CHICAGO BLOG » deficit pubblico http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 L’algebra di Maastricht e il Club Mediterranée /2010/10/03/lalgebra-di-maastricht-e-il-club-mediterranee/ /2010/10/03/lalgebra-di-maastricht-e-il-club-mediterranee/#comments Sun, 03 Oct 2010 19:55:26 +0000 Ugo Arrigo /?p=7195 Al recente Ecofin è stata presentata una proposta molto semplice per garantire precisi percorsi di rientro dagli elevati rapporti debito pubblico/Pil che caratterizzano diversi paesi dell’Unione, tra i quali in primo luogo l’Italia: gli stati con un rapporto debito/Pil superiore al 60% dovranno ridurre l’eccedenza del proprio dato  rispetto al 60% di almeno un ventesimo all’anno. In caso di inadempimento scatterebbero sanzioni automatiche piuttosto drastiche. Per l’Italia, destinata a breve a raggiungere il 120% nel rapporto debito/Pil l’approvazione di questa regola comporterebbe tappe annuali di riduzione del 3% (le più elevate tra gli stati, assieme alla Grecia): nel primo anno di applicazione  dovrebbe quindi scendere al 117%, nel secondo al  114% e così via.

E’ interessante notare che questa regola non richiede di portare il bilancio pubblico in attivo o in pareggio neppure agli stati caratterizzati, come l’Italia, da bassa crescita del Pil ed elevatissimo stock di debito rispetto al Pil. Essa è quindi meno impegnativa rispetto alla regola che la Germania si è data da sola e ha inserito nella sua carta costituzionale: il vincolo del pareggio di bilancio che decorrerà tra quattro anni (come ha ricordato Oscar Giannino). Per quanto riguarda le conseguenze specifiche sul saldo del bilancio pubblico che essa ammette, occorre fare ovviamente delle ipotesi sulla dinamica del Pil. Assumiamo, per semplificare i calcoli, che nell’anno base il Pil italiano sia uguale a 100 e il debito pubblico a 120. Ipotizziamo anche  che nell’anno successivo, il primo dell’applicazione della regola, il Pil salga a 103. Un aumento del 3% in termini nominali è plausibile negli anni post recessione:  potrebbe ad esempio derivare da un incremento dell’1,2% in termini reali e da un deflatore del Pil (la componente prezzi) all’1,8%.  In presenza di un Pil pari a 103 l’obiettivo del rapporto debito/Pil al 117% si raggiunge con un ammontare del debito pubblico pari a 120,5 (infatti 120,5 diviso 103 è uguale a 1,17). Il fatto che il debito pubblico possa aumentare da 120 a 120,5 conferma che non è necessario portare il bilancio pubblico in attivo e neppure in pareggio. Esso può anzi restare in disavanzo purché sia estremamente moderato: solo mezzo punto percentuale rispetto al Pil. Purtroppo per arrivarci bisogna partire dai cinque punti di disavanzo dell’anno corrente e recuperarne quattro e mezzo.

Formuliamo anche un’ipotesi più ottimistica, una crescita del Pil nominale del 4% (ad esempio derivante da crescita reale del 2% e da deflatore al 2%): in tale ipotesi l’obiettivo del rapporto debito/Pil al 117% si raggiunge con un ammontare del debito pubblico pari a 121,7 (infatti 121,7 diviso 104 è uguale a 1,17) ed è ammissibile un disavanzo pubblico pari a poco più di un punto e mezzo di Pil (stiamo anche assumendo che il fabbisogno del settore pubblico, differenza tra tutte le uscite monetarie di un periodo e tutte le entrate, il quale fa crescere il debito coincida col disavanzo del conto consolidato). Formuliamo infine un’ipotesi ancora più ottimistica, una crescita del Pil nominale del 5%: in tale ipotesi l’obiettivo del rapporto debito/Pil al 117% si raggiunge con un ammontare del debito pubblico pari a 122,9 (infatti 122,9 diviso 105 è uguale a 1,17) ed è ammissibile un disavanzo pubblico di pochissimo inferiore al 3% del Pil.

A questo punto è possibile riepilogare due fatti di rilievo: 1) la regola proposta all’Ecofin è meno stringente del pareggio costituzionale tedesco poiché ammette disavanzi, anche se lievi; 2) la regola è tanto meno stringente quanto più un paese si dimostra in grado di far crescere la sua economia. Rimane una domanda: in che relazione si pone questa nuova regola rispetto alla vecchia regola di Maastricht di disavanzi non superiori al 3% del Pil?

Per rispondere bisogna fare un passo indietro, al famoso trattato del 1992 il quale aveva introdotto le due regole auree del rapporto debito/Pil non oltre il 60% e del disavanzo/Pil non oltre il 3% . La nuova proposta all’Ecofin riconferma con enfasi la prima e sostituisce la seconda con i venti gradini annuali di rientro. Fa la cosa giusta? A mio avviso si; vediamo perché. Come si fa a raggiungere nel tempo l’obiettivo del debito/Pil al 60% (che è evidentemente obiettivo non di breve ma di medio/lungo periodo)?  Un modo molto semplice potrebbe essere il seguente: teniamo anno dopo anno sempre al 60% il rapporto tra la variazione annuale dello stock del debito e la variazione del Pil nominale. La prima grandezza, tuttavia, è il fabbisogno del settore pubblico (che noi abbiamo ipotizzato coincidere col disavanzo). Se dividiamo ambedue le grandezze per il Pil nominale otteniamo la seguente regola aurea: per raggiungere nel lungo periodo un rapporto debito/Pil al 60% è sufficiente mantenere al 60% ogni anno il rapporto tra il disavanzo/Pil e il tasso di crescita del Pil nominale. Così se il Pil nominale cresce del 5% all’anno il disavanzo/Pil  non deve eccedere il 3%, se il Pil cresce al 4% il disavanzo/Pil non può eccedere il 2,4% e se il Pil cresce al 3% il disavanzo/Pil non può eccedere l’1,8%.

