CHICAGO BLOG » Chrysler http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Fiat: Mirafiori come Pomigliano? /2010/11/30/fiat-mirafiori-come-pomigliano/ /2010/11/30/fiat-mirafiori-come-pomigliano/#comments Tue, 30 Nov 2010 08:49:24 +0000 Andrea Giuricin /?p=7728 Mirafiori come Pomigliano? Questa è l’idea di Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, almeno da un punto di vista dell’organizzazione del lavoro e non certo delle relazioni sindacali con la FIOM.  Sarebbe un altro passo in avanti ed una grande occasione per l’Italia. Flessibilità e produttività diventano quindi due parole sempre più importanti per gli stabilimenti italiani della casa automobilistica.

Il piano per lo stabilimento torinese è stato presentato settimana scorsa e prevede la produzione di modelli di alto di gamma, cosi come auspicato da molti analisti. L’Italia difficilmente (ma non è impossibile) può competere su modelli a basso valore aggiunto, viste tutti i lacci che limitano gli investimenti nel nostro Paese.

In particolare dovrebbe essere prodotto un SUV, anche con il marchio Alfa Romeo, in joint venture con Jeep. Questo è un grande passo in avanti per il marchio del “Biscione” perché per la prima volta entra in un segmento nel quale Fiat, nella globalità dei suoi marchi, non era presente.

Dalla piattaforma della Giulietta nasceranno a Mirafiori tutte le automobili del segmento D ed E, oltre ai SUV, vale a dire quelle a più elevato valore aggiunto.

Quest’annuncio non è solo importante per l’Italia, ma è un passo essenziale nella fusione tra Chrysler e Fiat.

Questi nuovi modelli porteranno oltre un miliardo d’investimenti nello stabilimento di Mirafiori e dunque è previsto un rilancio in grande stile.

Ma cosa chiede Marchionne per puntare sull’Italia? Le stesse cose richieste per Pomigliano d’Arco.

Mirafiori certamente ha una produttività superiore alla fabbrica campana con un minor tasso di assenteismo, ma al fine di aumentare la produttività vi è la necessità di rivedere l’organizzazione del lavoro. Il contratto in discussione con le parti sociali può prevedere anche quattro turni settimanali di 10 ore ognuno. L’aumento delle ore lavorate porterebbe ai dipendenti anche fino a 5 mila euro annuali in più.

La piattaforma unica produrrà in Italia anche per esportare negli Stati Uniti, al contrario di quanto diceva una parte del sindacato, che Fiat è ormai la parte italiana di Chrysler.

Certo, l’integrazione con la casa automobilistica americana porterà ad avere una struttura aziendale e un management che si divide tra Detroit e Torino, ma questo è necessario per cercare di non fallire nel merger. Fiat affronta dunque una sfida per la sopravvivenza e continua a scontare la debolezza di non essere in pratica presente nel mercato del futuro, l’Asia.

I prossimi anni saranno decisivi per Fiat. Se non raggiungerà gli obiettivi del piano industriale che prevedono un raddoppio del fatturato da qui al 2014, la casa automobilistica italiana resterà al di fuori dei grandi produttori globali.

In questo contesto di competizione globale, l’Italia pone molti punti interrogativi: la FIOM salirá nuovamente sui tetti? Costruirà barricate contro questo accordo?

La radicalità del sindacato della CGIL non ha pagato a Pomigliano, essendosi di fatto isolato completamente. La lezione passata potrebbe avere insegnato qualcosa, ma il principale elemento di differenza risiede nel fatto che la lotta per la successione alla guida della CGIL è terminata, con l’elezione di Susanna Camusso.

Probabilmente vi saranno resistenze a quest’accordo proposto da Sergio Marchionne, ma la FIOM troverà il coraggio di chiudersi nella sua torre d’avorio un’altra volta?

