CHICAGO BLOG » Concorrenza http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:41:55 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Telefonia mobile: Italia ancora al top /2010/12/08/telefonia-mobile-italia-ancora-al-top/ /2010/12/08/telefonia-mobile-italia-ancora-al-top/#comments Wed, 08 Dec 2010 07:33:27 +0000 Massimiliano Trovato /?p=7807 L’appuntamento con l’International Communications Market Report curato dal regolatore inglese Ofcom conferma anche quest’anno la vivacità della telefonia mobile in Italia.  Alcuni tra i risultati (cito dalla sintesi Agcom):

  • i prezzi dei servizi mobili dal luglio 2009 al luglio 2010 sono diminuiti del 24% (migliore performance europea) e risultano in assoluto i più bassi (al pari del Regno Unito) rispetto a quelli degli altri Paesi europei;
  • ben il 24% dei consumatori (la percentuale più alta in Europa) ha ridotto la spesa pro-capite nella telefonia mobile negli ultimi 12 mesi;
  • i prezzi per il mobile broadband sono i più bassi e il mercato della larga banda mobile risulta più maturo rispetto agli altri Paesi;
  • la quota di abitazioni servite solo dalla telefonia mobile è la più significativa tra i principali Paesi sviluppati (pari al 29%);
  • la penetrazione della banda larga mobile è la più elevata (nel 13% delle abitazione si accede alla larga banda solo attraverso dispositivi mobili);
  • la diffusione di smartphone è la più alta (26% della popolazione sopra i 13 anni e 66% degli utilizzatori abituali di internet);
  • la diffusione di apparecchi per la fruizione di musica in formato digitale è di gran lunga la più ampia: utilizzo pari al 64% di media players e pari al 31% di cellulari per l’ascolto della radio;
  • l’utilizzo dei social network è il più elevato al mondo (66% degli utilizzatori di internet), in particolare per quanto riguarda l’accesso a Facebook.

Assai meno lusinghiere sono le prestazioni registrate dal nostro paese nel settore del fisso – e particolarmente in quello della banda larga fissa, che ci vede all’ultimo posto tra i principali paesi europei.

Queste conclusioni ambivalenti confermano l’attualità di uno studio condotto con Andrea Giuricin, in cui abbiamo cercato di dimostrare – dati alla mano – come il fondamento di questo vistoso gap di efficienza vada individuato nel robusto competition divide esistente tra i due settori.

È una lezione da tenere a mente alla vigilia della definizione delle regole per la rete di nuova generazione. Se il caso della telefonia mobile può insegnare qualcosa, è auspicabile che il regolatore resista alla tentazione di strafare e dia alla concorrenza una possibilità.

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Il “Contro-Rapporto Monti” dell’IBL: per un’Europa più integrata dal mercato e più aperta al mondo /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/ /2010/12/02/il-%e2%80%9ccontro-rapporto-monti%e2%80%9d-dell%e2%80%99ibl-per-un%e2%80%99europa-piu-integrata-dal-mercato/#comments Thu, 02 Dec 2010 21:16:57 +0000 Carlo Lottieri /?p=7754 Qualche mese fa, su invito di José Barroso, l’ex commissario europeo Mario Monti ha redatto un rapporto intitolato A new strategy for the single market at the service of Europe’s economy and society , con l’obiettivo di indicare talune linee fondamentali di sviluppo per l’Europa di oggi e di domani.

Il rapporto contiene talune proposte ragionevoli e in particolare auspica una crescita del mercato interno, che faccia saltare le molte e talvolta assai alte barriere che impediscono una piena integrazione tra i vari Paesi dell’Europa a 27 e le loro distinte economie. Ma, al tempo stesso, il testo redatto da Monti contiene argomenti e proposte assai discutibili. In particolare, esso formula una netta difesa di vecchi vizi statalisti europei (specie in tema di welfare) e per giunta esprime una esplicita avversione per la concorrenza istituzionale: soprattutto in materia fiscale.

Per questo motivo l’Istituto Bruno Leoni ha pensato di predisporre una sua interpretazione del “rapporto Monti”, affidando a un gruppo di lavoro internazionale il compito di commentare – capitolo dopo capitolo – tutte le tesi contenute nel testo predisposto dall’economista italiano. Questo lavoro a più mani si intitola Il “Rapporto Monti”: una lettura critica (qui in italiano e qui in inglese) e ha potuto avvalersi del contributo di vari studiosi, italiani e no: Filippo Cavazzoni, Luigi Ceffalo, Luca Fava, Pierre Garello, Carlo Lottieri, Diego Menegon, Alberto Mingardi, Lucia Quaglino, Dalibor Rohac, Josef Sima e Carlo Stagnaro.

Il testo è stato presentato a Bruxelles oggi, 2 dicembre, nel corso di un seminario cui ha partecipato lo stesso Monti. L’obiettivo è stato quello di evidenziare i limiti delle proposte avanzate dall’ex commissario, non sempre coerenti con una visione autenticamente di mercato, sottolineando come la logica dirigista di molte tesi del Rapporto  ostacoli – al di là delle dichiarazioni e delle intenzioni – lo sviluppo di un’economia europea davvero dinamica, integrata e concorrenziale.

I temi essenziali della critica sviluppata dal “contro-rapporto” targato IBL emergono con chiarezza in questo passo, tratto dall’introduzione:

Dietro la riflessione di Monti si vede la proposta di un “grande scambio”: per costruire il mercato interno, gli Stati membri devono dotarsi di sistemi di welfare state sufficienti ad ammortizzare la transizione e sostenere il consenso; perché questo sia possibile, occorre perseguire un grande disegno di armonizzazione fiscale, volto a colpire sia la “concorrenza fiscale” all’interno dell’Ue, sia – a maggior ragione – quella dei “paradisi fiscali”.

L’analisi dell’IBL punta insomma a raccogliere la sfida del “Rapporto Monti”, per valorizzarne gli aspetti positivi, ma anche e soprattutto per sottolineare come un vero mercato non possa essere “unico” (e cioè ristretto alla piccola Europa), non possa basarsi su una tassazione e su una regolamentazione asfissianti (tratti caratteristici del modello welfarista “renano”) e non possa in alcun modo avvantaggiarsi da un’armonizzazione fiscale costruita dall’alto, che riduca quella pressione competitiva che finora ha impedito ai governi europei di espandere in maniera illimitata le loro pretese.

Se infatti le aliquote marginali delle imposte dirette sono significativamente calate un po’ ovunque (dopo che negli anni Settanta erano giunte a livelli altissimi, e non soltanto in Svezia), questo è stato dovuto non tanto a un cambiamento di orientamenti culturali (che pure in parte si è verificato), ma è stato soprattutto conseguente allo sforzo di quei ministri dell’Economia dei vari Paesi europei che hanno fatto il possibile per non perdere tutti i propri contribuenti più importanti. Quando i capitali si muovono e si trasferiscono altrove, che senso ha, infatti, tenere aliquote molto alte, se esse sono ormai prive di una base imponibile? Meglio portare a casa il 45% di 50 che il 90% di 5.

