CHICAGO BLOG » crescita http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Chi ha troppi soldi, noi o lo stato? – di Antonio Martino /2010/11/19/chi-ha-troppi-soldi-noi-o-lo-stato-%e2%80%93-di-antonio-martino/ /2010/11/19/chi-ha-troppi-soldi-noi-o-lo-stato-%e2%80%93-di-antonio-martino/#comments Fri, 19 Nov 2010 10:04:07 +0000 Guest /?p=7642 Quando, il 23 novembre 1986, mi rivolsi ai 35.000 partecipanti alla marcia dei contribuenti di Torino, debuttai dicendo pressappoco: “Siamo qui da neanche un’ora e lo Stato italiano ha speso (?) mila miliardi, ne ha incassati (?) mila e ha contratto nuovi debiti per (?) mila.” Le cifre esatte, ovviamente, a distanza di tanti anni non le ricordo più, ma ricordo l’obiettivo di questa mia premessa. Volevo illustrare la tesi che, come sostenuto da Oscar Wilde, “il tempo è spreco di denaro”.

L’iniziativa dell’IBL si muove nella stessa direzione e, anche se i problemi di misurazione dello stock di debito sono notevoli, merita il nostro plauso. La ragione è molto semplice: le persone normali vivono in una dimensione monetaria che non conosce i milioni o i miliardi di euro. Quando si parla, quindi, di quei numeri, la convinzione di chi ascolta è che la cosa non riguardi lui, che di quelle somme non sa alcunché, ma altri. Se ci si limita a indicare valori pro-capite il discorso, anche se indubbiamente più comprensibile, non è tanto efficace quanto vedere le lancette di un orologio che scandiscono la corsa verso la bancarotta.

Quel maledetto orologio non si guasta mai, neanche fosse di produzione elvetica! Continua a marciare imperterrito nonostante gli eroici sforzi dei nostri governanti che, sprezzanti del pericolo, continuano a tartassarci nell’implicita convinzione che noi abbiamo troppi soldi e lo Stato, invece, troppo pochi. Come una fanfaluca di tale fatta possa essere ancora propalata senza arrossire è un mistero che supera l’umana comprensione.

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Compiti 2010-4: non si riparte di solo export /2010/01/07/compiti-2010-4-non-si-riparte-di-solo-export/ /2010/01/07/compiti-2010-4-non-si-riparte-di-solo-export/#comments Thu, 07 Jan 2010 22:03:40 +0000 Oscar Giannino /?p=4657 Per oggi e per non risultare eccessivo, un ultimo proposito per l’anno appena iniziato. Riguarda più da vicino l’Italia e la Germania, cioè i Paesi dell’Euroearea che più esportano e che vantano la maggior quota di manifattura. A questo proposito il luogo comune da contrastare è quello che di solo export si possa ripartire, in altre parole confidando il più possibile – nel nostro caso – sui pianti anticiclici messi in atto da Paesi che hanno maggiori possibilità di spesa in deficit. Non è così: senza pulizia bancaria vera – nel caso tedesco – e senza riforme di produttività – nel caso nostro, meno tasse ed esternalità negative che gravano sulla produttività multifattoriale, trasporti, logistica, energia etc. – il mercantilismo costruito sui piani pubblici altrui si traduce in crescita bassa.
Anche qui, due paper per gli argomenti da cui trarre ispirazione. Per il caso tedesco – e non solo – vale l’esempio del Giappone e del suo decennio di stasi. Questo paper elaborato da economisti del FMI  mostra le quattro lezioni da trarre: l’export da solo non basta; la forza del manifatturiero non vince i cattivi attivi degli intermediari finanziari, se non vengono sanati; piani massicci di sostegno pubblico possono risultare apparentemente efficaci nel breve ma i loro costi, sottovalutati nel lungo termine, appiattiscono poi la crescita; gli squilibri finanziari privati e pubblici vanno messi a regime in ferrei piani anche pluriennali, ma senza credere che lo stellone possa salvare dai loro oneri.
Per il caso italiano, che vede banche meno scassate ma anche – per fortuna – indisponibilità di massicci deficit pubblici aggiuntivi, consiglio questo paper di due economisti tedeschi, che in realtà è scritto avendo in mente una svolta all’americana del loro paese. Illustra infatti il diverso effetto che un’elevata apertura al commercio estero comporta sui tassi di crescita in Paesi diversi, a seconda che essi siano caratterizzati da un elevato potere d’acquisto oppure no. Chi ce l’ha, sopporta prezzi mediamente più elevati in presenza di una forte concentrazione delle catene distributive: e ciò comporta maggior crescita nazionale e più estesa possibilità di cavarsela a parità di reddito disponibile con minori integrazioni monetarie e in servizi da parte del welfare. L’Italia è esattamente l’esempio di Paese che non può contare su un simile effetto: dunque da noi anche il perdurante successo dell’export manifatturiero – da augurarsi e da incentivare, naturalmente – senza riforme di produttività non basta ad accrescere il reddito procapite in maniera da sanare il gap accumulato dagli anni Novanta ad oggi, e ci schiaccia comunque su una domanda di welfare a oneri crescenti.

