CHICAGO BLOG » corruzione http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Il dubbio di Gubbio, la ramanzina di Cortina, e i conti di Tremonti /2010/09/19/il-dubbio-di-gubbio-la-ramanzina-di-cortina-e-i-conti-di-tremonti/ /2010/09/19/il-dubbio-di-gubbio-la-ramanzina-di-cortina-e-i-conti-di-tremonti/#comments Sun, 19 Sep 2010 13:43:13 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7084 Dopo il dubbio di Gubbio sullo spezzatino dell’Enel, la ramanzina di cortina su eolico e nucleare: che il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, stia facendo i conti con l’energia? Se è così, ha probabilmente bisogno di un ripasso. Qui la prima puntata. Questa è la seconda.

Durante il suo intervento alpino, il ministro ha affrontato due questioni legate all’organizzazione del nostro mercato elettrico. Nel primo passaggio, ha espresso una dura condanna nei confronti dell’energia eolica; nel secondo, ha spiegato perché senza il nucleare siamo fottuti. In entrambi i casi, ha detto alcune cose giuste utilizzando gli argomenti sbagliati.

Partiamo dall’eolico. Sulla questione, a dire il vero, Tremonti era già intervenuto tempo fa, gettando l’industria del vento nello scompiglio, e oggi lo fa rilanciando l’argomento e riciclando la battuta (ma un grande maestro un giorno mi spiegò che l’importante non è cambiare battute: è cambiare pubblico). Parto dalla battuta:

Non dobbiamo credere a quelli che raccontano le balle dei mulini a vento, le balle dell’eolico, vi siete mai chiesti perchè in Italia non ci sono i mulini a vento?

La battuta esprime una semplice verità, naturalmente, cioè che l’Italia non è un paese ventoso. Si potrebbe però rispondere che il progresso tecnico consente di sfruttare con profitto anche zone meno ventose del passato, e anche questo è un po’ vero, un po’ no. Il problema è se l’energia dal vento sia (o possa essere competitiva) in assenza di sussidi. Nella maggior parte dei casi, non lo è, ma questa è un’opinione: l’unico modo per avere una risposta è lasciare alle imprese del settore la scelta se impiantare oppure no le torri eoliche, e farlo senza distorcerne gli incentivi con sussidi che, tra l’altro, sono spesso troppo alti e sempre troppo incerti (aggiungo: sono alti perché sono incerti). Comunque, Tremonti va oltre e aggiunge:

Il business dell’eolico è uno degli affari di corruzione più grandi e la quota di maggioranza francamente non appartiene a noi.

Non mi è chiaro se con “non appartiene a noi” Tremonti si riferisca all’industria italiana o alla sua parte politica (nel qual caso la cosa sarebbe quanto meno discutibile). Fatto sta che nelle parole di Tremonti si nasconde una verità fattuale – che attorno all’eolico siano volate e stiano volando tangenti – la quale, però, richiede di essere interpretata. In altri termini: la corruzione è intrinsecamente legata all’eolico? Se così fosse, dovremmo trovare episodi più o meno simili anche in altri paesi, e in particolare in quelli che più hanno investito nel vento, come Germania e Danimarca. Invece non è così. Come la mettiamo? La mettiamo che l’eolico è spesso un veicolo di corruzione non perché questa vada via col vento, ma perché i processi autorizzativi e i meccanismi burocratici per ottenere un’autorizzazione sono così opachi, così imprevedibili e così discrezionali da aprire una enorme finestra di opportunità per imprenditori disonesti, politici di facili costumi, e infiltrazioni mafiose di varia umanità. Che poi le regioni del Sud siano relativamente più ventose è una ulteriore circostanza facilitante, ma non la prima né la più importante. Se dunque Tremonti vuole affrontare seriamente la faccenda, deve fare alcune cose molto semplici: semplificare radicalmente i processi autorizzativi, scambiare questa razionalizzazione con una riduzione dei sussidi (la disponibilità ad accettare lo scambio è un indice interessante di quanto l’industria rinnovabile creda realmente nelle sue capacità), e disboscare le distorsioni esistenti. (Me ne sono occupato, senza esplicito riferimento all’eolico, anche qui). Per fare questo, non serve volare alto (anche perché poi è facile cadere): basta mettersi di buzzo buono e lavorare. Azzardo una scommessa: se mai il ministro ci provasse, dovrebbe scontrarsi con le fortissime resistenze della sua stessa base di amministratori (lo stesso accadrebbe se lo facessero gli altri, beninteso). Non è un’opzione, invece, “rottamare” l’eolico: fosse per me tutti i sussidi finirebbero domani mattina, e l’eolico dovrebbe battersi con le sue armi, ma non è possibile perché a questo siamo obbligati dalle direttive europee. Se proprio s’ha da fare, allora, tanto vale farlo bene.

