CHICAGO BLOG » clima http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Che culo, c’è la recessione /2010/10/13/che-culo-ce-la-recessione/ /2010/10/13/che-culo-ce-la-recessione/#comments Wed, 13 Oct 2010 12:55:34 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7277 L’Italia è uno dei tre paesi dell’Ue15 – assieme ad Austria e Danimarca – che devono rimboccarsi le maniche per raggiungere l’obiettivo di riduzione delle loro emissioni. Per il resto, l’Unione europea brinda oggi alla luce del più recente rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente. Infatti, Kyoto è vicino, anzi,

large drop in emissions seen in 2008 and 2009 gives EU-15 a head start to reach and even overachieve its 8 % reduction target under the Kyoto Protocol.

Infatti, l’Ue ha potuto contare sul sostegno di un grande alleato: la recessione.

Questa ambiguità non è nuova a Bruxelles. A maggio, quando la commissaria per il clima, Connie Hedegaard, tentò di alzare l’asticella spostando l’obiettivo di riduzione per il 2020 al 30 per cento,le organizzazioni industriali del vecchio continente andarono su tutte le furie perché la bozza di comunicazione predisposta dalla Commissione di fatto accreditava l’idea che il calo osservato l’anno scorso, e dovuto al crollo della produzione industriale, fosse in qualche modo un vantaggio. Scrisse all’epoca la Confindustria tedesca, in un documento interno:

La minore crescita economica non dovrebbe essere celebrata come uno strumento per la protezione del clima.

(Qui un commento sull’episodio). Adesso lo stesso atteggiamento pauperista e anti-crescita ritorna, alla grande, per bocca dell’Agenzia europea dell’ambiente, la quale nota, non senza una certa soddisfazione, che l’obiettivo di Kyoto (-8 per cento nel 2012) è terribilmente vicino, “grazie” alla sostanziale riduzione osservata nel 2008-2009. Nel 2009, in particolare, l’Ue27 ha visto ridursi il suo Pil del 4,2 per cento, e le emissioni del 6,9 per cento. Il nesso tra queste due variazioni è talmente stretto, evidente e chiaro che neppure la stessa Eea riesce a tacerlo, anche se lo confina all’ultimo punto nei suoi key findings (ritenendolo forse meno importante dell’auto-incensamento per il grandioso risultato raggiunto). La quale addirittura si spinge a sottolineare che la recessione ha contato meno, nel determinare questa tendenza, rispetto all’effetto delle politiche di contenimento delle emissioni. Infatti,

Return to economic growth could temporarily level off or even reverse the decline in emissions, but the declining trend is expected to continue.

Non mi è chiaro in base a cosa si possa sostenere una simile tesi. Non c’è comunicato dell’Agenzia degli ultimi dieci anni che non abbia riconosciuto che le due variabili fondamentali dietro l’andamento delle emissioni sono il tempo (inverno freddo emissioni alte, e viceversa) e la performance economica (crescita sostenuta emissioni alte, e viceversa). In questo senso, trovo abbastanza sconcertante che, se da un lato si magnificano i risultati raggiunti, dall’altro non si esprima la più piccola preoccupazione per il modo in cui, in larga parte, sono stati ottenuti. Elogiare la recessione (o anche solo accettarla come un fatto) è un approccio due volte autolesionista. Anzitutto perché, se nell’immediato essa può effettivamente contribuire a ridurre le emissioni, nel lungo termine un impoverimento generalizzato riduce la capacità di investimento dei paesi europei sia in innovazione, sia nelle mitiche fonti rinnovabili (basta guardarsi in giro per vedere ovunque il tentativo di abbassare gli incentivi, e senza incentivi bye bye green economy). La recessione fa pure emergere il lato più distorsivo degli incentivi: schermando la remuneratività delle fonti verdi dagli alti e bassi del mercato (e questo è vero in particolare per le tariffe feed-in) essi tendono a scaricare il calo della domanda unicamente sulle produzioni convenzionali, spingendo così i prezzi effettivi per i consumatori e i costi di generazione per il sistema verso l’alto, in una spirale pro-ciclica di cui l’economia non ha certo bisogno.

Il sostanziale fallimento delle politiche climatiche è pure evidente dalla figura chiave, che si trova a p.32 del rapporto linkato sopra. La figura è la seguente (cliccare per ingrandire).

Il grafico di sinistra mostra lo scenario base; quello di destra illustra invece lo scenario di riferimento nel caso tutte le speranze (aka “scenario libro dei sogni” o “promessa elettorale”). In entrambi i casi, due aspetti sono evidenti: 1) sotto una ragionevole ipotesi di crescita economica, buona parte della riduzione delle emissioni nel 2009 è destinata a essere riassorbita (al contrario di quanto scritto nel comunicato stampa); 2) la maggior parte delle presunte riduzioni sono attese nei settori “non Ets”, cioè quelli che non sono soggetti al mercato dei fumi. Un aspetto interessante: nei settori Ets lo shock della crisi verrà riassorbito solo in minima parte, segno che l’effetto della recessione sulle produzioni ad alta intensità di energia rischia di essere permanente. In questo, le politiche europee possono effettivamente giocare un ruolo: rendendo strutturale un impatto che, almeno in parte, era solo congiunturale. In altre parole, la crisi è stata una sorta di trigger, spingendo le imprese a delocalizzare sia per fronteggiare il calo della domanda, sia per prevenire il potenziale ulteriore aumento dei costi energetici o della confusione amministrativa, o di entrambi, dovuta alle nuove politiche europee, tanto più che lo scenario internazionale lascia intuire un acuirsi dell’asimmetria tra l’Ue, virtuosa e fessa, e il resto del mondo. In breve, la bontà della recessione non viene solo riconosciuta nelle parole dei funzionari europei: la recessione viene consapevolmente (e colpevolmente) integrata tra le politiche climatiche del Vecchio Continente.

