CHICAGO BLOG » conflitto d’interessi http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Assolti? /2010/07/12/assolti/ /2010/07/12/assolti/#comments Mon, 12 Jul 2010 13:25:34 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6496 Il climategate si è sgonfiato. Le mail dei climatologi dell’East Anglia che discutevano di quale “trick” usare “to hide the decline” non danno scandalo. La pubblicazione dell’indagine coordinata da Sir Muir Russell sembra scagionare gli scienziati che, per alcuni mesi, sono stati accusati di truccare le carte per far sembrare l’emergenza climatica più grave di quanto non fosse. Tutto finito, dunque? Tutti assolti? Tutti puliti? Vediamo.

Il Muir Report effettivamente nega addebiti sostanziali al gruppo di ricerca guidato da Phil Jones. Leggendo il dettaglio delle accuse, però, emerge un quadro tutt’altro che trasparente del lavoro dei santoni del clima. Va detto che questo rapporto non si occupa di questioni scientifiche, le quali – teoricamente – sono state risolte in uno striminzito rapporto di otto pagine di cui mi sono già brevemente occupato (e che, in realtà, se letto tra le righe non dà un’immagine molto positiva dei metodi di Jones e soci).

Anche nel caso del rapporto Muir, non bisogna fermarsi alle affermazioni generali che, tendenzialmente, gettano acqua sul fuoco (cane non morde cane). Bisogna leggere tra le righe o, in alcuni casi, non serve neppure spingersi tanto in là: basta leggere le righe (magari andando oltre le prime 4 o 5). Prima di farlo, è bene però tenere a mente che il rapporto Muir non intende validare la scienza della Climate Research Unit: si occupa solo di valutare i comportamenti e l’onestà dei ricercatori. Incollo, senza commentarli perché parlano da sé, alcuni dei punti – per me – chiave.

On the specific allegations made against the behaviour of CRU scientists, we find that their rigour and honesty as scientists are not in doubt.

But we do find that there has been a consistent pattern of failing to display the proper degree of openness, both on the part of the CRU scientists and on the part of the UEA, who failed to recognise not only the significance of statutory requirements but also the risk to the reputation of the University and, indeed, to the credibility of UK climate science.

On the allegation of withholding station identifiers we find that CRU should have made available an unambiguous list of the stations used in each of the versions of the Climatic Research Unit Land Temperature Record (CRUTEM) at the time of publication. We find that CRU‟s responses to reasonable requests for information were unhelpful and defensive.

On the allegation that the references in a specific e-mail to a „trick‟ and to „hide the decline‟ in respect of a 1999 WMO report figure show evidence of intent to paint a misleading picture, we find that, given its subsequent iconic significance (not least the use of a similar figure in the IPCC Third Assessment Report), the figure supplied for the WMO Report was misleading. We do not find that it is misleading to curtail reconstructions at some point per se, or to splice data, but we believe that both of these procedures should have been made plain ideally in the figure but certainly clearly described in either the caption or the text.

On the allegations in relation to withholding data, in particular concerning the small sample size of the tree ring data from the Yamal peninsula, CRU did not withhold the underlying raw data (having correctly directed the single request to the owners).On the allegation that CRU does not appear to have acted in a way consistent with the spirit and intent of the FoIA or EIR, we find that there was unhelpfulness in responding to requests and evidence that e-mails might have been deleted in order to make them unavailable should a subsequent request be made for them.Given the significance of the work of CRU, UEA management failed to recognise in their risk management the potential for damage to the University‟s reputation fuelled by the controversy over data access.

University senior management should have accepted more responsibility for implementing the required processes for FoIA and EIR compliance.

But it is evidently true that access to the raw data was not simple until it was archived in 2009 and that this delay can rightly be criticized on general principles. In the interests of transparency, we believe that CRU should have ensured that the data they did not own, but on which their publications relied, was archived in a more timely way.