Non comprendere che la corruzione non sta nell’eolico, ma nelle procedure spinge il ragionamento su una direttrice sbagliata. Infatti, Tremonti trae le sue conseguenze:

Un punto che ci penalizza è quello del nucleare: noi importiamo energia. Mentre tutti gli altri paesi stanno investendo sul nucleare noi facciamo come quelli che si nutrono mangiando caviale, non è possibile.

Ci sono  varie mine da disinnescare, in queste poche parole. Primo: non è vero che “tutti gli altri paesi stanno investendo sul nucleare“. Alcuni sì, altri no; di quelli no, la maggior parte non ci investono perché l’hanno già fatto. Inoltre, investire sul nucleare non gli impedisce di investire sulle rinnovabili, e viceversa. Non è che io mi ci trovi moltissimo a fare il difensore delle energie verdi, e non lo voglio fare, ma per sostenere una tesi corretta bisogna anzitutto partire da dati fattuali veri. Secondo: il nostro caviale non sono, tecnicamente, le rinnovabili, ma il gas. E il gas non è caviale in senso assoluto, anzi, è un combustibile straordinario di fondamentale importanza in un mix di generazione elettrica. Però ha il suo ruolo, mentre noi lo facciamo giocare in tutte le posizioni. Sicché lo impieghiamo non solo per fare le cose che sa fare bene, ma anche per quelle che sa fare meno bene e in modo molto costoso (la generazione “di base”, che altrove viene affidata a fonti con una diversa proporzione tra costi fissi e variabili quali il carbone e il nucleare). Noto per inciso che la vera competizione, se le cose stanno così, è tra nucleare e carbone (o, al limite, tra nucleare e gas): non può essere, per ragioni tecniche ed economiche, tra nucleare e rinnovabili (come abbiamo cercato di spiegare qui e come non si stanca di dire Chicco Testa).

Ultimo e più importante. Al contrario di quanto sembra sostenere Tremonti, non è vero che siamo poco competitivi perché importiamo energia: è vero che importiamo perché siamo poco competitivi. Se i prezzi elettrici in Italia fossero relativamente alti a causa delle importazioni, basterebbe smettere di importare e produrre in casa. Invece, per una molteplicità di ragioni (tra cui le più importanti sono le opposizioni contro i combustibili appropriati per la generazione di base, le inefficienze della rete e una serie di ruggini normative) il nostro costo di generazione è troppo elevato, e dunque importiamo una quota di energia dall’estero. Se le importazioni servissero a coprire deficit di capacità, la loro quota crescerebbe nelle ore di picco: invece, il grosso è di notte. Ora, è possibile che inserendo il nucleare nel nostro mix avremmo costi (non necessariamente prezzi) più competitivi, ed è possibile che questo andrebbe a scapito delle importazioni. Ma il nesso logico è il contrario di quello ipotizzato da Tremonti e, anzi, a parità di altri elementi avrebbe moltissimo senso aumentare la nostra dipendenza dall’estero e, in particolare, dalla Francia (così come avrebbe senso per la Francia, in altre ore del giorno, aumentare la dipendenza dalle importazioni dall’Italia).

Quello energetico è un settore importante e complesso. Non capire, però, che – in un contesto liberalizzato – si importa perché costa meno non tradisce una incompleta comprensione delle questioni energetiche. Tradisce o l’incompleta comprensione che due più due fa quattro, o la scelta consapevole di chiudere gli occhi di fronte a questa banale verità nel nome del populismo.

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Liberismo e legalità /2010/07/16/liberismo-e-legalita/ /2010/07/16/liberismo-e-legalita/#comments Fri, 16 Jul 2010 09:45:35 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6559 Quanto è diversa, e come e perché, la “nuova Tangentopoli” da quella vecchia? La mia sensazione è che siamo all’eterno ritorno dell’eguale, per la banale ragione che le cause profonde che hanno portato a Mani pulite sono state rimosse solo in parte. Non so quanto ci sia di vero nei diversi filoni di inchieste di cui le cronache di questi giorni sono piene: immagino che alcune arriveranno a delle condanne, altre finiranno nel nulla; qualcuno ne uscirà pulito, altri no. Penso che sospetti fondati convivano con sonore sciocchezze (suvvia, la P3, se questi progettano il golpe le “istituzioni democratiche” possono dormire sonni tranquilli, come peraltro fanno in tutte le possibili interpretazioni del termine). Penso che, per certi versi, la cosa più desolante sia il panorama tristemente zeppo di ladri di galline: almeno, i mariuoli della Prima repubblica avevano una loro dignità. Ma penso che tutte queste cose – così come il concentrarsi su specifiche indagini, per sostenere le tesi dei pm o difendere le ragioni dei sospettati – sia in fin dei conti fuorviante. Il problema vero non è che qualcuno delinqua: succederà sempre. Il problema vero è: perché la delinquenza, la corruzione, la propensione ad aggirare le leggi per aiutare gli amici degli amici (con annessa mancia) è così comunemente diffusa?