Qualche elemento di curiosità desta, poi, il club dei cattivi: di cui fa parte, come sempre, l’Italia (le cui virtù un giorno emergeranno ché, almeno per l’elettrico, abbiamo il parco di generazione più pulito d’Europa), ma anche, a sorpresa, due paesi simbolo delle politiche verdi: Austria e Danimarca. Che è successo? In Austria, molto semplicemente, la sensibilità ambientale si è tradotta più nella meticolosa cura del territorio, che nella lotta alla crescita economica. Anzi: una crescita rapida e sostenuta ha allontanato il paese dagli obiettivi di Kyoto, costringendolo ad acquistare una montagna di crediti sul mercato europeo (e, dal punto di vista degli austriaci, grazie a Dio che costavano poco). Dell’Italia sappiamo tutto: il punto più importante è che ci siamo trovati in una situazione simile a quella austriaca (seppure senza essere particolarmente corti di permessi) ma per ragioni molto diverse; cioè, non per la crescita alta e prolungata (che non c’è stata) ma perché siamo stati penalizzati dalla scelta del 1990 come anno di riferimento. L’Italia è un paese, sotto il profilo delle emissioni, che era virtuoso prima di Kyoto e che dunque è svantaggiato dal modo in cui i meccanismi sono stati implementati. E la Danimarca? Il paese dei green jobs e del wind power? Probabilmente, Copenhagen ha fallito perché aveva assunto un obiettivo irrealistico (-21 per cento, mentre attualmente si trova a -9,2 per cento). Questo suggerisce che ad impossibilia nemo tenetur dovrebbe essere un principio scolpito nella roccia. Tra l’altro, la Danimarca sta già pagando un pesante tributo alla sua fama di paese verde, come abbiamo spiegato qui e come viene più nel dettaglio approfondito qui.

In conclusione, ancora una volta l’Europa dimostra, nel modo in cui affronta le sue politiche ambientali, tutto il suo strabismo. Fissare obiettivi costosi e sostanzialmente privi di benefici ambientali, intonare il mantra dei loro presunti benefici economici pur sapendo che essi sono inesistenti, e usare tutto ciò come un surrogato della ricerca identitaria è il modo peggiore di affrontare un problema che di per sé può essere serio. Ma arrivare al punto da considerare la recessione una benedizione divina è la prova provata che a Bruxelles si è completamente perso interesse per qualunque considerazione di efficacia ed efficienza.

(Il post gemello si trova qui).

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“The Rational Optimist” gratis su Amazon. Scaricatelo! /2010/09/16/the-rational-optimist-gratis-su-amazon-scaricatelo/ /2010/09/16/the-rational-optimist-gratis-su-amazon-scaricatelo/#comments Thu, 16 Sep 2010 08:59:36 +0000 Alberto Mingardi /?p=7053 The Rational Optimist di Matt Rildey è un libro veramente notevole. L’autore è un apprezzato giornalista scientifico (fra i suoi libri Il gene agile. La nuova alleanza tra eredità e ambiente, edito in Italia da Adelphi, e La regina rossa. Sesso ed evoluzione, edito da Instar), in passato è stato fra i caposervizio dell’Economist, e – sull’onda del suo interesse per la teoria dell’evoluzione – ha sviluppato una vera passione per lo studio degli “ordini spontanei”.

Ho scritto una recensione di The Rational Optimist appena uscito, ne sono uscite di ben più autorevoli, dall’Economist in giù, a suo modo una eccellente testimonianza sul valore del libro è il bilioso commento dell’ex-hayekiano ed ex-thatcherofilo John Gray (sul New Statesman)

Questo libro straordinario è ora ridisponibile gratis (gratis) in versione Kindle (HT Massimiliano Trovato), lo potete scaricare qui. I diritti italiani di The Rational Optimist sono stati comprati da Rizzoli, che dovrebbe pubblicarlo l’anno prossimo.

Se avete amato questo libro fantastico, se conoscete i precedenti lavori di Ridley, o se semplicemente in questi tempi bui avete bisogno di una iniezione di “ottimismo razionale” non potete mancare al “Seminario Mises” di quest’anno. Proprio Matt Ridley terrà infatti la “Franco Forlin Lecture”, evento centrale del seminario di Sestri.

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Cambiategli nome /2010/09/07/cambiategli-nome/ /2010/09/07/cambiategli-nome/#comments Tue, 07 Sep 2010 10:32:38 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6967 La pubblicazione del rapporto dell’InterAcademy Council sul processo dell’Ipcc – l’organizzazione delle Nazioni unite che fa “il punto” sulla scienza del clima – ha generato reazioni eterogenee quanto prevedibili. Gli “amici” dell’Ipcc vi hanno letto una sentenza di assoluzione, i critici una condanna. Probabilmente la verità sta nel mezzo, ma certamente sarebbe sorprendente se la cosa rimanesse priva di conseguenze. Come invece sarà.

Anzitutto, cosa dice il rapporto? Questo il primo paragrafo della presentazione disponibile sul sito Iac:

The process used by the Intergovernmental Panel on Climate Change to produce its periodic assessment reports has been successful overall, but IPCC needs to fundamentally reform its management structure and strengthen its procedures to handle ever larger and increasingly complex climate assessments as well as the more intense public scrutiny coming from a world grappling with how best to respond to climate change, says a new report from the InterAcademy Council (IAC), an Amsterdam-based organization of the world’s science academies.

(Qui l’efficace sintesi di Piero Vietti,  qui un commento caustico di Fabio Spina).

Fin dalle prime righe, si capisce, appunto, che l’esito è favorevole all’Ipcc, ma non tenero. Infatti, il risultato è “overall” di successo ma “richiede cambiamenti fondamentali nella sua struttura di management e il rafforzamento delle sue procedure”. Non è un giudizio di cui andar troppo lieti, se si tiene alla credibilità dell’Ipcc e soprattutto se si considera che dalle conclusioni dell’Ipcc, e dal modo in cui vengono presentate, dipendono scelte politiche destinate a produrre un impatto enorme.