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Fiat: Marchionne, Fini e l’auto di Stato /2010/10/25/fiat-marchionne-fini-e-l%e2%80%99auto-di-stato/ /2010/10/25/fiat-marchionne-fini-e-l%e2%80%99auto-di-stato/#comments Mon, 25 Oct 2010 14:42:18 +0000 Andrea Giuricin /?p=7367 Le parole del Presidente della Camera Gianfranco Fini verso Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat sono molto forti: “si è dimostrato più canadese che italiano”. Senza dubbio è solo un vantaggio. Ci voleva il canadese Marchionne per cambiare le relazioni sindacali in Italia. Vogliamo davvero che si continui ad avere una Fiat che sopravvive grazie ai soldi dei contribuenti? Né Fini né Marchionne lo desiderano. In realtà le affermazioni del presidente della Camera devono essere prese più come uno slogan elettorale e meno come un attacco a Fiat e al suo amministratore delegato; meglio dunque discutere del modello produttivo italiano, del suo fallimento e degli esempi da seguire o non seguire. E su questo ultimo punto vi è un’analisi di Massimo Mucchetti, che nel suo editoriale del Corriere della Sera sostiene che l’America non ha più nulla da insegnarci nel settore auto motive.

Ma è davvero cosi? Esiste una sola America dell’auto, vale a dire quella salvata da Barack Obama grazie ai miliardi di sussidi pubblici e simile all’Italia anni ‘90?

L’America di cui parla Mucchetti nel suo intervento non è un esempio da seguire. Questo è certo. Salvare l’industria dell’auto di Detroit è stato uno dei maggiori errori dell’Amministrazione Democratica americana e l’unico perdente è stato il contribuente americano.

Sergio Marchionne è stato capace di entrare nel capitale di Chrysler senza sborsare un euro. Fiat possiede giá il 20 per cento delle azioni dell’ex gigante di Detroit e potrá salire al 51 per cento per “soli” pochi miliardi di dollari. Un’operazione politica, perché di questo stiamo parlando, perfetta.

Ha dunque ragione l’editorialista del Corriere della Sera?

L’America, per fortuna, non si ferma a Detroit. Esiste un’altra America, più dinamica, che ha capito da che parte girava il vento dell’auto.

Sono gli Stati del Sud, che sempre hanno avuto uno sviluppo economico inferiore rispetto al Nord e agli Stati della Costa Atlantica. Sorprenderà, ma i grandi Stati produttori di veicoli oggi si chiamano Ohio, Kentucky, Alabama. Qui vi è stata ormai da circa due decenni una rivoluzione silenziosa, che ha saputo riformare il settore dell’auto statunitense. Quattro milioni di veicoli prodotti nel momento di picco, grazie all’arrivo di investitori stranieri e non ai soldi dei contribuenti pubblici. Una sana concorrenza tra gli Stati, che il Governo Obama ha pensato di falsare grazie al salvataggio pubblico di due delle “big three”.

Nel vecchio polo automobilistico di Detroit, le posizioni sindacali e l’incapacità di cambiare di un intero “distretto” hanno portato al fallimento di GM e di Chrysler.

La soluzione adottata da Barack Obama è stata quella di iniettare decine di miliardi di dollari per tenere in piedi un sistema ormai vecchio. Questi miliardi hanno portato ad avere una Chrysler che ancora adesso, è a maggioranza azionaria dei sindacati (gli stessi che hanno portato al fallimento) e il Governo Americano.

Il costo del lavoro negli Stati del Sud degli USA nel settore auto, che producono ormai quasi il 40 per cento delle auto americane, grazie agli investimenti diretti esteri delle case automobilistiche europee, giapponesi e coreane, è inferiore di oltre il 40 per cento rispetto al distretto di Detroit.

Si parla di un settore che genera oltre 81 mila posti di lavoro diretti e oltre mezzo milione di posti di lavoro indiretti.

La concorrenza nel sapere attrarre gli investimenti è essenziale e questo l’Italia non l’ha capito, nonostante gli avvertimenti di Marchionne.

Avere una parte del sindacato che vuole bloccare Fiat, perché l’azienda porta un investimento di centinaia di milioni di euro in Italia (caso Pomigliano d’Arco) in cambio di maggiore produttività, mostra come l’Italia sia destinata a fare ulteriori passi indietro nelle classifiche di competitività citate ieri da Sergio Marchionne nella trasmissione televisiva condotta da Fabio Fazio.

L’America ha ancora tante cose da insegnare all’Italia nel settore dell’auto. L’esempio però arriva da quegli Stati del Sud degli USA che hanno saputo attrarre investimenti esteri e non arriva certo dal modello di “fabbrica di Stato” che è stato alla base della politica di Obama negli ultimi due anni.

“L’auto di Stato” non è il modello americano, è il modello Obama. L’unica certezza è che l’Italia, che per troppi anni ha sussidiato Fiat, con Marchionne ha l’opportunità di voltare pagina.

Saranno capaci i politici e i sindacati a comprendere la svolta?