La risposta ovvia è che l’origine di tutto sta nel collateralismo tra politica e affari. Come tutte le risposte ovvie è probabilmente vera, ma come molte risposte ovvie è anche tautologica. Perché politica e affari sono collaterali? In realtà, messa così è ipocrita e populista, perché ovunque nel mondo ci sono punti di contatto tra politica e affari. La miglior formulazione che riesco a trovare della domanda è: perché in Italia politica e affari hanno così tanti punti di contatto, sovrapposizioni, linee di confine tanto sfumate? E’ chiaro che, meno punti di contatto ci sono, meno numerose e meno sostanziose sono le tentazioni. Se la tentazione fa l’uomo ladro, a parità di tutto il resto (non credo che gli italiani in generale, e perfino i politici italiani, siano antropologicamente meno onesti degli altri), meno tentazioni vuol dire meno ladri. Meno ladri – o meno zone esposte al furto – vuole anche dire più facilità nel controllo e nell’enforcement, più deterrenza, e quindi ancora meno ladri (perché cresce il costo opportunità del furto). (Uso le parole “ladri” e “furto” in senso del tutto generico e populista).

Penso a questi temi da qualche giorno, principalmente perché ho trovato molto interessante – e molto poco condibisibile – un bell’articolo di Massimo Mucchetti sul Corriere di mercoledì (qui una mia letterina al Foglio e qui la risposta di Massimo). Prima di cercare di esprimere la mia lettura delle cose, e delle cause, e dunque suggerire la riforma che io farei se fossi il Dittatore Benevolente di questo paese, vorrei attirare la vostra attenzione su due grafici. I grafici, costruiti su dati World Governance Indicators, mettono in relazione la corruzione (che ho definito come l’opposto del “controllo della corruzione” misurato dalla Banca mondiale) con la qualità della regolazione (figura di sinistra) e la rule of law (figura di destra). La scala su entrambi gli assi va da -2,5 a 2,5, dove valori più alti sono “buoni” per qualità della regolazione e rule of law, cattivi per la corruzione.

Questi due grafici mostrano una cosa molto semplice, molto intuitiva e molto indagata in letteratura (a partire almeno da qui). Cioè che i paesi regolati meglio – dove meglio è normalmente sinonimo di poco – sono meno corrotti, e i paesi con una più forte cultura della rule of law sono meno corrotti. Una correlazione non è necessariamente una causa, ma sarebbe davvero sorprendente che questa correlazione non indicasse un nesso di causalità, e ancor più sorprendente sarebbe se il nesso di causalità andasse in direzione opposta (cioè la corruzione determina la qualità della regolazione e la rule of law).

Cosa dicono questi grafici? Dicono essenzialmente quello che ho cercato di esprimere nella lettera al Foglio, e che ribadisco qui. La corruzione (e anche la cattiva regolazione, o la regolazione “catturata”, che in fondo è corruzione d’alto bordo) esiste perché il sistema legale è sufficiente confuso, o sufficientemente folle, o entrambe le cose da rendere il comportamento corruttivo “conveniente”, dati i rischi e i payoff attesi. Quindi ci sono solo due modi per ridurre la corruzione: uno è aumentare i rischi, cioè armare la mano della magistratura o di chiunque sia impegnato a controllare/intervenire contro la corruzione. Ma questo è un metodo relativamente inefficiente, perché gli stessi controllori possono essere corrotti e perché, in ogni caso, non si può pensare (e non sarebbe neppure desiderabile) avere un paio d’occhi in ogni angolo di strada.

L’altro modo è rendere più difficile la corruzione, cioè aumentarne i costi; oppure renderla meno utile, cioè abbassare i payoff. Per rendere difficile la corruzione, bisogna adottare sistemi legali (autorizzativi, fiscali, ecc.) trasparenti. Esempio banale e d’attualità: la mafia e la corruzione stanno all’eolico come le mosche al miele perché i procedimenti autorizzativi sono fottutamente opachi e discrezionali. Rendeteli lineari, e avrete meno corruzione. Per abbassare i payoff della corruzione, bisogna restringere la zona grigia in cui Stato e mercato di sovrappongono, facendo chiarezza e tagliando le unghie a politici e burocrati: io corrompo un politico o un burocrate se penso, in questo modo, di poter guadagnare di più (per esempio aggiudicandomi una gara con un’offerta più bassa o alzando i costi di ingresso sul mercato per la concorrenza). Ripeto una precisazione già fatta: uso il termine “corruzione” in modo piuttosto indifferente rispetto a cattura del regolatore, perché le due cose, sebbene diverse sotto il profilo giuridico, sono abbastanza indifferenti riguardo gli effetti economici. Se dunque il politico o il burocrate non ha il potere di aiutarmi, non ha senso che io lo corrompa. Perché c’è la mafia nell’eolico e non, che so, nei panifici (suppongo), e soprattutto perché la mafia nell’eolico è una patologia cronica e nei panifici sarebbe solo una manifestazione acuta di un problema? Perché i politici hanno molte meno possibilità di influenzare il business del pane di quanto non abbiano con quello del vento.