La maggior parte di questi – usiamo un eufemismo – cattivi comportamenti non hanno un effetto particolare sul lavoro dei colleghi di diverso avviso (tranne, naturalmente, la faccenda sulla disponibilità e trasparenza dei dati). Sono però cruciali nel momento in cui gli scienziati parlano coi decisori politici e col pubblico, generalmente privi di formazione scientifica in generale, e di scienza del clima in particolare. In sostanza, l’indagine indipendente riconosce che la cricca offriva una rappresentazione semplicistica delle dinamiche climatiche, e cercava di proteggere i suoi metodi attraverso un atteggiamento difensivo e arrogante. Probabilmente questo non è sufficiente a configurare violazioni delle norme o anche solo del codice etico dell’Università, ma è chiaro che, quando un’istituzione ha un ruolo tanto centrale rispetto a un tema tanto politicamente bollente, ci si aspetta il massimo della trasparenza e dell’onestà. Evidentemente, così non è stato. Il fatto che decisioni politiche dalla portata enorme dipendano dalla rappresentazione falsa o tendenziosa della realtà offerta da un gruppo di accademici livorosi – come è chiaro leggendo le parole che, nei loro scambi di email, dedicano ai colleghi critici – non fornisce quel grado di ragionevole tranquillità in virtù del quale tutti noi non-esperti siamo chiamati a prendere per oro colato tutto ciò che dicono.

“E’ la politica, bellezza”. Qui il clima non c’entra, o c’entra molto poco.

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Il Senato fa una doccia fredda all’isterismo climatico /2010/04/16/se-al-senato-il-clima-si-raffredda/ /2010/04/16/se-al-senato-il-clima-si-raffredda/#comments Fri, 16 Apr 2010 10:12:48 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5676 Il Senato ha approvato, mercoledì, una mozione con primi firmatari Antonio D’Alì (presidente della Commissione Ambiente) e Guido Possa (presidente della Commissione Istruzione) che impegna il governo a muoversi, presso l’Unione europea e le Nazioni unite, per ottenere una maggiore razionalità nelle politiche climatiche. Il punto di partenza è lo scandalo del climategate, ossia lo scandalo delle email in cui alcuni scienziati con un ruolo chiave nell’Ipcc discutevano di come far apparire l’evidenza più catastrofista. L’approvazione della mozione è un segno di vitalità da parte delle istituzioni parlamentari, e anche una dimostrazione che nel muro di gomma dell’ambientalismo ideologico si stanno aprendo delle crepe. Non mancano, però, aspetti controversi.

La mozione è costruita in modo molto intelligente perché distingue chiaramente gli aspetti scientifici da quelli politici. Infatti, i senatori non entrano nel merito del dibattito su quanto e come le emissioni antropogeniche influenzino il clima globale. Si limitano a riconoscere che la credibilità dell’Ipcc è in crisi, e che le prospettive per un “Kyoto 2” sono state grandemente ridimensionate dall’esito del meeting di Copenhagen (qui l’analisi di Corrado Clini per Chicago-blog). E’ chiaro, insomma, che non c’è la disponibilità da parte dei protagonisti globali (Usa e Cina anzitutto) a firmare cambiali in bianco per la riduzione delle emissioni. Alla luce di questo, l’Europa dovrebbe – e ci sono gli strumenti legali - rivedere il suo pacchetto energia e clima, che, per quel che riguarda il taglio delle emissioni, ha un rapporto tra i costi (certi) e i (dubbi) benefici del tutto sproporzionato.

