CHICAGO BLOG » cultura http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Alla Scala va in scena la protesta /2010/12/07/alla-scala-va-in-scena-la-protesta/ /2010/12/07/alla-scala-va-in-scena-la-protesta/#comments Tue, 07 Dec 2010 09:25:53 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=7792 Studenti, teatranti e cinematografari: tutti insieme questa sera alle ore 17 davanti alla Scala per protestare contro i tagli alla scuola e alla cultura. L’imperativo è unico: opporsi alla cannibalizzazione della cultura! A leggere gli articoli che compaiono oggi sulla stampa, emerge tutto l’armamentario di concetti altisonanti e fumosi (fumosi in quanto altisonanti) che una persona sensibile alle sorti della cultura nel nostro Paese non può esimersi dal pronunciare. Su tutti, naturalmente, il fatto che “La cultura deve essere un bene comune e accessibile a tutti”.

Per il 9 dicembre, invece, grande raduno sindacale a Roma. Come si afferma nei comunicati stampa, “per la prima volta insieme”, Agis, Anica, Cento Autori, Federculture, Slc – Cgil, Fistel – Cisl, Uilcom – Uil. Un evento epocale. Un po’ come se si stesse annunciando, “per la prima volta insieme, i premi Oscar Robert De Niro, Al Pacino e Martin Scorsese”. Il tempo stringe, la tenuta del Governo è appesa a un filo, l’approvazione della Finanziaria è ormai alle porte e molte speranze sono rivolte al cosiddetto “decreto milleproroghe”. Le rivendicazioni sono riassumibili in poche parole: “vogliamo più soldi”. Le variazioni sul tema poi sono infinite, tutte ovviamente volte a nobilitare tale protesta con infiocchettamenti verbali degni dei migliori eredi di Dante.

Voci dissonanti non se ne sentono, anzi: in queste settimane diversi sono stati gli endorsement a sostegno delle proteste. Fra questi anche quello di Claudio Magris, con un suo editoriale (“Il teatro della vita – e della politica”) comparso sul Corriere della Sera del 23 novembre 2010. Il pregio del corsivo di Magris è quello di offrire una profondità storica al dibattito di oggi. Se il teatro ha avuto un ruolo “fondante” nella genesi nella civiltà occidentale, allora possiamo valutare con un occhio rivolto al passato anche il rapporto tra Stato e cultura, tra denaro pubblico e comparto dello spettacolo. Oggi i governi intervengono a sostegno degli spettacoli dal vivo e del cinema. Si tratta di scelte discrezionali, che scaturiscono dal ritenere tali attività meritevoli di sostegno. Ma naturalmente non è stato sempre così.

Come ha scritto Friedrich Hayek, “bisogna ricordare come già ben prima che il governo si interessasse a certi campi, molti beni collettivi, oggi ampiamente riconosciuti come tali, erano forniti dallo sforzo di individui dotati di spirito pubblico, o gruppi privati i quali provvedevano a fornire i mezzi necessari per il perseguimento di scopi pubblici che essi consideravano importanti. La pubblica istruzione, gli ospedali, le biblioteche e i musei, i teatri, i parchi, non furono creati per primo dai governi”.

Lo stesso teatro delle origini era legittimato dall’ampio seguito che riusciva ad attirare. Già nel Seicento, i teatri lirici privati prosperavano a Venezia. Pure il cinema si impone grazie a innovatori e imprenditori, e si afferma in virtù del talento di grandi figure come Buster Keaton, Charlie Chaplin o David Ward Griffith.

L’evolvere della tecnica e delle preferenze individuali hanno decretato il successo o la “decadenza” di determinate attività culturali: dopo i fasti dei secoli scorsi, la lirica è un settore che non gode più delle attenzioni delle masse; lo stesso non si può dire del cinema o della  televisione. Esiste d’altra parte un cinema non “assistito” che non ha bisogno di sussidi pubblici, il quale offre allo spettatore opere di valore. Negli anni cambiano le forme, ma non cessa la produzione culturale.

Nessuno sa quello che potrà accadere in futuro, sta di fatto che gridare alla “morte della cultura” non ha alcun senso. D’altronde, come vorrebbero le persone che protestano a gran voce in questi giorni, si può anche optare per una cultura dipendente dallo Stato e dalle scelte dei politici, che sia sostenuta anche da chi non ne usufruisce direttamente (attraverso la fiscalità generale). In questo caso, però, paternalismo e parassitismo non possono essere considerati quali esiti imprevisti.

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La manna è finita /2010/11/23/la-manna-e-finita/ /2010/11/23/la-manna-e-finita/#comments Tue, 23 Nov 2010 15:23:15 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=7680 Il mondo della cultura e dello spettacolo trova un nuovo importante alleato: il Presidente della Repubblica. E’ di oggi infatti l’esternazione di Napolitano in cui afferma che non è attraverso la “mortificazione” della cultura che “troveremo nuove vie per il nostro sviluppo economico e sociale”. Da tempo ormai le rivendicazioni fanno leva sull’effetto moltiplicatore degli investimenti in cultura. Facendo tesoro della lezione di Keynes, ora il concetto di moltiplicatore della spesa pubblica viene declinato a suo favore. Gli investimenti in cultura avrebbero infatti una caratteristica anticiclica. Dietro tali affermazioni si nasconde in realtà solamente la ricerca di una giustificazione scientifica ed inoppugnabile affinchè lo Stato dia sostegno alla cultura.
Nei giorni scorsi si è svolta la manifestazione “Florens 2010″, dedicata al tema dei beni culturali. Tra gli studi proposti non poteva mancarne uno sull’effetto della spesa in termini di crescita di Pil e di occupazione: ogni 100 euro di investimenti nel settore culturale si attivano 249 euro di PIL nel sistema economico. Per quanto riguarda invece l’occupazione: “2 unità di lavoro nel settore culturale generano 3 unità di lavoro nel sistema economico”.
Come sostiene Hunter Lewis nel suo “Tutti gli errori di Keynes“: “Il moltiplicatore di Keynes è forse il suo concetto più conosciuto [...] Si tratta di un esempio da manuale di uso improprio della matematica per fare in modo che una cosa incerta sembri il contrario”. La finalità del moltiplicatore è quella di quantificare ciò che non può essere quantificabile.
Qualche settimana fa, a proposito delle proteste contro la riforma delle pensioni che animavano la Francia, l’Economist scriveva: “[They] appear to believe that public money is printed in heaven and will rain down for ever like manna to pay for pensions, welfare, medical care and impenetrable avant-garde movies”. Ecco, ogni giustificazione è buona per reclamare soldi pubblici, come se i soldi venissero stampati in paradiso.
Lo sciopero di ieri aveva fra le sue rivendicazioni la richiesta di risorse aggiuntive a quelle già assegnate. Qui non si contesta il fatto che il FUS abbia fatto registrare in questi ultimi anni un decremento delle risorse stanziate per il settore. Ma sarebbe opportuno che il dibattito vertesse sui modi alternativi di sostenere il comparto, separando quei settori più attrezzati ad affrontare il mercato dagli altri.
La scelta operata di sopprimere alcuni enti come l’ETI (Ente teatrale italiano) va nella giusta direzione, ovvero quella di ridurre quei soggetti pubblici che una analisi costi-benefici farebbe ritenere non necessari. Spiace allora che il Presidente Napolitano definisca “inspiegabile” la soppressione di tale ente.
Lo sciopero di ieri è stato orchestrato assai bene per il risalto che i media gli hanno dato. In realtà è stato un discreto flop. I teatri erano chiusi perchè ogni lunedì dell’anno lo sono. Le sale cinematografiche invece erano regolarmente aperte: si proiettavano film e si staccavano biglietti. Nelle prossime settimane la protesta continuerà. E’ probabile che attraverso il decreto milleproroghe qualche risorsa aggiuntiva per lo spettacolo verrà trovata. Forse il mondo dello spettacolo vedrà accolte le proprie rivendicazioni minime: reintegro del FUS e rinnovo delle agevolazioni fiscali per il cinema. Queste ultime rappresentano una modalità “altra” di sostenere il settore. Se aiuto ci deve essere, allora meglio che sia indiretto.
In un commento comparso sul Corriere della Sera di domenica scorsa, Severino Salvemini portava all’attenzione il caso francese, “dove una legge sui mecenats introdotta nel 2003 ha sviluppato un sistema di fundraising privato di successo [Inoltre ...] il ministro Frédéric Mitterand sta studiando di elevare la soglia di deduzione fiscale delle persone fisiche, nel caso di donazioni alla cultura, alla educazione e alle organizzazioni umanitarie. E la vuole portare al 60% dell’imposta”.
Questa sarebbe una buona cosa anche per l’Italia, dove il sistema di agevolazioni fiscali è insufficiente e da semplificare. Secondo un rapporto realizzato da Civita, solo il 5,6% delle donazioni è per arte e cultura. A livello pro capite è di 19,9 euro negli Stati Uniti e di 0,9 euro in Italia. Se da noi a donare sono in primis le imprese (mentre negli Stati Uniti i donatori sono in larga maggioranza persone fisiche), questo avviene perchè in Italia il sistema degli sgravi fiscali prevede la piena deduzione per le imprese e una deduzione del 19% per le persone fisiche.
La leva fiscale rappresenta allora un forte incentivo per attrarre risorse da soggetti privati, ed è per questo che sarebbe opportuno cominciare dal cinema per invertire la rotta dell’intervento dello Stato.

