila miliardi di dollari! E’ una stima che fa apparire datata e troppo contenuta quella che a dicembre 2008 era stata fatta dalla BRI di Basilea, secondo la quale l’intero mercato dei derivato Over the Counter era intorno ai circa 600 mila miliardi di dollari, con un valore di mercato lordo (somma di assets e liabilities “derivatizzata” a valori di libro) intorno ai 34mila miliardi di dollari. Vale la pena di leggere in dettaglio.

Partiamo da questa tabella, che offre una stima del peso dei derivati per tipologia di settore nel quale operano le aziende che se ne servono. Come si vede, i derivati energetici, sulle commodities e sui tassi di cambio per le materie prime e i semilavorati industriali sono robetta: oltre 295mila miliardi su 296mila miliardi di dollari in valore nozionale sono tutti concentrati tra gli intermediari finanziari. Il che significa che nel comparto energetico il più dei derivati serve davvero – almeno attualmente – a scudarsi dall’andamento erratico di prezzo delle commodities, rispetto a chi sosteneva che il ruolo della pura speculazione è ancor oggi assai maggiore della pura tecnica di copertura. Ripeto il caveat “almeno attualmente”, perché in realtà le aziende energetiche ammettono che nell’83% dei casi in passato hanno usato i derivati non per l’hedging dei prezzi ma a puri fini speculativi. Qui, forse e almeno al momento, la lezione dell’estate 2008 e del barile a quasi 150$ sembra introiettata dagli operatori.

Dopodiché passiamo a quest’altra tabella , che ci consente di apprezzare dove davvero si concentra il problema finanziario. Come potete vedere, sul totale dei 295mila miliardi di dollari di nozionale in derivati concentrato nel settore finanziario, JP Morgan ne ha per 81,7 mila miliardi,  Bank of America per 80mila, Morgan Stanley per 39,3 mila miliardi,  Citigroup per 31,5 mila, e, fuori dalla classifica, naturalmente Goldman Sachs: fuori classifica perché sinora si è clamorosamente rifiutata di comunicare a regolatori e mercato il valore lordo dei propri derivati – a due anni dall’inizio della crisi! –  e ha svelato solo il numero contrattuale delle relative posizioni. Ma Fitch stima che il nozionale in derivati a carico di GS sia pari ad almeno 47,8 trilioni di dollari.

Infine, Fitch si produce  nel più difficile. In questa tabella, fa il conto dell’esposizione netta rispetto al lordo di mercato in derivati, per ciascun grande intermediario nei cui libri i derivati pesino più del 5% del totale degli asset.  La terrificante conclusione è che, per quattro delle Big Five resuscitate, il rischio è superiore ai 100 miliardi di dollari a testa: 137,3 per BofA; 131,2 per JP Morgan; 112,2 per Citigroup;  104,3 per Goldman Sachs; solo Morgan Stanley si ferma - per così dire - a quota 80 miliardi di dollari.

La conclusione di Fitch è devastante: in caso di nuovo cigno nero, l’esplosione di questo mezzo trilione di dollari di rischio puro e netto sui derivati farebbe apparire il fallimento di Lehman un mortaretto per bambini.

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