Considerato tutto questo, i senatori chiedono al governo una serie di impegni, tra cui i principali sono:

sostenere in sede ONU un’accurata e indipendente revisione delle procedure di selezione e sintesi della letteratura scientifica utilizzata dall’IPCC ed una revisione degli assetti dei suoi organi preposti alla valutazione delle strategie ambientali, con particolare riferimento all’avvicendamento dei suoi vertici a seguito dell’attività ispettiva avviata;

chiedere la riorganizzazione dell’IPCC riconducendolo, come all’origine della sua costituzione, ad un vero organo scientifico dedicato unicamente alla molto complessa problematica dei cambiamenti climatici, sgombrandolo quindi dall’immotivata interferenza di altre discipline;

proseguire nell’azione di analisi derivanti dalle conclusioni del Consiglio europeo del dicembre 2008 e di prevedere l’opportunità anche di una revisione dell’accordo 20-20-20 e comunque, come già fatto in occasione del recente vertice italo-francese, di escluderne con assoluta certezza il possibile inasprimento verso livelli di maggior impegno;

adoperarsi affinché la politica dell’ONU e dell’Unione europea si incentri su emergenze planetarie concretamente affrontabili nell’elaborazione di progetti che contengano ragionevoli certezze sul rapporto costi/benefici (ad esempio deforestazione, lotta agli inquinanti, lotta all’inquinamento marino, eliminazione dei rifiuti tossici, smaltimento dei rifiuti, risparmio energetico);

E’ negazionismo, come ha sostenuto l’opposizione nel motivare la sua ferma contrarietà? A me non pare. Mi sembra, piuttosto, che i senatori stiano facendo il proprio mestiere di esercitare, coi mezzi a loro disposizione, quel controllo parlamentare su decisioni vincolanti che, finora, non è stato possibile. E che, in effetti, neppure oggi è pienamente possibile, in quanto la mozione di per sé non fa altro che esprimere un sentimento e delle richieste, che il governo è libero di accettare o respingere. E’ vero che Palazzo Chigi è limitato, nella sua libertà di manovra, dagli impegni internazionali che disgraziatamente sono stati assunti (anche, a volte, per miopia o incapacità). Tuttavia, una maggior decisione, e una maggior consapevolezza, sarebbero di grande utilità: questo è specialmente vero per il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, assente dall’Aula durante la discussione, che fino a oggi non ha dato prova di avere una posizione definita su un tema a cui non è lecito si sottragga. Il governo è d’accordo o no che l’intero processo dell’Ipcc, mezzo politico mezzo scientifico (con la metà politica più uguale dell’altra…), dovrebbe essere rivisto? E’ vero o no che, rispetto al 2007 quando il pacchetto 20-20-20 maturò, il mondo è cambiato? E’ vero o no che Copenhagen, da qualunque punto di vista la si guardi, segna una discontinuità importante nelle negoziazioni?

Queste domande sono, purtroppo, destinate a restare senza risposta. Infatti su una cosa Roberto Della Seta, che ha portato in aula la posizione del Pd, ha pienamente ragione:

So anche – lo dico a chi oggi rappresenta il nostro Esecutivo in quest’Aula – che a me e al mio Gruppo non piace affatto l’atteggiamento scelto dal Governo per tirarsi fuori da questo evidente impaccio: far finta di niente, lasciar passare tale mozione sapendo che poi non se ne terrà nessun conto. Noi preferiremmo che le parole del Parlamento, in questo caso del Senato, venissero prese sul serio e che, una volta pubblicamente condivise, fossero poi applicate.

Questa è, in effetti, la ciliegina mancante che rovina il gusto della torta cucinata dal Senato. L’altra cattiva, si fa per dire, notizia sta nel fatto che, come era purtroppo prevedibile, l’indagine sul climategate si sta rivelando meno attenta e promettente di quanto avrebbe potuto essere. Infatti, il tanto decantato International Science Assessment Panel nominato dall’Università dell’East Anglia per indagare su se stessa (…) ha scagionato gli imputati dalle accuse. Le motivazioni stanno in uno striminzito rapporto di 8 pagine. La cosa interessante è che, a dispetto del tono generalmente assolutorio e quasi paternalistico verso gli scienziati, si trovano perle di questo genere (tutte da p.5):

Recent public discussion of climate change and summaries and popularizations of the work of CRU and others often contain oversimplifications that omit serious discussion of uncertainties emphasized by the original authors.

we found a small group of dedicated if slightly disorganised researchers who were ill-prepared for being the focus of public attention.

it is very surprising that research in an area that depends so heavily on statistical methods has not been carried out in close collaboration with professional statisticians.

we observed that there were important and unresolved questions that related to the availability of environmental data sets.