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Compiti 2010-2: una diga alla rivincita redistributiva /2010/01/07/compiti-2010-2-una-diga-alla-rivincita-redistributiva/ /2010/01/07/compiti-2010-2-una-diga-alla-rivincita-redistributiva/#comments Thu, 07 Jan 2010 19:08:50 +0000 Oscar Giannino /?p=4645 Non è solo nella teoria del mercato e del regolatore pubblico, che occorre porre nuovi paletti tentando di martellarli ben in profondità nella sabbia che oggi c’è sotto i nostri piedi. Serve una visione più ampia. Essere cioè disposti a battersi con grande compostezza ma cocciuta determinazione contro l’altro mito che della rivincita del regolatore pubblico è in realtà padre e incubatore da sempre: la priorità della redistribuzione – del reddito, dei beni e dei servizi – rispetto alla loro offerta secondo princìpi di libertà e vantaggio privato.  
Da sempre la trappola che l’apparente ragionevolezza oppone all’intransigente opposizione al mito redistributivo consiste nella seducente formula del “giusto mezzo”. La più affabile e misurata ragionevolezza oppone nel dibattito pubblico la propria terza via come un’alternativa molto più utile ed efficace di quelli che vengono spesso presentati come due opposti estremismi, la redistribuzione collettivista spinta all’eccesso, e l’utile dei privati spinto al parossismo. Quest’ultimo diventa sinonimo di avidità personale, indifferenza ai destini individuali e sociali di chi ha meno, darwinismo pubblico, legge della giungla basata sul principio della mera sopravvivenza del più forte.
Per opporsi con successo a tale paralogismo occorre apparire nel dibattito pubblico altrettanto se non più misurati nel sostegno della nostra tesi, ma senza mai cedere di un millimetro sul punto di fondo: aprire ciò che appare un ragionevole spiraglio alla “giusta redistribuzione” significa inevitabilmente cedere all’idea che spetti solo alla politica, allo Stato e cioè ai soggetti che protempore lo “occupano” in nome dei propri interessi come ci insegna Public Choice, fissare di volta i volta i labili confini verso l’alto e verso il basso entro i quali l’obiettivo e gli strumenti redistributivi distorcono, comprimono e snaturano capacità, utilità e propensione alla libera offerta di beni e servizi in nome del vantaggio privato. Utili argomentazioni a tal fine in questo paper di Alberto Alesina, Guido Cozzi e Noemi Mantovan, nel quale si mostra come Paesi coeteris paribus possano conoscere sentieri di crescita assai diversi nel caso in cui prevalgano per lungo periodo ideologie redistributive rispetto a quelle del vantaggio privato.