In senso molto brutale sto dicendo che se ci sono poche leggi/norme/regole e sono chiare, ci sono anche poche norme da violare, e la violazione è per definizione più facilmente identificabile. Sto cioè dicendo che, come le tasse per essere pagate devono essere pagabili, le leggi per essere rispettate devono essere rispettabili, e per essere rispettabili devono essere poche, chiare, e possibilmente “giuste”. Quindi, chi crede che la legalità sia un valore (senza farne un feticcio, e non voglio qui entrare nella discussione sul rispetto di leggi ingiuste), non dovrebbe invocare più regolamentazione, più sbirri e più paletti o vincoli: dovrebbe invocare meno norme, meno Stato e più mercato. Basta leggere la cronaca di questi giorni per rendersi conto che le cose stanno così, ed è proprio il proliferare delle norme l’alveo in cui la corruzione/cattura si verifica, non il suo opposto. Non il capitalismo selvaggio, ma lo statalismo impiccione.

Se le etichette hanno un senso – e raramente ce l’hanno – chi oggi crede che esista una questione morale, come esisteva nei primi anni Novanta, dovrebbe riconoscere che la questione morale è figlia dello statalismo all’italiana. Se la legalità è il fine, lo strumento non può che essere la deregulation e il liberismo.

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Chi è più corruttore, lo Stato o l’evasore? /2010/06/07/chi-e-piu-corruttore-lo-stato-o-l%e2%80%99evasore/ /2010/06/07/chi-e-piu-corruttore-lo-stato-o-l%e2%80%99evasore/#comments Mon, 07 Jun 2010 14:44:20 +0000 Oscar Giannino /?p=6218 Chi è più corruttore, lo Stato o l’evasore? Per me lo Stato. E poiché è un giudizio tagliente, abbisogna di considerazioni adeguate, per non sembrare provocazione o difesa di illegalità. Il punto è che lo Stato, in Italia, è l’illegalità.

Non c’è peggior vizio di quello che si traveste da virtù. Nel campo della morale politica, un terreno assai scivoloso che quasi sempre viene evocato dagli attori dell’azione pubblica per far guadagnare consensi alle proprie posizioni  con battute a effetto, non c’è luogo comunque più efficace che invocare “l’interesse collettivo” o l’”interesse generale”, a seconda che il predicatore sia di reminiscenze socialiste oppure un democratico radicale giacobin-roussoiano.  In entrambi i casi, l’esperienza pluridecennale mi ha insegnato a diffidare. Mi esaltavo a sentir parlare di interesse generale, quando ero giovane. Dopo un bel pezzo di tempo passato a toccar con mano e studiare ciò che in Italia in concreto si realizza, con la scusa dell’interesse generale, mi si rizzano subito le antenne quando sento le magiche parolette.

Inizio con un po’ di filosofia spicciola, perché la peggior colpa della politica non è affatto, con credono i più, quella di perseguire interessi, bensì proprio di aver abbandonato la filosofia. Più gli interessi rappresentati e perseguiti in politica sono manifesti, meglio è per tutti. Quando evocando gli  “interessi generali” si tende a dire che una cosa o l’altra è nell’interesse di tutti, l’assenza di filosofia rende la politica incapace di alcuna dialettica. E dunque si finisce dritti nella deontologia: per cui chi si oppone sta con le le forze del male. E’, anzi, il male.

Nell’Italia di oggi, il ritornello quotidiano è quello contro i famigerati evasori fiscali. I nemici della Repubblica intesa come quella d’Italia, non  quell’altra di Largo Fochetti che ogni giorno tende a sussumere la rappresentanza etica della prima. Chiunque non imbracci la tonante scomunica verso gli evasori è sospetto come gli untori nella Milano della peste. Con mio stupore, anche il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, nelle sue considerazioni annuali una settimana fa, ha imbracciato il fucile. “Sono gli evasori, i veri responsabili della macelleria sociale”, ha detto, evocando un’altra formuletta che mi fa accapponare, col suo carico di sangue rappreso da vocabolario barricadiero, più che da banchiere. Mi è bastato criticare duramente lo sciopero dei magistrati – che hanno in automatismo nell’Italia di oggi progressioni di carriera, di retribuzione superiori a quelli dei prefetti – per veder apparire sul mio Chicago-blog una bella reprimenda di signori procuratori che duramente mi incalzavano chiedendo quanto mai guadagnassi e quante tasse pagassi io, visto che osavo criticare loro. Tra la partita IVA e le due società, il 66% del reddito lordo sarà quest’anno, ho risposto. Che ne dite: può bastare, per allontanare da me il sospetto di parlare per fatto personale?