Su questo specifico punto sviluppa una riflessione molto sofisticata un altro lavoro discusso oggi a Bruxelles, anche’esso promosso dall?IBL, e cioè il saggio Tax Competition: A Curse or A Blessing? (qui in inglese, ma qui c’è una sintesi in italiano) di Dalibor Rohac, un giovane e brillante economista slovacco che oggi è un ricercatore del Legatum Institute e che qualche anno fa fu pure a Sestri Levante quale relatore di Mises Seminar organizzato dall’IBL. Avvalendosi della teoria dei giochi, nel suo studio Rohac mostra come un’armonizzazione calata dall’alto blocchi ogni processo di apprendimento e soprattutto ostacoli quel dinamismo degli attori che – sul medio e lungo termine – favorisce l’abbassamento delle aliquote e, in questo modo, aiuta a realizzare una migliore integrazione delle economie.

Un’Europa fiscalmente armonizzata, insomma, è destinata a diventare un vero inferno fiscale. Più di quanto non lo sia già oggi.

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Riforma forense: piove (forte) sul bagnato /2010/11/23/riforma-forense-piove-forte-sul-bagnato/ /2010/11/23/riforma-forense-piove-forte-sul-bagnato/#comments Tue, 23 Nov 2010 14:23:38 +0000 Serena Sileoni /?p=7678 Cross-posted su 2+2

Sarebbe singolare, se non fosse allarmante, che la riforma forense all’ordine del giorno del Senato sia qualificata, non solo negli ambienti vicini all’Ordine ma anche nella stampa e in buona parte dell’opinione pubblica, come un’operazione legislativa di razionalizzazione della professione.

Esercitare la professione di avvocato è, molto semplicemente, un’operazione commerciale: offrire un bene (intellettuale) in cambio di una prestazione (pecuniaria). È un contratto, un rapporto sinallagmatico tra chi ne sa di più di leggi e cavilli giudiziari e chi paga quel bene intellettuale.

In linea teorica (e in alcuni paesi in linea pratica: si vedano gli studi comparati sul settore di Silvio Boccalatte, negli Indici delle liberalizzazioni dell’Istituto Bruno Leoni), nulla distingue, pertanto, il frutto del lavoro di un avvocato da qualsiasi bene o servizio scambiato nei più generici mercati.

Tuttavia ci sono ordinamenti, come il nostro, che per motivi storici e culturali prima ancora che per reali esigenze a tutela dei clienti, hanno innalzato barriere ormai cementificate a protezione di un ordine chiuso, di una corporazione autoreferenziale la cui ragione di vita è il mantenimento di se stessa, al di là delle reali esigenze di tutela del cliente, sia in termini di competitività che in termini di affidabilità.

Nati, in teoria, per garantire il rispetto di standard di condotta etici e professionali, laddove la morale personale non sempre arriva e la legge non arriva più, gli ordini sono facilmente divenuti costruttori di barriere dietro cui proteggere i propri (obbligati) iscritti.

Quello che sta succedendo questi giorni, tuttavia, è qualcosa di ancora più grave: la riforma in corso di approvazione, infatti, non tanto proteggerà l’ordine in sé, comprensivo di tutti i suoi iscritti, rispetto alle “minacce” concorrenziali nei mercati dei servizi professionali, quanto piuttosto proteggerà le parti forti dell’Ordine, i pesci forensi grandi rispetto ai pesci forensi piccoli, con buona pace di una competitività e di una concorrenza vantaggiosa non solo per la clientela, ma anche per gli avvocati più giovani e appena entrati nella carriera.

Vediamo perché.

La riforma reintroduce il divieto di patto di quota lite, ovvero il divieto per cui il compenso dell’avvocato può essere concordato con il cliente in maniera proporzionata rispetto all’esito e al valore della causa. La ragione riposerebbe nel fatto che un patto del genere mina la serietà e la professionalità dell’avvocato che sarebbe indotto a “litigare” ad ogni costo. In realtà, basterebbe un minimo di confidenza con i tribunali per capire come siano proprio le tariffe fisse a ingenerare nell’avvocato più rampante la volontà di litigare sempre e comunque, lucrando sul fatto che la sua prestazione è di mezzo, e non di risultato. Al contrario, invece, l’apertura al patto di quota lite rappresenterebbe un incentivo e un premio a fare bene, agganciando la remunerazione alla capacità di portare a casa la vittoria. Sarebbe dunque uno stimolo a fare meglio, e non a litigare di più, come invece accade oggi proprio in virtù del fatto che l’avvocato, a prescindere dall’esito della causa, guadagna sugli atti e le attività che compie, anche quando pretestuosi o infruttuosi.

La riforma reintroduce le tariffe minime. Qui, la motivazione sta nel convincimento che un professionista che chiede troppo poco non è un serio professionista e compromette sia la “corretta” concorrenza tra colleghi sia quell’informazione fondamentale data dal prezzo e relativa al valore del bene da pagare. In parole povere, se un avvocato chiede troppo poco si dovrebbe presumere che altera le informazioni relative a quanto vale la prestazione che il cliente chiede, a danno sia del cliente che dei colleghi. In realtà, a beneficiare della possibilità di scontare la tariffa non sarebbero solo gli avvocati scarsi, ma soprattutto i neoavvocati, che non potendo competere sulla fama e sull’avviamento rispetto agli avvocati anziani (dal punto di vista professionale) possono trovare utile farsi conoscere e entrare nel mondo del mercato forense concorrendo sul prezzo. Si tratta di una pratica comune in ogni mercato libero, in cui un modo per abbattere le barriere all’ingresso è proprio quello di competere sul prezzo, per fidelizzare poi – in un momento successivo – il cliente, sulla base della correttezza e della professionalità. Le tariffe minime, insomma, giovano solo a chi è già dentro al mercato, e vi è in una posizione di maggiore visibilità non per forza dovuta alla bravura o all’impegno. A pagarne le conseguenze, invece, sarebbero proprio quei giovani del cui inserimento nel mercato del lavoro tanto ci preoccupiamo. Infine, poiché giovane non vuol dire necessariamente bravo, se un neoavvocato riesce a farsi una clientela iniziale soltanto spuntando il prezzo ma senza dimostrarsi capace e competente, sarà il cliente stesso ad abbandonarlo in seguito, facendo fallire la sua politica di tariffe sottocosto.

La riforma prevede anche la cd. continuità professionale, ovvero la cancellazione dall’albo per quegli avvocati che non riescano a dimostrare, da un punto di vista reddituale, di vivere della loro professione e di dedicare ad essa la loro giornata di lavoro. Ancora una volta, anche se si dovessero introdurre meccanismi flessibili (deroghe per i primi anni su tutti), a farne le spese sarebbero proprio i pesci piccoli, contro i grandi studi che fanno girare centinaia di migliaia di euro. La ratio sarebbe molto semplice: ripulire l’ordine dai tanti falsi avvocati, che hanno il titolo ma non esercitano o esercitano poco. Verrebbe da dire: e allora? Siamo proprio sicuri che “troppi avvocati” fanno male, perché creano confusione nell’offerta del servizio? Siamo proprio sicuri che le persone scelgono un avvocato puntando a caso il dito sull’albo della loro circoscrizione, e non invece sulla base di un intuitu personae che nasce da una conoscenza diretta, o da una referenza di un amico fidato? Cosa cambia al mercato forense al cambiare del numero degli avvocati iscritti all’ordine? Che male c’è ad avere un ordine pieno di avvocati (considerato peraltro che ci sono ordinamenti in cui non c’è nemmeno un ordine)? Il male sarebbe, al contrario, deprimere di nuovo i neoavvocati o i piccoli avvocati, che hanno bisogno di tempo e esperienza per poter raggiungere fatturati al sicuro dalla cancellazione dall’albo.