Il Focal point italiano dell’Ipcc, Sergio Castellari, ha commentato:

Nessuna critica dallo Iac ai contenuti scientifici prodotti dai ricercatori e dagli scienziati dell’Ipcc per delineare lo stato del cambiamento climatico in atto sul nostro pianeta ma solo osservazioni su alcune procedure adottate dal Panel, osservazioni che io stesso condivido pienamente.

Ora, a me pare un commento un po’ pilatesco. Infatti, lo Iac non ha criticato i contenuti scientifici dei rapporti Ipcc perché non era questo il suo mandato. Il mandato era quello di rivedere la catena di costruzione dei rapporti e valutarne l’efficienza: lo Iac ha dato quello che, tanti anni fa, avremmo chiamato un “18 politico” (o, se volete, un 18 non politico, ma pur sempre un 18). Quindi, la sufficienza. “Sufficiente” è un giudizio che – perdonatemi – è spesso insufficiente. Vi lascereste operare da un chirurgo la cui unica referenza sia la laurea col minimo dei voti? Quando si occupa un ruolo centrale rispetto a un processo decisionale, non basta la “sufficienza”: ci vuole uno standard molto più elevato di quello formalmente richiesto, e per buone ragioni. Allora, la scelta di Castellari di minimizzare mi pare un nascondere la testa sotto la sabbia. Anche perché trovo difficile sostenere, alla luce della sentenza Iac, che le conclusioni dell’Ipcc sono ineccepibili: nel senso che (da profano) tendo a pensare che difficilmente una procedura inefficiente (e sulla sua inefficienza anche Castellari “condivide pienamente”, parole sue) possa produrre risultati indiscutibili.

Pensavo a queste cose e mi chiedevo a quali conseguenze potrebbero portare se l’onestà scientifica fosse la regola. Sicuramente, credo che le dimissioni del capo dell’Ipcc, Rajendra Pachauri, fossero il minimo sindacale, anche perché una delle osservazioni dello Iac riguarda appunto la durata eccessiva del mandato del presidente. Il quadro paradossale è questo: Pachauri incarica un consulente (che quindi è naturalmente ben predisposto, non lavorando per un ente terzo) di valutare le procedure dell’ente da lui presieduto; il consulente dice che bisogna stringere i bulloni e che, tra gli altri bulloni, uno riguarda proprio la durata del mandato presidenziale; e l’eterno presidente se la cava con una pacca sulla spalla, grazie e arrivederci.

Pensavo a queste cose e mi chiedevo come uscire dalle contraddizioni apparentemente insanabili quando, grazie alla segnalazione di Guido Guidi, ho trovato queste illuminanti parole di Pachauri:

we are an intergovernmental body and our strength and acceptability of what we produce is largely because we are owned by governments. If that was not the case, then we would be like any other scientific body that maybe producing first-rate reports but don’t see the light of the day because they don’t matter in policy-making. Now clearly, if it’s an inter-governmental body and we want governments’ ownership of what we produce, obviously they will give us guidance of what direction to follow, what are the questions they want answered. Unfortunately, people have completely missed the original resolution by which IPCC was set up. It clearly says that our assessment should include realistic response strategies. If that is not an assessment of policies, then what does it represent? And I am afraid, we have been, in my view, defensive in coming out with a whole range of policies and I am not saying we prescribe policy A or B or C but on the basis of science, we are looking at realistic response strategies.

A quel punto ho capito che l’errore era mio, ed era di base. Non c’è alcuna “contraddizione apparentemente insanabile”: c’è, semmai, una “apparente contraddizione insanabile”. Infatti, abbiamo sempre sbagliato quando abbiamo voluto illuderci che l’Ipcc fosse un organo scientifico e che il suo oggetto fosse indagare la scienze per offrire un quadro equo delle conoscenze scientifiche. L’Ipcc – per esplicita ammissione del suo presidente, oltre che per la sua missione - non è “any other scientific body” ma deve la sua forza e la sua credibilità al fatto che è posseduto, governato e indirizzato dai governi. Il suo obiettivo, a fortiori, non è indagare la scienza, ma giustificare decisioni prese a priori (“obviously they will give us guidance of what direction to follow, what are the questions they want answered”, e solo per carità di patria deve essersi morso la lingua prima di dire “quali risposte desiderano alle domande che suggeriscono”). Neppure l’Ipcc suggerisce politiche “sulla base della scienza”: esso si limita a “suggerire strategie di risposta realistiche”. Realistiche rispetto a cosa? Ma alla politica, naturalmente, che è il dna, l’essenza e la ragion d’essere dell’Ipcc.

Dunque, non servono tante riforme né procedure complicate. Basta una sola riforma. Cambiare il nome all’Ipcc in modo che esprima quello che è: Intergovernmental Panel on Climate Politics. Insomma, il Porta a porta (qualunque allusione è lecita e incoraggiata) del clima.

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Ferragosto, Sartori mio ti riconosco /2010/08/15/ferragosto-sartori-mio-ti-riconosco/ /2010/08/15/ferragosto-sartori-mio-ti-riconosco/#comments Sun, 15 Aug 2010 07:22:43 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6792 Da alcuni anni, il professor Giovanni Sartori approfitta della penuria estiva di notizie per farsi pubblicare sempre lo stesso articolo, sempre nel giorno di Ferragosto, e sempre sul Corriere della sera. Sarà forse perché un 15 agosto così freddo e così brutto non lo si vedeva da tempi immemorabili, ma quest’anno – accanto al consueto rosario catastrofista – Sartori dice una cosa nuova e giusta.