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La sfida dei servizi per crescere di più /2009/11/24/la-sfida-dei-servizi-per-crescere-di-piu/ /2009/11/24/la-sfida-dei-servizi-per-crescere-di-piu/#comments Tue, 24 Nov 2009 20:42:53 +0000 Oscar Giannino /?p=3911 La sfida per l’Italia è riprendere a crescere senza scassare la finanza pubblica. Ora che il commercio internazionale ha ripreso lentamente a salire, altri Paesi stanno cambiando marcia. Per procedere più spediti sulla strada della ripresa. In questa nuova fase, dobbiamo cambiare marcia anche noi, ha detto oggi Emma Marcegaglia agli industriali di Roma. Ma la sfida è di non aumentare il debito pubblico. Solo tassi di crescita più elevati possono nel medio periodo stabilizzare il debito pubblico, tornare nel tempo a farlo decrescere, rendere meglio sostenibili i conti previdenziali, altrimenti nuovamente destinati ad aggravarsi. Ma come? Crescere di più, dopo un decennio di aumento del Pil della metà o di un terzo addirittura rispetto ai nostri concorrenti, significa rinunciare al fatalismo, smettere di rinfacciarsi l’un l’altro le ragioni per le tante occasioni mancate del passato. Altrimenti, altre occasioni verranno perdute oggi e domani. In questo anno giustamente ci si è concentrati soprattutto sulle difficoltà del cuore pulsante della nostra industria, il manifatturiero che esporta. Aveva preso ad accrescere il valore aggiunto medio per unità esportata, dopo le ristrutturazioni seguite all’ingresso nell’euro, e al venir meno delle svalutazioni competitive. La crisi del commercio mondiale l’ha duramente colpito. Ed è soprattutto pensando al manifatturiero, che sono state assunte alcune misure come la moratoria dei debiti bancari o il fondo di garanzia per le Pmi. Altre Tremonti ne ha annunciate – chissà per quando, sono state richieste otto mesi fa – come un fondo speciale per la patrimonializzazione e l’aggregazione.

Ma all’assemblea di Roma giustamente l’attenzione si è spostata su un altro capitolo, indispensabile a dimostrare come si debba e si possa crescere di più, senza compromettere la finanza pubblica. È il capitolo che riguarda i servizi. Come ha detto il presidente degli industriali romani, l’economia della Capitale può conseguire un vero balzo in avanti, puntando sulle tecnologie della comunicazione e sulla banda larga, investendo privatamente grazie a incentivi in connettività, risparmio energetico, infrastrutture, mobilità nazionale e internazionale, cultura. Vedere per credere, naturalmente. La sfida per un terziario più avanzato e produttivo non riguarda però solo Roma. È nazionale. Guardiamo i numeri, per esempio quelli elaborati dall’ottimo Mariano Bella responsabile nazionale dell’ufficio studi di Confcommercio. I servizi nel 2008 hanno rappresentato il 71% del totale del valore aggiunto nazionale. Per la prima volta da sempre, nel 2008 la spesa per servizi ha superato il 50% del totale dei consumi nel nostro Paese. E l’Italia non esporta solo la manifattura che tanto ci sta a cuore. Esporta anche servizi. Per 3,8% punti di Pil nel 2000, ma la quota è scesa al 3,3% nel 2008. La Spagna ci ha superato, con il 3,8% di Pil nel 2008.

Facciamo allora un solo esempio, di che cosa potrebbe apportare alla crescita italiana un deciso salto in avanti nel settore dei servizi. Il saldo commerciale nel settore turistico dell’Italia nel 2008 valeva 15,2 miliardi di euro, poco più di un punto di Pil. Purtroppo, era stazionario rispetto a 10 anni prima, quando ne valeva già 15. Ma se solo portassimo il nostro saldo turistico a quello austriaco, che vale il 2,4% del Pil, il prodotto nazionale italiano crescerebbe di 24 miliardi di euro. Se poi volessimo raggiungere la performance del turismo in Grecia, il Pil italiano crescerebbe per questa sola ragione a parità di condizioni del 2,8%. Di ben 44 miliardi di euro in più!