Infine, il Consiglio nazionale chiede anche una maggiore trasparenza nella specializzazione. Ad oggi, gli avvocati possono scrivere nel loro biglietto da visita di essere specializzati in questo o quel settore senza alcun controllo. Il Consiglio vorrebbe invece che la specializzazione fosse certificata (ovviamente dal Consiglio stesso) sulla base di indici come la frequentazione di corsi di aggiornamento, master, etc. Si tratta davvero di un circolo vizioso, già emerso con l’obbligo deontologico vigente di aggiornamento professionale tramite l’acquisizione di crediti. Proprio questo obbligo ha mostrato alcune imperfezioni lampanti. Per prima cosa, nulla garantisce che l’ente erogatore del servizio di specializzazione offra davvero un buon servizio, al contrario, spesso si tratta di un modo per moltiplicare corsi di aggiornamento, master, scuole di specializzazione in maniera parassitaria e con la complicità in buona o mala fede degli ordini. Si sa, ad esempio, che i convegni universitari rischiano spesso di andare deserti. Garantirsi il pubblico tramite l’offerta di crediti di aggiornamento per gli avvocati è un modo facile di avere gente al convegno e di far perdere tempo agli avvocati.

Secondariamente, verrebbe da chiedersi: siamo sicuri che un avvocato che ha tempo di frequentare corsi che possano certificare la sua specializzazione sia davvero un buon avvocato? O al contrario sia un professionista con poca clientela e tanto tempo libero? Degli avvocati seri e competenti che conosco, nessuno ha tempo di frequentare corsi di specializzazione, proprio perché la mole di lavoro che sono riusciti, tramite la loro competenza e professionalità, a garantirsi occupa tutto il loro tempo lavorativo. Tempo lavorativo, questo sì, capace di specializzarli e renderli sempre più competenti.

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RAI: il monopolio mai abolito – Daniele Venanzi /2010/10/22/rai-il-monopolio-mai-abolito-daniele-venanzi/ /2010/10/22/rai-il-monopolio-mai-abolito-daniele-venanzi/#comments Fri, 22 Oct 2010 16:16:42 +0000 Guest /?p=7355 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Daniele Venanzi:

Nello stato sociale il cittadino è costretto a cedere parte del suo guadagno alle istituzioni in cambio di servizi di cui non ha mai richiesto l’usufrutto e per i quali non è stato messo in condizioni di pattuire il prezzo. Lasciando da parte le convinzioni liberomercatiste, bisogna ammettere che esiste una scala gerarchica basata sull’utilità sociale nella lunga lista dei servizi erogati dallo stato al cui vertice vi sono sicurezza, sanità e istruzione.

Il modo migliore per cominciare a discutere del ridimensionamento delle competenze statali è iniziare a spuntare quella lista dal basso e depennare le voci di maggiore spreco e minore utilità pubblica. Basta un po’ di ragionevolezza per comprendere che la scomparsa improvvisa del welfare in una situazione di pressione fiscale particolarmente penalizzante pari a circa 70 punti percentuali e di mercato drogato dall’ingerenza statale comporterebbe grandi squilibri sociali tanto tra i privati cittadini quanto tra gli imprenditori.

La priorità va assegnata a quelle liberalizzazioni che pongono termine alla stagione del finanziamento pubblico a pioggia volto ad accentrare e mantenere posizioni di privilegio e di comando nelle mani dello stato tramite il possesso di aziende dalla presso che inesistente funzione di ammortizzazione sociale.

La RAI abusa sin dalla sua nascita di un privilegio di casta che comporta in primo luogo una gravosa spesa sulle spalle di ogni contribuente e in secondo momento una concorrenza tutt’altro che leale nei confronti delle altre emittenti televisive, poiché la sua esistenza è garantita non solo dall’offerta proposta sul mercato, i cui risultati verrebbero in condizioni normali ripagati dagli introiti pubblicitari, ma da un’imposta riscossa annualmente assicurata dallo stato che, di tanto in tanto, stabilisce persino degli aumenti, a riprova che non vi è alcun modo in cui la TV statale possa fallire per mancanza di fondi o quanto meno essere penalizzata dalle scelte del mercato. In questo modo la qualità del servizio viene compromessa poiché la RAI, a differenza delle sue concorrenti, non necessita di un palinsesto migliore per batterle. Nel caso in cui invece riesca ad ottenere un miglior dato Auditel, quest’ultimo sarà in ogni modo falsato dai maggiori fondi disponibili grazie all’imposizione tributaria al fine di rendere la trasmissione più concorrenziale.

La sentenza n. 202 della Corte Costituzionale che nel 1980 sancì la libertà di esercizio delle trasmissioni via etere su scala nazionale, permettendo così la nascita delle principali concorrenti dei canali di stato, non decretò di fatto la completa abolizione del monopolio, poiché la RAI continua ad essere la voce ufficiale dei governi che si susseguono all’amministrazione della cosa pubblica, ignorando qualsiasi logica di mercato.

È sufficiente pensare al terremoto che investe i vertici dell’azienda di Viale Mazzini ogni qualvolta il paese torna alle urne ed esprime la sua preferenza per una nuova maggioranza. Quello della televisione di stato è un espediente volto ad assicurare ai poteri forti del paese un canale preferenziale attraverso il quale diramare informazioni, spesso arbitrariamente distorte, e influenzare la coscienza comune secondo la propria volontà. Il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, da strenuo difensore della libertà individuale, comprese i meccanismi perversi per cui si pretendeva di istituire il servizio di (dis)informazione pubblico ancora prima che questo fosse creato.

Seguendo l’insegnamento del filosofo libertario Murray N. Rothbard, potremmo asserire che l’informazione non è un diritto, bensì una libertà, poiché nessuno può negare a ciascun individuo le libertà di informarsi e di informare, il che lederebbe in primo luogo quelle di pensiero e parola. Questo però non implica, per i motivi sopra elencati, che lo stato possa arrogarsi il diritto di istituire il monopolio su dei media attraverso la creazione di reti di sua proprietà con la subdola e menzognera pretesa di garantire un’informazione equa e accessibile ad ogni cittadino.

Bisogna tenere a mente che da sempre i giornali sono fondati e diretti da privati cittadini e di sovente sono organi d’informazione ufficiale di partiti e movimenti politici. L’esistenza stessa del privato nel settore dell’informazione rende utopica la becera pretesa statalista del fare della divulgazione delle notizie un coro che decanta all’unisono le sole verità dello stato.

Tornando all’analisi della situazione italiana, la RAI grazie al canone ha generato nel 2009 introiti pari a 1.645,4 milioni di euro (bilancio ufficiale del 31.12.2009 disponibile sul sito RAI) che risulta a seguito di vari aumenti nel corso degli anni l’imposta più evasa dai contribuenti. I ricavi ottenuti dalla riscossione dell’imposta superano notevolmente i guadagni generati dagli spot pubblicitari: 998,5 milioni di euro (medesima fonte). Il ricavo netto totale RAI pari a 3.177,8 milioni di euro è leggermente inferiore a quello di Mediaset Italia che ammonta a 3,228,8 (fonte bilancio Mediaset 2009). Ma il notevole apporto finanziario al tesoretto costituito dalla riscossione del canone penalizza la godibilità della programmazione concorrente, in quanto, a differenza della RAI, necessita di una maggiore presenza di spazi pubblicitari al fine di sovvenzionarsi.