Prima di dare credito a Sartori per questa inattesa deviazione rispetto alla norma, però, vale la pena evidenziare almeno due errori da matita blu presenti nel sermone. Il primo:

[Il clima sta cambiando] Ma molti governi, Italia in testa, non fanno nulla per creare un’opinione “verde” né per affrontare seriamente il problema del collasso ecologico. [corsivo aggiunto]

Non voglio, qui, discutere l’esistenza del collasso ecologico (lo farò tra poche righe). Voglio invece concentrarmi sulle parole in corsivo perché mi sembrano false dal punto di vista descrittivo e pericolose da quello prescrittivo. False, perché se c’è un tema su cui tutti i governi, compreso quello italiano, investono risorse in comunicazione ed “educazione” (oltre che formazione nelle scuole), è proprio quello del clima. Ci sarebbe, semmai, da mettere il naso nella qualità dell’informazione fornita (anche attraverso il servizio pubblico radiotelevisivo, specie nelle sue declinazioni più allarmiste e/o peracottare) ma non mi sembra che ci sia un deficit di “informazione”. Lo dimostra, per esempio, l’ultima rilevazione Eurobarometro sul tema, secondo cui il 47 per cento degli europei e il 32 per cento degli italiani considerano il riscaldamento globale uno dei problemi più seri che il mondo si trovi ad affrontare (entrambi in netto calo rispetto alle rilevazioni precedenti, principalmente a causa della crisi che ha determinato una revisione delle priorità). Se gli italiani e gli europei temono tanto il riscaldamento globale, è a causa sia della propaganda delle organizzazioni verdi, sia della propaganda pubblica di governi e organizzazioni internazionali. Quindi, Sartori dice una bischerata. Ma il problema vero è che io non credo che i governi dovrebbero formare l’opinione pubblica: anche senza fare l’estremista liberista che sono, posso concedere che i governi debbano occuparsi dei beni pubblici, internalizzare le esternalità, garantire i diritti eccetera. Ma l’opinione pubblica dovrebbe formarsi liberamente: altrimenti, da qui al Minculpop il passo è breve (ieri la razza, oggi il clima: cambiano solo i pretesti per dare al governo il potere di dire alla gente ciò che deve pensare). Dunque, mi fa molto più paura il governo educatore del cambiamento del clima.

Il secondo errore da matita blu è questo:

La crisi economica è e resta grave, ma il problema della crescente invivibilità del nostro pianeta è molto, molto più grave.

Crescente invivibilità?? Non so dove Sartori “inviva” (credo in un attico newyorkese), ma dalle mie parti (ok, la Liguria è una zona fortunata) il mondo è vivibile – oggi più di ieri, e ieri più dell’altroieri. Tutti i dati, del resto, suggeriscono che le cose stiano così. Lo suggeriscono in particolare due dati, che Sartori conosce molto bene perché ci ha “scritto” un libro. Il primo dato è quello sulla popolazione globale, che è cresciuta da 2,5 miliardi di esseri umani nel1950 a 7 miliardi oggi, e continuerà a crescere  – si stima – fino a circa 9 miliardi nel 2050. Se una popolazione cresce, è anche perché l’ambiente in cui vive è migliore (rispetto alle sue esigenze), più ospitale e meno tossico. Cosa, peraltro, confermata dal secondo dato: l’aspettativa di vita alla nascita, a livello medio globale, è cresciuta da 54 anni nel1960 a 71 nel 2008 (in Italia, rispettivamente, da da 72 a 84). In quale senso del termine un pianeta nel quale si verificano queste tendenze è caratterizzato da una “crescente invivibilità”?

Sartori scrive poi due cose quanto meno bizzarre: anzitutto abbandona clamorosamente l’energia eolica (“è fiorita quasi soltanto perché fonte di tangenti e di intrallazzi” ed è “largamente un imbroglio“), che è bizzarro perché l’eolico – in condizioni di adeguata ventosità – è la meno patacca tra le fonti rinnovabili (al netto dell’idroelettrico). Ma a Sartori – è chiaro dalle edizioni precedenti della sua omelia – non interessa garantire uno sviluppo sostenibile: Sartori pensa che siamo troppi e consumiamo troppo, e dunque non si fa troppi problemi su come compensare gli eventuali sacrifici ecologici. Poi usa Bjorn Lomborg pro domo sua, attribuendogli una conversione inesistente (da “negazionista” a tiepidamente interventista) perché Lomborg non ha mai negato l’esistenza del cambiamento climatico né il ruolo dell’uomo, ma ha sempre sostenuto (e lo fa ancora adesso) l’opportunità di non spendere tonnellate di soldi nelle politiche che piacciono a Sartori.

Comunque, dicevo, Sartori conclude il pezzo dicendo una cosa molto giusta, e questo gli va riconosciuto. Il ragionamento è che le varie profezie su questo o quel disastro si rivelano sistematicamente fallaci perché pretendono di avere una precisione di cui non disponiamo. Per Sartori, possiamo individuare delle tendenze (quelle che individua lui sono peraltro sbagliate, come sull’esaurimento delle risorse, ma questo è un altro discorso) ma non fissare delle date fine-di-mondo. Tuttavia, l’opinione pubblica è sensibile proprio a queste ultime, quindi – secondo Sartori – c’è una sorta di trade off tra l’onestà nella comunicazione scientifica e l’efficacia nel raggiungere gli obiettivi politici a essa collegati (già sentito?). Dunque,

predire scadenze è sbagliato; ma non farlo rende la predizione inefficace. Come uscire da questo circolo vizioso? Non lo so.

Ecco: “non lo so” sono le tre parole più corrette dell’articolo. Solo, andrebbero generalizzate.

Update 10:18 AM: testo corretto secondo il rilievo di LucaF. Grazie Luca!

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Clima: te l’avevo detto, io /2010/07/23/clima-te-lavevo-detto-io/ /2010/07/23/clima-te-lavevo-detto-io/#comments Fri, 23 Jul 2010 09:05:00 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6623 Autocitarsi è sempre un po’ antipatico e va fatto con moderazione e ironia, ma a volte ci vuole. Leggere che i Democratici hanno rinunciato al climate bill, che avrebbe allineato (seppure in modo molto graduale e con le dovute calma e cautela) gli Usa alle politiche energetiche europee, non solo mi riempie di speranza. Non solo automaticamente paralizza tutti i negoziati globali sul tema, visto che è assai improbabile che gli Usa, non potendo raggiungere un compromesso interno, si facciano promotori di un compromesso internazionale. Non solo desta qualche preoccupazione e attenzione per la possibile scelta della Casa bianca di premere il pedale sulla regolazione della CO2 come un inquinante – una follia che nessun economista, che io sappia, considera sensata, ma con la politica non si sa mai. Soprattutto, provo una certa soddisfazione sapendo che – mentre tutti in Europa si sbracciavano per l’elezione di Obama e l’europeizzazione degli States – come Puffo Quattrocchi, l’avevo detto, io – in tempi non sospetti.

