CHICAGO BLOG » costo del lavoro http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 L’auto europea drogata e Fiat /2010/11/17/l%e2%80%99auto-europea-drogata-e-fiat/ /2010/11/17/l%e2%80%99auto-europea-drogata-e-fiat/#comments Wed, 17 Nov 2010 00:51:09 +0000 Andrea Giuricin /?p=7623 Sono arrivati i dati dell’andamento del mercato auto in Europa e sono tragici. I sussidi dei vari Governi europei dati nel 2009 hanno drogato il mercato, con la sola conseguenza di anticipare la domanda e di provocare una caduta nel 2010. Le vendite nel mese di ottobre sono scese a poco più di un milione di vetture in tutta l’Unione Europea, con una contrazione di oltre il 16 per cento rispetto allo stesso mese del 2009. Il livello è più basso anche di quello registrato nel 2008, mese di crisi globale, dopo la caduta di Lehman Brothers. Sussidiare il mercato dell’auto con gli incentivi si è rivelata non solo una politica inefficace, ma soprattutto dannosa. Nel settore auto motive servono interventi strutturali, non le solite politiche di breve termine. La dimostrazione arriva non solo dall’Italia, dove la caduta nel mese di ottobre è stata del 28,8 per cento, con una forte crisi di Fiat, ma soprattutto dalla Germania guidata dalla Cancelliera Angela Merkel.

Nel corso del 2009, anno nel quale si sono svolte le elezioni (27 di settembre), la Germania ha attuato una politica d’incentivi all’acquisto molto aggressiva. I sussidi sono terminati appena concluse le elezioni e la conseguenza è stata quella di una caduta del mercato. Dall’inizio del 2010 le vendite sono calate del 26,8 per cento.

La crisi post-incentivi o da “mercato drogato” colpisce maggiormente quelle aziende che avevano beneficiato dei sussidi.

Le case automobilistiche concentrate sul segmento delle “piccole-medie” erano state quelle che più avevano incrementato le vendite perché proprio su questo segmento erano andati i maggiori incentivi. Fiat era una di queste.

L’azienda torinese, infatti, ha perso il 33 per cento a livello europeo nel mese di ottobre e la caduta delle immatricolazioni è stata di quasi il 17 per cento da inizio anno, a fronte della caduta del 5,5 per cento del mercato.

Se la Germania va male nel settore vendite, lo stesso non accade a livello produttivo, dove continua a correre la produzione. Come è possibile?

Nel paese teutonico sono state prodotte quasi il doppio delle auto che sono state vendute lo scorso anno. Il vantaggio tedesco non deriva certo da un costo del lavoro basso, quanto dalla specializzazione e da un sistema che invoglia gli investimenti.

Un tasso di burocrazia molto meno elevato rispetto all’Italia, una flessibilità nei contratti di lavoro che permette maggiore efficienza e una tassazione effettiva per le imprese meno bassa (Dati World Bank 2010) aiutano lo sviluppo di impianti di produzione in Germania.

Un altro fattore chiave è il mercato. Le aziende producono molto spesso laddove vi è un mercato importante.

Perché le aziende tedesche sono andate a produrre in Cina? Per abbassare il costo del lavoro? La motivazione principale della produzione di Volkswagen in Cina è dipendente dall’importanza del mercato cinese. La casa automobilistica tedesca vende ormai in Cina il 75 per cento del numero di veicoli venduti in tutta Europa e quasi il doppio di quando ne venda in Germania.

Cosa puó imparare l’Italia e la sua classe governante?

In primo luogo che gli incentivi drogano un mercato, ma non servono a nulla nel medio-lungo periodo. Anzi aggravano la crisi.

In secondo luogo che i Governi, invece di puntare sulla solita politica dei sussidi, dovrebbe concentrarsi sui problemi reali dell’Italia.

Nessun governante non ha mai visto che l’unico produttore in Italia si chiama Fiat e che nessuna casa automobilistica estera viene nel nostro Paese?

Affrontare i problemi di un costo del lavoro elevato a causa di una tassazione esagerata, di un’eccessiva burocratizzazione, di contratti troppo poco flessibili farebbero cambiare l’Italia.

Sergio Marchionne sta combattendo sull’ultimo punto contro la Fiom, ma sugli altri punti solo il Governo può agire.

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Mercato del lavoro: l’unica gabbia è il sindacato /2009/09/22/mercato-del-lavoro-lunica-gabbia-e-il-sindacato/ /2009/09/22/mercato-del-lavoro-lunica-gabbia-e-il-sindacato/#comments Tue, 22 Sep 2009 15:22:56 +0000 Serena Sileoni /?p=2921 Pochi giorni fa, secondo quanto riportato da un comunicato ANSA del 19 settembre, Raffaele Bonanni avrebbe detto a proposito di gabbie salariali: “Non delegheremo mai a nessuno di stabilire il salario per i lavoratori, che è frutto di accordi tra noi e gli imprenditori”.
L’affermazione sembra quanto meno avvilente e indicativa di un analfabetismo delle libertà economiche individuali di cui gli italiani restano ancora preda.

