CHICAGO BLOG » crisi finanziaria http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 È necessaria una tragedia greca per ottenere le liberalizzazioni anche in Italia? /2010/11/24/e-necessaria-una-tragedia-greca-per-ottenere-le-liberalizzazioni-anche-in-italia/ /2010/11/24/e-necessaria-una-tragedia-greca-per-ottenere-le-liberalizzazioni-anche-in-italia/#comments Wed, 24 Nov 2010 13:44:15 +0000 Guest /?p=7686 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Luigi Ferrata:

Vittorio da Rold su il Sole 24 Ore del 23 novembre analizza le ricette adottate dal Governo greco per fronteggiare la crisi.  Si tratta di una serie di liberalizzazioni e riforme strutturali che incidono in profondità nel tessuto sociale e burocratico del Paese. Da Rold sottolinea anche come Papandreu sia consapevole dell’impopolarità delle proprie scelte, ma che sia determinato a proseguire anche a costo di essere sconfitto alle elezioni.

Fa un certo effetto scorrere la lista e vedere come il Primo Ministro stia procedendo verso una maggiore liberalizzazione delle professioni di avvocato, ingegnere, farmacista e medico per ottener l’aumento di un punto di PIL. E ancora per risparmiare e snellire i costi burocratici il Governo greco è anche riuscito a far passare una riforma dell’organizzazione statale grazie alla quale sono state eliminate le 57 province per sostituirle con 13 macroregioni ed addirittura il Governo ha ottenuto che molti comuni venissero accorpati garantendo risparmi nell’ordine di un miliardo e mezzo all’anno.
Tra le altre misure adottate una seria lotta all’evasione fiscale, basata anche sull’utilizzo della tecnologia fornita da Google Maps per individuare gli evasori.

In sostanza le misure adottate in Grecia sono considerate le ricette necessarie per uscire dalla crisi: in altre parole per salvarsi la Grecia ha compreso l’importanza e l’urgenza di liberalizzare il mercato ed il Governo è disposto a sopportarne il costo politico nell’interesse del paese, confortato dal fatto di poter guadagnare in termini di crescita del Pil.

Rileggendo il paragrafo e sostituendo le parole Grecia e a Papandreu con Italia e Berlusconi si ottiene una fattispecie che dovrebbe essere perfettamente adattabile anche al nostro Paese ma che purtroppo non viene implementata.

A mio avviso è paradossale che nella situazione di crisi, anche l’Italia, che sicuramente in termini di crescita non gode di ottima salute, non si arrenda all’evidenza e non decida di imboccare la strada delle liberalizzazioni, tanto più che le scelte effettuate dalla Grecia sono di buon senso, condivisibili e addirittura oggetto dei programmi elettorali dei partiti di maggioranza.

La Grecia per crescere ha scelto, l’Italia vuole crescere, sa cosa deve fare, ma non lo fa.

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Benoît Mandelbrot. In memoriam /2010/10/18/benoit-mandelbrot-in-memoria/ /2010/10/18/benoit-mandelbrot-in-memoria/#comments Mon, 18 Oct 2010 17:02:11 +0000 Guest /?p=7319 Riceviamo e pubblichiamo da Galeazzo Scarampi del Cairo, Board member dell’Istituto Bruno Leoni.

Scomparso giovedì scorso a ottantacinque anni, Benoît Mandelbrot è stato un importante matematico che ha conservato la capacità “artistica” di visualizzare problemi astratti e la curiosità di cercare reppresentazioni matematiche di forme apparentemente non regolari. Mandelbrot preferiva parlare di “roughness”, intendendo rough come il contrario di regolare, ed ha saputo esprimere la (mancanza di) regolarità in un semplice numero, così come semplice è l’equazione (z–>  z^2 +c) sottostante al famoso “Mandelbrot set”

Il contributo di Mandelbrot alla finanza è stato decisamente paradossale. Storicamente, la parte più facile della sua analisi statistico matematica dei movimenti dei prezzi di mercato azionario è stata utilizzata amplissimamente nella cosiddetta “analisi tecnica”, disciplina considerata “minore” e destinata alla divulgazione per i “day traders”. Le implicazioni più profonde e più importanti del suo pensiero, ovvero l’importanza delle discontinuità ed il conseguente imperativo di evitare modelli “senza turbolenze” e le curve gaussiane sono state deliberatamente ignorate sia dagli ingegneri finanziari che dai risk managers delle grandi banche.