Naturalmente, non sono obiettivi che si realizzino con la bacchetta magica. Ma non servono miliardi pubblici. Bensì decisi interventi volti ad agevolare la crescita dimensionale e organizzativa, tecnologica e logistica delle troppe microimprese che abbassano la produttività nel terziario italiano, che rendono inferiore l’offerta alberghiera e turistica, dell’accoglienza e della ristorazione nel nostro Paese, facendone soffrire il commercio rispetto agli altri concorrenti sui quali anno dopo anno perdiamo posizioni, Spagna e Francia. È un discorso che vale per l’intero comparto dei servizi. Non solo per quelli privati, ma innanzitutto per quelli ancor oggi gestiti da migliaia di società pubbliche, a livelli troppo spesso bassissimi di efficienza e produttività. Il recente decreto Ronchi è stato un modesto passo avanti. Con le contraddizioni di tempi lunghi e procedure contraddittorie, anche nell’acqua che pure ha fatto urlare tanti – a torto – alla privatizzazione. Ma le resistenze sono forti. Centinaia di società pubbliche locali restano con piante organiche e ambiti di servizio incompatibili con l’efficienza, prive di economie di scala necessarie all’economicità di gestione. Avvicinare i servizi all’industria e l’industria ai servizi, in una comune logica di produttività crescente e liberalizzazione, significa inevitabilmente disincrostare anche molte rendite di posizione. Ma non si cresce di sola industria. E tanto meno di denaro pubblico.

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Italia meno disoccupata. Oro o princisbecco? /2009/11/07/italia-meno-disoccupata-oro-o-princisbecco/ /2009/11/07/italia-meno-disoccupata-oro-o-princisbecco/#comments Sat, 07 Nov 2009 08:48:37 +0000 Oscar Giannino /?p=3633 L’Economist affronta in questo e questo articolo il tema di che cosa l’America e l’Europa abbiano reciprocamente da imparare, considerando i rispettivi tassi di disoccupazione. Effettivamente, il tasso medio dell’euroarea è poco sotto il 10%, quello USA l’ha appena superato. Ma ciò che offre argomento su cui riflettere è che in Europa Germania e Italia, i due paesi più manifatturieri ed esportatori che proprio per questo perdono tra i 6 e i 5 punti di Pil dacché la crisi è iniziata, sono tra quelli coi più bassi tassi di disoccupazione. C’è di che fare trionfalismo? Immaginavo di leggerne, oggi, sui media italiani che lo accostano all’annuncio che abbiamo superato come sesto paese al mondo il Regno Unito, e all’indicatore anticipatore Ocse – uno strumento del tutto inservibile, dal punto di vista quantitativo, che da qualche mese è però la delizia della politica italiana – che torna a dire che l’Italia uscirà dalla crisi meglio di tanti altri. Così è, infatti, la retorica impazza. Secondo me, di gonfiare le gote non è il caso. Di riflettere, sì. 

Germania e Francia sono tra i paesi europei che, davanti alla crisi, hanno varato praticamente l’intero spettro di politiche attive pubbliche di sostegno all’occupazione rilevate dall’Ocse. Lavoratori che diventando a tempo determinato o parziale mantengono integrazione al reddito pari a quello conseguito quando erano a tempo pieno e-o indeterminato, sgravi fortissimi o addirittura sospensioni del pagamento dei contributi sui lavoratori che entrano in programmi di ristrutturazione differita rispetto a quella richiesta dall’azienda da cui dipendono, e via proseguendo.

L’Italia, al contrario, non ha fatto nulla di tutto questo. Anche l’Economist giustamente rileva che siamo tra i grandi paesi europei quello i cui strumenti di integrazione del reddito ai disoccupati sono quelli meno lontani dal modello americano. E questo è un bene. Ciò che rende meno alta la disoccupazione aggiuntiva nell’unità di tempo, nel nostro caso, è il molto maggior ritardo delle imprese a ristrutturare, rispetto alla decisione assoluta messa in mostra da quelle americane, dove la produttività nel terzo trimestre, a fronte del record di disoccupati da oltre 25 anni, è salita stellarmente di oltre il 9%.