Le cifre dovrebbero far riflettere da un lato sul vantaggio che l’emittente statale detiene sulle rivali e dall’altro sull’ingiustizia di tale tassazione dimostrata dal modo in cui ne rispondono i cittadini. Il privilegio RAI si traduce, tra le tante ingiustizie, nella possibilità di stipulare contratti con i dipendenti ben al di sopra del loro valore di mercato, come testimoniato dalle eccessive retribuzioni dei cosiddetti “conduttori d’oro”. In questo modo si è in presenza di un “monopolio della qualità”, poiché i restanti principali canali televisivi non posso permettersi il lusso di strapagare i propri dipendenti migliori perché ne risentirebbe eccessivamente il bilancio aziendale.

Ai detrattori della liberalizzazione delle trasmissioni via etere vale la pena ricordare che già da molti anni prima della scesa in campo delle reti Mediaset il palinsesto RAI era principalmente composto da trasmissioni di svago e intrattenimento piuttosto che da programmi di informazione o approfondimento culturale, per cui le altre realtà inseritesi nel mercato non possono essere imputate di aver concorso a svilire la qualità media dell’offerta televisiva. Lo stato non detiene in alcun modo l’illiberale principio di auctoritas per cui si ritiene in diritto di imporre ai cittadini cosa è giusto guardare sui propri teleschermi.

Tirando le somme è ragionevole credere che l’imposta sul canone televisivo sia la prima delle tasse da abolire in un processo di liberalizzazione dell’Italia poiché, come dimostrato, racchiude nella sua natura l’essenza del principio liberale per il quale non possa esserci libertà individuale se si rinuncia a quella economica. Ne consegue che la cittadinanza dovrebbe chiedere con maggior forza ai propri rappresentanti l’abolizione della suddetta imposta per garantire anche agli individui più onesti e rispettosi delle istituzioni la liberazione da questa volgare forma di finanziamento della propaganda statalista. Infatti, non è l’evasione la strategia vincente con cui aggredire il burocratismo, poiché fino al momento in cui non sarà la legge a decretare la fine di questo sopruso il paese non potrà dirsene ufficialmente liberato.

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O’ Sole tedesco, ma quanto ci costi! /2010/10/16/o-sole-tedesco-ma-quanto-ci-costi/ /2010/10/16/o-sole-tedesco-ma-quanto-ci-costi/#comments Fri, 15 Oct 2010 23:05:53 +0000 Giovanni Boggero /?p=7299 Brutte notizie per i consumatori tedeschi. L’anno prossimo avranno bollette più care. Tutto sta in una parolina magica che in tedesco si chiama EEG-Umlage e che rappresenta quel contributo aggiuntivo, che chiunque paghi la bolletta in Germania è tenuto a sobbarcarsi per garantire l’elargizione dei sussidi ai fruitori di energie rinnovabili. In altre parole, se è vero che “nessun pasto è gratis”, è altrettanto vero che neanche le sovvenzioni piovono dal cielo, ma i costi se li debbono ripartire tutti i consumatori. E’ il bello della redistribuzione. Ciò che si vede è il sussidio per chi approfitta delle energie rinnovabili. Ciò che non si vede è la tassa occulta addossata a tutti i membri della comunità, anche a quelli che per una libera scelta hanno deciso di non scaldarsi con il sole o con il vento. Che le norme non siano mai neutrali dovremmo averlo capito. Questa ne è l’ulteriore conferma.

Ebbene, l’anno venturo, complice l’aumento della produzione di energia ecologica sul totale, l’Umlage schizzerà verso l’alto (da 2,047 cent a 3,530 per kWh; qui il grafico) e con ogni probabilità l’aumento della bolletta si aggirerà intorno ai 70 euro all’anno per famiglia.

Tra i tanti motivi del repentino aumento della produzione di energie rinnovabili (ma ricordiamo sempre che il solare contribuisce per l’1% alla produzione nazionale di energia teutonica!), il quotidiano economico Handelsblatt cita anche la corsa all’acquisto di un pannello fotovoltaico da parte di moltissimi tedeschi, desiderosi di sfruttare le cd. feed-in-tariffs prima dei tagli destinati ad entrare in vigore nel mese di ottobre 2010 (-3%), a gennaio 2011 (fino a -13%) e a gennaio 2012 (fino a -21%).

Una piccola eterogenesi dei fini, insomma, destinata  forse a rientrare quando i tagli saranno stati implementati una volta per tutte. Solo allora vi sarà forse una discesa della curva totale delle sovvenzioni al solare, che nel 2011, nonostante le tariffe meno generose, toccherà verosimilmente livelli superiori al 2010, a fronte però di una potenza installata maggiore.

L’approvazione del taglio alle sovvenzioni per il fotovoltaico deciso dal Parlamento tedesco lo scorso agosto è infatti solo il primo passo verso la definitiva cancellazione dei sussidi, prevista entro il 2030. Al proposito, gli strepiti degli ambientalisti (e di alcuni curiosi banchieri delle Landesbanken, che paventano una possibile depressione del settore a causa della concorrenza cinese) sono del tutto ingiustificati, tanto più alla luce dei grafici e delle tabelle che gli stessi ecologisti amano esibire per dimostrare che ormai il solare è sempre più concorrenziale. Delle due l’una. O il solare è competitivo e allora i sussidi non servono più e vanno pian piano ridotti. Oppure il solare non è competitivo e perciò deve continuare a rimanere a carico di tutti i contribuenti. Tertium non datur.

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Mengozzi bond, chi li ha visti? /2010/09/14/mengozzi-bond-chi-li-ha-visti/ /2010/09/14/mengozzi-bond-chi-li-ha-visti/#comments Tue, 14 Sep 2010 15:28:23 +0000 Camilla Conti /?p=7049 Obbligazionisti Alitalia, marameo. Traditi, beffati, dimenticati. Non è solo la mancanza del presidente Consob, a testimoniare come il governo non si curi tanto della fiducia dei mercati. Non fa notizia purtroppo, ma di fronte al “bussate e non vi sarà aperto” del governo il popolo dei Mengozzi bond è rimasto a terra col cerino in mano. 

L’odissea del “volo” convertibile Alitalia 7,5% 2002-2010 ha infatti un inizio ma non una fine. Nel marzo 2008 il governo Prodi tratta con Air France la vendita di Alitalia, si parla di una cordata italiana. Il titolo della società agonizzante comincia un’altalena spericolata: ad aprile +18 per cento, il 28 maggio +2,25, il 3 giugno -7,1. Il 6 giugno 2008 Consob e Borsa decidono di sospendere le azioni.  La nuova compagnia decolla, più o meno, mentre la vecchia finisce nel dimenticatoio insieme con i suoi azionisti e obbligazionisti. Nel gennaio 2009 il titolo, dopo essere stato sospeso, viene cancellato dal listino, senza spiegazioni del Garante Cardia che ad aprile liquida così la questione: “Va data una qualche forma di risarcimento, soprattutto agli obbligazionisti”. In Parlamento piovono interrogazioni e dopo l’ennesima, il ministero dell’Economia risponde: i risparmiatori dovranno attendere fino al 31 maggio 2009 per eventuali risarcimenti. Ma il termine passa. Intanto si annuncia che azionisti e obbligazionisti saranno rimborsati attingendo al fondo dei conti dormienti che da due miliardi è però passato a 800 milioni.

