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Posts Tagged ‘deflazione’

L’evoluzione bimodale dei prezzi…

29 dicembre 2009

Fino a metà 2008 tutti parlavano di recessione inflazionistica: carestie alimentari, fine del petrolio, tavole di Mendeleev vendute a prezzi crescenti nei mercati internazionali. Poi, nel giro di pochi mesi, tutti cominciarono a pensare ad una recessione deflazionistica: i prezzi scendevano e le bolle delle commodities si sgonfiavano rapidamente, ed è rispuntata fuori la trappola della liquidità.

Ora è però quasi un anno che le commodities stanno in rialzo. Il petrolio è passato da 50$ a 80$ al barile. L’indice IMF delle commodity, nel frattempo, è aumentato del 50%, e la cosa è abbastanza uniformemente divisa tra metalli, gas, petrolio e generi alimentari. Oro, argento, platino, rodio e palladio, chi più chi meno, sono aumentati considerevolmente, alcuni anche raddoppiati. Alluminio, rame e nickel, come se non bastasse, sono aumentati anche loro più o meno altrettanto. Che succede?

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Pietro Monsurrò Senza categoria , , ,

Meno credito: ciò che le banche centrali NON riescono a impedire, e perché

17 settembre 2009

Negli Stati Uniti, dove a differenza che da noi non comanda l’ABI, da un paio di giorni media e bloggers si interrogano a centinaia su questa chart. Si riferiva a questo, Pietro Monsurrò nel suo post di questa mattina. A produrla e commentarla, sono stati economisti come Tim Congdon del FMI e David Rosenberg di Gluksin Shelf. La massa degli impieghi continua a diminuire negli USA a un tasso dell’1% al mese, per ogni mese da 11 mesi a questa parte. La deflazione del credito si aggiunge a quella dei prezzi, dei salari, degli asset immobiliari. Non  male, se si pensa che tutti intonano la canzone “siamo fuori dalla crisi”. Tra i tanti commenti, mi limito a segnalarne alcuni, come quello di Ambrose Evans-Pritchard sul Telegraph, quello di Tyler Durden su Zerohedge, quello di Mr Practical su Minyanville. Si potrebbe pensare che questi dati interessano solo gli americani. È sbagliato: perché la restrizione di credito, con molta più opacità sui dati, è in corso anche da noi. Di conseguenza, ne de derivano tre importanti constatazioni. Prosegui la lettura…

Oscar Giannino credito, liberismo, mercato , , ,

Quel 9% di fabbisogno significa che…

2 luglio 2009

Giornata di pessime notizie. Prima e più di quelle italiane, quelle che vengono dal mondo. America: i dati rilasciati oggi della disoccupazione Usa sono una secchiata di ghiaccio, oltre 460 mila nuovi senza lavoro mentre ce ne si attendeva 100 mila in meno: si interrompe dunque seccamente la decrescita dell’espulsione di manodopera, che era scesa dalle 600 mila unità mese circa a poco più della metà. Russia: il rapporto Fitch sui 60 miliardi di dollari di ricapitalizzazione necessaria delle banche russe, se le cose continuano di questo passo – attualmente le proiezioni del GDP per il 2009 dicono meno 8,6% - è una mazzata a chi sperava che la ripresa della Borsa russa fosse un segnale anticipatore del rallentamento della crisi. Con questi prezzi del barile di petrolio – l’80% delle entrate pubbliche russe sono ”energetiche” – lo Stato potrebbe esitare molto, di fronte a ricapitalizzazioni tanto energiche, e Mosca potrebbe ricadere in un’instabilità che da due mesi sembrava prospettiva in via di raffreddamento. Cina: altro rapporto Fitch sulla crescita verticale rilevata negli ultimi due mesi di impieghi bancari ad altissimo rischio, cioè a fronte di asset collaterali o direttamente di garanzia su valori terribilmente “gonfiati”. In apprenza è un segno positivo, significa appunto che lo switch a sostegno della domanda interna deliberato dalle autorità cinesi per fronteggiare la caduta dell’export funziona. Ma, dopo qualche mese, se il tono Usa e Ue resta quello deflazionistico che ufficialmente si vede negli ultimi dati degli impieghi bancari, per via del cambio fisso dollaro-reminmbi la bolla degli asset cinesi interni sarà costretta ad esplodere, a meno di far saltare il cambio come i cinesi negano risolutamente di essere disposti a fare.