Purtroppo il trattato di Maastricht  non ha formulato la regola sul deficit/Pil in questa forma flessibile, ma la ha fissata al tetto del 3% ipotizzando implicitamente che fosse plausibile nel tempo una crescita del Pil nominale al 5% annuo. In questo modo è stato compiuto un errore: nel tempo l’Unione ha verificato anno per anno che i singoli paesi rispettassero la regola del 3% ma per i paesi la cui crescita del Pil nominale è risultata inferiore al 5% l’adempiere a questa regola non è stato in grado, ne poteva, condurli all’obiettivo del 60% nel rapporto debito/Pil. Ad esempio, un paese il cui Pil nominale cresce sempre al 3% annuo e rispetta sempre la regola del 3% nel rapporto deficit/Pil converge nel tempo ad un rapporto debito/Pil del  100%, ben più elevato del 60% richiesto dal trattato di Maastricht (e questo è stato all’incirca il caso dell’Italia in questo decennio).

A questo punto si è compreso il senso della proposta formulata all’Ecofin: correggere un rilevante errore contabile nelle regole del trattato e fare in modo in futuro che il processo di convergenza verso un valore ritenuto sostenibile nel rapporto debito/Pil sia realizzato da tutti i paesi, indipendentemente dallo loro crescita economica. Espresso in altri termini: impedire che i paesi a bassa crescita, come l’Italia, possano sfuggire  a tale processo di risanamento.

La proposta ha trovato l’opposizione di Tremonti e della francese Christine Lagarde, che il Financial Times collocava un anno fa rispettivamente al quarto e primo posto tra i migliori ministri economici dell’Unione. Non ne hanno capito la ratio? O hanno preferito fare orecchie da mercante (anzi da rappresentante di paese dell’evidentemente ricostituito Club Mediterranée)? Difficile credere alla prima ipotesi. Ma in questo modo si perde un treno importante per il risanamento della finanza pubblica italiana, la possibilità di un vincolo esterno pesante, una ragione per dire come nel 1996:  “dobbiamo farlo perché l’Europa ce lo impone”.

Non si può non essere d’accordo con Oscar: “Credo che l’Italia avrebbe dovuto coraggiosamente fare una scelta diversa. Abbracciare l’idea di essere pronta a far scendere il proprio debito pubblico anche di 3 o 4 punti l’anno come regola standard per diversi anni: avrebbe imposto nuove dismissioni di patrimonio pubblico, e operazioni straordinarie sul debito che sono assolutamente necessarie oltre che più che possibili, senza ricorrere a finanza creativa … In più, l’alleanza coi Paesi seri e rigorosi avrebbe levato argomento alle pretese tedesche di essere unico pivot di quest’Europa senz’anima, che con regole deboli resterà ancor più debole e con minor crescita, peggio esposta ai venti del’instabilità e priva ancor più di una politica di stabilità non solo comune, ma, soprattutto, davvero operante”

]]>
/2010/10/03/lalgebra-di-maastricht-e-il-club-mediterranee/feed/ 3
REPLICA AI PROFESSORI STATALISTI /2010/06/30/replica-ai-professori-statalisti/ /2010/06/30/replica-ai-professori-statalisti/#comments Wed, 30 Jun 2010 13:32:02 +0000 Guest /?p=6405 Riceviamo da Sivano Fait  e volentieri pubblichiamo

Cari professori,

L’abbondante liquidità creata dal sistema bancario, sia sotto forma di progressiva espansione della base monetaria, sia sotto forma di credito amplificato da un sistema monetario a riserva frazionaria è andata a finanziare uno stile di vita al di sopra delle proprie capacità e progetti di investimento non sostenibili, leggasi mal investimenti (pubblici e privati). La localizzazione di questi è coerente con il fatto che l’area euro, per quanto capitale politico possa esserci stato speso sopra, non è un’area valutaria ottimale, né completamente omogenea. L’applicazione del medesimo tasso di interesse monetario, inferiore al tasso di interesse naturale, in aree dove gli attori scorgono differenti opportunità di rendimento e quindi differenti saggi di rendimento potenziali del capitale influisce sulla localizzazione delle bolle. E’ sufficiente l’inesorabilità delle leggi del libero mercato a spiegare ciò, non serve ricercare un particolare colpevole nel fatto che le bolle non si distribuiscano secondo una normale gaussiana o qualsiasi altra, tanto complessa quanto inutile, formula matematica.

Purtroppo non viviamo in un mondo statico ed immutabile o programmabile a piacimento e l’unica solvibilità statale che una banca centrale può garantire è quella nominale procedendo alla monetizzazione degli stessi come del resto sta già avvenendo. Sotto questo profilo la banca centrale può assicurare anche la solvibilità di tutti gli emittenti privati e la redenzione di qualsiasi collaterale. Tuttavia la mugabenomics (v. Robert  Mugabe) credo sia abbastanza esemplificativa degli effetti negativi di questo genere di politiche, pertanto scusate me e tutti coloro i quali non aspirano a fare la fine dello Zimbawe se il vostro tipo di ricette comincia a destare sempre maggiore perplessità. I mercati sono più perplessi riguardo alla capacità degli stati di intervenire sui deficit pubblici semplicemente perché questo tipo di azioni presenta dei costi di agenzia e transazione elevati, dove per costi di agenzia e transazione devono intendersi i processi di negoziazione interni (con i propri corpi elettorali) ed esterni (con gli altri stati in fase di coordinamento) e le relative tempistiche connesse.