Quando andiamo a comprare un bene, siamo liberi di scegliere se accettare il prezzo offerto dall’acquirente e rivolgerci eventualmente ad un altro, o dobbiamo affidarci a categorie solo astrattamente rappresentative dei nostri interessi per comprarlo?

Quello del lavoro non è forse un mercato come gli altri, in cui il bene di cui si contratta il prezzo è la prestazione del lavoratore? E allora perché altri all’infuori dell’alienante (lavoratore) e dell’acquirente (datore) dovrebbero imporne il “giusto” prezzo? Perché mai il mercato del lavoro non dovrebbe funzionare secondo la regola basilare del mercato, secondo cui il prezzo è determinato dall’incontro fra chi compra e chi acquista (e non da chi pretende di esserne rappresentante)? “Padrone” e “operaio” non sono forse entrambi nella posizione di vantare una pretesa, l’uno di prestazione del lavoro dietro compenso, l’altro, in maniera speculare, di ottenimento del lavoro previa prestazione?

Si dirà, comprensibilmente, che datore e lavoratore non vantano una pretesa identica e contraria, se non altro perché, mentre un imprenditore può sopravvivere per lo più anche senza impegnare la prestazione di un operaio, quest’ultimo non può sopravvivere a lungo nello stato di disoccupazione. Tuttavia, se il mercato non è perfetto, non sono certo gli interventi governativi e sindacali a renderlo tale. Anzi, essi producono un effetto distorcente delle condizioni di domanda e offerta. In particolare, se viene meno l’autonomo e individuale confronto tra datore e lavoratore, si possono originare aspre contrapposizioni di categoria, si creano costi aggiuntivi destinati a gravare più sul lavoratore che sul datore, si rischia di sclerotizzare il libero scambio del bene-lavoro, finendo per cristallizzarne il costo su parametri esterni alla volontà delle parti, e quindi anche in contrasto con l’interesse specifico del lavoratore.

Ancora una volta, non è il geloso mantenimento delle posizioni sindacali a garantire il lavoratore (dati gli effetti alteranti che la contrattazione e le rivendicazioni sindacali sono in grado di produrre), ma potrebbe essere lo stesso spontaneo agire dei lavoratori a poter compensare le diverse preferenze temporali tra datore e lavoratori.

Si obietterà che queste sono riflessioni meramente astratte rispetto alla dura realtà. 
Facciamo tre esempi per dimostrare il contrario, che liberamente traiamo e attualizziamo dalla Sesta serata delle Serate di Rue Saint Lazare di Gustave de Molinari, ora riproposte dalla Liberilibri con prefazione di Nicola Iannello e postfazione di Carlo Lottieri (una presentazione più esaustiva del problema  si può leggere qui).

In primo luogo, in caso di offerta di lavoro in eccesso, sono più convincenti coalizioni spontanee e private di lavoratori, maggiormente in grado di garantire adeguate forme di sostegno a disoccupati e inoccupati, in luogo di quelli che lo stesso De Molinari chiama, con una punta di ossimorica ironia, “sistemi di carità legale”. Diversamente da quanto può sembrare prima facie, questa non sembra una proposta tanto astrusa, se è vero che gli iscritti agli ordini professionali in Italia hanno sistemi di previdenza e assistenza alternativi rispetto a quelli statali, che costituiscono delle casseforti molto più stabili e garantite. E la storia, con le Società di Mutuo Soccorso, ci incoraggia a credere in questa soluzione spontanea di ammortizzatori solidaristici.

Si obietterà: «Perché mai i lavoratori dovrebbero finanziare questi ammortizzatori “privati” per i loro colleghi disoccupati? Solo l’intervento statale, che ha a cuore l’interesse pubblico, può sanare un fallimento di mercato». Tuttavia, basta un semplice calcolo matematico (che De Molinari fa pallottoliere alla mano) per evidenziare come sia nell’interesse individuale dei lavoratori occupati sostenere una fetta di disoccupati che si estromette dal mercato in cambio di un sostegno privato, eliminando così quell’eccesso di offerta di lavoro che porta ad abbassare il valore del lavoro, e dunque il salario.

In secondo luogo, De Molinari invita a una maggiore flessibilità nella ricerca “spaziale” del posto di lavoro.

Anche qui si replicherà, con Adam Smith: «L’esperienza sembra mostrarci che un uomo è, tra tutti i bagagli, il più difficile da trasportare».