Leggere ora l’articolo scritto da Mandelbrot con Nassim Taleb il 23 Marzo 2006 sul Financial Times, “A focus on the exceptions that prove the rule” può fornire un’idea di quanto valida sia la impostazione teorica di Mandelbrot, esposta in esteso nel suo “The (mis) behavior of markets“, pubblicato 2 anni prima.

Credo che gradualmente le tesi di Mandelbrot abbiano iniziato  a mettere radice nei curriculum di finanza applicata e statistica e in una generazione o due (se non saremo tutti in bancarotta prima) porteranno ad un “irrobustimento” endogeno della finanza, che non può continuare a rivolgersi alle banche centrali come un’orchestra al suo direttore.

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Tony Blair sulla crisi /2010/09/03/tony-blair-sulla-crisi/ /2010/09/03/tony-blair-sulla-crisi/#comments Fri, 03 Sep 2010 10:10:23 +0000 Alberto Mingardi /?p=6940 Dopo che altri hanno già insistito sul monito al Partito Laburista contenuto nell’autobiografia di Tony Blair, A Journey, oggi il Wall Street Journal riporta alcuni passi del libro dedicati alla crisi finanziaria che ha contribuito prima a una straordinaria risalita di Gordon Brown nei sondaggi (sembrava “un keynesiano al posto giusto e al momento giusto”) e poi invece alla sua sconfitta elettorale.

Vale la pena di riportarli anche in questa sede. In primo luogo, scrive l’ex primo ministro, “non ha fallito il mercato., ha fallito una parte del settore”. Ma anche lo Stato “ha fallito. Le normative hanno fallito. I politici hanno fallito. La politica monetaria ha fallito. Indebitarsi era diventato eccessivamente conveniente. Ma non si è trattato di un complotto delle banche, è stata una conseguenza della confluenza (apparentemente fortunata) di una politica monetaria troppo facile e della bassa inflazione”.

Blair ha una visione piuttosto disincantata anche della “Obamanomics” neokeynesiana. “In ultima analisi, la ripresa non verrà stimolata dai governi, bensì dalle attività economiche, dalle imprese e dalla creatività, dall’ingegnosità e dall’intraprendenza degli individui. Se i provvedimenti che adotteremo per rispondere alla crisi diminuiranno i loro incentivi, soffocheranno la loro imprenditorialità, indeboliranno il clima di fiducia in cui esis operano, la ripresa diventerà estremamente incerta”. Una formula elegante per non sconfessare in maniera eccessivamente plateale i compagni di partiti, eppure porre in controluce l’interrogativo di Pietro Monsurrò: “Ma esiste uno straccio di prova che gli stimoli fiscali servano a qualcosa?”.

La cosa più interessante dell’articolo del WSJ è però un’altra citazione, dalla quale sembrerebbe emergere che la lettura della crisi di Blair non si allontana troppo da quella  spiegata molto bene da Jeffrey Friedman nella sua introduzione alla special issue di Critical Review sulla crisi. Per Friedman (e per Arnold Kling, vedasi il suo Unchecked and Unbalanced), la crisi non è stata dovuta a un “fallimento del mercato” quanto piuttosto a un “fallimento cognitivo” dei diversi attori in gioco, attori di mercato ma anche (forse soprattutto) regolatori.

Senza la raffinatezza intellettuale di Friedman, scrive Blair:

Quella che è mancata è stata la capacità di capire. Non l’abbiamo proprio vista arrivare. Si può sostenere che avremmo dovuto, ma così non è stato. Per giunta (e questo è un aspetto essenziale per capire in che senso indirizzare la regolazione del settore) non è vero che, se avessimo visto l’approssimarsi della crisi, non avremmo potuto fare niente per prevenirla. Il problema non è stato un fallimento della regolazione dovuto al fatto che le autorità non avevano il potere di intervenire. Se i regolatori avessero fatto sapere ai leader politici che era imminente un’enorme crisi, non avremmo replicato: “non possiamo farci niente fino a che non avremo introdotto nuove normative”. Avremmo agito.

PS: A scanso di equivoci: nulla di quanto sopra vuole esprimere apprezzamento per l’operato di Blair come primo ministro – operato che è molto controverso, contrassegnato assieme da grandi innovazioni sul piano del linguaggio politico e da severe compressioni dei diritti civili, in nome della “war on terror”, che per fortuna il nuovo governo britannico è determinato a rivedere. Ma il fatto che uno dei grandi protagonisti della scena politica mondiale degli ultimi trent’anni dia una lettura della crisi non troppo distante da quella costantemente avanzata su queste pagine e poche altre, pare significativo.