Ora, ognuno è libero di valutare le cose come vuole, ma qui c’è scritto che i ricercatori dell’East Anglia:

1) Parlando col pubblico in generale, stiracchiavano l’evidenza delle loro stesse ricerche per renderla più catastrofista;

2) Erano disordinati e disorganizzati e dunque impreparati a un confronto pubblico sui loro metodi;

3) Mancavano delle necessarie competenze statistiche, in un campo in cui tutto è statistica;

4) Non sono stati in grado di mettere a disposizione dell’indagine i loro data set, rendendo così sostanzialmente irreplicabili i loro risultati.

Nessuno di questi problemi è, di per sé, drammatico, se riguarda qualche oscuro scribacchino accademico. Quello che l’indagine non dice – perché, in effetti, non era suo compito dirlo – è che tra i disordinati paraculi dell’East Anglia (mi pare una sintesi appropriata dei risultati) c’erano Phil Jones e Keith Briffa, due lead author dei rapporti Ipcc. Cioè, la summa theologiae della climatologia politica è stata compilata sotto la supervisione di due che, naturalmente in buona fede, non sono in grado di conservare adeguatamente i dati su cui basano le loro ricerche.

Un’ultima annotazione, a proposito di conflitti di interesse. Copio dalla biografia del presidente del comitato di investigazione, Lord Oxburgh:

he is honorary president of the Carbon Capture and Storage Association, chairman of Falck Renewables, a wind energy firm, an advisor to Climate Change Capital, and a director of GLOBE, the Global Legislators Organisation for a Balanced Environment. The University of East Anglia did not see any conflict of interest.

Naturalmente, nel condurre la sua indagine ha saputo mettere da parte i suoi interessi personali e non si è lasciato condizionare dal fatto che il successo delle sue attività economiche dipende anche dal grado di convinzione con cui i governanti del mondo industrializzato credo nella catastrofe climatica. Naturalmente, il fatto che avesse un interesse concreto e diretto nel proclamare l’immacolata concezione dei rapporti Ipcc non pregiudica in alcun modo la sua serenità nel guidare un’indagine “indipendente”.

Sì, come no.

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Il conflitto di interessi, le leggi ad personam e il lodo Al… /2009/10/08/il-conflitto-di-interessi-le-leggi-ad-personam-e-il-lodo-al/ /2009/10/08/il-conflitto-di-interessi-le-leggi-ad-personam-e-il-lodo-al/#comments Thu, 08 Oct 2009 16:01:14 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3177 Trovo del tutto inaccettabile che un importante uomo politico utilizzi il suo potere per promuovere leggi da cui lui stesso, innanzitutto, potrà trarre vantaggio. Credo sia un segno di profonda inciviltà il fatto che quest’uomo, approfittando della sua influenza sui media, riesca a sollevare una cortina fumogena che impedisce di distinguerne le reali intenzioni, riuscendo così a trasformarsi – agli occhi del popolo bue – nella vittima di un complotto ordito ai suoi danni dai poteri forti. Per tutte queste ragioni, penso che sia assolutamente inderogabile un colpo di reni da parte della società civile, da parte di tutti i cittadini liberi, per dire “basta” a questa inammissibile confusione tra politica e affari.

