CHICAGO BLOG » D’Alema http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Eni, Russia, Berlusconi. Dove stanno i soldi? /2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/ /2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/#comments Wed, 15 Dec 2010 06:58:50 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7854 Il tornado di piombo sulla “torbida relazione” tra il Cav. e Vlad ha impedito a molti di porsi la domanda più scontata: perché l’Eni vuole il gasdotto russofilo South Stream, anziché quello atlantista Nabucco? Come spesso accade, si è trascurata la risposta più semplice: perché lì stanno i soldi.

Si potrebbe replicare, con Giuseppe D’Avanzo, Andrea Greco e Federico Rampini (1, 2, 3), che South Stream è “antieconomico”. Forse. E’ molto difficile dirlo, senza conoscere dettagli precisi che nessuno (tranne Eni e Gazprom) conosce. Però, nella testa del Cane a sei zampe ciò potrebbe essere irrilevante, et pour cause. Presumibilmente, “antieconomico” significa che il costo del gas trasportato via South Stream sarebbe superiore a quello dello stesso gas trasportato via Nabucco. Ammettiamolo pure. Questo è, potenzialmente, un problema per i consumatori. Ma è soprattutto un problema per chi quel gas deve venderlo, a meno che non sia in grado di ribaltare l’extracosto sui consumatori – nel qual caso il problema vero starebbe nella struttura del mercato, e in parte è senz’altro così, non negli assetti proprietari dei gasdotti internazionali.

Il fatto è che nessuno ha mai detto che quel gas sarà gas Eni. Nessuno ha mai neppure sospettato, in verità, che Gazprom – titolare dei giacimenti a cui South Stream attingerebbe – sia intenzionata, o disposta, a cedere parte del suo gas a Eni o altri. E’ ragionevole aspettarsi che South Stream non trasporterebbe altro che gas di Gazprom. Dunque, se l’idrocarburo sia competitivo oppure no è una questione dei russi – non dei loro partner. Allora, l’Eni che ci sta a fare?

La risposta può venire da un’esperienza passata, ma simile: quella di Blue Stream, un tubo sottomarino di 1.250 km che va dalla Russia alla Turchia attraverso il Mar Nero. Eni ha il 25 per cento di Blue Stream, ma non controlla una singola molecola del gas che vi transita (tranne per uno scambio formalmente fisico, ma sostanzialmente finanziario, che si svolge alla frontiera turca e serve per remunerare il capitale). Come tutte le infrastrutture del genere, Blue Stream si finanzia solo in piccola parte con equity, e per il resto a debito. Trovare i capitali in banca fu, all’epoca, compito dei russi. Quanto all’equity di Eni, secondo fonti interne all’azienda, esso garantisce un rendimento tra il 10 e il 15 per cento. I soldi veri Eni li fece in altro modo: cioè aggiudicandosi (tramite Saipem) la realizzazione del tubo. Blue Stream fu una torta da 3,2 miliardi di euro, 1,7 dei quali relativi al tratto offshore: buona parte di questi ultimi andarono a Saipem. A queste condizioni – con zero debito, remunerazione garantita sull’equity, e soprattutto ricche commesse – all’Eni interessava che il gasdotto si facesse: non che il gas trasportato fosse competitivo, non che fosse venduto, e neppure che fosse trasportato.

Torniamo a South Stream. Il modello è, molto probabilmente, lo stesso di Blue Stream. Idem per Nabucco. Dunque, per Eni i due gasdotti sono, in astratto, equivalenti, tranne che per due particolari determinanti. Primo, e meno importante: scegliendo South Stream Eni consolida il suo rapporto con un partner strategico. Secondo, e più rilevante: South Stream vuol dire 900 km di tubo sottomarino che solo Saipem può realizzare, e qualche altro centinaio di km a terra. Nabucco sono 3.300 km tutti a terra, che possono essere divisi in lotti e affidati a “n” soggetti ugualmente bravi. Cioè, South Stream dà la certezza di una grassa commessa per Saipem; Nabucco no. I giochi sono solo e tutti lì.

Come si è visto, l’eventuale non-competitività di South Stream può tuttavia scaricarsi sui consumatori finali. I critici – se credono che esso non sia effettivamente competitivo – dovrebbero impegnarsi nell’aprire i mercati a valle, creando una concorrenza vera e rimuovendo (e facendo rimuovere) ogni sussidio erogato a qualunque titolo. In questo modo, la questione si trasferirebbe sui desk delle banche: è economico quel che è bancabile, punto, perché il recupero dei costi non è garantito.