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Fiat: Marchionne accetterà lunghe contrattazioni al tavolo del Ministero? /2010/10/06/fiat-marchionne-accettera-lunghe-contrattazioni-al-tavolo-del-ministero/ /2010/10/06/fiat-marchionne-accettera-lunghe-contrattazioni-al-tavolo-del-ministero/#comments Wed, 06 Oct 2010 07:26:27 +0000 Andrea Giuricin /?p=7226 Il paradosso italiano, illustrato ieri, relativo agli sviluppi positivi delle relazioni sociali italiane in mancanza del Ministro dello sviluppo Economico è stato una provocazione. È comunque indubbio che negli ultimi cinque mesi si siano avuti dei progressi quasi inimmaginabili fino a pochi mesi fa ed il merito è certamente dell’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne. La stessa casa automobilistica si è ritrovata ieri con le parti sociali per discutere del progetto “Fabbrica Italia”. Come ricordava il manager Fiat, è un piano in divenire e dunque non ha senso di parlare d’investimenti precisi, impianto per impianto.

E su questo punto era nata la polemica con il Partito Democratico, che con il responsabile Economia e Lavoro, Stefano Fassina, aveva affermato che “abbiamo scoperto dalle parole del Dott. Marchionne che la Fiat in realtà è un’associazione di beneficenza, e rimane in Italia per gratitudine”. Il dirigente del partito d’opposizione si era poi lamentato della mancanza della specificazione degli investimenti di 20 miliardi di euro in Italia, per rilanciare la produzione. Questa posizione ha superato a sinistra perfino la Fiom, che invece ha deciso di sedersi al tavolo delle trattative, lasciando inoltre fare le dichiarazioni alla parte più moderata del sindacato.

Questo cambiamento della posizione del sindacato deriva certamente dalla quasi certezza di elezione di Susanna Camusso alla successione di Guglielmo Epifani nella CGIL e dalla fine dello scontro elettorale interno alla Fiom.

Certo passare dalle parole ai fatti sarà ben più difficile per il sindacato che per un semestre si è chiuso in un veicolo cieco, andando al muro contro muro contro Fiat.

E senza dubbio l’amministratore delegato del gruppo Fiat è uscito vincente dallo scontro, tanto che la Federmeccanica ha imposto la sua linea di una contrattazione di secondo livello, eliminando il contratto nazionale.

Il contratto “Pomigliano” flessibile è necessario per portare gli investimenti Fiat in Italia. Senza una maggiore produttività non si capisce perché l’azienda torinese dovrebbe continuare a fare i propri veicoli nel nostro paese.

L’efficienza è essenziale alla sopravvivenza nel mondo automotive che diventa sempre più competitivo e globale.

Le difficoltà di Fiat non si fermano alle trattative sindacali e al Piano “Fabbrica Italia”. Le maggiori insidie arrivano dal mercato, dove la casa automobilistica registra forti difficoltà.

Il Piano industriale che prevedeva un raddoppio delle vendite da qui al 2014 è messo in discussione dalla crisi del settore auto europeo. In Italia le immatricolazioni sono calate del 18,9 per cento nel mese di settembre, una contrazione a doppia cifra come quella spagnola, -27,3 per cento, e tedesca, -27 per cento. Il mercato italiano rimane molto importante per Fiat e dunque la contrazione ormai in atto da alcuni mesi ha alzato il livello di guardia del gruppo torinese. Le vendite sono scese del 4,4 per cento da inizio anno e l’ultimo trimestre sarà certamente uno dei più difficili degli ultimi anni. E Fiat sta performando peggio del mercato con una contrazione del 12,1 per cento nei primi nove mesi del 2010 rispetto allo stesso periodo del 2009.

Negli Usa, invece, Chrysler sta conquistando lentamente quote di mercato, dopo il pessimo 2009, anno nel quale aveva portato i libri in tribunale.

Per rilanciare il marchio di Detroit, che diventerà centrale nei piani di sviluppo Fiat, l’azienda torinese ha bisogno di risorse fresche. Per salire dal 20 per cento attuale al 51 per cento delle azioni di Chrysler sono necessari alcuni miliardi di dollari. Anche per questo motivo, valorizzando al massimo il gruppo, Sergio Marchionne ha proceduto allo spin-off.