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Assolti? /2010/07/12/assolti/ /2010/07/12/assolti/#comments Mon, 12 Jul 2010 13:25:34 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6496 Il climategate si è sgonfiato. Le mail dei climatologi dell’East Anglia che discutevano di quale “trick” usare “to hide the decline” non danno scandalo. La pubblicazione dell’indagine coordinata da Sir Muir Russell sembra scagionare gli scienziati che, per alcuni mesi, sono stati accusati di truccare le carte per far sembrare l’emergenza climatica più grave di quanto non fosse. Tutto finito, dunque? Tutti assolti? Tutti puliti? Vediamo.

Il Muir Report effettivamente nega addebiti sostanziali al gruppo di ricerca guidato da Phil Jones. Leggendo il dettaglio delle accuse, però, emerge un quadro tutt’altro che trasparente del lavoro dei santoni del clima. Va detto che questo rapporto non si occupa di questioni scientifiche, le quali – teoricamente – sono state risolte in uno striminzito rapporto di otto pagine di cui mi sono già brevemente occupato (e che, in realtà, se letto tra le righe non dà un’immagine molto positiva dei metodi di Jones e soci).

Anche nel caso del rapporto Muir, non bisogna fermarsi alle affermazioni generali che, tendenzialmente, gettano acqua sul fuoco (cane non morde cane). Bisogna leggere tra le righe o, in alcuni casi, non serve neppure spingersi tanto in là: basta leggere le righe (magari andando oltre le prime 4 o 5). Prima di farlo, è bene però tenere a mente che il rapporto Muir non intende validare la scienza della Climate Research Unit: si occupa solo di valutare i comportamenti e l’onestà dei ricercatori. Incollo, senza commentarli perché parlano da sé, alcuni dei punti – per me – chiave.

On the specific allegations made against the behaviour of CRU scientists, we find that their rigour and honesty as scientists are not in doubt.

But we do find that there has been a consistent pattern of failing to display the proper degree of openness, both on the part of the CRU scientists and on the part of the UEA, who failed to recognise not only the significance of statutory requirements but also the risk to the reputation of the University and, indeed, to the credibility of UK climate science.

On the allegation of withholding station identifiers we find that CRU should have made available an unambiguous list of the stations used in each of the versions of the Climatic Research Unit Land Temperature Record (CRUTEM) at the time of publication. We find that CRU‟s responses to reasonable requests for information were unhelpful and defensive.

On the allegation that the references in a specific e-mail to a „trick‟ and to „hide the decline‟ in respect of a 1999 WMO report figure show evidence of intent to paint a misleading picture, we find that, given its subsequent iconic significance (not least the use of a similar figure in the IPCC Third Assessment Report), the figure supplied for the WMO Report was misleading. We do not find that it is misleading to curtail reconstructions at some point per se, or to splice data, but we believe that both of these procedures should have been made plain ideally in the figure but certainly clearly described in either the caption or the text.

On the allegations in relation to withholding data, in particular concerning the small sample size of the tree ring data from the Yamal peninsula, CRU did not withhold the underlying raw data (having correctly directed the single request to the owners).On the allegation that CRU does not appear to have acted in a way consistent with the spirit and intent of the FoIA or EIR, we find that there was unhelpfulness in responding to requests and evidence that e-mails might have been deleted in order to make them unavailable should a subsequent request be made for them.Given the significance of the work of CRU, UEA management failed to recognise in their risk management the potential for damage to the University‟s reputation fuelled by the controversy over data access.

University senior management should have accepted more responsibility for implementing the required processes for FoIA and EIR compliance.

But it is evidently true that access to the raw data was not simple until it was archived in 2009 and that this delay can rightly be criticized on general principles. In the interests of transparency, we believe that CRU should have ensured that the data they did not own, but on which their publications relied, was archived in a more timely way.

La maggior parte di questi – usiamo un eufemismo – cattivi comportamenti non hanno un effetto particolare sul lavoro dei colleghi di diverso avviso (tranne, naturalmente, la faccenda sulla disponibilità e trasparenza dei dati). Sono però cruciali nel momento in cui gli scienziati parlano coi decisori politici e col pubblico, generalmente privi di formazione scientifica in generale, e di scienza del clima in particolare. In sostanza, l’indagine indipendente riconosce che la cricca offriva una rappresentazione semplicistica delle dinamiche climatiche, e cercava di proteggere i suoi metodi attraverso un atteggiamento difensivo e arrogante. Probabilmente questo non è sufficiente a configurare violazioni delle norme o anche solo del codice etico dell’Università, ma è chiaro che, quando un’istituzione ha un ruolo tanto centrale rispetto a un tema tanto politicamente bollente, ci si aspetta il massimo della trasparenza e dell’onestà. Evidentemente, così non è stato. Il fatto che decisioni politiche dalla portata enorme dipendano dalla rappresentazione falsa o tendenziosa della realtà offerta da un gruppo di accademici livorosi – come è chiaro leggendo le parole che, nei loro scambi di email, dedicano ai colleghi critici – non fornisce quel grado di ragionevole tranquillità in virtù del quale tutti noi non-esperti siamo chiamati a prendere per oro colato tutto ciò che dicono.

“E’ la politica, bellezza”. Qui il clima non c’entra, o c’entra molto poco.