A Luglio 2009 spunta il decreto legge anticrisi che estende anche agli azionisti la possibilità di sostituire i titoli con buoni del Tesoro di nuova emissione senza cedola. Queste le modalità di rimborso: per i bondholder, la legge prevede un indennizzo pari a 26,2 centesimi di euro che rappresenta il 70,97% del valore nominale delle obbligazioni detenute, fino a un valore massimo di rimborso di 100 mila euro. I vecchi titoli azionari AZ potranno essere invece ceduti al Tesoro a un prezzo di 27,22 centesimi, circa il 50% del valore medio dell’ultimo mese di contrattazioni del titolo (l’ultimo prezzo fatto registrare prima della sospensione, era stato di 0,445 euro), fino a un valore massimo di rimborso di 50 mila euro per azionista. I rimborsi sono però arrotondati per difetto: se io ho 7000 azioni Alitalia, mi spetterebbero 1.905 euro. Invece me ne daranno mille e se ne terranno 905. Alla fine, se tutto andrà bene, gli azionisti otterranno 0,27 euro ad azione, il 50 per cento del valore medio del titolo nell’ultimo mese di quotazione. E gli obbligazionisti il 70,9 per cento di quanto gli spettava (se fosse stata accettata l’offerta Air France avrebbero preso l’85 per cento). Con un tetto: 50 mila euro per gli azionisti, 100 mila per gli obbligazionisti. Il rimborso verrà effettuato tramite emissione di titoli di Stato, senza cedola, con scadenza 31 dicembre 2012 (fino ad allora insomma non diventeranno denaro e non potranno essere ceduti) e il taglio minimo sarà di 1.000 euro.

I termini per presentare la domanda scadono nell’agosto 2009. Una corsa contro il tempo per i risparmiatori traditi: poco più di 30 giorni, per giunta del mese di agosto, quando l’Italia va in ferie. Si parla di allungare i termini per l’adesione, tentando di inserire una proroga in disegni di legge. Ma la manovra viene respinta perché non c’era copertura finanziaria sufficiente per un’eventuale riapertura dei termini dello swap. Il governo promette comunque che entro il 31 dicembre 2009 provvederà a trasferire i titoli di Stato spettanti sui conti di deposito titoli di ciascun cliente.  A oggi nessuno li ha ancora visti.  Di nuovo c’è solo che gli azionisti non sono stati ammessi al passivi.

Qualche ragionamento in più sui numeri: se tutti avessero scelto il concambio, l’esborso per lo Stato sarebbe stato di circa 300 milioni: i risparmiatori coinvolti (ovvero chi al 29 agosto 2008 aveva in portafoglio bond o azioni della Magliana) sono oltre 10 mila. La compagnia aveva offerto ai cittadini il 38% di un prestito da 715 milioni emesso a luglio 2002, poi prorogato al 2010. In ballo c’erano quindi 270 milioni di obbligazioni (al valore nominale) e rimborsare il 70% significa spendere circa 190 milioni a cui si aggiungono, all’incirca altri 100 milioni per il rimborso delle azioni, per un totale appunto di poco meno di 300 milioni. La gran parte dei risparmiatori ha accettato il piano ma il ministero non paga. Certo, non avrebbero comunque potuto beneficiare della liquidità prima della fine del 2012 depositando quei titoli sul conto sarebbero potuti servire come garanzia per chiedere prestiti in banca.

Traditi,  beffati e dimenticati. Traditi perché ai possessori del prestito Alitalia 7,5% 2010 è stato precluso di avvantaggiarsi del futuro probabile buon andamento della società mentre il trattamento è dipeso dal prezzo a cui il commissario Fantozzi ha venduto le attività della società (aerei, slot, terreni, marchio, avviamento).  Beffati perché anche il magro premio di consolazione promesso dal governo che prima ha dovuto pagare i crediti di Stato, i dipendenti e le banche, non è stato consegnato. Dimenticati perché di Alitalia non si parla nemmeno più in parlamento e sui giornali si lascia spazio solo ai proclami di rilancio dei vertici, quando va bene, o di scioperi, quando va male.  Ecchissenefrega dei Mengozzi bond.

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Perché in Italia vince la “preferenza L” /2010/09/12/perche-in-italia-vince-la-preferenza-l/ /2010/09/12/perche-in-italia-vince-la-preferenza-l/#comments Sun, 12 Sep 2010 15:31:02 +0000 Oscar Giannino /?p=7021 Questo paper l’avevo messo da parte l’anno scorso, ed è rimasto colpevolmente a dormire sotto una pila di stampe, a conferma che la carta tradisce più dei computer. Mi è ripassato per le mani sbarazzandomi di carta inutile. Ma è come se mi abbia parlato, scivolando via per farsi raccogliere e leggere. Lo consiglio a tutti. Perché punta il dito su una singolarità italiana in cui ci imbattiamo tutti ogni giorno: lavoro, scuola, università, servizi pubblici, organizzazione e prestazione del lavoro nelle imprese private, politica, sindacato, professioni. Dovunque in Italia si tocca con mano il prevalere della “preferenza L”. Dove “L” sta per low:  bassa qualità. Dovunque, la bassa qualità è una convenzione accettata, anche se a chiacchiere convive con molti proclami di chi dichiara di non volerla e di non praticarla. Di fatto, la bassa qualità e il pressapochismo sono una conventio di massa, la vera Costitizione materiale del Paese. Ma perché?

Per chi la pensa come noi che non esitiamo a dire che dall’Italia se non migliora bisogna essere pronti ad esercitare l’exit visto che la voice serve a poco, cioè ad andarsene senza troppe nostalgie, non è un caso che il aper l’abbiano scritto due studiosi italiani di qelli che non rinneano il proprio Paese, ma fatto sta che la propria carriera l’hanno fatta all’estero e non tornano. Diego Gambetta insegna Sciologia ed è fellow del Nuffield College ad Oxford, Gloria Origgi si è perfezionata in filosofia del linguaggio e scienze cognitive al Polytechnique e insegna a Parigi all’Institut Jean Nicod del CNRS.

G&G hanno ragione: in Italia la “preferenza L” vince sulla “preferenza H”, il basso sull’alto, il pressapochismo sul perfezionismo e la precisione, non solo melle truffe commerciali olearie e vinicole ai danni dell’Ue e nelle quote latte, tanto meno è prassi con cui la parte meno acculturata e patrimonializzata del Paese tenta di sfangarla dall’eccesso di competizione portato dagli have sugli have not. E’ regola e non eccezione in ogni ambito. Quando viene documentato che  l’economista Stefano Zamagni copia pagine iuntere non quotate da Robert Nozick, il filosofo della politica e rettore del Suor Orsola Benincasa Antonio Villani fa la stessa cosa da molti autori tedeschi, e il filosofo Umberto Galimberti idem con patate copiando di soppiatto da Giulia Sissa che insegna in California, alle loro carriere e stima reputuazionale non capita assolutamente nulla, anzi si scatena una reazione come quella di Gianni Vattimo “cari signori, la filosofia è copiare”, oppure ancora, nel caso di Zamagni, una difesa a oltranza in nome del fatto che lo si vorrebbe colpire in quanto “di sinistra”. Senza contare il fatto che ciascuno ha detto o fatto capire di essere sommamente innocente, perché la copiatura indichiarata avveniva a opera di studenti-negri estensori dei testi per il prof, che certo non aveva a quel punto facoltà di cotnrollo delle citazioni e plagi…

Ma, ripeto, il problema è generale, dell’intera società italiana, non certo del suo corpo accademico e solo di una scuola e università ridotte a mega ammortizzatori sociali di massa (vedi polemiche sui precari: per averlo detto alla radio fuori dai denti come mio costume mi son beccato migliaia di sms d’improperi) invece che a palestre dove si acceda in nome di ciò che si dovrebbe promuovere, cioè merito ed eccellenza.