Quanto all’Italia, il 9,3% di Pil di fabbisogno pubblico accumulato nel primo trimestre è un dato purtroppo atteso, con una caduta tendenziale del Pil superiore al 5%. Di solito, il primo trimestre è il peggiore, perché poi arrivano gli anticipi dell’autoliquidazione fiscale e più avanti i conguagli. Ma è evidente anche che si tratta di un dato che spinge il deficit tendenziale pubblico a fine 2009 più verso il 6% del Pil che verso il 5, con l’elasticità attuale del calo delle entrate rispetto a quella del prodotto. È vero: è in arrivo lo scudo fiscale. Ma Tremonti si ripromette di usarlo per finanziare interventi aggiuntivi o sin qui negati: e ne riparleremo, nei prossimi giorni, perché ho avuto un’idea che sto testando riservatamente, prima di parlarne in pubblico.

È inutile continuare a negarlo: servono riforme strutturali che recuperino andamenti futuri della spesa pubblica nell’ordine di 4-6 punti di Pil almeno, tra previdenza, sanità eccetera eccetera. Non in un anno: ma l’essenziale è metterli a punto e vararli al più presto.

Oscar Giannino Senza categoria , ,

I politici chissà, ma almeno i banchieri centrali ricordino la Thatcher

4 maggio 2009

Non prevedo facili ripescaggi a breve da parte di politici italiani, europei ed americani dell’eredità della Baronessa Thatcher, e di Ronnie Reagan che insieme a lei compone il binomio di riferimento dei migliori statisti del secolo scorso. L’ebbrezza da panico economico per il ritorno in grande stile dello Stato tende a far dimenticare a tutti che il ruolo pubblico di stabilizzatore del ciclo deve essere intenso quanto si vuole, ma dichiaratamente reversibile con tempi e procedure certe, annunciate all’atto stesso in cui si adottano le misure di intervento straordinario: esattamente ciò che manca in ogni intervento pubblico deliberato al mondo da ottobre 2008 a oggi, praticamente a qualunque latitudine. Pretenderlo dalla sinistra sarebbe forse troppo. Ma il problema è la destra, che confonde quasi in ogni Paese la soddisfazione per il “ritorno della politica” rispetto ai grandi interessi finanziari transnazionali, con un esanime tuffo nel neostatalismo, identificato come unico ambito residuo di una legittimità misurata alle urne ed esercitata con delega discrezionale, spezzando la maldigerita influenza del precedente cosiddetto Washington Consensus degli oggi tanto famigerati “mercati”.
Chi la pensa come noi deve tenere sempre distinta la politica – il pieno rispetto della legittima sovranità esercitata al voto e conquistata con programmi e soprattutto azioni concrete volte alla crescita e alla miglior libera soddisfazione della persona – dall’identificazione della politica nello Stato, nei suoi apparati e nelle sue regolamentazioni. La crisi economica non mi fa cambiare idea. Non mollerò mai la convinzione che in un Paese come il nostro – per la sua tipologia di piccola impresa diffusa e per la percentuale elevatissima di lavoro autonomo sul totale degli occupati – tale distinzione possa costituire la più naturale piattaforma di riferimento per un’azione politica non solo schiettamente liberale e liberista, ma soprattutto votata al successo. Non abbiamo avuto la Magna Charta nel XIII secolo né alcuna Glorious Revolution nel XVII. Lo Stato unitario è prodotto tardivo e recente, subito squassato dall’insuccesso della minoritaria classe dirigente liberale, a fronte dell’immissione delle masse nell’arengo politico veicolata da cattolici e socialisti, mentre fascismo e comunismo praticavano e teorizzavano lo Stato come unico attore della necessitata accelerazione di una storia “olista”. Malgrado tutto, però, le condizioni dell’Italia disegnano un Paese i cui géni restano potentemente antistatalisti: e questo è un bene, checché affermasse la cultura politica eticista nella quale mi sono formato in giovinezza, all’insegna del lamalfiano e amendoliano (nel senso di Giovanni, naturalmente, non del figlio Giorgio) “questa Italia non ci piace”.
Se le basi concrete di policy per un rilancio personalista e liberale oggi appaiono eclissate in Italia e nell’Occidente, ciò malgrado dovremo insistere. E insisteremo, per tutto il tempo necessario: per quanto mi riguarda, questo è il miglior tributo da rendere al trentennale dell’ascesa a Downing Street di Lady Thatcher.