In sintesi. I grandi Paesi europei con meno disoccupati stanno accumulando più deficit pubblico per programmi straordinari di welfare ai senza lavoro, ma contano su una domanda interna come contributo alla ripresa del Pil quasi dovunque maggiore che da noi. Noi conteniamo invece i disoccupati perché rallentiamo più di altri la razionalizzazione dei fattori produttivi necessaria a ripartire con forza da perimetri e volumi più ristretti, ma con maggiore innovazione. La minor disoccupazione odierna da noi sarà una più bassa partecipazione al mercato del lavoro domani – è stato così negli anni alle nostre spalle, in cui grazie a maggior flessibilità abbiamo innalzato di poco il tasso di occupazione giovanile, e di pochissimo quello femminile – per gli altri un denominatore più elevato che renderà meno oneroso il debito pubblico, nel rapporto tra questo e il prodotto nazionale. Aspettiamo dunque, prima di vani trionfalismi. È stato positivo gestire in deroga l’estensione degli ammortizzatori, preferita dal governo al vano torneo che si sarebbe scatenato in parlamento e sui media con l’opposizione, in caso di loro riforma strutturale. Ma bisognerebbe avere il fegato di alcune rotture di continuità proprio oggi, sulla tasse e sulle regole del mercato del lavoro e delle pensioni, per accelerare la crescita e renderla meglio sostenibile. Alora sì, avremmo imparato qualcosa dagli errori del passato e lo avremmo messo a frutto.

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Auto di Stato, la BCE silenziata /2009/10/15/auto-di-stato-la-bce-silenziata/ /2009/10/15/auto-di-stato-la-bce-silenziata/#comments Thu, 15 Oct 2009 16:47:01 +0000 Oscar Giannino /?p=3295 Nel Bollettino mensile reso noto stamane la BCE boccia senza appello gli aiuti di Stato all’auto. Non c’è un solo giornale italiano che lo riporti nel suo sito. Repubblica ha tenuto la notizia per un paio d’ore, poi l’ha retrocessa.  Inutile chiedersi: come mai? Utile invece interrogare chi ci legge, e che magari è giustamente pronto a strapparsi la camicia in nome della presunta libertà di stampa in materia di politica italiana. Ma invece all’auto-condizionamento rigoroso e assoluto in materia economico-finanziaria – laddove “auto” va letto in chiave polisemica, come fenomeno spontaneo e come mezzo di trasporto – com’è che nessuno fa mai caso? Bisogna dire le cose come stanno: quando si tratta di Fiat e di tutti i direttori che le devono carriera e onori nei media, l’ipocrisia non può che regnar sovrana. Berlusconi se lo sogna, di avere i direttori ai piedi che ha avuto sempre Torino, per il semplice fatto che lui al Corriere e alla Stampa non ha mai – giustissimamente – fatto promuovere o nominato neanche un portiere. Eppure, ripeto, la BCE ha parlato chiaro. Le misure per l’auto non sono solo distorsive in termini di concorrenza: quel che è ancora peggio, deprimono la crescita.

Gli incentivi per l’acquisto di auto in Europa - taglio e incollo dal bollettino - avranno un impatto positivo contenuto sull’attività nell’area dell’euro nel corso del 2009 ed è possibile che diventi negativo nel 2010… in generale dati gli effetti distorsivi generati, tali misure andrebbero attuate con cautela in quanto potrebbero ostacolare l’efficiente funzionamento di una libera economia di mercato e ritardare i necessari cambiamenti strutturali, compromettendo così le prospettive di reddito e occupazione complessive nel più lungo termine.

Certo, la BCE riconosce che gli incentivi auto hanno avuto un impatto al rialzo sui consumi privati con un effetto pronunciato in paesi come Italia, Germania, Francia e Austria. La stima di costo per le finanze pubbliche di questi programmi di rottamazione delle autovetture dovrebbe ammontare a meno dello 0,1 per cento del Pil nel complesso dell’area nel periodo 2009-2010.