Ridurre risorse e dimensioni di un deficitario comparto pubblico favorisce una migliore riallocazione delle stesse nel comparto privato. Quest’ultimo tipo di allocazione è volta a soddisfare le esigenze dei consumatori finali, piuttosto che i bisogni della classe politica. Non vi sono – come sostenete – investimenti sottoutilizzati, ma semplicemente pessimi investimenti che necessitano di essere liquidati o ridimensionati, anziché essere mantenuti artificialmente in vita da una politica monetaria lassista che favorendo i fenomeni di evergreening contribuisce all’occultamento sistematico delle perdite del sistema bancario. La ricomposizione di una sostenibile struttura del capitale, quando il ciclo economico si è ormai avviato verso una fase di “bust” non può non essere dolorosa.  L’interventismo a oltranza, monetario e/o fiscale, nel suo vano tentativo di procrastinare lo status quo può soltanto rendere questo processo più ricco di sofferenze.

Il capitale politico speso nella creazione dell’euro, nell’idea di un governo centrale dell’unione, dalle Canarie a Helsinki è così grande da aver fatto accettare alla Germania politiche di salvataggio e azzardo morale fino a dieci anni fa semplicemente impensabili. Tutto questo non può spingersi al punto da credere e/o pretendere che i tedeschi abbiano voglia di sostituirsi ad Atlante, sorreggendo sulle loro spalle (e su quelle dei loro posteri) il peso delle dissennatezze altrui.  L’unica cosa che può essere chiesta alla Germania ed alle sue banche, di fronte ad eventuali fenomeni di insolvenza, è semplicemente quello che può essere chiesto ad un creditore che ha mal allocato i propri capitali: sedersi ad un tavolino, prendere atto della realtà e negoziare le perdite senza incaponirsi a pretendere ciò che oramai non può essere più escusso. Sbagliando si impara. E’ un proverbio, ma funziona piuttosto bene anche in economia.

L’articolo di Krugman, ripreso e tradotto dal sole24ore di sabato 26 giugno, con il suo affannarsi a biasimare Cina e Germania quali presunti sabotatori della ripresa mostra evidentemente come il ragionare continuamente per macroaggreati finisca per creare un fertile background culturale a nazionalismi economici e revanchismi commerciali. Trattare le nazioni, gli stati o le classi sociali come delle entità autonome e pensanti è la mera traslazione sul piano politico di una forma mentis ormai da troppo tempo abituata a rendere singolare e uniforme ciò che è plurale e variegato, a negare ad ogni singolo individuo la qualifica di “homo agens” con tutto quello che ne consegue.

Negli ultimi anni i sostenitori dell’interventismo hanno avuto tutto quello che volevano: non vi sono precedenti storici di espansioni quantitative e qualitative dei bilanci delle banche centrali, né nell’espansione della spesa pubblica a livello mondiale. Il risultato è quello di aver semplicemente tamponato la situazione a fronte di squilibri ancora maggiori. L’interventismo chiede sempre di più, si appiccica alla banca centrale e agli stati come un tossicodipendente al proprio spacciatore senza rendersi conto che in realtà sta semplicemente andando incontro ad una morte per overdose. L’interventismo si rifiuta di prendere atto della necessità di purgare il sistema dai propri eccessi e che questo processo comporta dei costi, che per quanto sgradevoli siano, è indispensabile sostenere. Se la ripresa è flebile significa che non si è speso abbastanza, se non vi è ripresa significa che è necessario spendere di più e se a qualcuno viene in mente che forse, nonostante tutto, è bene cominciare a disintossicarsi si risponde che è un sabotatore del pubblico benessere. Definire questa impostazione populista è fare un’offesa al populismo.

Cari (ex) professori, con molti dei quali sono tuttora legato da un rapporto che si materializza sotto forma di sostituto di imposta con cadenza regolare ogni mese, l’economia non è un flusso circolare che si perpetua indefinitamente nel tempo, né un asettico e neutrale laboratorio scientifico dove è possibile isolare elementi e condurre esperimenti a piacimento. Salvaguardare il valore della moneta in quanto connettivo sociale, rispettare il capitale quale frutto dell’evoluzione degli individui, nonché degli errori e dei successi compiuti generazione dopo generazione non è un optional. E’ un istanza etica e politica di primaria grandezza.

]]>
/2010/06/30/replica-ai-professori-statalisti/feed/ 6
Finanza pubblica. Come siamo, come eravamo /2010/04/16/finanza-pubblica-come-siamo-come-eravamo/ /2010/04/16/finanza-pubblica-come-siamo-come-eravamo/#comments Fri, 16 Apr 2010 20:46:23 +0000 Ugo Arrigo /?p=5682 Il bollettino economico n. 60 della Banca d’Italia, pubblicato l’altro ieri, riporta i dati dettagliati del conto consolidato 2009 delle Amministrazioni Pubbliche ed essi sono persino peggiori di quelli comunicati dall’Istat lo scorso 2 aprile (vi sono lievi differenze metodologiche). A complemento del mio precedente post in tema di finanza pubblica, è utile riportare i valori 2009 in rapporto al Pil delle principali grandezze e saldi individuando per ognuna il precedente periodo in cui furono altrettanto peggiori. 

Spesa pubblica/Pil= 52,5% (non era così elevata dal 1996; nel 2008 solo Francia e Svezia tra i paesi dell’U.E. hanno registrato un valore più elevato))

Spesa pubblica al netto degli interessi/Pil=47,8% (non è mai stata così elevata nella storia della repubblica)

Entrate pubbliche totali/Pil=47,2% (nella storia della repubblica sono state più elevate solo nel 1997 ma servivano a superare l’esame di ammissione all’euro)

Pressione fiscale=43,2% (nella storia della repubblica solo nell’anno 1997 è risultata più elevata di ora col 43,7%)

Disavanzo pubblico/Pil=5,3% (non era così elevato dal 1996, anno in cui si attestò al 7%)

Avanzo primario/Pil=-0,6% (è tornato su valori negativi per la prima volta dal lontano 1990)

Avanzo corrente/Pil=-2% (è tornato su valori negativi per la prima volta dal 1997 )

Debito pubblico/Pil= 115,8% (per trovare un dato simile con trend in crescita bisogna tornare al 1993, anno in cui si attestò al 115,7%; invece nel 1998 ha riattraversato la linea del 115% ma questa volta con trend discendente).