Ma se tra i politici Bismarck vince su Adam Smith, almeno tra i regolatori indipendenti, assai meno soggetti se non – auspicabilmente – del tutto svincolati dai timori degli elettorati, dovrebbe essere praticata qualche migliore ritenzione delle lezioni del passato. Faccio un esempio concreto. Per noi fa testo la Storia monetaria degli Stati Uniti di Milton Friedman e Anna Schwartz. Ma a differenza dei cattivi neokeynesiani non ne abbiamo tratto solo la lezione che il regolatore monetario e dell’intermediazione finanziaria deve mettere in atto l’intera panoplia a sua disposizione, per evitare il collasso bancario e il credit crunch. Ricordiamo bene anche che occorre avere le idee chiare su che cosa in concreto sia, il fantasma tanto temuto della deflazione generale, rispetto invece a riallineamenti di prezzi degli asset che costituiscono autocorrezioni salutari, rispetto a picchi non sorretti da fondamentali.
Tradotto: i neostatalisti inneggiano oggi alla massa monetaria raddoppiata ogni semestre negli Usa mentre il tasso d’interesse è negativo, e attendono tra pochi giorni esiti degli annunciati stress test nelle 19 maggiori banche Usa che non solo non ne decretino la fine di alcuna, ma auspicabilmente anche che lo Stato entri nel capitale di parecchie di loro a cominciare da Bofa. Noi invece, non dimentichi thatcheriani, pensiamo che proprio l’uscita dall’inflazione fu strumento essenziale per debellare la stagflazione. Negli States ci pensò Paul Volcker, che alla Fed sotto Reagan la piantò di dar retta alle lamentazioni sugli effetti di maggior disoccupazione di una stretta monetaria dopo anni di politiche monetarie laschissime,e lasciò lievitare i tassi fino al 21,5%: ma vinse, perché aveva ragione.
Direte voi: ma che cosa c’entra questa reminiscenza storica, caro il mio sprovveduto liberista d’accatto, visto che oggi il main goal del mondo intero è uscire dalla crisi, mentre all’inflazione ci penseremo comodamente dopo, una volta manifestatasi la ripresa? E senza dimenticare che un po’ d’inflazione forse alla fine farà pure bene, perché contribuirà a diminuire il valore reale delle perdite accumulate? Risposta: proprio perché la storia insegna, se la si pensa come noi bisognerebbe chiedere che i regolatori monetari e bancari facessero sfoggio di indipendenza dalla politica. Cioè procedessero pure, se lo ritengono, ad annegare di liquidità i mercati e a tenere su anche per i capelli se necessario il balance sheet bancario. Ma accompagnando ciascuna delle decisioni in materia a un esplicito timing in cui si procederà a decisioni di segno esattamente contrario.
La ripresa dichiarata in anticipo dei tassi anti-inflazione doterebbe il governo dell’intera curva temporale dei rendimenti finanziari di strumenti mai sperimentati prima, più che mai necessari oggi proprio perché la crisi ha bisogno di interventi straordinari non solo “in entrata”, ma anche “in uscita”, se non vogliamo dimenticarci dei guai stagflattivi che rappresentarono per decenni l’eredità dei tardivi interventi di stabilizzazione che posero termine alla Grande Depressione (secondo conflitto mondiale in primis).
Idem dicasi per gli ingressi straordinari dello Stato in banche e imprese. Senza uscite stabilite sin dall’inizio, non solo si pongono le basi per nuove IRI: più semplicemente, al di là della bontà delle future decisioni di manager promossi per designazione o gradimento pubblico-sindacale, si pongono soprattutto le basi per un aumento asintotico della tassazione pubblica, per sostenere i costi crescenti di tanta subitanea espansione della sfera statale. L’esatto opposto di ciò che serve nel medio termine, per riprendere una crescita sana e il più possibile aperta alla libera scelta di milioni e milioni di consumatori e imprenditori, risparmiatori e investitori.
Come dite? Che negli Usa proprio le statistiche ufficiali dicono che la deflazione c’è, e dunque la richiesta è capziosa? Non sono d’accordo. Ha ragione Allan Meltzer. La deflazione non va misurata dagli indici dei prezzi al consumo, da quelli immobiliari e tanto meno da quelli alla produzione (sono col segno meno, negli States). Se si assume il deflatore del Gdp, negli Usa su scala annuale a fine marzo segnava un più 2,3%. La deflazione non c’è, signori miei. Ma anche se ci fosse, il ragionamento resta e così le richieste, da avanzare a politici e regolatori se non vogliamo venir meno a ciò che di buono è venuto al mondo – tanto! – dalla nostra scuola di pensiero. Più che da qualunque altra, nella storia del mondo.

Oscar Giannino Senza categoria , , , ,