Diciamola fuori dai denti, allora, senza paura di essere considerati politicamente scorretti. Molti cittadini sono in buona fede, quando ripetono a voce spiegata che i signori evasori sono il male del secolo italiano, perché se non ci fossero loro non avremmo il debito pubblico al 118% di Pil né il deficit pubblico annuale, visto che con 100 o 120 miliardi di entrate in più – la stima corrente del mancato gettito da evasione – saremmo oggi in surplus. Ma una classe dirigente seria no, non può dirlo in buona fede. A meno di tre casi. Il primo è che condivida in realtà l’effetto vero che dispiega lo Stato oggi nella società italiana. Il secondo è che ritenga tale effetto un problema secondario, rispetto al fatto che prima tutti devono ottemperare, e solo dopo aver diritto di giudicare ciò che lo Stato è davvero. Il terzo è che in ogni caso lo Stato viene prima, rispetto alla persona.

Parto dal confutare la terza posizione, perché è appunto quella filosofica. Per ogni liberale personalista (idem se per fede è un cristiano e un cattolico), c’è un assunto invalicabile, quello che nella geometria euclidea si definirebbe un postulato. La persona con i suoi diritti naturali – vita, libertà, proprietà  – che spettano inviolabilmente in quanto persona e non in quanto garantiti da un qualsivoglia ordinamento, viene prima dello Stato. Di ogni Stato, e di qualunque statuizione del suo diritto positivo.

Intendiamoci bene: ribadire questa primazia della persona e dei suoi diritti naturali sullo Stato non significa affatto desumerne che ciascuno può comportarsi come crede, rispetto agli obblighi di legge. Compresi quelli fiscali, naturalmente. Significa solo che tre secoli di Stato moderno, dai tempi della Glorious Revolution e di Hobbes e Locke, e poi della Rivoluzione francese e di Stati etici rossi e neri nel sanguinoso Novecento, ci hanno insegnato il dovere a stare sempre sul chi vive, di fronte a ogni pretesa di “interesse generale” avanzata e affermata dallo Stato. E a sempre, quotidianamente e incessantemente,  porci il problema, se per caso i diritti inviolabili della persona non ne risultino coartati, calpestati e denegati.

Se e per chi vale questo postulato,  prendiamo infine la questione dell’evasione per le corna, entriamo nel merito. Alla domanda: chi è più corruttore, nell’Italia di oggi? Gli evasori? Oppure lo Stato? La mia risposta è netta: lo Stato. Non dipende affatto, tale opinione, dalla diffidenza verso lo Stato annessa al postulato numero uno di cu sopra. Dipende da una fatturale e concreta analisi di che cosa in concreto lo Stato faccia, oggi, nella società italiana, coi 53 punti di PIL destinati nel 2009 in spesa pubblica, e i suoi 47 punti di Pil di entrate fiscali tributarie, contributive, e a titolo diverso.

I 25 punti di Pil che vanno in sanità, assistenza e istruzione, disegnano di fronte a noi la seguente realtà. Una sanità gravata da pesantissime intromissioni politiche e partitiche, vastissime inefficienze sui costi a fronte della impari qualità offerta sul territorio, ritardi intollerabili – fino ad anni interi – nei pagamenti ai fornitori. Se la commissione per il federalismo fiscale adotterà come standard il livello costi-efficienza della regione Lombardia, si risparmierebbero 18 miliardi su 125 del fondo sanitario nazionale. Se invece si adotterà come standard quello della media di quattro Regioni, Veneto Emilia e Toscana oltre alla Lombardia per non imporre rientri energici a Lazio e Sud dove si concentra il problema, ecco che i risparmi e le maggiori efficienze si ridurranno a 2,4 miliardi. E il federalismo fiscale, a quel punto, sarà presa pei fondelli dopo 20 anni di polemiche.