Naturalmente, mi riferisco ad Al Gore, già vicepresidente degli Stati Uniti, oggi influente membro del Senato e premio Nobel per la Pace. Con un po’ di perfidia, Randal O’Toole attribuisce a Gore la responsabilità della scelta della Apple (di cui è membro del board) di abbandonare la Camera di commercio americana. Oggetto del contendere è una distanza incolmabile nelle rispettive visioni sulle politiche ambientali (qui quella di Apple, qui la Camera di commercio) che non investe, però, come hanno erroneamente sostenuto gli osservatori più ingenui, la necessità o meno di adottare politiche di riduzione delle emissioni. Su questo sono tutti d’accordo (se siano sinceri, non lo so e poco mi interessa). La questione è diversa e assai più tecnica. Come dice Randal, la pietra dello scandalo - agli occhi del gruppo di Steve Jobs – è che

The Chamber supports legislation that cost-effectively reduces greenhouse gas emissions, but opposes the cap-and-trade bill because it would cost Americans a lot of money without significantly reducing emissions.

La questione, insomma, non è se, ma come ridurre le emissioni. E qui torniamo ad Al Gore. E’ quanto meno sospetto che l’autore di Una scomoda verità sia religiosamente convinto dell’urgenza di “fare qualcosa”, ma ancora più fideisticamente attaccato alla proposta di un mercato delle quote di emissione, nonostante i suoi innumerevoli difetti che pure noi dell’IBL abbiamo evidenziato. Ora, sarà un caso – lo dico senza malizia – che Gore abbia enormi interessi nel settore, e che la sua Generation Investment valga una vagonata di quattrini se il cap & trade passerà, zero in caso contrario?

Naturalmente, si potrebbe obiettare che Gore non sta promuovendo il mercato delle emissioni in vista di un profitto concreto, semmai il contrario: sta mettendo i soldi dove ha la bocca. Molto onestamente, non mi convince: se così fosse, investirebbe nelle fonti rinnovabili e nelle tecnologie carbon free a prescindere dagli incentivi, mentre fa esattamente il contrario. Anzi, come è stato dimostrato, lo stile di vita di Gore è tutt’altro che carbon-free. Non è mia intenzione questionare questa scelta, che oltre tutto condivido, né ironizzare sulla sua ipocrisia. Intendo solo dire che, evidentemente, Gore non è insensibile alle motivazioni che muovono pure noi acidi, noi egoisti, noi umani.

Torno, però, alla questione iniziale. E’ accettabile che un uomo, il quale ha evidenti interessi materiali (legittimi, ma materiali) sia il volto pubblico di una campagna a favore di una politica costosa? Ed è tollerabile che egli non perda occasione di accusare gli altri di essere strumenti della bieca reazione in agguato, quando lui stesso si colloca sullo stesso piano? Perché gli interessi di Gore devono essere ignorati, o comunque tollerati, mentre quelli di altri stakeholder non possono esserlo? E, soprattutto, perché quasi nessuno nel nostro paese si accorge che il piano climatico di Obama, se mai passerà, è una legge ad personam (o, meglio, ad personas: a strizzare la mammella pubblica non c’è mica solo l’ex vicepresidente) come tante altre?

Insomma: perché nessuno si scandalizza per il lodo Algore?

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Se D’Alema vuol privatizzare la Rai /2009/07/03/se-dalema-vuola-privatizzare-la-rai/ /2009/07/03/se-dalema-vuola-privatizzare-la-rai/#comments Fri, 03 Jul 2009 07:45:05 +0000 Alberto Mingardi /?p=1340 Oggi alcuni giornali riportano una dichiarazione di Massimo D’Alema, il tg di Minzolini e’ come la televisione sovietica, uscita di bocca all’ex primo ministro ieri sera, alla presentazione romana del libro di Debenedetti-Pilati (qui su Radio Radicale). Coordinava i lavori il nostro direttore, Oscar Giannino, e assieme con D’Alema c’era Maurizio Sacconi, che all’uscita del Presidente di Italianieuropei ha risposto con l’ironia di un “se lo dici tu…”.
Tuttavia, bisogna constatare che la vera notizia sui giornali manca. Non si da conto cioe’ di come ieri sera Massimo D’Alema si sia in buona sostanza dichiarato favorevole alla privatizzazione della Rai, come unico modo per “attutire” (e non attraverso norme, leggi e leggine del resto facilmente aggirabili, cui ha giustamente riconosciuto una salienza limitata) il conflitto d’interessi in capo a Berlusconi.
Ora, si puo’ giustamente obiettare a D’Alema (come ha fatto Franco Debenedetti): scusa, ma perche’ non ci hai pensato quando potevi? D’Alema sul punto qualche giustificazione l’ha accampata, ma e’ stato divertente ascoltare il leader piu’ attrezzato della sinistra fare l’elogio di Murdoch e di una competizione accesa e muscolare, come migliore antidoto alla anomalia berlusconiana.