Le misure - continua il Bollettino BCE - sembrano aver avuto successo in quanto hanno sostenuto la domanda di breve periodo di autovetture nuove. Ma i programmi di rottamazione delle autovetture hanno anche effetti avversi immediati e futuri sull’attività. Innanzitutto è stata frenata la domanda di altri acquisti importanti (come nuovi articoli di arredamento, ma anche riparazioni di automobili) a causa sia dell’impatto diretto dell’acquisto di autovetture sui bilanci delle famiglie, sia dell’impatto distorsivo sui prezzi relativi. Poiché gli acquisti di nuove autovetture hanno scalzato altri acquisti importanti, l’impatto delle misure sui consumi privati e sull’attività economica complessiva è inferiore a quello diretto sulle vendite di autovetture.

I politici non hanno niente da dire? Certo è ancor più difficile che lo facciano, se lettori di giornali e ascoltatori di tv e radio neanche lo sanno, che cosa scrive la BCE.

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G5 batte G7, nel mondo nuovo /2009/10/08/g5-batte-g7-nel-mondo-nuovo/ /2009/10/08/g5-batte-g7-nel-mondo-nuovo/#comments Thu, 08 Oct 2009 01:32:54 +0000 Oscar Giannino /?p=3165 Gli andamenti dei Paesi del vecchio mondo avanzato – il G7 – divergono sempre più sostanzialmente da quelli dei Paesi leader – il G5 composto da Brasile, India, Cina, Messico e Sud Africa — del blocco precedentemente noto come Brics, che nel frattempo ha perso la Russia, troppo instabile e troppo dipendente dal solo andamento del prezzo energetico. La divergenza comporta conseguenze sulla exit strategy, ma non solo su di essa.

Confrontate l’andamento del Pil nel G7 , che varia dal meno 7% del Giappone al meno 3% francese, a quello del G5, che va dal + 7,9% cinese e dal +6% indiano al -1% brasiliano (il Messico è l’eccezione negativa). Confrontate le vendite al dettaglio nella domanda interna del G7 - con l’eccezione britannica e francese, tutte abbondantemente a segno negativo, con gli USA in risalita solo ora verso un -6% da uno spaventoso e prolungato -10% - al tumultuoso andamento delle vendite di auto nel G5, con la Cina che è riuscita a toccare persino un +60% da aprile ad oggi. È evidente che le politiche monetarie e fiscali di sostegno alla domanda interna – di segno sostanzialmente omologo nel G7 e G5 – hanno effetti assai più apprezzabili nei Paesi emergenti che in quelli già sviluppati. Keynes è residualmente più efficace solo nei Paesi poveri, come l’Europa e gli USA dovrebbero aver imparato a proprie spese negli anni Settanta del secolo scorso, anche se oggi l’hanno inopinatamente dimenticato.  Come si legge anche dei diversi andamenti dell’ inflazione, quelli modestissimi e sostanzialmente deflattivi del G7, e quelli invece “robusti” del G5, con l’eccezione veramente impressionante della Cina.

La conclusione è duplice. Da una parte, l’inversione dei tassi a risalire appare assai più prossima nel 2010 per il G5, di quanto non si sposti ormai tendenzialmente verso il 2011 per il G7. Dall’altra, le tensioni monetarie internazionali sul dollaro sono fatalmente destinate a salire, in vista di un diverso ordine monetario mondiale.