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Europa e clima. Quando la mano destra non sa che fa la sinistra /2010/06/16/europa-e-clima-quando-la-mano-destra-non-sa-che-fa-la-sinistra/ /2010/06/16/europa-e-clima-quando-la-mano-destra-non-sa-che-fa-la-sinistra/#comments Wed, 16 Jun 2010 07:57:20 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6284 Nonostante lo stallo raggiunto nelle settimane scorse, nei corridoi di Bruxelles l’ipotesi di alzare dal 20 al 30 per cento il target di riduzione delle emissioni non è ancora tramontata. C’è, all’interno dell’Ue, una forte lobby che spinge per rilanciare, nonostante il basso livello di probabilità di raggiungere un accordo a Cancun alla fine di quest’anno – cioè l’alta probabilità che l’Europa continui a trovarsi isolata sulla strada dei sacrifici unilaterali. Di questo atteggiamento ambiguo, oscillante tra il realismo della ragione e l’utopismo delle anime belle (ma non solo quelle), si trova traccia nella bozza delle conclusioni del Consiglio europeo, che dovrebbe concludersi domani. Le bozze – che Chicago-blog ha potuto vedere  in anticipo – sembrano scritte nella migliore tradizione democristiana, lasciano aperte tutte le porte.

Se la bozza resterà immutata, almeno nella sostanza, il documento chiede alla Commissione di intraprendere “analisi ulteriori” sulla fattibilità dell’obiettivo. La divisione tra gli Stati membri è molto più subdola e trasversale del solito: è difficile dire chi è contro e chi a favore – sebbene vi siano alcuni indubitabilmente a favore, e alcuni indubitabilmente contro. La lotta è intestina, interna ai singoli paesi: e si svolge secondo il copione consunto dei ministri dell’ambiente contro i ministri dell’industria, un copione che, con la nuova organizzazione della Commissione, trova rispondenza anche a Bruxelles, dove la DG Clima è portatrice di tutte le istanze che vengono puntualmente rifiutate dalla DG Industria.

Il problema è che lo scontro tra interessi è diverso rispetto al passato o, meglio, si è accentuato un fattore che prima non era di primaria importanza. Non è solo lo scontro tra lobby industriali – rinnovabili contro energy-intensive o roba del genere – e non è solo lo scontro tra paesi – Italia e Polonia contro UK e Spagna o giù di lì. C’è di più e di peggio. C’è, anzitutto, un derby tra la burocrazia europea e tutti gli altri. In un momento di crisi dell’Europa, la macchina infernale climatica rappresenta un forte elemento identitario, e dunque implica da un lato il rafforzamento del livello comunitario (altrimenti in deficit di credibilità) verso gli Stati membri, dall’altro il potenziamento del ceto burocratico. Se ogni burocrazia tende a massimizzare il suo potere e la sua influenza, questo è lo strumento per farlo e questo è il momento. Per perseguire questo obiettivo, la “struttura” fa leva, secondo me un po’ irresponsabilmente, su un sentimeno anti-industriale che in Europa è sempre più diffuso. In modo estremo, ne è testimonianza l’attenzione che i vari Jeremy Rifkin ricevono dalle parti di Bruxelles. Rifkin esprime in modo trasparente quello che è un pensiero ricorrente nei palazzi del potere comunitario, e cioè che, attraverso opportune misure e incentivi, sia possibile attraversare una “terza rivoluzione industriale”. Ora, è evidente che il linguaggio è allusivo ma il contenuto molto meno: per questi, la terza rivoluzione “industriale” consiste nel superamento dell’industria, e mi verrebbe da dire nel superamento della stessa natura umana, nella speranza di poterne sconfiggere la naturale tensione verso la crescita, il consumo e la soddisfazione di sempre più bisogni.

E’ un tema complesso, ma comunque si vogliano leggere i movimenti – non sempre limpidi – dell’Ue, mi pare che siano intessuti della materia evanescente di cui sono fatti i sogni. Sarà anche bello parlarne, ma quando si tenta di costruirci un edificio sopra si finisce a gambe all’aria.

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Le luci americane si affievoliscono, ma le forze dell’oscurità no pasaran /2010/06/11/le-luci-americane-si-affievoliscono-ma-le-forze-delloscurita-no-pasaran/ /2010/06/11/le-luci-americane-si-affievoliscono-ma-le-forze-delloscurita-no-pasaran/#comments Fri, 11 Jun 2010 10:05:30 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6251 Ieri il Senato americano ha respinto di stretta misura (47-53) una mozione della senatrice Lisa Murkowski (repubblicana dell’Alaska) che avrebbe fermato il tentativo della Epa (Agenzia di protezione ambientale Usa) di regolamentare le emissioni di gas serra. La notizia non è buona, perché lascia aperta una via d’uscita all’amministrazione nel caso non fosse possibile raccogliere la maggioranza necessaria per approvare il “climate bill” voluto dal presidente. Ma nel male c’è un grano di bene.

La mozione Murkowski – che ha raccolto il voto di tutti 41 senatori repubblicani – era sostenuta anche da tre senatori democratici: Ben Nelson del Nebraska, Blanche Lincoln dell’Arkansas, e Mary Landrieu della Louisiana. Altri tre democratici hanno votato a favore della mozione: Evan Bayh dell’Indiana, Mark Pyor dell’Arkansas, e soprattutto il potente presidente della Commissione Commercio, scienza e trasporti, Jay Rockefeller del West Virginia, autore a sua volta di una mozione che rimanda di due anni il mandato all’Epa. Fino all’ultimo l’esito della votazione è stato incerto: mentre Murkowski teneva il suo intervento conclusivo le previsioni erano ancora di un pareggio 51-51. La sconfitta democratica è stata scongiurata solo dall’intervento diretto dell’amministrazione, che ha esercitato un pressing un po’ irrituale e non privo di colpi bassi sui senatori in bilico, e dall’attivismo del leader democratico, Harry Reid, che ha accettato di sostenere la mozione Rockefeller pur di scongiurare una sconfitta che sarebbe stata pesantissima.