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Berlusconi e la concorrenza. Un dibattito a Milano /2009/06/18/berlusconi-e-la-concorrenza-un-dibattito-a-milano/ /2009/06/18/berlusconi-e-la-concorrenza-un-dibattito-a-milano/#comments Thu, 18 Jun 2009 21:01:31 +0000 Alberto Mingardi /?p=1068 Oggi alla Banca Popolare di Milano (grazie per l’ospitalità) abbiamo presentato “La guerra dei trent’anni” di Franco Debenedetti e Antonio Pilati, con Fedele Confalonieri, Ferruccio De Bortoli e Walter Veltroni. A inizio della presentazione, a mo’ di saluto, ho cercato di bofonchiare alcune cose che non si sono sentite, nel brusio generale. Poco male: le introduzioni di circostanza servono a dare agli ospiti il tempo di prendere posto. Primo commento impressionistico, sui protagonisti e non sui contenuti. Confalonieri e Veltroni sono persone molto civili. Nota di colore: Veltroni chiama tutti per nome e infiora le frasi con citazioni da scaffale dell’Universale Feltrinelli in sconto 15%. De Bortoli è sempre un signore ed ha moderato con perizia, ma alla presentazione i due che hanno davvero parlato del libro sono stati gli autori. Franco, che è un candido, l’ha quasi detto lui stesso, buttando là che l’ambizione di un editore è di vendere ma che quella dell’autore è che si legga più che la quarta di copertina… L’ex segretario del Pd, infatti, ha sparato ad alzo zero più che sul libro sulla presentazione che ne avevo bofonchiato (ripeto: bofonchiato) io. Nella quale mettevo in luce non tanto perché il libro sia rilevante per il resto del mondo, ma perché è interessante leggerlo per chi veleggia sul bordo di questo blog: per l’analisi di Pilati della “liberalizzazione selvatica” dell’etere contro il monopolio della Rai (una “giungla” in cui ha messo ordine certo Berlusconi ma con lui e più di lui una “legislazione difficile” volta a mantere lo status quo, rispetto alla quale “la liberalizzazione spontanea ha perso i nemici e mantenuto i nemici” al volgere della prima repubblica) e per la lettura di Debenedetti della radicale incomprensione, della “rivoluzione televisiva”, da parte dell’universo politico-ideale che detiene tradizionalmente il monopolio dell’idea di progresso: la sinistra.
Veltroni in parte ha involontariamente difeso la tesi di Pilati, dimostrando come la discussione pubblica in realtà si spacca sul modo d’intendere il pluralismo: il “pluralismo interno” al monopolio pubblico (= lottizzazione) e il “pluralismo esterno”, sul mercato. Per WV, il pluralismo interno era meglio perché la qualità dell’offerta era migliore (c’era il maestro Manzi…), la Rai ha alfabetizzato l’Italia come la scuola pubblica, e la concorrenza è una race to the bottom a suon di tette e culi. C’è del vero, ma ha avuto – perlomeno secondo me – gioco facile Confalonieri a ricordargli il grigiore della Rai della censura.
La “liberalizzazione selvatica” non piace a Veltroni, che avrebbe visto bene una “liberalizzazione in serra”, portata avanti tenendo fermi i principi educativi che hanno informato la storia della tv di stato.
Su altre cose, Veltroni non aveva torto: il conflitto d’interessi, il sostanziale appiattimento dell’informazione in Italia, il fatto che le nuove tecnologie ci regalano un pluralismo infinitamente più ricco che in passato. Confalonieri sull’ultimo punto ha sostanzialmente difeso l’industria dei contenuti. Veltroni sul primo ha ignorato il punto di vista di Debenedetti: cioè che per risolvere il conflitto d’interessi la strada maestra fosse privatizzare la Rai (una privatizzazione che avrebbe dovuto fare la sinistra, perché è chiaro come il sole che Berlusca non la farà mai nella vita).
Un bel dibattito, che però ha lasciato in ombra i due messaggi cruciali del libro. La televisione commerciale come punto di scontro fra la sinistra e la modernità/ Debenedetti. La tesi per cui le liberalizzazioni “anarchiche”, sospinte dalla creatività imprenditoriale e non da un “dirigismo di mercato” volto a stimolare la nascita di nuovi competitors, tutto sommato sono le migliori/ Pilati. A margine della tesi Debenedetti c’è un altro tema: che è quello di come la televisione commerciale ha di fatto rottamato l’egemonia, creando il mondo “naturaliter berlusconiano” di cui parlava Bobbio, all’insegna di un nuovo immaginario. Ma sul punto, forse, più che leggere il bellissimo libro di Debenedetti e Pilati, vale la pena di rivedere “Il Caimano”.