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Andrew Keen e i privilegi della classe creativa /2010/08/25/andrew-keen-e-i-privilegi-della-classe-creativa/ /2010/08/25/andrew-keen-e-i-privilegi-della-classe-creativa/#comments Wed, 25 Aug 2010 11:59:54 +0000 Alberto Mingardi /?p=6846 L’Aspen Forum del Technology Policy Institute si è chiuso con un discorso di Andrew Keen, personaggio di cui ignoravo l’esistenza fino ad oggi  ma il cui libro è stato anche tradotto in italiano. Colpa mia non averlo né visto né letto, e se qualcuno invece l’ha fatto m’interesserebbe molto sapere che ne pensa.

Keen è un personaggio singolare, che alza la bandiera della “cultura del secondo novecento” (in Italia diremmo: post-sessantottina) sostenendo che si tratti del massimo prodotto di sempre della creatività umana. Prodotto che egli legge come in buona misura frutto di un “eco-sistema culturale” che ha consentito ai “creativi” (cinematografari, scrittori, musicanti) di trarre abbondante soddisfazione dal proprio lavoro. Di qui, parte con una filippica contro Internet, che di quella cultura sarebbe l’assassino. Sostanzialmente: lo sviluppo della rete avrebbe segnato una svolta ideologica per cui la qualità nella produzione culturale (si tratti di una rivista o di un CD) non dovrebbe essere più considerata degna di remunerazione monetaria. Questo ingenera una estrema “democratizzazione” della cultura, per cui tutto, non avendo prezzo, ha lo stesso valore: zero. Quei modelli di business che puntavano sulla costituzione di “piattaforme per la condivisione di contenuti” sperando di potere poi remunerare gli autori attraverso la pubblicità (un modello di per sé non certo nuovo: pensate alla televisione commerciale) sarebbero per Keen già obsolete, e in realtà sarebbero state sin dall’inizio votate al fallimento. Perché? Perché, banalizzo, “la qualità si paga”.

È un discorso affascinante anche se di dubbia consistenza. In prima battuta, a me possono piacere molto sia Bob Dylan che Saul Bellow e Philip Roth, ma prima di sostenere che i loro siano prodotti culturali intrinsecamente superiori a, chessò, Richard Strauss o Edvard Grieg piuttosto che Stendhal e Vittorio Alfieri ci penserei non due ma mille volte. Società diverse, in momenti diversi, hanno “pagato” gli artisti, i filosofi, i giornalisti, i musicisti in modo molto diverso. E siccome le preferenze sono individuali, ciascuno di loro può avere una diversa idea della moneta con cui desidera essere pagato.

C’è però un elemento di verità, o perlomeno a me sembra, nel discorso di Keen. Soprattutto grazie ad Amazon (Kindle) e a Apple (iPod/iTunes e giornali/iPad) si stanno affermando su Internet anche soluzioni per cui “la qualità si paga”. Questo vuol dire che tutto ciò che non è a pagamento fa schifo, oppure sia destinato a scomparire, perché dal momento che tutti hanno a disposizione tempo in quantità limitata lo dedicheranno solo ai contenuti “premium” per cui sborsano fior di quattrini? O, ancora, ciò che è gratuito sarà ridotto al rango di “assaggino”, per indurre all’acquisto, per esempio, di file audio o video?

Forse la faccenda è un po’ più complessa. Mi pare evidente che, con buona pace dei discografici, non esiste alcun tabù sociale che metta alla pari il donwnload illegale (com’era del resto ieri, con le videocassette copiate) con il furto. Mi pare altrettanto evidente che, con buona pace dei tecnofili, il libro va bene così com’è, non c’è bisogno di trasformarlo in una sorta di raccolta di link, e iniziative come il Kindle abbiano successo proprio perché ci consentono di procurarci in modo più pratico i cari vecchi libri.

Internet ci ha stupiti sin qui, e ci stupirà negli anni a venire. Non sarà tutta gratis, non sarà tutta a pagamento. I contenuti gratuiti, spiega Keen, danno l’impressione che “tutti siano uguali”, avvantaggiano il dilettante rispetto al reputato professionista delle arti e delle lettere. Ma siccome anche per leggere questo blog uno spende del tempo, davvero pensiamo che i lettori non sappiano giudicare e filtrare da sé i contenuti, investendo come meglio credono tempo e denaro?

È curioso che un “autoritario di sinistra”, come si definisce Keen, pensi che solo un prezzo in moneta possa rendere giustizia al valore di un’opera dell’ingegno – soprattutto perché, in tutta evidenza, anche al di fuori di Internet (pensiamo a libri o cd) i prezzi non riflettono solamente il “valore intrinseco” dell’opera, eterna chimera degli apologeti della “classe creativa”.

PS: Seth Godin sceglie di pubblicare in proprio sul web. La qualità che si paga, o la disintermediazione degli editori?