Tuttavia, a ben vedere, la maggior parte dei costi che l’uomo deve sopportare per spostarsi è data dalla regolamentazione (e dunque di nuovo dallo Stato) sulla circolazione: permessi di soggiorno, passaporti, licenze abitative, oneri per i passaggi di proprietà, etc. Certo, si tratta di una regolazione che risponde ad altre esigenze (come quelle di sicurezza, ad esempio) ma una semplificazione di queste restrizioni legali alla libertà di movimento, come Schengen ha dimostrato, è un sicuro volano dell’economia, soprattutto oggi, quando le condizioni e i tempi di viaggio sono certamente migliori rispetto al Settecento di Adam Smith e il sacrificio affettivo dell’allontanamento dai propri cari diviene quindi più facilmente superabile.

In terzo luogo, anche quelle che possono essere considerate un ulteriore fallimento del mercato, ovvero le asimmetrie informative, possono indubbiamente essere rimosse attraverso un ordine spontaneo, che a sua volta produce occupazione, come l’introduzione delle agenzie di collocamento in competizione tra loro ha dimostrato anche in Italia.

Quella testarda convinzione per cui, in condizioni di libero mercato, alle prestazioni del lavoratore non corrisponderebbe un riconoscimento economico adeguato, a causa di una sorta di tirannia dell’imprenditore-capitalista, sembra davvero un retaggio di cui liberarsi, per il bene dei lavoratori stessi.

La corretta retribuzione del lavoro non è una questione né di contratto nazionale, né di contratto integrativo aziendale, né tantomeno di gabbie salariali, ma di spontaneo incontro tra la domanda e l’offerta.

Questa vorremmo che fosse la semplice considerazione da cui partire per ogni dibattito sul mercato del lavoro.

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Produttività Usa a manetta: l’esatto opposto che da noi, recessione comunque /2009/08/11/produttivita-usa-a-manetta-lesatto-opposto-che-da-noi-recessione-comunque/ /2009/08/11/produttivita-usa-a-manetta-lesatto-opposto-che-da-noi-recessione-comunque/#comments Tue, 11 Aug 2009 17:38:08 +0000 Oscar Giannino /?p=2012 È assolutamente ovvio che i listini americani oggi non abbiano particolarmente brillato, dopo i dati preliminari sulla produttività americana nel secondo trimestre rilasciati oggi dal Dipartimento del Lavoro. Eppure sono numeri, in apparenza, tali da stappare champagne. Cerchiamo allora di tradurli, visto che confermano in pieno – purtroppo – quanto stiamo scrivendo su questo blog da settimane.

Nel secondo trimestre la produttività in Usa ha segnato un aumento del 6,4%, ben maggiore delle attese degli analisti che si posizionavano su una forbice tra il 5,3% e il 5,5%. È il rialzo più significativo dal terzo trimestre 2003. Ma attenzione, il primo fattore da tenere in considerazione - a conferma di quanto osservato da Seminerio sulle statistiche Usa –  è che insieme al dato preliminare sul secondo quarter è stato energicamente rivisto al ribasso il dato del primo trimestre, che passa da un +1,6% a un modestissimo +0,3%. In concomitanza al balzo di produttività, si registra nel secondo trimestre un calo drastico del costo del lavoro per unità oraria:  è sceso del 5,8%, quasi triplicando le attese degli analisti, il calo più forte dal secondo trimestre del 2000. E anche qui è stato rivisto al ribasso il dato del primo trimestre: non vi sarebbe stato affatto un aumento del 3%,  ma una flessione pari al 2,7%. Ecco spiegate, come vi avevo annunciato, le ottime trimestrali delle società USA: le aziende americane stanno facendo sanamente ed esattamente il contrario di quel che si ritiene opportuno qui da noi in Italia  e in Europa, cioè stanno espellendo con la massima energia forza lavoro, pagandola assai meno di prima. In questo fanno bene il loro duro mestiere, che è di adeguarsi in tempi rapidi alle mutate condizioni del mercato per cercare dimettere al riparo il più possibile del proprio conto economico. Ma perché tutto ciò comunque concorra ad una severa recessione invece che alla sua fine, aiuta a capirlo la lettura di questo articolo semiserio sul Washington Times, nel quale trovate in forma divulgativa considerazioni del tutto analoghe a quelle che giorni fa abbiamo dedotto dal recente report di Comstock Partners. Se la produttività sale per severa contrazione della base produttiva e creando frotte di disoccupati cioè diminuendo il reddito disponibile delle famiglie; se questo a propria volta deve poi energicamente contrarsi anche per riequilibrare i livelli troppo alti di debito toccati in precedenza; e se in più il debito pubblico esplode spiazzando il risparmio privato, allora gli investimenti per tornare ad estendere la produzione mancheranno tanto più, quanto più bassa sarà prevedibile la base dei consumi conseguente. Risultato: recessione secca, amici miei. Chissà se i listini lo capiranno, e soprattutto i banchieri centrali che generosamente li sostengono.

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