E il motivo per cui dovunque vince il fattore L è un enorme equilibrio di Nash, quello cioè in cui nessun attore del gioco ha interesse a disallineare la propria preferenza, rispetto a una soluzione alla von Neumann, chealteri le’quilibrio innome del fatto di prevedere un vincitore netto. Se ci ensate bene, è la stessa colpa che si fa al maggioritario in nome del parlamentarsismo e dell’eterna mediazione parlamentare spacciata per essenza della democrazia, è la stessa risposta che si oppone a qualunque riforma vada a incidere seriamente su rendite consolidate, si tratti delle farmacie o di accessi e tariffe delle professioni, dell’ordinamento giudiziario o del pubblico impiego.

L’effetto di questo equilibrio di Nash a favore del fattore L è una buona spiegazione, purtroppo, della bassa produttività italiana comparata, dunque ha effetti negativi certi a lungo andare nel suo complesso, anche se a milioni di praticanti indefessi si traduce nell’apparente vantaggio a breve di autotuela e autopromozione, scegliendo di corrispondere ogni giorno ad altrettanti convinti della superiorità di L su H.

Per chi  crede e punta su H, dunque, la scelta non è predicare, come facciamo qui. O meglio serve ma è un pannicello caldo, la comunicazione pubblica vive come un rito la celebrazione dell’eccellenza tradita, perché poi la imputa sempre a qualcun altro, a chi ha vinto le elezioni o a chi ti escluso dal posto perché amico degli amici come se non lo fossi 90 volte su 100 anche tu.

Oltre le prediche inutili, per chi crede nel fattore H la via consiste nell’associarsi, formare capitale umano e fisico, assumere e licenziare, stipulare contratti e osservarli eccetera SOLO con coloro che praticano la stessa opzione. Perché solo così a lungo andare, e all’emergere del vantaggio sicuro di maggior produttività e benessere da maggior serietà, inizierà a risultare incentivanmte a catena disallineare dall’equilibrio di Nash al ribasso il comportamento concreto di un sempre maggior numero di infingardi avvantaggiati dalle reti relazionali che sono la vera ossatura, dovunque, del nostro Paese.

Roba tosta, da calvinisti illusi? No. E’ la via più seria a cambiare il Paese, quella della serietà.

Se questo alle elezioni significa poi non trovare un partito o una coalizione in linea col fattore L, allora non basta non votare. Perché l’alternativa all’exit cioè all’espatrio per chi può, nella teoria dei giochi è voice cioè fondarne uno nuovo. Di sole persone serie. E chi ride dicendo “illusi” o è un rassegnato profittatore e allora lo capisco, oppure se non ha niente da perdere ha solo da guadagnarci.

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Fs e la concorrenza scorretta /2010/09/10/fs-e-la-concorrenza-scorretta/ /2010/09/10/fs-e-la-concorrenza-scorretta/#comments Fri, 10 Sep 2010 10:46:12 +0000 Oscar Giannino /?p=6994 Ha ragione o torto Mauro Moretti, l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, quando ha affermato “Tu puoi fare la migliore gara possibile e la più trasparente, ma in Italia chi perde si tutela col giudice amministrativo e tu non puoi fare nulla”? Ha ragione o torto, quando annuncia che Fs in futuro, nei settori del mercato aperti alla concorrenza, potrebbe decidere attraverso affidamenti diretti e non più gare, seguendo la possibilità prevista dall’articolo 30 della direttiva 17 del 2004? E’ una duplice questione di peso, per noi che siamo a favore della concorrenza e del mercato. Ma secondo me Moretti ha ragione. E’ l’Europa a dargliela, non noi. Vediamo perché.

A scaldare gli animi è ovviamente l’avvicinarsi della concorrenza che Ntv porterà a Trenitalia sull’Alta Velocità. O meglio, il fatto che Ntv in quanto società privata decida secondo procedure che di fatto configurano un vantaggio asimmetrico, rispetto all’incumbent. Fs si trova sin qui a dover decidere secondo procedure le cui impugnative del concorrente consentono che «tutto venga bloccato per anni, mentre i tuoi competitori possono fare affidamenti anche in un giorno», dice Moretti. E il riferimento diretto è alla gara per l’assegnazione di cinquanta nuovi treni ad altissima velocità vinta dalla joint Bombardier-Ansaldo e subito sospesa per il ricorso presentato da Alstom – fornitore del concorrente Ntv – al Tar del Lazio, che dovrebbe iniziare a pronunciarsi nel merito in merito nella camera di consiglio del prossimo 29 settembre.

Diciamo “dovrebbe”, perché con ogni probabilità il giudice amministrativo non deciderà un bel niente: si limiterà a disporre nei dettagli le modalità interpretative dei dati della gara ai quali ha disposto l’accesso pubblico per Alstom oltre che naturalmente per i propri periti. La maggior probabilità va a favore dell’ennesimo rinvio, al termine del quale dopo mesi e mesi la decisione salomonica potrebbe essere quella di indicare a Fs la necessità di una nuova gara, nel caso in cui si dovesse ritenere che l’interpretazione delle specifiche tecniche e di costo del bando di gara fosse “sdrucciolevole” sin dall’inizio per inadeguata mancanza di chiarezza, o per l’esercizio discrezionale o comunque opinabile delle modalità di attribuzione dei punteggi.

In altre parole, secondo questo probabile calendario della giustizia amministrativa: a Ntv arrivano i primi treni Italo Agv dell’Alstom che percorrono la rete per sperimentare che tecnicamente sia tutto a posto in vista del lancio ufficiale del servizio l’anno prossimo, mentre nel frattempo Trenitalia vede ritardata alle calende greche aggiudicazione e ovviamente consegna dei 50 V300 Zefiro ad altissima velocità, e nel frattempo resta ad affrontare la concorrenza di Ntv, che si preannuncia – vedere per credere – “nell’alto di gamma” del servizio, coi suoi attuali e vecchi ETR500 del consorzio Trevi, convogli tecnologicamente e per allestimento fermi allo stato dell’arte di 22-23 anni fa.

E’ la gara di evidenza pubblica europea, visto che l’importo della commessa era sino al miliardo e mezzo di euro, ciò che per Fs rappresenta un obbligo di trasparenza in quanto società pubblica, per evitare anche la più remota ipotesi che nella spesa del denaro del viaggiatore e del contribuente possano aver peso influenze, prassi e procedure meno che corrette. Un principio sacrosanto, visto il track record non proprio smagliante non solo del settore pubblico italiano in generale, ma della stessa Fs ai tempi di Ligato, tanto per fare un nome, o degli appalti per le pulizie, che l’attuale management ha dovuto azzerare per riaggiudicarli secondo criteri di efficienza, esponendosi a pressioni di ogni tipo e dovendo anche ricorrere a segnalazioni a forze dell’ordine e magistratura.