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Crescita, tre punti su cui riflettere in Italia /2009/10/03/crescita-tre-punti-su-cui-riflettere-in-italia/ /2009/10/03/crescita-tre-punti-su-cui-riflettere-in-italia/#comments Sat, 03 Oct 2009 19:12:44 +0000 Oscar Giannino /?p=3104 La delusione di venerdì sui posti di lavoro persi negli Stati Uniti a settembre – quasi 100 mila più del previsto – si è riverberata su tutti i mercati. L’Ecofin tenutosi a Stoccolma si è chiuso con un comunicato assai più prudente, rispetto all’ottimismo che ispirava l’ampio documento approvato dal G20 a Pittsburgh pochi giorni prima. In America, tutti hanno preso a interrogarsi sull’amara realtà che sembra prospettarsi per un futuro che sembra abbracciar tutto l’anno a venire: il ritorno del segno positivo sull’andamento trimestrale del PIL, ma con una disoccupazione che continua a crescere. Sono 8 milioni, i posti di lavoro persi negli USA dacché la recessione è tecnicamente cominciata (qui il diagramma a paragone delle altre crisi USA, e la curva da tener presente è quella segmentata rossa, peggiore di quella coerente ai dati attualmente stimati, perchè calcolata sulla base dell’attesa revisione annuale dei parametri statistici di rilevamento, reviusione che avviene ogni anno a febbraio) . E purtroppo anche da noi, in Italia e in molti Paesi europei, cresce la probabilità che il futuro prossimo sia analogo. Come bisogna reagire? Che cosa può fare l’Italia, poiché in Europa nell’attuale crisi ogni Paese deve sostanzialmente far da sé e dunque non a tutti è consentita una strategia analoga, in ragione del diverso peso esercitato dal debito pubblico ereditato dal passato? Di sicuro servono a poco, le polemiche politiche, gli scontri sociali, le tensioni tra banche e imprese. Tre indicatori aiutano invece a riflettere meglio, per capire che cosa sia più opportuno fare.La prima cifra è 50%. E’ il livello oltre il quale già oggi sta la spesa pubblica corrente, nel nostro Paese. In tali condizioni, occorre ricordare una regola aurea. Il cosiddetto moltiplicatore keynesiano della spesa pubblica – cioè il prodotto aggiuntivo realizzato iniettando nel sistema domanda pubblica, per sostenere domanda e offerta private quando c’è crisi – tende a decrescere quanto più un Paese ha alto debito pubblico, quanto più parte da livelli di spesa pubblica già elevati, e quanto più è aperto all’estero invece che essere a economia chiusa (qui un ottimo paper che dà evidenza alla tesi, sulla divergenza del moltiplicatore di spesa pubblica a seconda delle condizioni dei Paesi in cui si applica). Noi siamo esattamente in queste condizioni. Della spesa, si è detto. Il debito pubblico andrà dal 107 a oltre il 110% del Pil. Il 67% della nostra crescita viene dalle esportazioni, non dalla domanda interna. Conclusione: è assai sconsigliabile credere di uscire più rapidamente dalla crisi con massicce iniezioni di deficit pubblico aggiuntivo.

La seconda  cifra è 45,8%. E’ il livello al quale secondo l’Istat è giunta attualmente la pressione fiscale in Italia. Sta crescendo perché il denominatore, cioè il Pil, si contrae quest’anno di cinque punti, mentre la spesa pubblica corrente è in espansione. In queste condizioni, c’è un’altra regola aurea da non dimenticare. Quanto più un Paese parte da pressione fiscale già elevata, tanto più famiglie e imprese  tendono a diminuire l’efficacia di spesa pubblica aggiuntiva anticrisi. Perché si fanno subito il conto che le tasse saliranno ulteriormente, e dunque è meglio risparmiare invece che consumare o investire. Di conseguenza, quando il fisco è già tanto pesante, se si pensa a deficit aggiuntivo nel breve termine è meglio tagliare le tasse in maniera incisiva piuttosto che aumentare la spesa pubblica. Cercando di mirare bene, dove fare i tagli. E’ la strategia che sta seguendo la Francia, tagliando l’equivalente transalpino dell’Irap di quasi 11 miliardi di euro. Parigi introduce anche una carbon tax che peserà 2 miliardi, e aggrava la pressione sulle grandi imprese pubbliche “di rete” che fanno grandi utili, nell’energia, telecomunicazioni e ferrovie. Ma le imprese private tireranno nel 2010 un bel respiro di sollievo. Anche in Germania, dove insieme alla Merkel il vincitore alle elezioni sono i liberali antitasse di Westerwelle, le imposte scenderanno. In Italia, per il governo si tratta di pensarci seriamente. Occorrerebbe aiutare insieme sia i lavoratori, sia le imprese. Se entro fine anno il governo destinerà 5-7 miliardi – tra scudo fiscale e proventi della lotta all’evasione – a sgravi ai soli redditi più bassi, allora per le imprese occorre pensare ad altro.