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Ricordate la crisi finanziaria del 33 d.C.? /2010/07/07/ricordate-la-crisi-finanziaria-del-33-d-c/ /2010/07/07/ricordate-la-crisi-finanziaria-del-33-d-c/#comments Wed, 07 Jul 2010 11:23:16 +0000 Guest /?p=6457 Riceviamo da Leonardo Baggiani (IHC) e volentieri pubblichiamo

Sul sito Working Ideas è stato condotto un approfondimento degli Annales di Tacito, storico latino, in quanto richiamati in un discorso di Trichet a Stanford. Oltre a suggerire di leggere questo gustoso articolo, voglio aggiungere qualche riflessione. Trichet trova giustificazione alla politica di quantitative easing e tassi molto bassi della BCE in un’analoga mossa dell’imperatore romano Tiberio. Il passo di Tacito, attualizzato con i termini suggeriti da Trichet stesso suona così: “la distruzione della ricchezza privata provocò il tracollo di onorabilità e reputazione. Alla fine [Governo e Banche Centrali] intervennero in aiuto distribuendo attraverso le banche centinaia di [miliardi] di [euro e dollari], e concedendo la libertà di prendere a prestito senza interessi per tre anni, a patto che i debitori fornissero allo Stato [come collateral] beni fondiari per un valore doppio. La fiducia fu così recuperata, e gradualmente tornarono i prestatori privati”. Perfetto.

Dovremmo però chiederci se le origini della crisi del 33 fossero analoghe a quelle attuali. Andando a ritroso si vede che il dissesto è seguito ad una ondata di vendite di beni fondiari al fine di copertura dei debiti, ma la conseguente svalutazione degli immobili ridusse i possibili recuperi lasciando i più indebitati nell’impossibilità di onorare gli impegni (da qui il dissesto generalizzato ed il “salvataggio” di Tiberio). Tale corsa all’estinzione del debito derivava da una specie di “sanatoria sull’usura”: per legge i prestiti dovevano infatti essere a tasso nullo e coperti da garanzie fondiarie, ma nell’Impero molti, Senatori compresi, avevano prestato “ad usura” cioè con un interesse positivo e magari senza garanzia. Per risolvere il vasto scandalo (già le condanne si sprecavano) fu concesso da Tiberio un anno e mezzo per il rientro dei prestiti ad usura con investimento del recuperato in beni fondiari, pertanto i debitori cercarono come poterono (quelli che poterono) di recuperare i denari liquidando ciò che avevano. Come già detto, le conseguenze delle liquidazioni di massa resero spesso impossibile il recupero delle somme.

Il prestito ad interesse e non garantito era vietato nel 33 d.C. per ragioni di ordine pubblico (“l’usura causa conflitti sociali”, si diceva), per questo il sistema era passato da tassi fissati liberamente tra le controparti, ad un tasso “pubblico” fissato dai Tribuni, fino al tasso zero con copertura fondiaria “inventato” da Cesare. Ma la gente da sempre si ingegna a creare strumenti per replicare ciò che è economicamente giustificato sebbene vietato dalla legge, ed oggi quelle pratiche sarebbero legali perché attualmente l’usura si misura sull’entità dell’interesse, non sulla sua mera esistenza (i ribaltamenti del concetto di usura si susseguono spesso nella storia, come si ricava anche da Hickman).

Trichet richiama la parte finale della cronaca di Tacito per dar ragione alla capacità salvifiche dell’intervento monetario centrale, in grado di costruire nel sistema una fiducia più forte di quanto sarebbe possibile con politiche rigorose tese ad evitare fenomeni di moral hazard. Trichet però non ha ricordato anche che la crisi del 33 derivò sostanzialmente da atti legislativi e giudiziari contro una pratica creditizia, e che questa pratica discende palesemente dalla necessità di aggirare una norma creditizia discriminatoria (tasso zero sì, ma solo a chi avesse terreni): a me pare che l’impianto del diritto di credito di Cesare fosse un sistema per bloccare buona parte della mobilità sociale, e che la soluzione di Tiberio all’illegalità dilagata anche nella società “alta” rimanesse in questa cornice: rientro dei capitali in un ristretto circuito fondiario. Il disastro sociale dovuto all’impossibilità di molti recuperi (il prestito al nulla-tenente, pur giustificato dalle sue capacità di commerciante, non dava possibilità di integrale e immediato rientro) ha “costretto” alla pioggia di sesterzi pubblici con una più intensa concentrazione della proprietà fondiaria. Alla fine Tiberio si è “comprato” una reputazione presso la Roma più “alta” (quella da cui fino a quel momento era costretto a tenersi lontano) riducendo di molto la più giovane “nobiltà” commerciale, i “nuovi ricchi” (eventualmente con un profitto personale in termini di patrimonio immobiliare).