Diritto comunitario alla mano, tuttavia, la facoltà dell’aggiudicazione diretta invece della gara pubblica, nei settori di mercato nei quali l’azienda pubblica e quelle private concorrente possano e debbano competere su base paritaria di accesso all’infrastruttura per offrire servizi passeggeri e merci, diventa per l’azienda pubblica non una modalità per abbattere la trasparenza, ma per inverare il principio di neutralità tra controllo pubblico e privato delle aziende, neutralità che è sancita dal Trattato europeo sin dalla sua prima versione. Il Trattato afferma e promuove la concorrenza, non discrimina nel mercato la forma proprietaria a favore del privato. Potrà non piacere a mercatisti come noi, da sempre sospettosi e pronti a battagliare ed evidenziare il vantaggio da sussidi e trasferimenti diretti e indiretti che alle aziende pubbliche viene da parte dello Stato e che mancano ai privati concorrenti, ma è uno dei fondamenti da sempre dell’edificio europeo in materia di mercato e concorrenza. E’ così, e di conseguenza, a mio giudizio, Moretti fa bene a ricorrere a tutto ciò che, nell’ordinamento europeo, discende dunque dalla neutralità proprietaria. Se non lo facesse, l’azionista pubblico potrebbe arrivare a chiedergliene conto un domani fino a configurare una vera e propria azione di responsabilità, nel caso in cui a giudizio del Tesoro il mancato ricorso a gare dirette nell’AV o nel trasporto merci avesse l’effetto di determinare un improprio svantaggio di Trenitalia.

Del resto, secondo me Moretti ha fatto anche bene a non procedere subito ad affidamenti, ma a bandire una gara: se non avesse proceduto in questo modo, sarebbe inevitabilmente subito partito il coro di chi avrebbe potuto accusare Fs di opacità. Meglio, molto meglio aver scelto la gara, e di fronte al ricorso accolto del fornitore del concorrente mostrare all’azionista e a tutti i passeggeri che a questo punto si è costretti a reagire per non essere penalizzati. Non che la via dell’affidamento diretto sia poi a propria volta priva di tempi più lunghi di quelli consentiti a Ntv, visto che a quel punto, a doversi pronunciare preventivamente dovrebbe essere la Commissione europea. La normativa europea prevede infatti che, »per determinare se l’attività è direttamente esposta alla concorrenza«, si guardi ai criteri del relativo trattato che riguardano i beni o i servizi interessati, l’esistenza di beni o servizi alternativi, i prezzi e la presenza, effettiva o potenziale, di più fornitori dei beni o servizi in questione. Una richiesta specifica, in questo senso, deve essere fatta dal singolo Stato alla Commissione Europea che ha tre mesi per rispondere o, eventualmente, chiedere una proroga di ulteriori tre mesi.

La via alla concorrenza ferroviaria non si presenta meno ostica di quella aerea. Il particolare è che in entrambi i casi é Banca Intesa a giocare un ruolo di primo piano, visto che il capitale di tutti i soci privati di Ntv a cominciare da quello di Montezemolo è sin dall’atto costitutivo retrocesso in garanzia a Intesa. L’unico vero socio industriale del concorrente di Fs è l’incumbent pubblico francese Sncf. A testimonianza che la gara per l’apertura dei mercati nazionali è innanzitutto una gara tra giganti pubblici, con tedeschi e francesi pronti a far piazza pulita degli avversari.

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Trenitalia: and the winner is… /2010/08/10/trenitalia-and-the-winner-is%e2%80%a6/ /2010/08/10/trenitalia-and-the-winner-is%e2%80%a6/#comments Tue, 10 Aug 2010 10:03:44 +0000 Andrea Giuricin /?p=6744 Non stupisce affatto come sia andata a finire la gara per la costruzione di 50 treni ad alta velocità per Trenitalia. L’ATI vincente è stata Ansaldo Breda con la partecipazione al 40 per cento dei canadesi di Bombardier. La situazione delle due imprese è molto differente: l’azienda italiana, controllata da Finmeccanica, ha avuto molti problemi di bilancio nell’ultimo quinquennio, mentre l’impresa canadese sta crescendo in diversi mercati. La costruttrice francese Alstom, la creatrice del TGV e delle sue evoluzione, che detiene il 70 per cento del mercato AV, è uscita sconfitta lo scorso 5 agosto da questa gara internazionale. A Trenitalia è stata garantita la consegna dei 50 treni per il 2013 e il primo prototipo dello Zefiro V300 dovrebbe arrivare entro il giugno del 2011. Tali tempi di consegna sono molto stretti, viste anche le novità tecnologiche del treno, e di conseguenza i dubbi sul rispetto di queste tempistiche sono elevati. Bisogna dire che la gara è stata aggiudicata alla cordata italo-canadese per 1540 milioni di euro a fronte dell’offerta francese di 1750 milioni di euro. Vi è dunque un risparmio per Trenitalia, per un treno che comunque è ancora un progetto, al contrario del treno Alstom. Al momento dell’aggiudicazione, l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato ha vantato l’italianità del treno, ma gli elementi importanti di questa gara sono stati altri. Perché questa gara sembrava vinta già in partenza?

Lo scorso dicembre, quando Trenitalia ebbe problemi importanti subito dopo l’entrata in funzione della tratta ad alta velocità della Bologna – Firenze, Mauro Moretti, A.D. di FS, accusò Alstom. La critica ai francesi era sulla scarsa qualità dei treni forniti al monopolista italiano in passato. I problemi avevano provocato un settimo dei ritardi complessivi di Trenitalia. Gran parte dei ritardi erano dunque spiegabili da altre defaillance di FS, ma era già chiaro allora che l’accusato numero uno doveva essere l’impresa francese.

Dietro questa accusa si celava la paura della concorrenza. NTV, il nuovo competitor di Trenitalia nell’Alta Velocitá, aveva scelto l’azienda francese per la fornitura dei 25 treni che circoleranno a partire dal settembre del 2011 sulla rete RFI.

Il problema principale di Trenitalia era invece un altro. I treni “Frecciarossa” in media avevano una vita media elevata e i convogli erano gli stessi di quando viaggiavano come Eurostar con l’aggiunta di un semplice restyling. Infatti la flotta di Trenitalia è rimasta invariata negli ultimi anni, poiché l’azienda monopolista non aveva acquistato treni AV.

Un’altra circostanza pone molti dubbi su questa gara vinta dall’ATI italo-canadese.

Il “ballo” delle nomine pubbliche, che ha portato Cardia alla presidenza di FS, ha registrato lo scorso anno un cambiamento non meno importante. Il presidente di Trenitalia era fino pochi mesi fa ai vertici di Finmeccanica. Questa situazione provoca un importante conflitto di interessi.

Quale ruolo puó avere avuto il presidente dell’azienda pubblica operatrice ferroviaria nella scelta dei treni dell’azienda pubblica costruttrice di treni nella quale aveva lavorato fino pochi mesi prima?