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L’ontologia degli oggetti sociali / 2. Di Andrea Gilli /2010/06/29/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-2-di-andrea-gilli/ /2010/06/29/l%e2%80%99ontologia-degli-oggetti-sociali-2-di-andrea-gilli/#comments Tue, 29 Jun 2010 15:27:31 +0000 Guest /?p=6400 Riceviamo da Andrea Gilli e volentieri pubblichiamo:

Ho letto con interesse l’articolo del prof. Lottieri sull’ontologia degli oggetti sociali. L’analisi merita attenzione per due motivi. In primo luogo, in un periodo nel quale attaccare la finanza porta consensi, Lottieri va coraggiosamente contro corrente, e offre una difesa non convenzionale degli strumenti finanziari incriminati. In secondo luogo, in un dibattito politico e culturale – quello italiano – atrofizzato da schemi concettuali vecchi di settant’anni, Lottieri porta una ventata di novità discutendo di ontologia nelle scienze sociali.

Purtroppo, è però proprio su questo punto che mi trovo in forte disaccordo con il professor Lottieri. Non sono un filosofo. Umilmente mi considero uno studente, che per svago si legge testi di filosofia della scienza. Ho studiato Searle, Berger e Luckmann, Lakatos, Giddens, Kuhn e tutti gli altri per capire prima gli assunti epistemologici e ontologici della mia disciplina e poi, soprattutto, quelli di una sua scuola di pensiero particolarmente in voga nel campo delle relazioni internazionali: il costruttivismo.
Sono partito ben disposto verso gli studiosi costruttivisti. Li ho letti. Non li ho trovati utili. Soprattutto, credo che il loro contributo sia più dannoso che benefico. Spiegherò qui di seguito la mia posizione, e più precisamente come mai non condivido la scelta di Lottieri di affidarsi a questa scuola di pensiero per giustificare strumenti di mercato.
Partiamo innanzitutto dalla base. Le scienze sociali si possono dividere secondo due grandi logiche. March e Olsen (1985) parlano di logic of consequence e logic of appropriateness. Secondo il primo approccio, gli individui sono consequenzialisti. Sono razionali e quindi mossi dalla volontà di raggiungere un determinato fine (questo è quello che più comunemente viene chiamato l’homo oeconomicus). In economia politica, parliamo quindi di massimizzazione dell’utilità del consumatore o massimizzazione del profitto dell’azienda. In scienza politica parliamo di vittoria alle elezioni, cattura del controllore da parte del controllato, etc. La meta-logica sottostante è cartesiana: le relazioni umane sono regolate da leggi oggettive che valgono nel tempo e nello spazio. La tecnologia sia fisica (tecnica) che sociale (internazioni umane) può aumentare l’intensità o il raggio d’azione di questi meccanismi, ma non può alterarne la logica, che infatti resta immutata. L’incrocio tra domanda e offerta, dunque, tende a portare i prezzi in equilibrio sia nell’antichità che oggi (Friedman, 1963), così come la concentrazione di potere in una sola unità politica porta alla formazione di schieramenti anti-egemonici (Waltz, 1979; e Snyder, 2002). Compito dello studioso è dunque identificare queste leggi universali.

La seconda logica, quella dell’appropriateness diparte completamente da questi assunti e giunge a postulati completamente differenti. Il punto di partenza è che gli individui non sono consequenzialisti. Sono animali sociali il cui comportamento è guidato dalle norme condivise del loro ambiente esterno. Non c’è una cosa come l’individuo. C’è la società che prescrive i comportamenti da seguire. È chiaro che negare queste intuizioni sarebbe banale. Chiunque sarà d’accordo nel sostenere che la società nella quale un individuo vive influenza il suo modo di pensare e di agire. Vi sono però almeno tre domande, alle quali il costruttivismo non risponde in modo esaustivo ed esauriente: in primo luogo, quale è lo spazio dell’individuo? Inoltre, fino a che punto le norme sociali non sono in contraddizione con i vincoli materiali ai quali gli individui sono sottoposti (e, dunque, con una teoria dei vincoli)? Infine, fino a che punto le norme sociali non sono il semplice prodotto di fattori materiali.

Il primo problema è etico-metodologico. Se noi assumiamo che il comportamento degli individui sia dettato dalle norme sociali dei contesti nei quali questi vivono, allora eliminiamo la volizione (quello che in scienza politica anglo-sassone si chiama “agency”). L’analista, in questo caso lo scienziato politico, si pone dunque al di sopra degli altri (con arroganza) e si dice in grado di interpretare quello che essi fanno. Si badi bene: l’analista costruttivista non spiega, ma comprende (Hollis and Smith, 1991). Mentre uno studioso positivista ritiene che gli attori siano dotati di ragione e il suo scopo sia spiegare le loro ragioni, lo studioso costruttivista crede di essere il solo a capire la realtà, e dunque debba spiegare il comportamento pecorile degli individui. La ragione è epistemologica: il positivista crede che vi sia una realtà oggettiva che va analizzata e spiegata. Il costruttivista crede nell’interpretazione intersoggettiva. La realtà è creata e ricreata dalle pratica delle relazioni sociali: domanda e offerta non sarebbero altro che costrutti sociali in grado di guidare la realtà. Questi costrutti però, in sostanza, non esistono. Le conseguenze sono molteplici. Tralasciamo quelle morali, perchè sono evidenti. Secondo la logica costruttivista gli individui non sono consequenzialisti. L’implicazione più evidente emerge quando si pensa al mercato, probabilmente la più importante e più potente istituzione sociale create dall’uomo. Se Searle (citato da Lottieri) ha ragione, allora il mercato funziona perchè gli agenti economici credono che esso funzioni, non perchè è il sistema di allocazione delle risorse più efficiente tra quelli disponibili. E infatti questa è la conclusione accettata dai costruttivisti: il mercato – che per loro è una costruzione sociale – esiste perchè qualcuno ci ha convinto che esso funziona. Se la norma sociale legittimata fosse il sistema pianificato, anche questo funzionerebbe.

Il secondo problema è di teoria sociale. L’assunto di razionalità in economia come in scienza politica è, appunto, un assunto: una semplificazione. Gli individui possono tranquillamente essere irrazionali. L’economia politica è però una teoria di limiti: chi va contro il mercato si brucia le dita. Un approccio costruttivista, dunque, non sostituisce uno positivista. Al massimo, aggiunge qualcosa di marginale. Il problema del costruttivismo, però, è la sua epistemologia. Non ci sono fenomeni ricorrenti nel tempo e nello spazio, ma invece questi sono il prodotto di come la realtà è intersoggettivamente condivisa tra gli individui. Dunque, se vogliamo capire come mai il regno di Filippo II andò in bancarotta alla fine del 1500, non dobbiamo analizzare fenomeni come l’inflazione monetaria, i deficit nelle partite correnti o la bassa produttività. Piuttosto, dovremmo guardare alla legittimità del suo regno e alle norme esistenti tra i banchieri del tempo. In altri termini, la causa va ricercata non in fattori oggettivi ma in fattori intersoggetivi: l’interpretazione collettiva della realtà. Ad una differente interpretazione intersoggettiva della realtà corrisponde una diversa realtà sociale. Allo stesso modo, per comprendere la crisi di oggi, dovremmo comprendere il modo con cui gli attori finanziari concettualizzano il mercato, e come questa concettualizzazione guidi i loro comportamenti. Non, invece, cercare di analizzare i loro sistemi di incentivi e come questi influenzino i loro calcoli. Difatti questo è quello che una branca della international political economy sta facendo: la diffusione del liberismo nel mondo non sarebbe dovuta al fatto che funziona, ma invece al fatto che gli attori chiave sarebbero socializzati (leggi: abbagliati) da questa ideologia (Chiewroth, 2007, 2009; Sinclair, 2003). Gli unici che capiscono come stanno realmente le cose sono, ovviamente, i soli costruttivisti. Gli unici, si badi la contraddizione, che riescono a sfuggire alla rete possente della socializzazione delle idee.