La situazione è paragonabile a quella all’origine dell’ultima crisi? Per certi versi sì, per altri no. Troviamo ancora un avvitamento tra distruzione del credito e svalutazione delle garanzie, fondiarie in entrambi i casi. Il processo giudiziario romano è poi, in qualche modo, assimilabile alla stringenza delle norme di Basilea II (“rientro” obbligato da certe posizioni creditorie in forza di legge allo scattare di alcuni eventi). Ma non c’è lo stesso “grilletto”: se il caso romano suona come una specie di “Tangentopoli” ante litteram (nel caso, “Usuropoleis”), il caso attuale mostra una meccanica più endogena di tipo “austriaco”. Ammesso e non concesso che nel primo caso la creazione di nuova liquidità fosse la cosa opportuna da fare, non ne discende che la soluzione di allora fosse ottimale anche nel mondo attuale. Per dirla tutta, Trichet non completa il passo di Tacito, che in realtà rivela risultati di questo “salvataggio” nel complesso deludenti.

È rilevante in questa comparazione il fatto che la crisi attuale faccia perno su una euforia da “credito facile” a sprezzo del rischio (si vedano i fenomeni Sub-prime e alt-A), mentre mancano elementi per dire lo stesso della crisi del 33; anzi, pretendere un interesse positivo in luogo della mancanza di garanzie (e ancora di più in costanza di queste) indica proprio avversione al rischio e non certo la sua sottovalutazione, oltre che una normale preferenza per la liquidità che solo un’autorità statale può ignorare! Esiste un ulteriore parallelo molto interessante. La vulnerabilità (legale) del sistema romano è dipesa da una risposta individuale alle norme del “tasso zero collateralizzato” che aveva fini di “stabilità sociale”. L’impostazione delle relative norme non è diversa in linea di principio dal caso della “ownership society” americana, dove si è spinto politicamente sul mercato immobiliare sfruttando anche una leva monetaria per inseguire un proposito di natura “sociale”. Per quanto i fini potessero essere (umanamente) lodevoli sia nel I secolo che in questo passaggio tra XX e XXI secolo, è proprio dove si è voluto intervenire “socialmente” che sono scoppiati i problemi maggiori, perché i problemi nascono sempre dal pretendere di far i conti meglio dell’oste.

Nella mia interpretazione la soluzione di Cesare nascondeva in realtà fini molto più “classisti” funzionali al mantenimento di un certo “ordine” sociale, e le mosse di Tiberio era ben più opportuniste e politiche piuttosto che improntate a fini “sociali”. Spero che Trichet, con il suo “non dire”, denunciato anche nell’articolo più sopra richiamato, non volesse richiamare questo doppio-senso. Dietrologie a parte, oggi come nel 33 d.C., le crisi partono da lontano, di solito da forzature in nome del “bene pubblico”, le soluzioni non sono mai pienamente soddisfacenti e hanno sempre una forma inflazionistica, così che sia chi è “in basso” a pagare i vantaggi di chi è “in alto”. Politics as usual, in duemila anni non è cambiato molto.