E’ anche vero che il 2009 è stato l’anno della peggiore recessione dal dopoguerra, tuttavia valori simili non ce li possiamo proprio permettere e dovremmo preoccuparcene molto di più di quanto stiamo facendo.

]]>
/2010/04/16/finanza-pubblica-come-siamo-come-eravamo/feed/ 3
L’illusione ottica /2009/12/30/lillusione-ottica/ /2009/12/30/lillusione-ottica/#comments Wed, 30 Dec 2009 07:53:46 +0000 Carlo Stagnaro /?p=4589 L’Italia paese sano? Non scherziamo: a volte, leggere male i dati può causare gravi fraintendimenti. Sul sito del Wall Street Journal è disponibile una bella e documentata mappa interattiva sui paesi dell’eurozona, nella quale il nostro paese è classificato come “a medio rischio”, mentre figurano “ad alto rischio” nazioni spesso indicate come modelli – quali la Spagna e l’Irlanda. Dove sta il trucco?

Il trucco, semplicemente, non c’è. Tutto dipende da che tipo di coordinate si adottano. Se si sceglie un sistema di coordinate relativo – come ha fatto il Wsj sulla scorta della Commissione europea – allora è vero: il nostro paese se la cava abbastanza bene. Ciò vale se ci si concentra sul cambiamento che i principali indicatori macroeconomici e di finanza pubblica hanno avuto dall’inizio della crisi a oggi. Come scrive il Wsj,

l’elevato debito pubblico esistente, al 105 per cento del Pil, ha impedito al governo di imbarcarsi in qualsiasi stimolo fiscale significativo durante la recessione.

Abbiamo, cioè, fatto di necessità virtù. Questo non ci ha impedito, a causa delle enormi rigidità della nostra spesa pubblica, di avviarci su un sentiero preoccupante di aumento delle dimensioni relative del debito rispetto al Pil, che veleggiano verso il 120 per cento (contro una media dell’eurozona pre-crisi attorno al 60 per cento, come da vincoli del Patto di stabilità, e tende al 90 per cento). La crescita del prodotto interno lordo, che nel 2009 ha performato peggio della media dell’eurozona, nel prossimo paio d’anni sarà modesta e pari o inferiore a quella dell’area dell’euro, secondo le previsioni. Abbiamo avuto risultati migliori rispetto a due soli indicatori: la disoccupazione e il deficit pubblico. Sulla prima, non è chiaro quanto abbia influito l’ampia estensione dell’economia sommersa (che pure non è necessariamente sempre e solo un male). Quanto al deficit, ci troviamo – rispetto al resto d’Europa – in una situazione ambigua: la crescita del deficit italiano è stata più moderata, ma partiva da un livello pre-crisi più preoccupante. Si può quindi dire che gran parte del nostro deficit sia strutturale, mentre gran parte del deficit altrui sia congiunturale. Se saranno adottate politiche di rientro dagli stimoli efficaci, il deficit degli altri si ridurrà rapidamente ai livelli pre-crisi: il nostro, resterà pressappoco dov’è.

Per capire la differenza, guardiamo a Madrid. Sicuramente la crisi ha avuto un impatto devastante: il rapporto debito/Pil quasi raddoppia (ma resta sotto l’80 per cento), mentre il deficit arriva, nel 2009, a un tremendo 10 per cento del Pil. La disoccupazione tende verso la quota stellare del 20 per cento, mentre la crescita del Pil – che nel 2009 è sceso meno di quello italiano – ricupererà molto lentamente. Questo non fa della Spagna un paese peggiore dell’Italia. Il governo di Zapatero si è impegnato a riportare il deficit entro la soglia del 3 per cento del Pil da qui al 2013. Non sappiamo se ci riuscirà. Se lo farà, è probabile che la Spagna torni, in un periodo di tempo relativamente breve, a brillare come caso-scuola in Europa. Altrimenti, potrebbe avviarsi su un sentiero italiano, di deficit incontenibile, debito crescente e, come risultato, alta tassazione e bassa crescita. E’ però importante sottolineare che l’Italia non sta meglio della Spagna, semplicemente perché l’Italia è uno dei possibili futuri – ma non l’unico – per gli spagnoli. Se riusciranno a rimediare agli errori compiuti negli ultimi due anni, si salveranno, mentre noi continueremo a barcamenarci.

E’ vero, dunque, che nel frangente della crisi l’Italia se l’è cavata: nel senso che ha perso meno, avendo meno da perdere. Si è impoverita meno, essendo più povera. In termini relativi, possiamo compiacerci di essere molto fighi. In termini assoluti, restiamo il malato d’Europa.