La terza cifra è: 6 miliardi. Sono l’equivalente dei Tremonti bonds che erano stati prenotati, ma non sono stati sottoscritti da Banca Intesa e Unicredit. La ragione è che erano troppo cari, col loro 7-8% di interessi. Dimenticando che in altri grandi Paesi le banche che hanno avuto aiuti pubblici nel capitale li stanno restituendo, come in America, pagando anche il 17% senza fiatare: grate allo Stato per aver impedito l’Armageddon, e patrimonalizzate oggi assai meglio di quanto non sano le banche italiane. Le polemiche, tuttavia, lasciano il tempo che trovano. La questione è un’altra. Perché non destinare quei 6 miliardi, e parte aggiuntiva dell’offerta fino a oltre 15 miliardi che era stata riservata ai Tre-bonds bancari, a ricapitalizzare direttamente le imprese, visto che negli altri settori non si potrà ricorrere per tutti agli incentivi diretti come per l’auto?  Tecnicamente la questione è delicata, poiché le istruttorie devono essere fatte con un know how che le strutture pubbliche non hanno, a  differenza delle banche. Ma lo spazio per un’intervento di questo tipo c’è tutto. E c’è anche chi ha iniziato a pensarci.

L’essenziale è non smarrire la rotta, non cadere nella trappola del pessimismo, non farsi deviare dalle risse in cui la politica perde tempo. La crisi economica  resta seria. Ma l’Italia ce la può fare meglio, se si concentra su pochi obiettivi prioritari unendo tutte le sue forze produttive.

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Il falso problema del Pil: creatività keynesista /2009/09/14/il-falso-problema-del-pil-creativita-keynesista/ /2009/09/14/il-falso-problema-del-pil-creativita-keynesista/#comments Mon, 14 Sep 2009 19:04:13 +0000 Oscar Giannino /?p=2705 Oggi mi trovo d’accordo con Joe Stglitz quando dice che tra banca e finanza stiamo messi quasi peggio di un anno fa, visto che considerando gli asset attuali di Bank of America e Citigroup c’è da farsi venire i brividi, e non serve la crescita in Borsa propulsa dalla FED a farseli passare. Disaccordo pieno invece per la solita solfa anti-Pil, rilanciata da Stiglitz insieme a Fitoussi, Amartya Sen, e la pomposa commissione per la miglior misurazione del progresso socio-economica istituita da quella delusione crescente e permanente che si è rivelato sin qui il presidente Sarkozy (taglio delle imposte alle imprese escluso, naturalmente). Da anni e anni, i keynesisti predicano che il Pil è roba superata, troppo quantitativa, insopportabilmente premiante gli Stati Uniti e i Paesi mercatisti, mentre invece a contare dovrebbero essere indicatori di armonia e benessere sociale, minor dispersione dei redditi, tutela ambientale, trattamento dei malati e via almanaccando. Naturalmente, l’Europa finirebbe in testa o quasi, ragionando così. Perché il PIB – il prodotto interno di benessere – inevitabilmente alzerebbe la media di chi ha più Stato nell’economia. Da liberista, faccio presente che anche nel PIL attuale tanto odiato lo Stato è purtroppo iperpremiato, visto che più sono  numerosi i dipendenti pubblici e più sono pagati, più il PIL nominalmente cresce, anche se tutto ciò si risolve quasi sempre in crowding out del risparmio privato e nell’abbassamento generale di produttività. Ma di qui ad adottare un criterio per il quale spesa pubblica=civiltà, posso solo sperare che la comunità degli statistici resista con la forza e le barricate.

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Otto ragioni per cui la spesa pubblica fa male /2009/08/28/otto-ragioni-per-cui-la-spesa-pubblica-fa-male/ /2009/08/28/otto-ragioni-per-cui-la-spesa-pubblica-fa-male/#comments Fri, 28 Aug 2009 06:29:38 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2384

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