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Degli errori della storia davanti alle crisi, inflazione e politica /2010/07/05/degli-errori-della-storia-davanti-alle-crisi-inflazione-e-politica/ /2010/07/05/degli-errori-della-storia-davanti-alle-crisi-inflazione-e-politica/#comments Mon, 05 Jul 2010 11:32:07 +0000 Oscar Giannino /?p=6438 Post a integrazione degli ultimi due di Pietro Monsurrò – veramente ottimi, a mio avviso, consentono anche a chi non sia tecnicamente esperto di farsi un’idea non solo del nostro punto di vista, ma della pluralità di orientamenti nella letteratura economica su cause e risposte alla grande crisi del ’29, rispetto alla crisi attuale (e cioè per come lavediamo noi al  riallineamento dei grandi debiti indotti da prezzi sopravvalutati di asset effetto della politica monetaeria lasca seguita dagli USA con Greenspan). E’ verissimo, che chi non mpara le lezioni della storia  è talvolta o spesso condannato a ripeterne errori. Ma è anche vero che confondere storie diverse – quella del ’29 e quella attuale – credendo si debba oggi applicare le ricette di allora significa candidarsi a errori ancora peggiori. Soprattutto quando non si ha chiaro o non si è convinti che quelle di Hoover e Roosevelt furono politiche comunque sbagliate, e per uscire da un lungo equilibrio di sottocupazione fu necessario il secondo conflitto mondiale. In larga misura e riducendo la questione al nocciolo, è per questo che diffidiamo fortemente della teoria “ancora più deficit pubblico” alla Paul Krugman, come dell’indifferenza all’elevata liquidità monetaria di Bernanke, nonché dell’intera panoplia di provvedimenti il cui segno generale è “più poteri ai regolatori”, come il Frank-Dodd Act, volti a rallentare o impedire il deleveraging asset-debiti necessario nell’intermediazione finanziaria.

Due esempi utili per capire corsi e ricorsi storici. Qui un’esilarante prova di come sotto Roosevelt si spiegasse alle masse nei cinematografi la via dell’inflazione come salvifica. Qui la lettera aperta scritta da Keynes a Roosevelt il 31 dicembre 1933 per separare le proprie responsabilità rispetto alla rigidità dei prezzi e dei salari praticata dall’Amministrazione di cui vi ha parlato giustamente Monsurrò, in teoria volta a difendere il potere d’acquisto dei lavoratori, in pratica responsabile dell’equilibrio di sottocupazione che per anni e anni impedì l’uscita dalla crisi. Se Keynes si discostò da Roosevelt allora, chissà che cosa direbbe di Krugman e dei krugmaniti tax-nd-spend nell’Europa di oggi.

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Anche Business Week tax-nd-spend, contro Alesina /2010/07/02/anche-business-week-tax-nd-spend-contro-alesina/ /2010/07/02/anche-business-week-tax-nd-spend-contro-alesina/#comments Fri, 02 Jul 2010 06:57:25 +0000 Oscar Giannino /?p=6425 La gratitudine di Wall Street per la riforma bancaria di Obama che in definitiva celebra un nuovo compromesso tra regolatori e grandi intermediari, invece di preludere a politica monetaria meno lassista e a meno salvataggi a spese del contribuente, inizia a dare i suoi risultati. Qui il commento critico che Business Week riserva alla tesi di Alberto Alesina, per il quale tagliare i bilanci pubblici porta a più crescita, esempi alla mano di Paesi che hanno perseguito con successo tale strada come l’Irlanda, l’Olanda e la Norvegia. Se anche Business Week, abitualmente tra i falchi sulla spesa pubblica e le tasse, si è iscritto al partit0 tax and spend, significa due cose. La prima è che la divisione in campo teorico vede i keynesiani in netto vantaggio, checché strepiti Krugman. La seconda è che in primis i grandi gruppi finanziari americani preferiscono oggi uno Stato che spende molto, perché è la miglior premessa per continuare a esserne inondati di liquidità a costo zero, anzi negativo. Come a dire: l’errore di fondo continua.

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Anche Taylor stronca la “nuova” finanza di Obama /2010/07/01/anche-taylor-stronca-la-nuova-finanza-di-obama/ /2010/07/01/anche-taylor-stronca-la-nuova-finanza-di-obama/#comments Thu, 01 Jul 2010 17:15:55 +0000 Oscar Giannino /?p=6423 Abbiamo coperto di critiche il Reform Bill finanziario di Obama. Ma il nostro monetarista preferito, John Taylor, è ancora più spietato. Qui la sua stroncatura odierna del Frank-Dodds Act. I margini aggiuntivi di discrezionalità attribuiti ai regolatori americani su materie decisive come i derivati e la loro trattazione su mercati regolamentati, sui tempi e sui modi delle modalità di proprietory trading delle banche entro certi limiti del proprio patrimonio di vigilanza ma con separazioni societarie e gestionali tutte ancora da riempire di contenuti, la retorica della tutela del consumatore in nome della quale si introduce un nuovo regolatore competente per prodotti e servizi che nulla hanno a che fare con la crisi, come si può vedere i difetti sono tanti e gravi. Del resto, servono a coprire la vera ragione della crisi stessa: cioè, per chi la pensa come noi, errori dei regolatori monetari e dei mercati e non del mercato in quanto tale, come ancora una volta qui – a beneficio dei tanti sordi, antimercatisti e statalisti incalliti – Taylor spietatamente argomenta.