]]>
/2009/12/30/lillusione-ottica/feed/ 7
Germania 2010: (meno) tasse e debito /2009/12/26/germania-2010-meno-tasse-e-debito/ /2009/12/26/germania-2010-meno-tasse-e-debito/#comments Sat, 26 Dec 2009 16:13:21 +0000 Giovanni Boggero /?p=4484 Il 2009 se ne va e della politica tedesca dell’ultimo quarto di anno rimane ben poco. Del resto, tutto scorre come avevamo preannunciato tempo fa. L’unico progetto di legge approvato dal nuovo governo (la cosiddetta Wachstumsbeschleunigungsgesetz, parola orribile che altrettanto orribilmente significa “legge di accelerazione della crescita”) è del tutto minimalista rispetto alle previsioni iniziali e di certo non costituisce uno strumento adatto a garantire una duratura ripresa economica. Ma d’altronde in Germania governa la Merkel, una sorta di Prodi al femminile, mica Maggie Thatcher. Nei prossimi mesi l’agenda della Repubblica federale ruoterà intorno all’annoso problema del deficit di bilancio. Su Eigentümlich frei, principale rivista libertaria tedesca, l’amico Dirk Friedrich sostiene che il termine “risparmio” non rientri storicamente nel vocabolario dei titolari del dicastero delle Finanze, troppo impegnati a controllare il consenso per potersi permettere di comprimere le spese. Ne sia una prova il fatto che l’indebitamento netto tedesco per il 2010 sia previsto attestarsi a circa 100 miliardi di euro (86+ i 14 del bilancio ombra creato in occasione dei pacchetti congiunturali). Non proprio peanuts. Di qui, sempre ad avviso di Friedrich, sarebbe perciò meglio finanziare il taglio delle tasse in deficit, in quanto genuino atto di giustizia, piuttosto che aspettare che il Ministro delle Finanze Schäuble si svegli la mattina e decida di ridurre la mole dello Stato sociale: il denaro appartiene ai cittadini e non allo Stato, che a differenza di quanto vorrebbero dare ad intendere molti socialdemocratici, abbassando le tasse, non rinuncerebbe proprio ad un bel niente. Ciò anche nella speranza che in tal modo si possa garantire un po’ di crescita economica e al tempo stesso l’accumulazione di avanzi primari. “Se le persone diventano più ricche, il debito pubblico si deprezza relativamente”, ragiona Friedrich prendendo a modello la riduzione del debito pubblico americano sotto la presidenza di Bill Clinton. Ciò però senza tenere in sufficiente conto quanto la politica monetaria già in quegli anni abbia drogato la crescita. Sul tema consiglio questo ottimo post di Pietro Monsurrò. A me sembra insomma che il ragionamento possa tenere, solo nella misura in cui il taglio sia effettivamente corposo e generalizzato. E’ la famosa storia della cosiddetta curva di Laffer, il cui “determinismo al contrario” è stato giustamente criticato anche da molti libertari. Allo stato attuale, senza considerare l’atteggiamento della BCE, qualche detrazione in più per le famiglie e gli aggiustamenti minimalisti all’imposta di successione e a quella corporate non ci permettono di essere ottimisti per il 2010. Tanto più che gli stessi Länder a causa del preventivato crollo delle entrate per circa 8 miliardi di euro hanno prepotentemente storto il naso in questi mesi e in futuro, con ogni probabilità, bocceranno senza appello qualsiasi altro taglio delle imposte che non sia “finanziato” da generosi afflussi (una tantum, dato che la riforma del federalismo fiscale non è all’ordine del giorno) da parte della Federazione. Se dovessimo fare una previsione, ci sentiremmo di dire che il Bundesrat (la Camera delle regioni) tornerà ad essere anche nel 2010 il suk della politica tedesca. Il che è tutto fuorché di buon auspicio.

]]>
/2009/12/26/germania-2010-meno-tasse-e-debito/feed/ 7
Meno tasse? C’è una Confindustria che non le vuole /2009/11/02/meno-tasse-ce-una-confindustria-che-non-le-vuole/ /2009/11/02/meno-tasse-ce-una-confindustria-che-non-le-vuole/#comments Mon, 02 Nov 2009 15:48:06 +0000 Oscar Giannino /?p=3556 Poi ci s’interroga sul perché e sul per come le classi dirigenti nei diversi Paesi non siano affatto eguali. Senza addentrarsi nell’esegesi storico-sociale, ci sono degli esempi che parlano da soli. Mi riferisco al “no grazie” espresso dalla BDI, la Confindustria germanica, al confuso compromesso politico-programmatico alla base della nascita del neogoverno Merkel, qui già sconsolatamente commentato dopo le prime esultanze. E dire che il programma annunciato è di ben 24 miliardi di euro in meno tasse alle imprese. Eppure leggete qui, Hans-Peter Keitel, il presidente degli industriali tedeschi, al settimanale Focus ha detto che le aziende hanno un’altra priorità. Poiché il compromesso governativo indica che si aumenterà considerevolmente la spesa pubblica oltre a tagliare le imposte, per gli industriali la priorità è un bilancio pubblico con meno deficit a costo di sacrificare le meno tasse. Altrimenti sarebbe tutto inutile, visto che bisognerebbe pagare più oneri su un debito pubblico accresciuto. Ricordo che la Germania ha recentemente posto il pareggio di bilancio nel Grundgesetz, elevandolo a regola costituzionale. Non so se Tremonti userà questa presa di posizione per dire che non bisogna tagliare le tasse. Ma non è quello ciò che intendono gli imprenditori germanici. Bensì semplicemente che, quando e se la politica scassa il bilancio per far contenti tutti, allora le persone serie devono saper dire no grazie. Anche quando il governo con la Fdp appena formatosi è più amico dell’impresa di quello di prima, coi socialisti a bordo. Applausi ammirati.

]]>
/2009/11/02/meno-tasse-ce-una-confindustria-che-non-le-vuole/feed/ 2
Oba-maniacs a iosa, ma i numeri dicono che… /2009/11/01/oba-maniacs-a-iosa-ma-i-numeri-dicono-che/ /2009/11/01/oba-maniacs-a-iosa-ma-i-numeri-dicono-che/#comments Sun, 01 Nov 2009 18:30:19 +0000 Oscar Giannino /?p=3541 Stamane con Alberto Mingardi ci siamo scambiati messaggi di esultanza, per il fondo del Sole 24 ore in cui si esalta Ayn Rand. Non è esattamente l’inno alle forze più energiche del capitalismo basato sull’irriducibile determinazione degli individui, al di là di ogni logica collettiva e statalista, il mantra quotidiano dei giornali italiani. Detto questo fa anche un po’ ridere, che i neodirettori di grandi quotidiani come  Sole e Stampa preferiscano sistematicamente scrivere dell’America, invece che dedicare la loro penna all’Italia. Un bel modo per trarsi d’impaccio e volare alto, senza esprimere giudizi scomodi, su economia  e politica nostrane. Quanto all’America, se guardassero i numeri l’esaltazione mediatica obamiana andrebbe fortemente ridimensionata. Irwin Stelzer dell’Hudson Institute sul Times di oggi è molto meglio di tutto il piombo italiano filo obamiano. Per almeno tre ragioni.