In tutto questo, non solo non c’è traccia, ma più profondamente non c’è bisogno di Silvio Berlusconi. Che egli abbia degli interessi privati oppure no, può essere al massimo un de cuius; può investire la scelta di un intermediario anziché un altro, ma è ridicolo pensare che l’influenza di Palazzo Chigi arrivi tanto lontano. Anche perché quella che finora è stata la firma più importante risale al 23 giugno 2007, con Romano Prodi presidente del Consiglio, Pierluigi Bersani ministro delle Attività produttive e Massimo D’Alema ministro degli Esteri, un anno dopo la vittoria elettorale del centrosinistra e molto prima che la crisi dell’Unione divenisse evidente. Pensare che il Cav. potesse manovrare i fili in quelle condizioni equivale a credere che Prodi, Bersani e D’Alema fossero troppo stupidi, troppo distratti, o troppo filorussi o cointeressati per accorgersi di quello che facevano Non credo che fossero né l’una né l’altra cosa e penso che sapessero benissimo cosa stavano firmando. Peraltro, L’inizio della progettazione di Blue Stream risale al 1997, il Memorandum of understanding con l’Eni al 1999, e la costruzione avvenne tra il 2000 e il 2002: quasi tutto si svolse quando in Italia dominava il centrosinistra. Poiché le due operazioni appaiono strettamente imparentate, viene da pensare che, storicamente, centrodestra e centrosinistra sono stati ugualmente interessati, o disinteressati, alla relazione tra Italia e Russia; ugualmente leader, o follower, dell’Eni; e ugualmente attenti, o disattenti, alle implicazioni geopolitiche di tali scelte.

E’ vera una cosa: ci sono alcuni indizi di coinvolgimenti berlusconiani. Ma su una scala molto inferiore. Il caso, troppe volte citato, di Bruno Mentasti – l’intermediario vicino al Cav. che avrebbe dovuto commercializzare gas russo in Italia – è indicativo non solo perché si pone, per la dimensione dell’investimento, a qualche anno luce di distanza dalla realizzazione di un gasdotto, ma anche perché – per imperizia, goffaggine o mancanza del pudore – non se ne fece nulla. C’è altro? Forse, diciamo pure probabilmente. Ma è un “altro” rispetto al quale gli stessi D’Avanzo, Greco e Rampini non hanno prova alcuna, distillano voci nell’aria. C’è di sicuro – ma questo non lo dicono – un perverso allineamento di interessi tra l’Eni e il governo che però non dipende da Berlusconi, ma è congenito nel fatto che il più grande gruppo industriale italiano è pubblico al 30 per cento. Questo è il vero conflitto di interessi e questo andrebbe sciolto – privatizzando l’Eni. Tutto il resto è un ricamare sull’inutile per evitare l’ovvio.

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I miei dubbi su Mr. Pesc /2009/11/12/i-miei-dubbi-su-mr-pesc/ /2009/11/12/i-miei-dubbi-su-mr-pesc/#comments Wed, 11 Nov 2009 23:07:16 +0000 Ugo Arrigo /?p=3731 Quali meriti giustificano la candidatura di Massimo D’Alema a Mr. Pesc, l’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza? Non è po’ curioso che nel candidarlo e nel sostenerlo non si citino (da nessuna parte) ragioni curricolari? Certo, appartenendo alla famiglia socialista europea è ovvio che abbia il consenso della medesima; inoltre è un politico italiano (di lungo corso) e attorno al suo nome sembra esservi il consenso dei due maggiori partiti. Ma non è un po’ poco che sia socialista europeo, che sia italiano e che riscuota il consenso di PD e PdL? Non si dovrebbe cercare qualche ragione in più?
Sono solo domande, ovviamente, non ho le risposte. Tuttavia sono stupito, scorrendo le notizie sul web, che nessuno citi una qualsiasi ragione esterna alla semplice appartenenza. Probabilmente, se sarà nominato, sarà anche un ottimo Mr. Pesc, tuttavia non si può dimenticare il mediocre governo da lui guidato alla fine dello scorso decennio, prematuramente caduto a seguito della sonora sconfitta elettorale delle elezioni amministrative del 2000. Che cosa si ricorda di quella esperienza oltre alla fondamentale riforma consistente nell’introduzione  anche in Italia delle sale bingo (con decisione del 17 febbraio 1999), alla ‘merchant bank’ di Palazzo Chigi e al sostegno alla cordata patriottica, allora con sfumature rosso-rosa e non ancora azzurre, guidata da Colaninno nella scalata alla Telecom?
Da economista all’epoca a Palazzo Chigi (lasciato in eredità come esperto, ma solo per pochi mesi, dal precedente governo) ricordo molto bene il recepimento della prima direttiva comunitaria sui servizi postali. Era un provvedimento finalizzato a introdurre una prima debole tappa di liberalizzazione del mercato ma l’Italia fu l’unico paese dell’Unione a utilizzarla … per aumentare il monopolio (e porlo al servizio dell’azienda pubblica che aveva direttamente dettato al governo il provvedimento di recepimento). In quell’occasione le piccole aziende postali che erano titolari di concessione a livello municipale nelle maggiori città (molte addirittura dalla prima guerra mondiale) si videro private delle medesime e furono costrette a chiudere i battenti o a divenire prestatori di servizi (evidentemente non in concorrenza) per Poste Italiane. Le conseguenze di questo pasticcio perdurano tuttora e creeranno non pochi ostacoli al momento della completa apertura del mercato postale che la terza direttiva europea ha fissato per il primo gennaio 2011.