Questa discussione ci porta al mio ultimo punto: l’influenza dei fattori materiali su quelli sociali. Le norme sociali esistono: è evidente. Ma da dove nascono? Per esempio, il bando sul prestito ad interesse che la Chiesa ha tenuto in piedi per diversi secoli: da dove viene fuori? Secondo una logica costruttivista bisogna guardare alle norme sociali della Chiesa e ai suoi valori solidaristici e a come questi fossero condivisi intersoggettivamente tra tutti gli attori del tempo. Possibile. Ma quanto è credibile un tale quadro di fronte ad una Chiesa che riceveva emolumenti da mezza Europa per rafforzare il suo regno? Ad una una Chiesa che rafforzava il suo esercito ed edificava su tutto il continente? Da un punto di vista di political econonomy, la spiegazione è molto più semplice (e intuitiva): prestito ad interessi significano crescita economica, crescita economica significa nascita di attori economici, poi sociali e infine politici. La nascita di attori politici implica l’emergere di possibili sfidanti al potere ecclesiastico. Mettendo un bando morale sul tasso di interesse, la Chiesa ha rafforzato il suo potere politico materiale. Dunque, dietro ad una posizione morale c’erano solidi fattori materiali. Il lettore può autonomamente decidere quale delle due spiegazioni sia più credibile.

Ciò vale, allo stesso modo, per quanto riguarda la finanziariarizzazione dell’economia, e qui arriviamo al mio diasccordo con quanto scritto dal professor Lottieri. I prodotti finanziari sono sempre più complicati, astratti e invisibili. Ma esistono. L’esistenza di questi prodotti non si deve tanto al loro valore sociale o alla condivisione intersoggettiva del loro ruolo, ma piuttosto alla loro utilità materiale. Quanto scrive Searle sulla moneta – mi si passi l’espressione – non ha senso: secondo Searle, la moneta non avrebbe assunto il suo ruolo in virtù delle funzioni che essa svolge (riserva di valore, mezzo di scambio, unità di conto), piuttosto per via di norme sociali. Vale a dire, se le norme sociali fossero state diverse, oggi potremmo usare i cammelli anzichè la moneta. Analogamente, l’URSS potrebbe essere il modello dominante se solo fosse diventato legittimo… Insomma, tutto sarebbe possibile, se solo le norme e la cultura lo credessero tale.

Ho molta stima per il prof. Lottieri. Ritengo però che affidarsi al costruttivismo per difendere i mercati finanziari rischi di portare più danni che benefici. La positive political economy ci dà sufficienti strumenti per spiegare la realtà. La realtà esiste, è il prodotto di incentivi e vincoli ai quali gli attori rispondono. Se pensiamo che la realtà sociale sia costruita,il passo è troppo breve per finire con Berger e Luckmann dove la realtà intera è socialmente costruita. Ciò significa che la battaglia delle idee non è più una battaglia basata su fatti reali (il libero mercato funziona, la pianificazione centralizzata no), ma una battaglia ideologica in cui ogni tipo di proposizione è validea, in quanto mira a creare norme mutualmente condivise che creano una realtà intersoggettiva.

Secondo questa logica, infatti, il mercato non è il sistema più efficace ed efficiente per produrre e distribuire ricchezza, ma un costrutto sociale storicamente determinato, che si riproduce attraverso la socializzazione degli attori alle sue norme. A dominare non sono domanda, offerta e prezzi, ma la socializzione di questi concetti tra gli attori. Con norme sociali diverse, avremmo quindi sistemi economici diversi ma pur sempre in grado di funzionare: perchè cosa conta non sono i fattori materiali ma la condivisione intersoggettiva della concettualizzazione della realtà. Tradotto: se una società ignora il concetto di produttività marginale, allora nella realtà, gli effetti della produttività marginale non si riscontrano. Le liberalizzazioni della Thatcher e di Reagan, secondo questa prospettiva, non furono la risposta necessaria all’inefficienza delle politiche keynesiane degli anni ’70 ma invece il frutto della socializzazione dei policy-makers alle nuove idee monetariste. Per i costruttivisti, se Friedman non ci fosse mai stato, avremmo ancora economie keynesiane e, si badi, in perfetto funzionamento: perchè nessuno sarebbe stato socializzato all’idea che alte tasse e alta spesa pubblica portino, nel lungo termine, a minore crescita economica.

Ma il problema vero del costruttivismo è ancora un altro: ed è quello etico-politico. Se con la teoria positivista nelle scienze sociali, il compito dello studioso è quello di spiegare i meccanismi oggettivi della realtà, con l’approccio post-positivita (logic of appropriateness), il compito del ricercatore diventa quello di capire come il genere umano concettualizza intersoggettivamente la realtà. Il passo successivo, che tutti i costruttivisti fanno, è ovvio: cercare di alterare questa concettualizzazione per promuovere la loro visione del mondo. Ecco perchè, per esempio, i costruttivisti ci spiegano la base sociologica e non oggettiva dell’economia di mercato: perchè l’obiettivo è socializzarci all’idea che alte tasse, big-government e tutto quanto comunmente non funziona, possono invece funzionare. Basta che ci sia una comprensione intersoggettiva che accetti tutto ciò come legittimo. Se la moneta è un costrutto sociale che funziona, allora qualsiasi altro costrutto sociale può funzionare.

Gary Becker ha mostrato la fallacia della sociologia. Credo che sia stato un grande passo in avanti nelle scienze sociali: l’abbandono di modelli tautologici e non falsificabili per una scienza della società. Non vedo proprio motivo per tornare indietro.