Non si può certo discutere la giusta scelta di FS di fare una gara internazionale per l’assegnazione del contratto di costruzione per i treni AV, ma certo rimangono dei dubbi che andrebbero dissipati.

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Bassa produttività, lo schiaffo che ci affoga /2010/08/03/bassa-produttivita-lo-schiaffo-che-ci-affoga/ /2010/08/03/bassa-produttivita-lo-schiaffo-che-ci-affoga/#comments Tue, 03 Aug 2010 18:38:09 +0000 Oscar Giannino /?p=6706 Devono fare riflettere, i dati sulla bassa produttività italiana resi noti oggi dall’Istat. Tra il 2007 e il 2009 è scesa del 2,7%. Ma nopn è questione di cruisi, è un problema che viene da lontano. Nell’intero arco trentennale tra il 1980 e il 2009 è cresciuta solo dell’1,2% annuo. La Banca d’Italia evidenzia che nei 10 anni precedenti la crisi, la produttività per ora lavorata è salita del 3% in Italia contro il 14% dell’area euro. Confindustria, alla sua assemblea nazionale di maggio, ha ricordato che, nell’industria manifatturiera, tra l’avvio dell’euro e il 2007, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto in Italia del 19%, mentre si è ridotto del 7,5% in Francia e del 9,8% in Germania. Abbiamo ceduto ai tedeschi ben 32 punti di competitività. Le ragioni di questa bassa produttività sono molteplici. Ma una strada per uscirne ci sarebbe, a volerla percorrere. Cioè cambiando la testa.

Dal 2001 in avanti con la legge Treu, abbiamo scelto di far crescere l’occupazione ma le nuove tipologie di lavoro flessibile sono classicamente lavori a bassa produttività. In più, il 70% del Pil è fatto di settore pubblico e di servizi assai poco o per nulla esposti alla concorrenza, dunque la produttività ristagna. L’euro, quando si apprezza, colpisce più energicamente i prodotti italiani che, rispetto ai tedeschi, sono mediamente più in basso nella scala del valore aggiunto.

Ma se la colpa non è dei lavoratori italiani, c’è un modo per unire le loro tasche all’obiettivo di far aumentare la produttività. E’ per esempio un importante passo avanti, l’accordo del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi con l’Agenzia delle Entrate, che ammette alla tassazione agevolata del 10% l’intera quota del salario da produttività e non solo le ristrette “voci variabili” della prima interpretazione della norma. E’ una conferma dell’accordo sui nuovi assetti contrattuali, raggiunto nel febbraio del 2009 tra imprese e sindacati. Il “salario decentrato”, aggiuntivo rispetto a quanto definito per qualifica e inquadramento nei contratti nazionali, è nelle intenzioni dei firmatari – tutti, tranne la Cgil – come un grande motore finalmente comune, tra aziende e dipendenti.

Mentre infatti ha ancora un senso che la parte normativa e sui diritti sia estesa per contratto nazionale alla generalità di un intero settore, solo trattando azienda per azienda è possibile definire come utilizzare al meglio gli impianti rispondendo all’elasticità della domanda, modulando orari, riposi, straordinari e turni. Unendo due obiettivi: consentire certo alle imprese migliori margini, ma insieme alzare il reddito disponibile dei lavoratori. Il governo aveva già disposto la detassazione, che ora è ulteriormente estesa. Parlando dell’intesa raggiunta a Pomigliano d’Arco, significa per gli operai Fiat, sulle 120 ore di straordinario pattuite invece delle 40 standard da contratto, trovarsi nelle tasche 510 euro netti in più, rispetto alla stesso lordo di circa 3mila euro dovuto per le ore di lavoro aggiuntive annuali.

Non è poco. Dovrebbe aiutare a rasserenare l’atmosfera in tutta la vicenda Fiat, ad estendere l’intesa di Pomigliano a tutti gli stabilimenti del gruppo. E’ paradossale che le maestranze americane di Chrysler si siano strette festanti insieme al presidente Obama intorno a Sergio Marchionne, grate del rilancio aziendale e convinte anche della necessità che i nuovi assunti abbiano accettato livelli retributivi inferiori ai seniores. Mentre da noi si scatena la guerra, quando la stessa azienda non propone qui salari differenziati, ma solo che a fronte di investimenti per 20 miliardi sia innanzitutto possibile ristabilire la legalità. E cioè abbattere assenteismo e doppi lavori in nero, realizzare esattamente quel che già stabiliva l’accordo interconfederale del 2009: che le deroghe contrattuali, per azienda e stabilimento, sarebbero state finalmente possibili, trattandole col sindacato, anche per rispondere alla necessità di migliorare gli obiettivi produttivi.

E’ comprensibile, nel nostro Paese molto diverso dai mercati anglosassoni, che la rivoluzione che ha preso le mosse coi nuovi accordi e che inizia nel caso Fiat generi allarme e preoccupazione, in quelle organizzazioni da decenni strutturate intorno al rito-mito del contratto nazionale. E’ ovvio che, dopo la Fiat, altre aziende seguiranno in Italia il suo esempio. E che ciò chieda sia al sindacato, sia alle rappresentanze d’impresa, una maggior focalizzazione sul livello territoriale e aziendale e cioè su cose concrete, non più sugli aspetti politico-simbolici del CCNL. Ma è l’intero mondo del lavoro coi suoi cambiamenti a esigerlo.

Non solo per la globalizzazione, che non è la gara tra chi guadagna meno come vorrebbero dipingerla i suoi nemici, ma è al contrario la gara a chi vi si afferma meglio per soddisfare miliardi di non più poveri in nome della qualità e dell’innovazione, che consentono salari migliori nei Paesi più avanzati. Ma anche perché innanzitutto nel nostro Paese il lavoro non è più quello descritto e cristallizzato nella rigidità dello Statuto dei lavoratori, che fu conquista ma risale a 40 anni fa. Ed è in questa direzione che si è mossa l’azione  del ministro Sacconi dacché è in carica e con il Piano triennale del lavoro appena annunciato, di cui costituirà parte attuativa fondamentale lo Statuto dei lavori di Marco Biagi, che verrà purtroppo per l’ennesima violta ucciso in culla se la legislatura cade. Un mondo del lavoro fondato sulle esigenze delle persone e sulla loro occupabilità a cominciare dai nostri punti deboli e cioè donne e giovani, sulla maggior sicurezza del lavoro e sull’emersione del nero attraverso il potenziamento dei controlli ispettivi, ma anche sulla liberazione del lavoro attraverso una minor pressione fiscale, una formazione ricorrente del capitale umano, e nuovi istituti di welfare fondati non sulle sole esauste casse dello Stato ma sulla sussidiarietà e sull’accordo bilaterale tra sindacati e aziende.

Sempre che la legislatura duri. La politica si metta una mano sulla coscienza. Se crederà che gli italiani siano disposti a fare sconti, e cioè ad assistere a mesi o magari anni di scontri politici trascurando l’agenda concreta di ciò che serve al Paese mentre il mondo corre e cambia, senza poi far pagare un duro prezzo a chi ne sarà responsabile, secondo me la politica si illude. Bisoga essere pronti, in quel caso, a non fare sconti a chi si comporta in mnaiera così cialtronesca sia con le promesse leettorali che ha fatto, sia verso i guai che pesano sul Paese.

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