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Funiculi’ Catricala’ /2009/06/16/funiculi-catricala/ /2009/06/16/funiculi-catricala/#comments Tue, 16 Jun 2009 12:04:58 +0000 Alberto Mingardi /?p=1033 Per la serie: l’eterno ritorno del sempre uguale, oggi l’Autorita’ garante della concorrenza e del mercato (per gli amici, l’Antitrust) ha presentato la sua relazione annuale. Qui ci riferiamo alla presentazione letta dal suo Presidente al Parlamento.
Poco da segnalare. Il testo si apre con una timida difesa delle istituzioni di mercato, dalla cattiva reputazione che la crisi ha proiettato su di esse. Catricala’ non e’ molto persuasivo, ma un applauso da parte nostra, in questo caso, non glielo leva nessuno.
La relazione continua tra affermazioni tutte da dimostrare (in un periodo come questo, bisogna tener gli occhi ancora piu’ aperti su quei settori contrassegnati da “intrecci o posizioni dominanti”, come fossero la stessa cosa) e una difesa non d’ufficio ma dell’ufficio. L’Autorita’serve prima dopo e durante i processi di liberalizzazione, spesso per sanzionare “comportamenti elusivi delle liberalizzazioni”. I mercati liberi devono essere piu’ presidiati dei “settori protetti”, e altre amenita’.
Il piu’ importante punto di merito sta nella difesa della “strategia degli impegni”, accusata da alcuni esperti d’antitrust di eccessiva morbidezza nei confronti delle aziende. Poi poche ma sagge parole su farmacie e stoccaggi del gas.
Per gli appassionati della “indipendenza” dell’Autorita’, vedasi la paginetta scarsa sulla disciplina del conflitto d’interessi, in capo all’Agcm dalla legge Frattini (come gia’ in passato, l’Agcm contesta i meccanismi d’accertamento dei conflitti). I nostalgici di “Mi manda Lubrano” troveranno conforto nelle tre pagine sulla “tutela del consumatore”.

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L’uomo giusto al posto giusto /2009/04/18/luomo-giusto-al-posto-giusto/ /2009/04/18/luomo-giusto-al-posto-giusto/#comments Sat, 18 Apr 2009 16:48:57 +0000 Alberto Mingardi /?p=155 L’ex CEO di Fannie Mae a capo del piano di salvataggio delle banche americane. Politica industriale creativa.