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La cultura poi ti cura con premura /2010/06/22/la-cultura-poi-ti-cura-con-premura/ /2010/06/22/la-cultura-poi-ti-cura-con-premura/#comments Mon, 21 Jun 2010 23:02:33 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=6337 Della riforma degli enti lirico-sinfonici ci eravamo occupati alcune settimane fa (qui), durante il varo del decreto legge che tante polemiche ha suscitato. In quell’occasione si era espresso un cauto apprezzamento per il testo emanato dal governo. Cauto perchè i pochi articoli di cui era composto lasciavano in sospeso diversi punti, tutti da sviscerare con successivi regolamenti. Apprezzamento perchè si affrontava in maniera netta il nodo dei costi, soprattutto quelli per il personale.
Da allora è stato un susseguirsi di contestazioni. Ora che il testo ha cominciato l’iter per la sua conversione in legge, siamo giunti nel pieno degli scioperi. Il ddl è stato approvato da un ramo del Parlamento, e oggi andrà alla Camera per una sua veloce approvazione, che dovrà avvenire entro la fine del mese (allo scadere dei 60 giorni dalla comparsa del decreto in gazzetta ufficiale).
All’Arena di Verona hanno proclamato uno sciopero di 3 giorni (dal 25 al 27 giugno), alla Scala è stata fatta saltare la “seconda” del Faust, e così via giù per lo stivale. Per oggi (22 giugno) i sindacati hanno indetto uno sciopero nazionale unitario, con presidio davanti a Montecitorio.
In realtà, le modifiche approvate dal Senato hanno in parte ammorbidito il testo. Ad esempio, la decurtazione del contratto integrativo (se entro due anni dal varo della legge non verrà firmato il nuovo contratto collettivo) sarà del 25% e non più del 50%. L’impianto della riforma rimane però invariato, e così doveva essere. Non è il caso qui di ritornare sui punti specifici del ddl, già affrontati in un apposito paper dell’IBL.
Se troppo trionfali suonano le parole del ministro Bondi (“Ho fatto quello che dovrebbero fare uomini di governo seri e responsabili, ossia adottare criteri di efficienza e di trasparenza nell’uso del denaro pubblico e proporre una riforma che salvi nel nostro Paese la lirica dalla bancarotta”), allo stesso tempo gridare alla morte della cultura pare così eccessivo da non essere giustificato.
Di morte della cultura, di un governo che mortifica l’arte, si sente parlare ormai da anni, ogni volta che qualcuno prova a scardinare lo status quo (o con riforme o con semplici riduzioni di trasferimenti). Come se, appena si stringono i cordoni della spesa, si arrecasse un grave danno alla cultura. Non si può allora fare a meno di notare come in tal modo si instauri un legame tra sovvenzioni e cultura. Alla domanda su cosa sia la vera cultura, non si potrebbe fare a meno di rispondere: quella sussidiata. Perchè, prima o poi, qualcuno ci dovrà spiegare cosa sia realmente questa cultura che viene ammazzata, a cadenze regolari, dal governo di turno. E’ morta così tante volte la cultura che, in confronto, Lazzaro  è un dilettante dell’arte di resuscitare.
Ma davvero la cultura, per sopravvivere, ha così bisogno delle sovvenzioni del Principe? O non si tratta ogni volte di proteste che lamentano la perdita di una rendita di posizione? Sarà forse una lettura troppo sbrigativa, ma tutti questi scioperi e queste manifestazioni sembrano avere una unica finalità: la ricerca di una rendita.
Quasi mai capita di sentire qualche artista che non cada nei soliti piagnistei. Qualcuno che dica apertamente: non abbiamo bisogno dell’aiuto dello Stato, si può fare cultura anche senza. Ovviamente, è la via più difficile. Vuole dire, arrangiarsi, contare sulle proprie forze e sul proprio valore. E’ più facile nascondersi dietro richieste nobili di investimenti in cultura, come volano per lo sviluppo civile, sociale, educativo di un Paese. Sentire frasi come “La cultura è necessaria come l’acqua che si beve e l’aria che si respira. E poi appartiene a tutti” (Massimo Wertmuller). “La cultura appartiene a tutti”, uno slogan che non se ne andrà mai in soffitta. Oppure, nei giorni scorsi mi è capitato di prendere parte a un convegno in cui l’intervento finale e riassuntivo si concludeva più o meno così: “e ricordiamoci che la cultura non è un bene privato”.
Mentre si usano parole vuote e si protesta per i tagli, nessuno affronta il tema del come si spendono o non si spendono i soldi destinati alla cultura. Perchè il grosso problema da risolvere è soprattutto quest’ultimo. Sul “Giornale dell’arte” di maggio, compariva infatti un articolo dal titolo assai eloquente: “Residui passivi, ecco il vero problema” . Nell’articolo si riportava una frase di Francesco Rutelli che, quando ancora ricopriva la carica di ministro dei beni culturali, disse: “Il bilancio dei Beni culturali nel 2001 era pari allo 0,48% (incluso il comparto spettacolo, Ndr), mentre nella proiezione sull’anno 2007, a legislazione vigente e quindi prima della legge finanziaria, scende allo 0,26%. Questa è la prima brutta verità. La seconda brutta verità che dobbiamo parimenti affrontare è che a causa della scarsità di risorse non abbiamo un’adeguata capacità di spesa. Negli ultimi cinque anni, i fondi che si sono tradotti in residui passivi nel bilancio dei Beni culturali sono stati pari a quasi 2,3 miliardi di euro. Questo significa che dobbiamo rivedere in profondità l’organizzazione del Ministero per i Beni e le Attività culturali”.
Direi che sia dovuto a scarsità di personale è una falsa giustificazione. Nonostante riforme amministrative che hanno riguardato la struttura del ministero, il problema permane ancora oggi: i residui passivi arrivano a toccare quote elevatissime. Non è un caso che anche il Rapporto Eurispes 2010 sull’Italia dedichi un intero capitolo sul tema: “Beni culturali: i soldi nel cassetto ovvero come non si spendono le risorse disponibili”.
Va detto che i residui passivi riguardano maggiormente le spese per i beni culturali che quelle per lo spettacolo. A funzionare male è la macchina pubblica, non tanto quando lo Stato si fa solamente erogatore, ma quando agisce in prima persona attarverso la sua struttura, per preservare e gestire il nostro patrimonio artistico e culturale. Che lo Stato non sia efficiente non è una novità. Se il ministero non è capace di spendere le risorse che ha a disposizione allora perchè non ridurle ulteriormente? Non è una provocazione, ma semplice realismo. Perchè non responsabilizzare chi sta in capo alla pubblica amministrazione? Vuoi risorse, prima cerca di far funzionare i tuoi uffici.
Se questo è un nodo mai risolto, almeno da quando si ha il Ministero per i beni culturali (dalla metà degli anni Settanta), il punto prima richiamato (cultura e sussidi) è ancora più dirimente. Non si può non apprezzare le parole del ministro Bondi quando dice che “il problema della cultura in Italia è che è sempre stata condizionata dai contributi dello Stato e dall’ideologia politica. Quella che dobbiamo sostenere deve fare a meno del sostegno e dell’oppressione dello Stato e dei condizionamenti della politica”. Parole sacrosante, a cui però non sempre seguono i fatti. La tendenza è quella di sostituire a una influenza politica, un’altra di segno opposto.
La cultura deve fare “a meno del sostegno … dello Stato”: chissà se prima o poi sentiremo portare nelle piazze questa frase.