La prima è la joyless recovery americana. Il più 3,5% di Gdp nel terzo trimestre, che inverte il ciclo depressivo iniziato negli USA a dicembre 2007, certamente è da sogno per noi in Italia ed Europa. Ma l’unico dato che conti davvero per il favore di Obama tra gli americani è l’occupazione. E quella a giudizio di tutti gli osservatori continuerà ad andare di male in peggio, ben oltre il 10% attuale del più “ristretto” tra gli aggregati statistici per misurarla. Date un’occhiata a questo grafico, per paragonare quanto sia più grave l’attuale perdita di occupazione americana rispetto a quella di tutte le altre crisi nel secondo dopoguerra.

La seconda ha a che vedere con l’inefficacia ormai percepita dagli americani della maxi manovra di sostegno all’economia. Ne ha scritto anche Carlo Lottieri l’altroieri. La fiducia in Obama è scesa dal 58% a sotto il 50 negli ultimi 6 mesi, l’approvazione al suo maxi deficit pubblico aggiuntivo è scesa dal 49% a sotto il 40.  Abbiamo spiegato tante volte perché il moltiplicatore della spesa keynesiana è fallace. Qui vi linko solo l’ultima riedizione abbreviata del più recente studio di Bob Barro e Charles Redlick, in materia.  Gli americani stanno iniziando a capire che la FED dovrà molto presto far salire i tassi non solo per continuare a sostenere un debito pubblico che dal 40% del GDP dove l’aveva lasciato Bush rischia di sfiorare il 100% al 2018, ma anche per sostenere il dollaro che altrimenti si svaluterebbe assai più rapidamente: gli americani non se lo possono permettere, visto che i cinesi non sono affatto d’accordo a vedersi le loro riserve in dollari  accumulate in anni tanto svalutate, e dei cinesi c’è un gran bisogno oggi più che mai visto che sono la locomotiva mondiale.

La terza ragione si identifica nel disastro di consensi in cui si sta risolvendo la riforma sanitaria. Malgrado un’adesione del più dei grandi media che resta ancor oggi militante (tra parentesi, pochi giorni fa al pubblico scelto di manager che si raccoglie a Milano intorno alle conferenze organizzate da Ruling Companies, ho tenuto un dibattito su “Obama un anno dopo” nel quale l’ambasciatore Sergio Romano lo ha dipinto come una sorta di liberatore del Paese e del mondo da una cricca di pazzi pericolosi, con tanto di fosca allusione all’ipoteca che sul successo di Obama sarebbe oggi proiettata dagli stati maggiori militari, falchi e guerrafondai…), il 67% degli americani oggi pensa che la riforma sanitaria avrà conseguenze aggiuntive sul deficit pubblico definite “molto preoccupanti”. Qualcuno tra i neokeynesiani più avvertiti, come Greg Mankiw sul New York Times, inizia a prendere le distanze. E la cosa per noi offertisti chicagoers più interessante è che lo fa proprio adottando un criterio della nostra scuola, cioè dimostrando che il sostegno poubblico sanitario proposto da Obama alle famiglie a minor reddito ne innalzerebbe l’aliquota marginale sui redditi con effetti economici negativi, in termini di reddito netto disponibile procapite in famiglia.