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Due o tre cose sulla Banca Popolare di Milano /2009/04/17/due-o-tre-cose-sulla-banca-popolare-di-milano/ /2009/04/17/due-o-tre-cose-sulla-banca-popolare-di-milano/#comments Fri, 17 Apr 2009 06:43:59 +0000 Alberto Mingardi /index.php/2009/04/due-o-tre-cose-sulla-banca-popolare-di-milano/ Il rinnovo degli organi della Banca Popolare di Milano sta assumendo una dimensione effettivamente nuova. Politics 2.0. Siccome, col voto capitario, a decidere le sorti della BPM sarà di fatto una grande assemblea, nella quale forze più o meno organizzate metteranno sul piatto uomini e voti per costruire un nuovo equilibrio all’interno della banca, la tenzone è, per così dire, “politica” – e rilievo politico le viene riconosciuto.
Il Presidente uscente, Roberto Mazzotta, è parallelamente incumbent e outsider. Incumbent per la sua storia, e il ruolo che occupa. Outsider perché si candida alla testa dei soci non-dipendenti, quindi non-sindacalizzati, con l’appoggio dei soci “privati”, e in nome di un programma di cauta modernizzazione dell’istituto.
Massimo Ponzellini, presidente in pectore in quanto appoggiato dai sindacati interni, ovvero i “padroni” della banca, è una faccia nuova ma rappresenta la continuità più piena. I due si sfidano su YouTube, in un singolare duello di video (affettato ma diretto Mazzotta, “mediato” da un’intervista Ponzellini), visti ad oggi all’incirca da un migliaio di persone. Sono quei mille gli elettori incerti, che potrebbero far inclinare da una parte o dall’altra l’ago della bilancia? Ponzellini in tutta evidenza parte in vantaggio, forte del sostegno di gruppi strutturati ed abituati a dettar legge. E’ Mazzotta ad avere bisogno dell’agone democratico, della segretezza del voto, della mobilitazione elettorale.
Su Mazzotta e Ponzellini, ormai s’è scritto di tutto. Su una questione di sostanza (il conflitto d’interessi di Ponzellini, che a detta dei giornali una volta presa la Presidenza di BPM non lascerebbe quella di Impregilo), s’è detto poco. Notazioni folcloristiche, non ne sono mancate.
Non si sono forse scritte due cose, che vale magari la pena di riportare – con stanca determinazione – al centro del dibattito, almeno in un luogo come questo. Primo, il vero punto del contendere sembra essere il consolidamento. La storia sembra dirci, ora, che certe fusioni hanno prodotto giganti dai piedi d’argilla. Ma questo non significa che piccolo sia sempre bello.
C’è un certo consenso, fra gli osservatori, sulla necessità di “aggregare” le popolari. Non avviene perché ovviamente i sindacati vedrebbero diluito il proprio potere. E’ una costante delle fusioni bancarie, in Italia: esse possono avvenire, solo quando ne risulta una banca nel quale i soci “forti” di prima siano ancora più decisivi, negli equilibri di governance (pensiamo a Intesa San Paolo, fusione generata per estromissione dei soci più “di mercato” delle rispettive compagini).
Secondo, la governance conta. Il voto capitario non si limita ad imporre una spettacolarizzazione politica, ma rende di fatto ingestibile la banca. Parte del lavoro del management diventa, nel caso della BPM è evidente, mediare fra gli azionisti-lavoratori. E’ proprio questa duplice natura a complicare le cose. Perché l’interesse di breve periodo (quello del lavoratore, naturalmente conservatore rispetto alla gestione dell’impresa in cui lavora) fa premio su quello di medio periodo, da azionista del medesimo istituto.
Bisognerebbe proprio ricominciare a parlare di riforma delle Popolari. In Italia, il tema è stato apparentemente al centro dell’agenda per alcuni anni. Come il federalismo, la riduzione delle imposte, l’innovazione in senso presidenziale della Costituzione, la privatizzazione della Rai, la disciplina del conflitto d’interessi, l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Con gli esiti che sappiamo.

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