Quanto all’istruzione, a furia di privilegiare gli insegnanti da assumere sulla qualità del servizio, e a furia di incentrare sulla scuola di Stato invece che sulla libera scelta delle famiglie l’allocazione delle risorse per premiare la migliore offerta formativa, il quadro è quello che ci vede perdenti in tutte le graduatorie internazionali.  Nel welfare, l’ipertutela ai lavori dipendenti a tempo determinato taglia fuori giovani e donne, e ha imposto un doppio status dal quale non si esce con meno flessibilità ma con tutele nella flessibilità a chi non le ha, con meno privilegi a chi troppi ne ha goduto. La famiglia e la fecondità sono i nemici pubblici numeri uno del fisco e del welfare italiano: dovunque in Europa, con sistemi diversi, esse sono scoraggiate assai meno che in Italia., e ne va appunto dei diritti naturali di persone e famiglie, oltre che della sostenibilità dei conti intergenerazionali del nostro Paese. Idem dicasi del 16% di Pil speso in pensioni, con generazioni a venire per le quali il tasso di sostituzione dei nuovi trattamenti sarà anche di 20 punti inferiore a quello delle generazioni precedenti, senza che il fisco senta la necessità di premiare energicamente forme aggiuntive di impiego del risparmio a questo fine. Degli 11 punti di Pil spesi in stipendi ai pubblici dipendenti, voglio solo dire che da anni sono tutti d’accordo sulla bassa produttività delle logiche gestionali di una pubblica amministrazione che ci impone le posizioni più arretrate in ogni graduatoria internazionale, sui tempi delle procedure, licenze, gare e concessioni, come su sprechi e inefficienze dalle 600mila e oltre auto blu, agli emolumenti insopporabilmente elevati dei 250mila politici di professione.

Non è un caso e tanto meno frutto di deficienza antropologica dei loro cittadini, che il più dell’evasione fiscale, sull’IVA come sui redditi personali e d’impresa come sui contributi previdenziali, secondo ogni serio studio nazionale  e internazionale, si annidi in 6 Regioni italiane del Sud, a cominciare da Calabria e Basilicata, Puglia, Campania e Sicilia. Sono le aree del Paese in cui politica e Stato hanno avuto la pretesa in 65 anni di esercitare il massimo dell’intermediazione discrezionale dei redditi locali, attraverso trasferimenti diretti alle persone e alle imprese a fondo perduto, con la scusa dello sviluppo e del gap da sanare che è rimasto invece totalmente insanato, mentre la Germania in 20 anni risolveva i due terzi delle disparità di reddito procapite tra Est e Ovest. Il risultato è sotto i nostro occhi. Sono lo Stato e la politica, a Sud, con  loro logiche di patronnage clientelare, intromissivo e discrezionale,ad aver radicato il male dell’illegalità diffusa.

Per tutto questo penso, dico e ribadisco che in Italia oggi la corruzione è lo Stato, non gli italiani. La lezione di decine di Paesi, avanzati e in via di sviluppo, è che dovunque uno Stato sia meno intrusivo ed esoso, dovunque l’adesione spontanea dei cittadini all’ordinamento, alle leggi e alle tasse, migliora e si innalza. Chiunque dica che sono gli italiani a doversi vergognare, chiunque ripete la balla che le tasse sono alte perché ci sono gli evasori – un falso assoluto, se gli evasori pagassero le tasse non scenderebbero, salirebbe solo la pressione fiscale che da noi ha sempre inseguito la spesa pubblica crescente decisa dalla politica, per sfamare se stessa e i  suoi apparati – chiunque divida gli italiani in una costante guerra civile tra redditi dipendenti soggetti alla tasse ed autonomi e professionisti invece evasori certi e conclamati, chiunque faccia questo, se appartiene alla classe dirigente consapevole dei numeri italiani, non può essere che in malafede. Sognare ancora più Stato dimenticando che da noi sarebbe solo più corruttore e inefficiente. Oppure, semplicemente, ha paura di chi esercita il potere protempore, e preferisce scomunicare gli evasori invece dei politici.

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“Casa popolare”? Un bel bordello… /2010/03/27/%e2%80%9ccasa-popolare%e2%80%9d-un-bel-bordello/ /2010/03/27/%e2%80%9ccasa-popolare%e2%80%9d-un-bel-bordello/#comments Fri, 26 Mar 2010 23:05:27 +0000 Carlo Lottieri /?p=5539 È ormai scattata l’ora X per il grande progetto governativo volto a rilanciare l’edilizia popolare di Stato. E si deve riconoscere che il Novecento pare proprio non voglia mai finire, nonostante la devastazione conseguente a ogni sorta di pianificazione (economica, urbanistica, sociale ecc.) e a dispetto della bruttezza delle periferie costruite dai governi – tanto a Sofia come a Milano, a Praga come a Roma – sottraendo soldi a chi veniva poi spedito a vivere lì.