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La riforma degli enti lirico-sinfonici /2010/04/17/la-riforma-degli-enti-lirico-sinfonici/ /2010/04/17/la-riforma-degli-enti-lirico-sinfonici/#comments Fri, 16 Apr 2010 22:12:05 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=5702 Vista la situazione di emergenza cronica degli enti lirico-sinfonici, era da tempo che si vociferava di un decreto legge preparato dal ministro Bondi. Ieri questo decreto ha fatto la sua comparsa durante il canonico consiglio dei ministri del venerdì. Dopo una riforma che ha trasformato gli enti lirici in fondazioni (correva l’anno 1998), i numerosi passivi di bilancio realizzati, i conseguenti commissariamenti e le giustificate polemiche, era inevitabile cercare di porre un argine al dissesto del nostro settore lirico-sinfonico.
La “privatizzazione” degli enti lirici avrebbe dovuto conferir loro l’autonomia necessaria per quanto riguarda gli aspetti culturali ed artistici. Nello stesso tempo, si è cercato di renderle sempre meno dipendenti dalle sovvenzioni statali, coinvolgendo maggiormente nuovi finanziatori privati. La realtà ci dice che nessuno di questi due obiettivi è stato centrato, di qui le difficoltà che si sono palesate in questi anni.
Il Fondo unico per lo spettacolo ha continuato a rappresentare la maggior fonte di finanziamento (il 50 per cento del Fondo viene ogni anno destinato ai 14 enti lirici). Ai soldi dello Stato si sono poi affiancate ingenti sovvenzioni da parte di altri soggetti pubblici (dai comuni alle regioni). Nonostante vi siano state modifiche nel tentativo di coinvolgere in maggior misura i privati, queste non hanno prodotto gli effetti sperati: tra il 2004 e il 2005 si è stabilito che i privati potessero partecipare alla gestione delle fondazioni; è stata abbassata (dal 12 per cento all’8 dell’apporto finanziario statale) la soglia minima perchè i soggetti privati potessero nominare un proprio rappresentante nel consiglio di amministrazione. Anche altre misure sono state messe in campo; a distanza di alcuni anni possiamo dire che tutti questi tentativi si sono rivelati inadeguati.
Come detto, la realtà ci parla di un controllo gestionale e di un sistema di finanziamento che vede i soggetti pubblici quasi egemoni. Dallo Stato al comune dove risiede la fondazione, di qui passano le sovvenzioni e da qui provengono i consiglieri di amministrazione.
Stando a quanto scritto in un articolo  comparso sulla rivista Aedon, nelle fondazioni lirico-sinfoniche «la maggioranza di tutti i consigli di amministrazione delle fondazioni è appannaggio di questi [soggetti pubblici], non solo perché così, di fatto, dispone la legge, ma soprattutto perché i soggetti non pubblici che hanno titolo alla designazione di consiglieri di amministrazione sono assai pochi e con presenza circoscritta, sia pure in quasi tutte le fondazioni (La Scala, Verdi, Carlo Felice, Comunale di Bologna, Maggio, Opera di Roma, Massimo, Petruzzelli); sicché, le maggioranze per l’adozione della gran parte delle decisioni sono assicurate dal consenso dei membri designati dal consorzio pubblico dei fondatori. […] In più l’assetto finanziario, anche qui con notevoli differenze tra tutte le fondazioni, espone una situazione per la quale, in grande linea di massima, si può dire che esse lavorano con risorse che, grosso modo, derivano per poco meno della metà dal trasferimento statale, per circa un quarto dalle entrate proprie, per circa un quinto dai trasferimenti degli enti regionali e locali, e per il restante (un decimo scarso) dall’apporto di privati».
Il risultato vede ogni anno almeno metà di queste fondazioni chiudere i bilanci in passivo, Così è stato nel 2008: 7 su 14 hanno chiuso l’esercizio in rosso. Mentre da Napoli a Genova, passando per Firenze, si è proceduto negli ultimi anni a commissariare gli enti lirico-sinfonici presenti in queste città.
Se il panorama è questo, allora risulta veramente inevitabile cercare di porvi rimedio. Il decreto legge approvato ieri dal consiglio dei ministri prende atto sostanzialmente di una cosa: il settore è composto da un personale molto ampio (sulle 5.500 unità) che assorbe circa il 70 per cento del finanziamento pubblico. Per rendere l’idea dei costi fissi legati al personale, basti dire che le spese sostenute per questo capitolo dagli enti lirici superano le sovvenzioni erogate dallo Stato. Nel 2008, a fronte di una spesa di € 340.146.756 per il personale, il contrbuto statale erogato è stato di € 235.465.231. Il governo è partito da questo dato di fatto: i costi per il personale sono troppo elevati, vanno ridotti.  In che modo? Viene riformulato il metodo per la stipula del contratto collettivo. Ad esempio, l’obbligo di certificazione da parte della Corte dei Conti dovrebbe servire a tenere sotto controllo i costi contrattuali. Oppure, si vieta fino alla fine del 2012 di assumere personale a tempo indeterminato, mentre dal 2013 si potrà assumere a tempo indeterminato solamente all’interno di meccanismi di turnover. Altre sono poi le misure aventi sempre la medesima finalità: ridurre i costi per il personale.
Questo quanto si dispone dettagliatamente da subito. Poi vi è un passaggio del decreto in cui si dà mandato al Ministero di rivedere, entro un arco temporale definito, i criteri attraverso i quali lo Stato eroga i contributi a questi soggetti. Si prevede dunque una seconda fase della riforma: dopo avere disposto il contenimento dei costi si rimette mano al modo in cui le sovvenzioni vengono date agli enti lirico-sinfonici. Su questo punto bisognerà attendere quanto verrà deciso. Per ora vi sono vaghi riferimenti ai criteri che verrano adottati: qualitativi, quantitavi e legati al buon andamento nella gestione dell’istituzione sussidiata. Par di capire che i soldi saranno dati tenendo conto dei bilanci, della qualtà artistica dell’offerta e dei risultati conseguiti (ad esempio in termini di coinvolgimento di pubblico).
In attesa di avere più chiaro il quadro degli interventi, si può dire che, pur non essendo una riforma epocale, la direzione intrapresa è quella giusta. Da una parte si cerca di bloccare la deriva dei bilanci di queste fondazioni, dall’altra ci si propone di rivedere i meccanismi di erogazione delle sovvenzioni statali (nel senso di premiare quelle realtà virtuose e ben gestite). Insomma, se proprio dobbiamo tenere in piedi con denaro pubblico questi enti, almeno si cerchi di non sperperarne troppo. Tenendo sempre presente quello che dice il sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo, Antonio Cognata: «L’idea del finanziamento pubblico all’opera lirica o ai teatri sta semplicemente nel fatto che lo Stato, nella sua funzione etica e paternalistica di allocazione delle risorse per conto di tutti noi, decide che l’opera deve essere prodotta, perchè altrimenti, se l’opera non fosse prodotta oggi attraverso i finanziamenti pubblici, mio figlio, che ora ha 4 anni, non avrà mai la possibilità di vedere un’opera perchè nessuno la produrrebbe attraverso mezzi privati». Cognata parte dall’assunto tutto da dimostrare che senza l’intervento pubblico non si avrebbe l’opera lirica. Di sicuro, dice una verità: la scelta che compie lo Stato nel finanziarla è puramente arbitraria, lo si fa per ragioni di prestigio, identitarie e meritorie. Sono buone ragioni?