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Bolla, per Mankiw i mercati hai voglia se devono scendere… /2010/06/16/bolla-per-mankiw-i-mercati-hai-voglia-se-devono-scendere/ /2010/06/16/bolla-per-mankiw-i-mercati-hai-voglia-se-devono-scendere/#comments Wed, 16 Jun 2010 17:20:32 +0000 Oscar Giannino /?p=6290 I corsi al ribasso da metà gennaio per l’eurocrisi ischiano di far diventare tutti strabici, pensando che appena avverrà un qualche euromiracolo subito i mercati rischizzeranno decisi verso l’alto. Mah, lascio a ognuno le sue convinzioni. Se andiamo oltre i timori quotidiani di mercato – oggi indici in altalena per i soliti timori bancari spagnoli visto che il capo del FMi domani è in Spagna;  poi indici in risalita alla nortizia che BP accetta di versare 20 miliardi di dollari tanto per cominciare nel fondo destinato a rifondere i danni per la marea nera negli USA, quando in teoria secondo la legge vigente il massimo dei danni dovrebbe essere solo entro i 75 milioni, alla faccia del giustizialismo; infine nuova doccia gelata alla notizia che le nuove case USA a maggio tornano ai minimi da dicembre – in realtà le serie storiche ci dicono un’altra cosa. Date un’occhiata qui.  

Viene dal sito di Greg Mankiw, neokeynesiano ma non fondamentalista, tanto che qualche anno fa si definì keynesiano-friedmanita. Quel che conta è che le serie storiche non dicono tutto né sono una palla di vetro per il futuro a breve del trader, naturalmente. Ma qualche cosa, comunque,  e anzi più che qualche cosa, dicono allo studioso. Lo  S&P 500 index rispetto alla media storica da inizio 900 era sopravvalutato del 58% alla fine di marzo, e malgrado la discsa da allora restava sopravvalutato del 46% a fine settimana scorsa, se si utilizza il metodo CAPE, cioè il rapporto prezzi/utili corretto per l’andamento del ciclo.

Se invece si calcola la media storica in 110 anni del “q” , la sopravvalutazione resta del 62% a fine marzo e del 50% a venerdì scorso. Per chi non lo sapesse, il “q” è il criterio di valore delle società elaborato da James Tobin, per il quale il valore complessivo delle società quotate in Borsa dovrebbe essere equivalente alla somma dei loro costi di rimpiazzo, e di conseguenza il “q” esprime il rapporto tra il valore totale di mercato delle quotate e il totale dei loro asset values. Un “q” superiore all’unità indica che il valore di mercato delle società è superiore ai loro costi di rimpiazzo, dunque che il listino è sopravvalutato. E’ un criterio considerato guida per i keynesiani che diffidano delle speculazioni del mercato, e credono con questo metodo di guardare di più ai fondamentali.

In ogni caso, la conclusione è la stessa. Rispeto allaa media storica, il mercato leader USA resta molto sopravvalutato. Quanto e se dovesse riprendere l’ascesa del P/E che per un decennio precrisi sembrava sfidare la legge di gravità fino al botto di tre anni fa e un anno e 9 mesi fa, quello è altro paio di maniche e lo scopriremo solo vivendo.

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La teoria austriaca del ciclo economico: un po’ di chiarezza /2010/05/27/la-teoria-austriaca-del-ciclo-economico-un-po%e2%80%99-di-chiarezza/ /2010/05/27/la-teoria-austriaca-del-ciclo-economico-un-po%e2%80%99-di-chiarezza/#comments Thu, 27 May 2010 12:21:06 +0000 Guest /?p=6070 di Anthony J. Evans

Questo articolo è stato pubblicato originariamente il 25 maggio 2010 sul blog dell’Institute of Economic Affairs, che ringraziamo per la gentile concessione alla ripubblicazione su chicago-blog.

Il mese scorso Martin Wolf si è chiesto sulle pagine del Financial Times: «L’economia “austriaca” spiega le crisi economiche meglio delle altre scuole di pensiero?».