Nelle intenzioni del governo si prevedono 50 mila nuovi alloggi da realizzare in cinque anni e che dovranno mobilitare – nelle logiche keynesiane di chi ci amministra un effetto fondamentale è questa spesa “indotta” – circa 4 miliardi di euro. Tutti fondi statali? No, attenzione, perché si tratterà di operazioni in cui il denaro pubblico gestito da politici e burocrati si mischierà a quello privato: con il rischio (ma è quasi una certezza) di offrire tanto nuovo lavoro alle procure di mezza Italia.

L’iniziativa si muoverà essenzialmente su due linee: l’acquisto, il recupero e la costruzione diretta di alloggi popolari; la creazione di fondi immobiliari che uniscano soldi dello Stato, risorse delle regioni e capitali di provenienza privata. Il tutto entro un quadro nazionale che verrà poi negoziato con le autorità regionali. Insomma, “di tutto e di più”.

Se molte perplessità vengono dall’impianto particolarmente barocco di questa iniziativa governativa (come se non si fosse ancora compreso che la via più breve verso la corruzione consiste nel far cooperazione capitali pubblici e privati!), è l’obiettivo stesso dello Stato immobiliarista che lascia molto perplessi e che anzi non promette nulla di buono.

Come già mi era capitato di scrivere anni fa, bisognerebbe infatti prendere atto che, nel settore dell’edilizia popolare, l’intervento pubblico ha miseramente fallito: per più di un motivo. Quando regioni o comuni dispongono di un patrimonio immobiliare da assegnare alle famiglie più bisognose, la conseguenza inevitabile è che lo sforzo di risolvere un problema ne crea altri e spesso perfino più seri. Per molte e convergenti ragioni.

Degrado immobiliare. Gli enti pubblici non sanno gestire le abitazioni e, per vari motivi, non riescono ad amministrarle in maniera efficiente. Quando un impianto idraulico si guasta, l’ente pubblico (si tratti di un comune oppure di un ex Iacp) non può rivolgersi al primo artigiano disponibile che goda di una qualche fiducia (come fa ognuno di noi), ma deve seguire procedure che evitino favoritismi e corruzione. Nel frattempo, però, la casa è inondata. Se l’occhio del padrone ingrassa il cavallo, dobbiamo prendere atto che le case popolari sono cavalli senza padrone: destinati dunque a una rapida rovina. (Non a caso in tutta Italia si procede periodicamente alla letterale demolizione di palazzi e quartieri popolari che l’incuria di politici e burocrati ha progressivamente devastato.)

Segregazione abitativa. Il programma (che si vorrebbe “sociale”) di quanti costruiscono case popolari poi assegnate, in ogni area, alle famiglie più disagiate finisce per concentrare proprio nei medesimi quartieri quanti hanno più problemi: legati alla tossicodipendenza o a malattie invalidanti, alla povertà estrema o ai malesseri connessi all’immigrazione. I progetti volti a realizzare case popolari, è risaputo, sono destinati a creare quartieri-ghetto, dato che il beneficio di poter disporre di un’abitazione a canone moderato viene ovviamente riservato, in prima battuta, a quanti ne hanno maggiormente bisogno.

Iniquo trattamento. Raramente l’utilizzo delle abitazioni pubbliche, inoltre, risponde a criteri di equità. Qui non ci si riferisce in primo luogo al fatto che l’espansione del patrimonio immobiliare pubblico ha spesso riguardato appartamenti di pregio (quasi sempre intercettati da politici, sindacalisti e altri membri della “casta”), ma soprattutto al fatto che è proprio della distribuzione dei benefici “in natura” il fatto di rivelarsi inefficiente. Chi dieci anni fa ha ottenuto un appartamento a canone sociale perché era disoccupato e quindi rientrava tra coloro che ne avevano diritto, oggi potrebbe aver visto modificare la propria situazione: ugualmente rimane dov’è (gli sfratti sono impossibili tra privati, figuriamoci se il proprietario è pubblico…) anche se altri ne avrebbero più bisogno.

Spreco di risorse. Non soltanto il capitale immobiliare pubblico è gestito male e degrada, ma esso è utilizzato come peggio non si potrebbe. Se ad esempio sono un cittadino romano e ho bisogno di un’abitazione e un giorno mi viene assegnato un appartamento a Roma Nord, certamente la cosa mi fa piacere e accetto; magari però i miei parenti e amici sono di Roma Sud, e questo comporta per me un notevole di disagio. Non solo: se anche dovesse bastarmi, per le mie esigenze, un bilocale del valore di 600 euro al mese, certo non mi lamenterò se mi danno un tri o un quadrilocale del valore di 800 euro. Senza dubbio se avessi ricevuto quella cifra invece del bene, avrei preso un appartamento più piccolo, nel mio quartiere e avrei utilizzato i soldi rimasti per altre mie esigenze.