Quali sono le conseguenze di questo voto? Sicuramente si è trattato di una prova di forza democratica, che farà salire il morale dei credenti nel climate bill. Sul piano politico-economico, la Epa si rafforza, guadagnando un pesante via libera nel suo tentativo (che di fatto è il “piano B” di Obama) di regolamentare le emissioni. Dal punto di vista di Obama, questo è un modo per mettere il Senato di fronte al fatto compiuto: la scelta non è se regolamentare le emissioni di gas serra, ma chi deve farlo e con quali strumenti. Per quello che capisco, la Epa non può introdurre strumenti economici di controllo delle emissioni (come una carbon tax o uno schema di cap and trade) ma solo standard tecnologici e diavolerie del genere. Il modello è quello del Cafe, cioè le regolamentazioni sull’efficienza della flotta automobilistica, sulla cui imbarazzante inefficienza non si scriverà mai abbastanza. E questa, per chi crede nell’importanza di difendere il ruolo dell’industria nella nostra economia e la libertà d’impresa, è una cattiva notizia.

La buona notizia è che il fronte democratico è, chiaramente, fragile. I sei voti raccolti da una mozione che, pur bipartisan nella forma, era chiaramente di marca repubblicana sono il sintomo di un disagio diffuso, che inizialmente pareva assumere le forme di un appoggio più massiccio all’iniziativa di Murkowski. Fino all’ultimo sono stati in dubbio almeno quattro senatori democratici parevano pronti a votare sì: ne sarebbero bastati due per cambiare l’esito del confronto. Insomma: la prova di forza è anche, paradossalmente, una prova di debolezza e incertezza. Per ottenere il climate bill prima dell’estate, Obama dovrà conquistare uno a uno i voti della sua maggioranza, promettendo esenzioni o aggiustamenti per venire incontro alle constituency dei singoli senatori. Questo, di per sé, indebolirebbe e renderebbe più distorsivo il provvedimento, facendo crescere contemporaneamente il volume delle critiche “puriste”. La situazione del presidente pare sempre più precaria. Obama può tirare il fiato: la maggioranza ieri ha resistito. Ma i campanelli d’allarme sono più numerosi e più forti delle ragioni di tranquillità.

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Ecco perché il petrolio della Louisiana rompe le uova nel paniere climatico di Obama /2010/05/27/ecco-perche-il-petrolio-della-louisiana-rompe-le-uova-nel-paniere-climatico-di-obama/ /2010/05/27/ecco-perche-il-petrolio-della-louisiana-rompe-le-uova-nel-paniere-climatico-di-obama/#comments Thu, 27 May 2010 10:43:05 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6068 Il presidente americano, Barack Obama, ha più di una ragione per mettere il broncio alla Bp, la compagnia responsabile del disastro alla piattaforma Deepwater Horizon. C’è, ovviamente, la faccenda rognosa dell’impatto ambientale. C’è una battaglia legale e politica che si preannuncia lunga e tormentata per vedere chi pagherà cosa e quanto. C’è che Bp è stata a lungo la compagnia simbolo del “petroliere buono”, che si sporca le mani col greggio ma si lava la coscienza con gli investimenti verdi. C’è che Bp fa un casino dietro l’altro e l’altro ancora, e questo non aiuta la sua immagine. C’è che Bp è tradizionalmente in prima fila, coi suoi lobbisti, a spingere per il cap and trade. Proprio il cap and trade potrebbe essere una vittima eccellente dell’incidente nel Golfo del Messico.

Il mese prossimo si giocano le ultime carte per ottenere l’approvazione del Senato del piano dell’amministrazione per creare uno schema di cap and trade sul modello europeo. Passato giugno, le probabilità crollano, perché, man mano che ci si avvicina alle elezioni di mid term, la Casa Bianca sarà sempre meno in grado di rispondere all’efficace azione repubblicana contro quello che è stato definito “cap and tax“. L’Elefantino sta soffiando sul fuoco della crisi, e la porzione di popolazione (e di elettori) convinta che l’effetto del provvedimento sarà di aumentare i prezzi dell’energia, e dunque di impoverire il paese mentre l’economia è in ginocchio, è sempre più grande. L’Asinello non può reggere una campagna in cui questo sia il tema. Dopo le elezioni, se i pronostici di una vittoria repubblicana saranno rispettati, al Senato potrebbe venir meno la maggioranza necessaria ad approvare il progetto.

In che modo tutto questo incrocia le conseguenze della Deepwater Horizon? In almeno due modi. Uno è ovvio: la politica non può restare insensibile alle crescenti pressioni popolari per un intervento. Non è chiaro cosa farà e come, né se sarà positivo oppure no. Di certo, un nuovo e ingombrante tema entra con prepotenza nell’agenda politica, e si aggiunge a un’altra questione di grande valenza politica – il controllo dell’immigrazione. Come ha riconosciuto il dissidente repubblicano Lindsey Graham, l’incidente

creates new policy and political challenges not envisioned in our original discussions.

Questa opinione è sostanzialmente condivisa da chi segue con attenzione i lavori parlamentari. Anche perché l’effetto paradossale della perdita – che ancora prosegue – è quello di rafforzare, all’interno del movimento ambientalista e in particolare di quella parte che è coinvolta o collaterale all’amministrazione – l’ala anti-petrolifera, indebolento quella più strettamente preoccupata del riscaldamento globale. Come spiega oggi sul Sole 24 Ore Sissi Bellomo, per Obama è adesso terribilmente difficile far digerire la modesta apertura all’esplorazione di alcune aree che prima erano off limits, annunciata poche settimane fa. Questa apertura rifletteva un calcolo politico molto intelligente, teso a dividere il fronte opposto: lo scambio – di interesse per gruppi come appunto Bp – era tra una maggiore libertà nell’esplorazione offshore e  la disponibilità ad accettare vincoli alle emissioni. Ma il do ut des funziona solo se lo scambio è reciproco: qualora Obama fosse costretto a non dare, perderebbe una quota importante di supporto che era riuscito a guadagnarsi. Della questione se ne parla da un po’ – per esempio lo ha fatto il Financial Times a inizio mese – ma l’idea iniziale era che l’esplosione nella piattaforma creasse il clima politico opposto, e favorevole alle nuove norme. Invece, in questi giorni si gioca il tutto per tutto, e la faccenda si sta rivelando ben più complicata di quanto si potesse prevedere, anche a causa dell’apparente impossibilità di fermare il flusso di petrolio.