Dopo aver ammesso che i modelli neoclassici «non si sono certo segnalati per la capacità di prevedere la crisi e di proporre le possibili risposte», Wolf ha evidenziato che alcune tesi “austriache” sono state convalidate dai fatti: «una politica monetaria mirante a mantenere un livello prefissato d’inflazione è intrinsecamente destabilizzante; il sistema della riserva bancaria frazionaria crea esplosioni di credito impossibili da gestire; il “malivestimento” globale che ne consegue spiega il successivo crollo del sistema finanziario».

Disgraziatamente, a questo punto Wolf commette l’errore di confondere le cause della crisi con il dibattito sulle politiche più idonee ad innescare la ripresa: «gli austriaci affermano inoltre – esattamente come i loro predecessori negli anni Trenta – che la risposta giusta consiste nel permettere la liquidazione di tutti i rami secchi, continuando a mantenere il pareggio di bilancio mentre l’economia va a rotoli. È questa ricetta che trovo poco convincente».

Per iniziare, se si spera di trovare nella teoria austriaca del ciclo economico una spiegazione teorica esauriente di: (1) il boom artificiale, (2) la recessione economica e (3) le politiche più idonee ad alimentare nuovamente la crescita, è probabile rimanere delusi. Ma se sarebbe assurdo pensare che una sola scuola di pensiero (per giunta sconosciuta ai più) possa fornire una risposta conclusiva a tutte le questioni proposte, sarebbe irragionevole rifiutare le parti che reggono alla prova dei fatti solo perché non riescono a spiegare tutto.

I concetti “austriaci” equivalgono sostanzialmente ad una teoria dei boom economici non sostenibili indotti dalla disponibilità di credito. Si tratta pertanto di una teoria non applicabile a tutti i cicli di espansione e contrazione e originariamente non aveva neppure lo scopo di indagare il processo di ripresa economica (Hayek aveva etichettato questa parte “deflazione secondaria”, lasciando intendere che il problema primario era un altro, ossia il malinvestimento di beni capitali). Le più famose storie della Grande Depressione in chiave austriaca si sono occupate della fase di espansione, più che della crisi e della recessione: The Great Depression di Lionel Robbins è stato pubblicato nel 1934 e America’s Great Depression (La grande depressione, Rubbettino 2008) di Murray N. Rothbard si ferma al 1932. Consiglierei quindi a Martin Wolf di non considerare le idee austriache alla stregua di sostituti di tutte le altre spiegazioni, ma di seguire un sistema più opportunistico: la teoria austriaca spiega il boom, mentre per spiegare la recessione sono necessarie anche le idee di Keynes e dei monetaristi.

In secondo luogo, Wolf offre un’immagine falsata delle spiegazioni che gli austriaci danno delle depressioni economiche. La tesi del “liquidare tutto” è falsa, giacché molti economisti austriaci riconoscono che riuscire ad evitare una contrazione monetaria può prevenire una spirale deflazionistica che porterebbe alla depressione. In virtù della complessità di questa politica, il ragionamento tende a spostarsi dalla politica monetaria ai regimi monetari, giacché gli austriaci hanno un programma di riforme del settore bancario che in futuro potrebbe prevenire le crisi. Il problema è che solo gli austriaci affrontano a viso aperto la dura realtà economica che nessun pasto è gratis: una volta che i malinvestimenti sono stati fatti, la correzione di rotta è onerosa. Ciò non significa che gli esponenti politici debbano limitarsi a “non far nulla”, ma solo che ogni sforzo deve concentrarsi sulla capacità dei mercati di funzionare come dovrebbero.

Per convincersene, prendiamo la replica di Paul Krugman alla domanda di Wolf: «perché non si verifica una disoccupazione analoga durante la fase di espansione, quando i lavoratori vengono trasferiti alla produzione di beni?». Beh, in realtà durante il boom la disoccupazione esiste: secondo un recente studio, ogni anno nel Regno Unito vengono perduti 2,65 milioni di posti di lavoro nel settore privato (ma tendiamo a non accorgercene, perché ne viene creato un numero superiore). Concentrarsi sul livello di occupazione “complessivo” impedisce di rilevare gli aggiustamenti che vengono continuamente effettuati, mano a mano che gli individui passano da un posto di lavoro all’altro al variare delle condizioni economiche. In effetti anche Krugman dà l’impressione di credere che alla fase di espansione debba corrispondere una “sovrainvestimento”. Sebbene ciò non sia del tutto sbagliato, la tesi austriaca è che durante il boom vi sia un problema di malinvestimento: esaminare le variabili nell’aggregato impedisce di cogliere queste sottili differenze.