Tutto allora si risolverebbe se gli enti pubblici decidessero di abbandonare la proprietà degli immobili e, ovviamente, se smettessero di acquistarne e costruirne di nuovi. Gli stessi fautori del solidarismo di Stato, d’altra parte, meglio farebbero a chiedere che l’ente pubblico si limiti a sostenere economicamente chi ne ha bisogno, lasciandolo quest’ultimo libero di trovare un’abitazione in affitto dove vuole.

Ovviamente una logica di questo tipo toglierebbe all’Uomo Politico (specie se si veda come un Grande Stratega) la facoltà di dettare l’agenda, progettare l’architettura complessiva, selezionare la Sgr che gestirà il fondo, coinvolgere le regioni, trovare una ragione per tenere in mano pubblica la Cassa depositi e prestiti. Negli schemi dell’economia liberale, un ministro può anche costruire case, se vuole. Ma deve farlo rischiando i suoi soldi personali ed evitando di mettere le mani nelle tasche altrui.

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Protezione civile. Oggi stiamo con gli Ecodem /2010/02/16/protezione-civile-oggi-stiamo-con-gli-ecodem/ /2010/02/16/protezione-civile-oggi-stiamo-con-gli-ecodem/#comments Tue, 16 Feb 2010 09:01:50 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5184 Questo articolo di Francesco Ferrante e Roberto Della Seta sull’affaire protezione civile dice tutto quello che va detto, niente più di quello che va detto, e nel modo in cui va detto.

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Papers e fiction: ripensare la Banca Romana /2010/01/15/papers-e-fiction-ripensare-la-banca-romana/ /2010/01/15/papers-e-fiction-ripensare-la-banca-romana/#comments Fri, 15 Jan 2010 19:15:27 +0000 Carlo Lottieri /?p=4787 Lo scandalo della Banca Romana torna – per così dire – “d’attualità”, nel senso che domenica e lunedì sera su Rai Uno verrà trasmetto un film per la tivù che avrà al centro proprio quella vicenda. L’episodio storico è importante, per quello che ha significato nel nostro Paese. Ma tale ritorno d’interesse può anche essere l’occasione per una riflessione sulle peculiarità del sistema bancario italiano post-unitario, caratterizzato dalla presenza di sei istituti di emissione, i quali emettevano valuta in lire. Non si trattò certo del free-banking di cui ci parla Kevin Dowd nel testo pubblicato da IBL Libri (perché quello italiano era un oligopolio chiuso, e poi perché lo Stato esercitava un controllo assai stretto), ma comunque presentava elementi di originalità nel panorama europeo del tempo.

Del sistema bancario italiano di secondo Ottocento si sono occupati vari economisti. Negli ultimi anni, sul tema ha scritto varie cose interessanti Nathalie Janson, che dopo un periodo di permanenza in Italia insegna ora economia e finanza alla Rouen School of Management. Chi fosse interessato ad approfondire la natura del sistema bancario del tempo trova qui un suo lavoro in italiano, scritto a quattro mani con Giuseppina Gianfreda,  e un altro qui, scritto in francese a quattro mani con Antoine Gentier.

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Domande scomode, Frau Merkel. /2009/10/31/domande-scomode-frau-merkel/ /2009/10/31/domande-scomode-frau-merkel/#comments Fri, 30 Oct 2009 23:13:42 +0000 Giovanni Boggero /?p=3502 Per un attimo ho creduto di trovarmi a Palazzo Chigi. E invece no. Come potete vedere dal video qui linkato, siamo a Berlino. Conferenza stampa dei leader del nuovo governo. “Signora Merkel, perché ha deciso di riporre la sua fiducia per il Ministero delle Finanze in una persona che non ricorda di aver ricevuto 100.000 DM dal lobbista Schreiber nel famoso caso delle mazzette alla CDU alla fine degli anni ’90?” Gelo in sala. Westerwelle e Seehofer sorridono sotto i baffi. La signora Merkel è visibilmente seccata e liquida il giornalista olandese (nessun giornalista tedesco avrebbe osato porre una domanda del genere) con un breve “semplicemente perché ha la mia fiducia”. Fatto sta che Wolfgang Schäuble, ex braccio destro di Helmut Kohl e uomo che consacrò la giovane Angela Merkel a segretario generale del partito, rimane un’eminenza grigia della politica tedesca. Non solo per le sue pulsioni “manettare” di controllo capillare del web e della società tedesca, ma per le sue relazioni non troppo pulite con certi finanziatori. La Germania ha conosciuto e conosce ogni giorno centinaia di casi di corruzione e di bustarelle. Ogni tanto varrebbe la pena ricordarlo. E non per tentare un improbabile autoassoluzione del nostro paese, ma per dipingere le cose come realmente sono, senza edulcorarle.

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