P.S.: Sembra superfluo ricordare che anche il Bingo è stato un sostanziale fallimento (anche se ha permesso di riconvertire talune case del popolo in crisi di domanda…)

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Rosso porpora /2009/04/24/rosso-porpora/ /2009/04/24/rosso-porpora/#comments Fri, 24 Apr 2009 06:52:53 +0000 Alberto Mingardi /?p=255 I giornali scrivono oggi che il Papa avrebbe finalmente pronta quell’enciclica sociale di cui si parla da che è uscita “Deus Caritas Est”. L’uscita è fissata per il prossimo 29 giugno. Fra gli altri, si dedica al tema sul Riformista Paolo Rodari, che è un attento conoscitore dei flussi bidirezionali fra Vaticano e palazzi della politica. L’articolo di Rodari si intitola “Bersani, Tremonti e il nuovo club degli antiliberisti”. Si fa riferimento a due recenti occasione seminariali: un evento Aspen, al quale ha partecipato il cardinal Bagnasco. E il dibattito di Nens cui è intervenuto il cardinale Silvestrini, vecchia volpe della prima repubblica mai finita in pellicceria. Sull’enciclica “sociale” ovviamente aleggia l’ombra del cardinale Renato Martino, noto ai più per alcune uscite molto discusse in tema di politica internazionale e affezionato nemico dell’economia libera. Martino avrebbe dovuto incontrare egli stesso Tremonti nei giorni scorsi. Che cosa è emerso da questi dibattiti? La convinzione che

riflettere sulla crisi e sul modello di sviluppo economico che l’ha provocata, significa in qualche modo affondare il colpo su quella che Bersani ha chiamato «egemonia neoliberista». Un’egemonia che ha provocato lo sfacelo attuale. Un’egemonia che trova nella visione sociale cattolica un suo naturale nemico.

Ai politici piace fare i filosofi morali (pensiamo agli ultimi seminari organizzati da D’Alema con la sua Fondazione Italianieuropei), ai cardinali evidentemente piace fare gli economisti. Non stupisce che il cardinal Bagnasco faccia presente all’opinione pubblica le esigenze degli ultimi. E’ un po’ diverso che egli proponga una “cabina di regia”, cioè scelga la via della pianificazione pubblica degli interventi di solidarietà anziché quella della valorizzazione delle capacità d’azione, autonoma, libera e per questo autenticamente solidale, della società civile.
Personalmente ho un po’ nostalgia del Cardinal Ruini che, certo: fra mille cose, faceva uso della sua notevole influenza anche per promuovere l’adozione del buono scuola – dando espressione a una domanda di libertà educativa e religiosa. In generale, la Chiesa di quegli anni, un po’ per la caduta del comunismo, un po’ per il carisma di Giovanni Paolo II, pareva in generale più interessata a capire il capitalismo moderno, che a emettere giudizi affrettati. I quali, beninteso, non sono mancati. Ma il trend di lungo periodo sembrava essere un altro.
La Chiesa fa parte della società, e non c’è da stupirsi se in una società che ormai non ha più pudore nel fare l’apologia dell’economia di piano anche la Chiesa sia sempre più socialista. Ma si possono aggiungere due considerazioni. In primo luogo, la Chiesa di oggi ha un rapporto diverso con la politica italiana, da quello che aveva durante il precedente Papato. Il senso dei ruoli era diverso, e sia detto non per fare propaganda. Tuttavia, mi pare pacifico che la Chiesa non dovrebbe contraddistinguersi per l’avere un’agenda politico-civile, quanto per una proposta di vita nella quale la politica non è certo la dimensione più importante. Non mi permetterei certo di suggerire che questo sfugga al Pontefice attuale. Eppure la goffaggine (o la spudoratezza) dei suoi collaboratori che gestiscono le relazioni coi Palazzi romani, spesso porterebbe ad immaginarlo.
In seconda battuta, fa specie che “l’organismo mondiale che possiede la maggiore accumulazione di esperienze organizzative e propagandistiche” (Gramsci) si accodi speditamente ad analisi così abborracciate come quelle fatte proprie da questo “club degli antiliberisti”. C’è da preoccuparsi?

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