]]>
/2009/11/01/oba-maniacs-a-iosa-ma-i-numeri-dicono-che/feed/ 31
La paura tedesca e la retromarcia dell’FDP /2009/10/28/la-paura-tedesca-e-la-retromarcia-dellfdp/ /2009/10/28/la-paura-tedesca-e-la-retromarcia-dellfdp/#comments Wed, 28 Oct 2009 10:55:53 +0000 Giovanni Boggero /?p=3471 Paura della libertà. Ludwig von Mises parlò addirittura di odio. Il capitalismo alle pendici del Reno è, da che mondo e mondo, la cartina di tornasole del modo di pensare tedesco. Il mercato non è cosa per ruvidi sassoni. Più sicurezza, meno libertà. Questo è il fil rouge che corre- pur con qualche lodevole eccezione- da Otto von Bismarck ad Angela Merkel. Ecco perché il successo dell’FDP alle scorse elezioni del 27 settembre non deve illudere l’ignaro lettore italiano. E ciò è tanto più vero oggi, alla luce dell’accordo di coalizione raggiunto lo scorso fine settimana tra CDU/CSU e liberali. 24 miliardi di sgravi fiscali “possibilmente dal 2011”. Annuncio positivo. Che però rimane un mero annuncio. Sul filo di quelli collezionati sul tema dal nostro Presidente del Consiglio. Come le tasse verranno tagliate non è chiaro. Di certo, tutto si tratterà fuorché di una rivoluzione copernicana. Non foss’altro che una delle premesse è il mantenimento della tassa di successione, alla quale verranno apportati soltanto alcuni ritocchi. La ferma opposizione dei Länder, contrari anche all’ipotesi di ripiego che li porrebbe in concorrenza fra loro nell’imposizione del balzello, ha frustrato le pretese del partito di Westerwelle, che puntava alla sua abolizione. L’amara uscita di scena di Hermann Otto Solms, vera e propria mente del programma economico dei liberali, testimonia tutto sommato la sconfitta dell’FDP. Sconfitta- checché se ne dica- incassata anche su altri fronti: dall’abolizione dell’obbligo di leva (solo accorciato), alla tutela contro i licenziamenti (nulla di fatto), passando per la riforma della sanità. Ai fini della realizzazione di quest’ultima, FDP, CDU/CSU si sono accordate finora solamente su un punto: la nomina di una commissione ad hoc. Il che sa molto di rinvio all’italiana. Il leader della CSU Seehofer ha perfino tagliato corto: “Il fondo unico rimane e sulla sanità nulla cambia”. Riuscirà il giovane neo-Ministro della Salute Philipp Rösler (FDP) a dire la sua? Le casse mutue potranno tornare a farsi concorrenza o il mostro burocratico e pianificatore del Gesundheitsfonds le fagociterà? L’abilità della signora Merkel di liquidare i colleghi di governo, assumendo le decisioni che le garantiscono una maggiore popolarità, abbiamo imparato ad osservarla negli ultimi quattro anni di gabinetto rosso-nero. Perciò, non è affatto escluso che come si è mangiata i socialdemocratici, così riduca alla marginalità anche i liberali. Le premesse ci sono tutte. Basta dare uno sguardo veloce ai volti scelti per il suo nuovo gabinetto giallo-nero: da Ursula von der Leyen a Thomas De Maiziére, da Norbert Röttgen a Wolfgang Schäuble (e ai sottosegretari socialdemocratici  alle Finanze che rimarranno in carica). Tutti politici fidati, che sapranno farle da spalla, isolando i pochi ministri dell’FDP. E così la continuità con il passato esecutivo emergerà in tutta la sua nitidezza: “l’FDP sarà la CDU, e la CDU sarà l’SPD”, si potrebbe riassumere. I sussidi per i figli -Kindergeld- verranno ancora aumentati (nonostante gli scarsi risultati ottenuti fino ad oggi), le condizioni per ottenere il sussidio di disoccupazione Hartz IV migliorate e i fondi -a pioggia- destinati all’istruzione generosamente fatti lievitare. Certo, l’unica cosa di cui ci si può rallegrare è l’archiviazione dell’ipotesi di un salario minimo generalizzato e l’introduzione di un contributo a carico dei lavoratori per favorire il passaggio ad un’assicurazione privata di assistenza per invalidi ed anziani (cosiddetta Pflegeversicherung). Ma da un governo che sulla carta avrebbe dovuto segnare un netto cambiamento rispetto ad undici anni di governo socialdemocratico, ci si sarebbe aspettato più coraggio. Ma in Germania ha vinto, come al solito, la paura: the German Angst, la definì a suo tempo Rainer Hank, editorialista della Frankfurter Allgemeine, ritornato in questi giorni con accenti di forte criticità sul Koalitionsvertrag appena siglato. L’FDP ha negato sé stessa. Impegnata com’era a scrollarsi di dosso l’accusa di essere un pericoloso manipolo di neoliberisti, il partito di Westerwelle ha calato le braghe. Delle proposte di riduzione della spesa pubblica formulate in campagna elettorale non se ne rintraccia manco mezza nel patto di coalizione. La stessa signora Merkel ha detto che “pensare di ristabilire equilibrio nei conti pubblici risparmiando, non ha senso”. Peccato. Invertire il senso di marcia sarebbe stato importante, tanto più in un momento come questo. La spesa pubblica tedesca negli anni non è mai diminuita. Al contrario, è sempre aumentata, anche nella scorsa legislatura, quando i cordoni della borsa avrebbero potuto essere stretti. Ma questa diffidenza nei confronti del taglio alle tasse, come ben spiega anche Alberto Mingardi sul Riformista, è tanto più curioso, se si considera che allorquando vi sono da aumentare le prestazioni sociali o i sussidi le riserve di esperti e politici sono tre volte meno pronunciate di quando si discute di lasciare in tasca ai cittadini una fetta più ampia del proprio patrimonio. Per diminuire le tasse, in Germania come altrove, non è mai il momento. La congiuntura non lo permette. I tagli non avrebbero necessariamente l’effetto di aumentare i consumi e, in tempi di crisi economica acuta, con le entrate fiscali in discesa, la Germania sarebbe condannata a deficit sempre più alti. Il che, tenuto conto del famoso freno ai debiti (alzi la mano chi ci crede davvero!) inserito di recente nella Legge fondamentale, non sarebbe consigliabile. Nessuno, a parte poche voci nel deserto, sembra ricordare che la Germania non ha un problema di entrate, bensì un problema di uscite. Mai come negli scorsi anni lo Stato tedesco ha potuto giovarsi di così tante entrate fiscali (nel 2008, in confronto a quattro anni prima, la Germania poteva contare su qualcosa come 268 miliardi di euro in più!). Eppure chiudere il rubinetto non è realistico, molti osservatori l’hanno pragmaticamente fatto notare. La classe politica non riduce volentieri il proprio potere di controllo sulla società, nè taglia volentieri i rami del proprio consenso. Tanto più se il politico in questione si chiama Angela Merkel. Il freno ai debiti inserito in Costituzione è quindi un libretto delle buone intenzioni, che si presta ad eccezioni ed interpretazioni di varia natura. Sulla Frankfurter Rundschau, quotidiano progressista, se ne chiedeva qualche giorno fa addirittura l’eliminazione. Il bilancio dello Stato non può essere paragonato a quello del cittadino medio, si è scritto. Idea che ricorre anche in un libello molto discutibile di Wolfgang Münchau, editorialista del Financial Times, tutto sommato ben disposto nei confronti di una maggiore spesa pubblica con funzione anticiclica. E allora? E allora è forse meglio finanziare il taglio delle tasse in deficit, piuttosto che passare ad un girone più doloroso dell’inferno fiscale.