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Il ritorno della commedia all’italiana (e un paio di dramoletti) /2010/03/12/il-ritorno-della-commedia-all%e2%80%99italiana-e-un-paio-di-dramoletti/ /2010/03/12/il-ritorno-della-commedia-all%e2%80%99italiana-e-un-paio-di-dramoletti/#comments Fri, 12 Mar 2010 17:59:30 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=5376 La buona notizia è questa: stando ai dati forniti da Cinetel, dal primo di gennaio al 7 marzo 2010 sono stati staccati 10,3 milioni di biglietti per i film italiani. Se la quota di mercato conquistata dalle pellicole italiane nel 2009 è stata del 24,4%, nei primi due mesi del 2010 ha toccato quota 33,5%. Ben 5 film hanno incassato più di 5 milioni di euro: “Io, loro e Lara” di Verdone, “Baciamo ancora” di Muccino, “Scusa ma ti voglio sposare” di Moccia, “La prima cosa bella” di Virzì e “Genitori & figli” di Veronesi.  La prima cattiva notizia è invece quest’altra: i nostri film sono difficilmente esportabili. Secondo i dati riportati dall’Osservatorio Internazionale “Roberto Rossellini” sull’Audiovisivo e la Multimedialità il nostro export produce solo 20 milioni di euro l’anno, a fronte dei 110 della Francia e dei 589 del Regno Unito. “Gomorra” (3 milioni 141 mila spettatori) è uscito in tutto in 36 Paesi, compresi gli Usa, e ha avuto all’estero circa metà delle entrate complessive. A seguire, “Caos calmo” con un milione e 130 mila spettatori in Europa, e l’uscita nel mondo in 12 Paesi, e “Il Divo”, con 808 milioni di spettatori nel vecchio continente e l’uscita in 20 Paesi nel mondo. La seconda cattiva notizia è che dai quotidiani in edicola oggi abbiamo scoperto, una volta di più, come si faccia pessimo uso dei soldi pubblici: “I fondi del cinema a mogli e amici” (titola La Repubblica), “Balducci e il cinema: finanziamenti pubblici nel mirino dei pm” (così Il Giornale) e “I fondi del cinema agli amici della cricca” (La Stampa). Premesso che una intercettazione non è sufficiente a incolpare una persona, rimane il fatto che, determinate situazioni, danno il polso del rapporto fra cinema, politica e interessi particolari. Naturalmente, non è che solamente i film in cui recitava il figlio di Balducci abbiano incassato poco e attinto tanto dalle casse dello Stato. Idem per i film prodotti dalla moglie di Balducci. Rappresentativa, e non poco, è la frase pronunciata al telefono da Rosanna Thau (la signora Balducci, appunto): “anche se i film vanno male non si perde niente”. Chi di voi si ricorda del film “Last minute Marocco”? La pellicola, datata 2007, è stata prodotta dalla signora Balducci, con Lorenzo Balducci come attore. Contributi statali ricevuti: 1,8 milioni di euro. Incassi al botteghino: 350 mila euro. Come detto, questo è un episodio. Lo sperpero di denaro pubblico non riguarda solamente la cosiddetta “cricca”. Il peccato originale è stato quello di dare finanziamenti a fondo perduto: semplicemente, il rapporto fra Stato e società di produzione finiva nel momento dell’erogazione. Con la legge cinema del 2004 si è tentato di ovviare a questa situazione. Da una parte si è cercato di premiare quei film che riscontravano i favori del pubblico, dall’altra di risolvere il buco dei finanziamenti a fondo perduto. Da allora il sussidio si è trasformato in un prestito: il film non può essere finanziato nella sua interezza: se va bene al botteghino può rendere il prestito ottenuto; se va male i diritti di sfruttamento del film passano allo Stato. Quest’ultimo caso però non ha permesso di spostare di molto i termini della questione. Formalmente non si tratta più di finanziamenti a fondo perduto ma il risultato è lo stesso di prima: “anche se i film vanno male non si perde niente”. Il nodo da risolvere è sempre questo. Purtroppo non viviamo in un mondo fatto di angeli, e i funzionari pubblici e i politici non sono persone diverse dalle altre. Di fronte alla pretesa di creare sistemi trasparenti e premianti, raramente quello che si ottiene è l’obiettività e il perseguimento della qualità. Le intercettazione sembrano avere scoperchiato una situazione di malaffare anche nel mondo dei contributi pubblici dati al cinema. Ma siamo sicuri che gli unici a comportarsi in questo modo siano i membri della famiglia Balducci?

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Ci salverà il micro-mecenatismo? /2010/03/11/ci-salvera-il-micro-mecenatismo/ /2010/03/11/ci-salvera-il-micro-mecenatismo/#comments Thu, 11 Mar 2010 15:29:20 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=5362 Supponiamo che l’Italia detenga davvero il cinquanta per cento del patrimonio culturale del mondo interno. Come facciamo allora a conservarlo e a valorizzarlo? Lo Stato italiano destina una quota pari a circa lo 0,3 per cento del Pil alla cultura. Poco? Troppo? Secondo i più, tale cifra è insufficiente per preservare il nostro patrimonio. Naturalmente dovremmo intenderci prima di tutto su cosa sia un “bene culturale”. Cosa merita di essere conservato? E da chi? Ogni scavo che permetta di scandagliare il suolo italico porta alla luce reperti. Cosa salviamo e cosa “gettiamo”?
Evidentemente lo Stato non può farsi carico di gestire musei, aree archeologiche, ville storiche, archivi, ecc. A meno che la cifra del Pil destinata al ministero dei Beni e delle Attività culturali non decuplichi, lo Stato non ce la può fare. Ma anche se dovessimo trovare un governo particolarmente sensibile, emergerebbero questioni di opportunità. E allora, ipotizzando che lo Stato possa avere le risorse necessarie, si dovrebbe discutere dei suoi compiti: davvero deve occuparsi in toto del nostro patrimonio culturale? 
Di recente, il governo ha perso un’ottima occasione. Se lo Stato da solo non ce la può fare, una mano gliela possono dare le regioni. Nel decreto sul federalismo demaniale in un primo tempo erano stati inseriti anche i beni culturali. E’ bastata qualche polemica e i beni culturali sono stati stralciati. Ma oltre a regioni ed enti locali un importante ruolo sussidiario può essere svolto dai privati. Soggetti più o meno privati (dalle fondazioni di origine bancaria alle imprese che si occupano dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”) e soggetti rivolti o non rivolti al perseguimento di un profitto (idem come sopra) sono attivi nella conservazione e nella valorizzazione dei beni artistico-culturali. Esistono veri e propri mecenati (che agiscono per passione) ed esistono società che, ad esempio sponsorizzando determinate attività, ottengono un ritorno di immagine. Insomma, il mondo dell’intervento dei privati nel mondo della cultura è variegato. Variegato ed originale. È infatti da questo settore che nascono le idee più creative. Il problema da risolvere è sempre lo stesso: come attirare denaro? Lo Stato, di suo, può incentivare (o per lo meno non disincentivare) l’intervento dei privati. Questi ultimi, a loro volta, devono avere il massimo della libertà consentita per produrre idee innovative e modalità di intervento. E non è detto che una iniziativa debba per forza contemplare lo stanziamento di ingenti risorse: il micro-mecenatismo può essere una risposta.
Una interessante proposta è quella lanciata da Franco Debenedetti in un recente articolo comparso sul domenicale del Sole-24 Ore. Nello specifico è applicata ai documenti posseduti dall’Archivio di Stato: «Lì stanno le carte del processo a Giordano Bruno: quelle della Reverenda Camera Apostolica possono destare, ovviamente per motivi diversi, fascinazioni che travalicano i confini nazionali; nei catasti degli stati pontifici nipoti e pronipoti di emigrati possono ricercare le proprie origini: c’è materia per creare un “mercato” internazionale del restauro di documenti d’archivio». Con una piccola quota si potrebbe diventare partecipi di una grande opera: il restauro di veri e propri beni culturali. Da 10 a 10.000 euro per acquistare il “diritto di proprietà del restauro”. Una idea semplice ma nello stesso tempo innovativa. Il possesso, vedere il proprio nome impresso in qualcosa a cui ci si sente legati, in qualcosa a cui ci si sentirà legati.
Una idea per certi versi simile è stata realizzata dal 1996 dalla Venice Foundation. Raccogliere risorse attraverso il coinvolgimento, il senso di sentirsi parte di qualcosa di importante e di culturalmente rilevante. In un certo senso si tratta di un comportamento “pedagogico”, soprattutto se fatto all’interno delle scuole: educare alla responsabilità attraverso la proprietà. Solo se ci si sente proprietari di qualcosa si è portati a rispettarlo. Non a caso, le cose di tutti (cioè di nessuno) sono le meno curate e rispettate. Un conto è il mecenatismo “mordi e fuggi” (che inevitabilmente ha un orizzonte limitato), un’altra cosa è il coinvolgimento diretto, il creare passione in chi può solamente contribuire in minima parte (ma tante piccole parti alla fine fanno il tutto). Fondamentale è il controllo sui propri soldi. Non è un caso allora che la Venice Foundation, pur proponendosi la finalità di “affiancare” i Musei civici Veneziani, raccoglie fondi senza però poi consegnarli ai Musei civici ma vengono gestititi direttamente dall’associazione. Il donatore vuole monitorare l’uso dei propri soldi. Un sistema trasparente agevola questo rapporto. Se il denaro raccolto venisse “girato” nelle casse dei Musei civici come faccio a sapere per quali finalità verrà utilizzato. Il piccolo mecenate vuole “comprare” qualcosa di identificabile. Nel caso di un restauro vuole “comprare” il restauro del pezzetto di un’opera, vuole seguire l’iter dei lavori, apprezza di trovare il suo nome tra i benefattori che hanno consentito il restauro, e sarà molto rispettoso del risultato (perché quanto è stato ottenuto lo sente come suo).
La cultura è di tutti? Sì, ma bisogna che qualcuno la senta come sua, altrimenti la cultura diventa di nessuno.