Ufficialmente, i democratici si batteranno le mani sul petto. In realtà, molti di loro tireranno un sospiro di sollievo, perché non dovranno presentarsi davanti agli elettori, specie nei coal states, promettendo la distruzione di posti di lavoro e il rincaro dei prezzi energetici. Chi ci aveva visto lungo è il senatore democratico Bill Nelson, che così parlava già quasi un mese fa:

I think that’s dead on arrival.

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Il telefono senza fili. Fantacronaca climatica /2010/04/30/il-telefono-senza-fili-fantacronaca-climatica/ /2010/04/30/il-telefono-senza-fili-fantacronaca-climatica/#comments Fri, 30 Apr 2010 13:44:56 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5835 Annunciata l’istituzione di un “telefono rosso” sul clima tra Europa e Cina. Provo a immaginare la tipica telefonata rossa tra Connie Hedegaard, commissaria europea per il cambiamento climatico, e Xie Zhenhua, capo negoziatore cinese sul clima e vicepresidente della commissione sviluppo e riforme.

Connie: Pronto Xie?

Xie: Pronto Connie. Come stai?

Connie: Qui a Bruxelles non smette di piovere e fa un freddo cane. Comunque abbiamo un nuovo rapporto che dimostra che questo è l’inverno più caldo degli ultimi centomila anni, il clima si è ormai tropicalizzato.

Xie (in sottofondo rumore di tastiera): Sì sì, lo penso anch’io.

Connie: Il nostro rapporto dimostra che la colpa è anche delle vostre emissioni.

Xie (in sottofondo rumore di tastiera): Sì sì, giovedì.

Connie: Come scusa?

Xie: Eh? Ah scusa, mi ero distratto un attimo. Temo anch’io. Bisogna fare qualcosa.

Connie: Un altro rapporto dimostra che con le fonti verdi creeremo sei miliardi di posti di lavoro, taglieremo i costi energetici del settemila per cento, e vivremo in un mondo ecocompatibile e senza più guerre.

Xie: Sì sì.

(cade la linea) tu… tu… tu…

Connie (ad alta voce): CHE CAZZO E’ SUCCESSO? PERCHE’ NON C’è PIù LUCE? CHIAMATE SUBITO QUEL CAZZO DI CINESE!

(voce fuori campo): SCUSA CONNIE, NON SOFFIA PIù IL VENTO IN NORDEUROPA. MA IL METEO DICE CHE TRA POCO DOVREBBE TORNARE, APPENA ABBIAMO LA CORRENTE RISTABILIAMO LA LINEA.

Connie: Pronto Xie? Scusa, abbiamo avuto un inconveniente tecnico.

Xie (in sottofondo rumore di tastiera): Sì sì… (ad alta voce) CAZZO, HU, MI HAI MANGIATO LA REGINA! (torna normale) Ehm, scusa Connie, una cosa urgente. Dicevi?

Connie (irritata): Dicevo che bisogna fare qualcosa sul clima. Noi taglieremo le nostre emissioni del 99% entro il 2099. E voi?

Xie: Anche noi, figurati.

Connie: Bene. E abbiamo un target intermedio del 50% entro il 2050. E voi?

Xie: Anche noi, come no. (ad alta voce) MERDA, IL PEDONE NO! (normale) Ehm, sì, il 50%, sicuramente.

Connie: Il primo irrinunciabile target deve essere però del 20% entro il 2020. Firmate l’accordo?

Xie: Connie, lo sai, lo penso anch’io, dobbiamo farlo, fosse per me anche subito… Ma in questo momento non posso impegnarmi formalmente, sai, devo vedere Hu e Wen la settimana prossima, abbiamo una riunione e la riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020 è proprio il primo punto all’ordine del giorno. Intanto però voi andate avanti, che poi noi vi seguiamo.

Connie: Bene, allora do subito l’annuncio a tutto il mondo. A presto. Buona giornata.

Xie: ok ok. Ciao. (ad alta voce) BASTARDO, E ORA CHE SEI SENZA TORRE COSA MUOVI?

- clic –

Connie (ad alta voce): CONVOCATE SUBITO UNA CONFERENZA STAMPA! TITOLO: EUROPA E CINA CONCLUDONO UN TRATTATO PER LA RIDUZIONE DELLE EMISSIONI. E PERCHè FA COSì FREDDO?

(voce fuori campo): SCUSA CONNIE, è DI NUOVO NUVOLO, MA IL METEO DICE CHE TRA POCO SMETTE DI PIOVERE E TORNA IL SOLE, UN PO’ DI PAZIENZA CHE BASTA UN RAGGIO E I PANNELLI SI METTONO SUBITO A PRODURRE, AVREMO DI NUOVO IL RISCALDAMENTO. GUARDA COMUNQUE CHE NELL’ARMADIO C’è UNA PELLICCIA BIOLOGICA.

(intanto a Pechino…)

Xie: Questa volta ti è andata bene, ma solo perché dovevo parlare al telfono.

Hu: Chi era?

Xie: Quella tizia europea, quella del clima.

Hu: E che voleva?

Xie: Le solite robe, le ho detto di andare avanti che noi faremo la nostra parte.

Hu: Ah, vabbé. Settimana prossima ricordati la riunione, che dobbiamo parlare del nuovo programma nucleare e di quel progetto di gasdotto.

Xie: Sì sì, non dimenticarti di far scrivere nel comunicato stampa che siamo sensibili al clima eccetera.

Hu: Certo, ho pronta la solita dichiarazione. Tra l’altro hai sentito di quell’altra grande industria italiana che vuole delocalizzare da noi perché da loro l’energia costa troppo? Sai, quella che recentemente ha fottuto anche Obama con le auto elettriche, i camion a gpl, o che cazzo era. Proprio bravi quelli, dovremmo studiare il modello. Noi con gli americani ci abbiamo sempre smenato, ci hanno riempiti di bond che non valgono più un cazzo. Comunque, prima della riunione la rivincita a scacchi?

Xie: Guarda, proprio non ce la faccio. Devo inaugurare la nuova centrale a carbone.

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