Il problema è che gli economisti neoclassici credono in un modello di flusso circolare che fa astrazione dal tempo. Gli austriaci, viceversa, sono consapevoli del fatto che gli investimenti in beni capitali avvengono al passare del tempo. Come ha detto Roger Garrison: «la specificità e la durevolezza del capitale di lungo periodo non permette in generale una tempestiva inversione di rotta». Ovvero, per citare Arnold Kling, «ogni boom è lento e ogni crollo è repentino» (è interessante osservare che John Hicks ha commesso lo stesso errore nella sua critica agli austriaci: si direbbe che Krugman non se ne sia accorto e che non conosca la letteratura secondaria che ciò ha prodotto).

In sintesi, il contributo delle idee austriache dipende dalla nostra opinione in merito alla solidità dell’economia prima della crisi. Come spiega Garrison, vi sono due concezioni alternative: «il crollo è avvenuto: (a) nel pieno di una fase di sana crescita a causa della completa inettitudine della banca centrale; oppure (b) sul finire di un’espansione indotta politicamente intrinsecamente insostenibile e nel marasma della confusione in merito alla natura del problema e dei mezzi migliori per affrontarlo?».

Se rispondete (a) siete un monetarista e non è un caso che le idee austriache vi appiano strane. Ma se rispondete (b), il mio consiglio è di imparare qualcosa di più su una teoria che spiega le crisi economiche con tanta maestria.

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Un’idea per il capitale delle “troppo grandi per fallire” /2010/02/17/unidea-per-il-capitale-delle-troppo-grandi-per-fallire/ /2010/02/17/unidea-per-il-capitale-delle-troppo-grandi-per-fallire/#comments Wed, 17 Feb 2010 00:29:23 +0000 Oscar Giannino /?p=5198 Ieri l’Ecofin ha respinto al mittente i bellicosi propositi obamiani sulle banche. L’Europa non condivide la linea Volcker, tornare a separare banche commerciali da banche d’investimento, proibendo alle prime di comportarsi come hedge fund e di utilizzare i fondi dei depositanti per il proprieary trading.  Era scontato, vista l’estemporanetà unilaterale dell’uscita del presidente USA, una mera reazione alla sconfitta in Massachussetts. Ma è anche giusto, secondo me, perché la storia non torna indietro ma va avanti, e dunque bisogna trovare soluzioni nuove a problemi nuovi. Ho appena letto di un’idea per l’appunto nuova, che non mi sembra male.

L’ipotesi che godeva maggiormente del mio favore è quella di requisiti di capitale distinti per impiego dell’unità di capitale intermediata o impiegata, visto che il rischio maggiore di volatilità sta nelle attività finanziarie sintetiche e derivate rispetto a quelle tradizionali della banca commerciale. Ma è facile a dirsi e complicatissimo a farsi, imporrebbe ai regolatori di entrare quotidianamente nell’operatività di innumerevoli intermediari. Luigi Zingales della benemerita Chicago Booth School of Business e Oliver Hart della Harvard University hanno avuto un’altra idea, sulla falsariga di quella già richiamata ma assai più semplice ed efficace. Qui la sua illustrazione.  E’ una trovata a mio giudizio di un certo interesse, oserei dire brillante. Afferma la necessità del rafforzamento dell’equity bancario, ma vi aggiunge la necessità di un requisito di obbligazioni a lungo termine il cui valore resterebbe anche qualora il capitale svanisse,  tutelando così le esigenze di stabilità sistemica. Supera d’un balzo il giudizio delle agenzie di rating sulla solvibilità bancaria e gli stress test  del regolatore, impossibilitati a fotografare la situazione degli intermediari in tempo reale, per utilizzare come misura di solvibilità i CDS sulle banche. Ogni intermediario della categoria “troppo grande per fallire”  avrebbe una certa soglia in termini di punti base CDS entro la quale restare, oltre la quale diverrebbe invece automatica la richiesta del regolatore alla banca di emettere nuovo equity. In caso di inottemperanza, l’intervento del regolatore nella banca diverrebbe altrettanto automatico. Ma resterebbero i bonds a impedire crac improvvisi e default rovinosi perché a catena. Regole chiare, dichiarate ex ante, e pieno coinvolgimento del mercato attraverso i CDS. Non male, secondo me.

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