]]>
/2009/10/28/la-paura-tedesca-e-la-retromarcia-dellfdp/feed/ 1
Sani esempi di Paesi dove il 60% invoca meno tasse /2009/09/13/sani-esempi-di-paesi-dove-il-60-invoca-meno-tasse/ /2009/09/13/sani-esempi-di-paesi-dove-il-60-invoca-meno-tasse/#comments Sun, 13 Sep 2009 16:48:41 +0000 Oscar Giannino /?p=2673 Questa settimana nel Regno Unito avviene il rituale appuntamento annuale settembrino delle Trade Unions, la conferenza annuale nella quale il premier laburista annuncia i punti salienti della propria politica economica. Vi ricordo che attualmente i sindacati nel Regno Unito raccolgono solo il 16% dei loro iscritti dal settore privato, mentre tre dipendenti pubblici su cinque ne hanno la tessera in tasca. Con Gordon Brown, le Unions sono tornate a contare di più nel dilaniato Labour Party, felice di aver archiviato i lunghi anni blairiani che qui in Italia qualcuno definirebbe “mercatisti”, ma in rotta con l’elettorato che nelle suppletive ormai non esita ad attribuire ai candidati laburisti il quarto posto nelle preferenze dopo i Tories, i liberali, e i nazionalisti. Un buon esempio di come i media potrebbero trattare fasi politiche convulse della vita nazionale viene oggi dal  Sunday Times. Invece di dedicare paginate alle vischiosità caleidoscopiche interne della lotta a coltello aperta tra correnti del Labour e del sindacato – come si fa qui da noi a proposito di escort o di Fini versus Berlusconi – il quotidiano ha organizzato un bel sondaggio, dal quale emerge che il 60% dei cittadini britannici non hanno dubbi. Di fronte al maxi deficit pubblico browniano da 175 miliardi di sterline quest’anno, invocano come soluzione i tagli di spesa e di tasse. Solo il 21% pensa che si debba coprire la spesa attuale aggiuntiva alzando le imposte. Quando si dice un Paese serio. Ma a cominciare dalla stampa. Pensate che sarebbe davvero molto diverso, se il Corriere o il Sole commissionassero un sondaggio qui in Italia sugli stessi temi? Io penso di no.  A patto naturalmente di non confezionare le risposte alla domanda in maniera capziosamente filotassaiola.

]]>
/2009/09/13/sani-esempi-di-paesi-dove-il-60-invoca-meno-tasse/feed/ 2
Tassa-e-spendi o spendi-e-tassa? La seconda che hai detto, in Italia /2009/09/11/tassa-e-spendi-o-spendi-e-tassa-la-seconda-che-hai-detto-in-italia/ /2009/09/11/tassa-e-spendi-o-spendi-e-tassa-la-seconda-che-hai-detto-in-italia/#comments Fri, 11 Sep 2009 15:17:25 +0000 Oscar Giannino /?p=2623 Antonio Alfonso economista presso la BCE e Christophe Rault presso la Università di Orléans Cedex 2 hanno appena reso noto un divertente studio che stabilisce una tassonomia nel meccanismo di trasmissione della politica fiscale dei paesi dell’UE. La domanda è: dall’osservazione degli andamenti intertemporali della spesa pubblica e dell’imposizione fiscale è possibile osservare delle inferenze di Granger-causality tra i due aggregati, in modo da distinguere i Paesi che tendenzialmente prima spendono di più e poi tassano di più, da quelli che invece spendono di più grazie all’effetto cassa-piena del buon gettito fiscale raccolto? La differenza è fondamentale. I Paesi spendi-e-tassa hanno com’è ovvio sistemi pubblici più tendenzialmente fuori controllo dal punto di vista della stabilità di medio-lungo periodo. I Paesi tassa-e-spendi sono intrinsecamente più stabili, hanno cioè un track record storico che testimonia una migliore capacità di tenere il freno tirato sulla spesa, per evitare deficit e aumento del debito pubblico, in caso di scelte di alleggerimento fiscale o in caso di contrazione del gettito a seguito di crisi economiche. In una fase storica come l’attuale, in cui i debiti pubblici per ragioni di “dichiarata” anticiclicità – noi siamo molto scettici su questo punto, come avrete capito dai mille post critici del moltiplicatore keynesiano -  tendono a crescere esponenzialmente, è intuitivo che i Paesi spendi-e-tassa sono esposti a rischi maggiori di quelli tassa-e-spendi. E dunque i loro politici e regolatori devono usare un’attenzione maggiore, prima di pestare con troppa energia il piede sul pedale della spesa pubblica. Domanda: secondo voi dove sta l’Italia? Ma che domande: tra i Paesi più di tutti spendi-e-tassa, naturalmente.I due autori esaminano due serie storiche. Quella 1960-2006 per i 15 Paesi dell’euroarea, quella 1998-2006 per i 25 paesi che fino ad allora giunse a comprendere l’UE. Nella prima finestra temporale, i peggiori spendi-e-tassa, cioè quelli in cui l’aumento verticale della pressione fiscale – per l’Italia, più di 22 punti di Pil, per altro concentrati negli anni 1974-92 – ha sempre  inseguito la spesa pubblica in aumento vertiginoso e in deficit crescente, risultano Grecia, Italia e Portogallo. Nella seconda fase temporale, il Portogallo abbandona il gruppo per diventare un tassa-e-spendi, mentre per Italia e Belgio la causalità tra gettito e spesa diventa negativa: è il trauma fiscale improvviso imposto in quei Paesi per  partecipare all’euro. Se si considera invece l’aggregato EU25, gli spendi-e-tassa aggiuntivi oltre a Italia, Grecia e Portogallo diventano Austria, Francia e Spagna. Mentre tra i “rigorosi” – diciamo così – tassa-e-spendi si distinguono Germania e Lussemburgo. Particolare suggestivo: praticamente tutti i nuovi entranti da Est, Cechi, Estoni, Lituani, Polacchi, mostrano un’evidente  andamento tassa-e-spendi. Che Dio li preservi a lungo da noi latini, o meglio dai nostri politici che predicano il rigore fiscale solo dopo aver aperto voragini di spesa.

In cauda venenum. Le eccezioni italiane sono state praticamente nulle, sul versante della spesa, fino a Padoa-Schioppa dell’ultimo Prodi sconfitto però nell’anno preelettorale, e a Tremonti in questo inizio di governo Berlusconi. Ciampi con Amato hanno rappresentato l’eccezione della causalità negativa, per l’euro. La sorpresa negativa ora, è di un Tremonti che col neorigorismo fiscale accrescerà la pressione fiscale per diminuzione contestuale del denominatore – il PIL – quando anche il numeratore poteva – doveva, secondo noi – contribuire a farlo respirare meglio.          

]]>
/2009/09/11/tassa-e-spendi-o-spendi-e-tassa-la-seconda-che-hai-detto-in-italia/feed/ 2