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Morals and markets al Seminario Mises /2009/10/11/morals-and-markets-al-seminario-mises/ /2009/10/11/morals-and-markets-al-seminario-mises/#comments Sun, 11 Oct 2009 08:40:40 +0000 Alberto Mingardi /?p=3198 Ieri al Seminario Mises, Benjamin Powell e Ed Stringham hanno presentato due paper molto interessanti, rispettivamente intitolati “The Role of Monetary Profits and Cultural Values in Promoting Productive Entrepreneurship” e “Entrepreneurship as Social Value“.  Entrambi si inseriscono in un filone di ricerca di crescente importanza, che utilizza diversi strumenti analitici (in molti casi, esperimenti di laboratorio) per ampliare la nostra comprensione delle motivazioni che spingono gli attori economici ad agire.
Jean-Pierre Centi ha sottolineato che questi lavori ci riportano ad una qualche versione del “problema di Adam Smith”: la tensione fra la Teoria dei sentimenti morali e la Ricchezza delle nazioni. Scambi personali e scambi impersonali, piccolo gruppo e grande societa’: in molti hanno letto l’Adam Smith di TMS, che tanta attenzione dedica allo “spettatore imparziale” (una sorta di SuperIo) che censura i nostri comportamenti sulla base di giudizi in realta’ non molto diversi da quelli della (piccola) societa’ in cui tutti viviamo, in contrasto con quello che celebra l’ordine spontaneo dei mercati come un grande “meccanismo” nel quale la “mano invisibile” guida l’armonizzazione degli interessi individuali (non dalla benevolenza del macellaio…). A parte il fatto che su “Das Adam Smith problem” sono state scritte intere biblioteche, e a parte il fatto che in realta’ anche nella Ricchezza delle nazioni si legge la propensione allo scambio come insita nella stessa nostra natura, non e’ curioso che queste ricerche partano tutte, in realta’, da una cosa che potremmo chiamare il “problema dell’imprenditore”. Questi studiosi ci dicono, in buona sostanza, che non basta il motivo del profitto a spiegare la “vocazione imprenditoriale”. Per Schumpeter, gli imprenditori sono sostanzialmente “irrazionali”. E Rothbard, ricorda Stringham,  sostiene che l’obiettivo di ogni individuo e’ “not to maximize just monetary income, but to maximize psychic income which is monetary income plus subjective benefits of different endeavors”.
Se le motivazioni degli imprenditori sono le piu’ varie, e’ possibile avere arrangiamenti sociali che “stimolino” l’imprenditorialita’?
Il lavoro di Stringham sottolinea l’importanza di “internal constraints” (lo spettatore imparziale di Smith) per mantenere la cooperazione sociale.
Il paper di Powell, piu’ empirico, e’ l’inizio di una ricerca volta a indagare come l’apprezzamento sociale della figura imprenditoriale possa influenzare al margine la “fertilita’ imprenditoriale” di una societa’.

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McLouvre /2009/10/06/mclouvre/ /2009/10/06/mclouvre/#comments Tue, 06 Oct 2009 09:53:43 +0000 Filippo Cavazzoni /?p=3126 La poetica warholiana che diventa realtà. La cultura pop che si fonde con quella “alta”. Il McDonald’s che apre un punto vendita al Louvre! Oggi il Corriere della Sera dedica ampio spazio all’arrivo di hamburger e patatine fritte sotto il naso della Gioconda. La cosa è bizzarra, tutto questo succede in Francia (ci tocca rivalutare i cugini di’Oltralpe?). Il paese della Cultura con la C maiuscola che cede all’americanizzazione e al simbolo del consumismo, roba da non crederci. E, in effetti, le posizioni critiche sembrerebbero sopravanzare quelle favorevoli. La Stampa, ieri riportava alcune dichiarazioni “a caldo”:

Parlando al “Telegraph”, uno dei curatori del museo francese, sotto anonimato, parla di un “ultimo smacco”: «è la quintessenza al consumismo, di una gastronomia malata, e poi diffonderà i suoi odori sgradevoli in tutto il museo». Sulla stessa linea Didier Rykner, direttore del website “Art Tribune”: «é un’iniziativa semplicemente scioccante».

Direi che queste affermazioni condensano il succo della questione. Trattasi infatti di questione puramente ideologica. Se invece di McDonald’s si fosse trattato di un altro ristoratore, le polemiche sarebbero state le stesse? Evidentemente, no. In questa situazione, il Josè Bové di turno è Jean Clair, rappresentante indiscusso dello snobismo più snob. Una frase sola pronunciata da Clair permette di inquadrare il personaggio: “La deriva mercantile trasforma l’arte in spettacolo e i musei in luna park”. Divertirsi in un museo è, evidentemente, una colpa. Il museo è un luogo sacro, che non può essere minimamente toccato da logiche commerciali. Come si faccia poi a mandare avanti un museo senza far di conto è un mistero.
Già in occasione dell’accordo stipulato fra il Louvre e la città di Abu Dhabi per la cessione del marchio e di alcune opere (pagate giustamente a caro prezzo: 700 milioni di euro), Clair aveva avuto modo di esprimere il suo sdegno: “Questo progetto dissennato è solo la manifestazione più spettacolare di una trasformazione radicale in corso in Europa in nome della redditività dell’arte”.
Vi è chi ha una concezione elitaria dell’arte, che aborrisce le mostre di massa e i grandi guadagni fatti dai musei, che considera l’arte come qualcosa di esoterico, non alla portata di tutti ma di un manipolo di eletti. E questa, temo, sia la posizione che accomuna la maggior parte delle persone che operano nel settore. Poi però vi sono esperienze di segno opposto, come le mostre di successo che portano migliaia e migliaia di persone davanti ad opere d’arte, accordi che fanno circolare il più possibile l’arte e la conoscenza, … e magari si riesce a guadagnare pure un po’ di denaro. Che c’è di male? Nulla.

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