Ora sono ben chiari i valori della parte auto e della parte industrial e giá si parla di cessione di alcuni marchi. In particolare gli ultimi rumors indicano Alfa Romeo alla Volkswagen e Iveco a Daimler. Difficilmente entrambi i marchi saranno ceduti ai concorrenti, ma altrettanto difficilmente Fiat manterrà tutti i marchi attuali nel suo portafoglio. Sergio Marchionne continua a dire che Alfa Romeo è al centro del piano di sviluppo americano e sembra avere qualche possibilità in più di essere ceduta Iveco. Certo è che l’amministratore delegato di Fiat è bravo a non svelare le proprie carte e anche le dichiarazione su Alfa Romeo potrebbero essere strategiche.

Alfa Romeo è uno dei marchi più internazionali del gruppo Fiat e, come affermato dal presidente di Volkswagen, Ferdinand Piech, potrebbe essere valorizzato maggiormente. Dietro queste parole del presidente del colosso tedesco molti analisti hanno visto l’interessamento di Volkswagen per il marchio del ”Biscione”. Probabilmente è così e probabilmente sarà una questione di prezzo.

Fiat dovrà dunque vendere qualche marchio per investire in Italia, ma soprattutto negli Stati Uniti.

Le parti sociali e il Governo Italiano devono comprendere che ormai Fiat è un’impresa globale e il Piano Fabbrica Italia è una parte di un piano più ampio.

L’azienda ha bisogno di flessibilità nell’investimento e gli ultimi cinque mesi hanno dimostrato che Sergio Marchionne non perderà tempo in lunghe contrattazioni infruttuose (al Ministero dello Sviluppo economico?)

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Il paradosso italiano /2010/10/05/il-paradosso-italiano/ /2010/10/05/il-paradosso-italiano/#comments Tue, 05 Oct 2010 09:17:55 +0000 Andrea Giuricin /?p=7212 Paradossi. Ieri è stato nominato Paolo Romani come Ministro allo Sviluppo Economico, proprio il giorno anteriore al quale si certifica un grande cambiamento nelle relazioni sociali. L’incontro tra Confindustria e sindacati per parlare di nuovi contratti nella meccanica arriva al termine di un semestre nel quale i rapporti tra le parti sociali hanno registrato un forte passo in avanti e all’Italia è mancato un Ministro.

La posizione “dura” di Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, nello scontro di Pomigliano d’Arco ha avuto un impatto molto forte. Lo scambio, maggiore efficienza con maggiore flessibilità per riportare parte della produzione di autoveicoli in Italia ha avuto successo. La Fiom, contraria al nuovo accordo, si è ritrovata isolata, grazie alla disdetta del contratto della meccanica ad inizio settembre da parte di Federmeccanica.

Un nuovo rapporto quello tra Fiat e i sindacati, ma anche un nuovo rapporto tra le imprese e i sindacati, come fortemente voluto da Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria.

Sergio Marchionne in questi cinque mesi di vacanza del ministro allo Sviluppo Economico ha fatto molti cambiamenti. Il più importante è l’introduzione delle deroghe nel contratto “Pomigliano”. L’amministratore delegato di Fiat ha poi continuato nella sua scelta di chiudere l’improduttivo stabilimento di Termini Imerese e è andato avanti su tutti i fronti, dallo spin-off del gruppo al Piano “Fabbrica Italia”.

I venti miliardi d’investimenti per il nostro paese sono certamente un fatto positivo, dopo anni di disinvestimento nel settore auto motive.

La produzione di autoveicoli si è dimezzata in meno di un decennio, non a causa della crisi economica, ma per i diversi svantaggi competitivi che l’Italia ha insiti nel suo sistema produttivo. Una tassazione troppo elevata, una burocrazia lenta, incertezza del diritto e sindacalizzazione elevata sono elementi che non hanno mai permesso l’arrivo d’investimenti stranieri nel nostro paese. Sergio Marchionne ha proposto un patto ai sindacati, che hanno avuto il coraggio di accettare (ad eccezione della Fiom): cambiare i contratti per avere maggiore flessibilità ed efficienza in cambio di maggiori risorse sull’Italia.

E questa scelta arriva nel momento in cui Fiat diventa sempre più globale, con il peso di Chrysler nel gruppo che è sempre maggiore.

I dati di settembre indicano proprio questo. Mentre in Europa c’è una caduta delle vendite del gruppo Fiat, con una diminuzione delle quote di mercato, negli Stati Uniti, Chrysler sta riuscendo a cavalcare la piccola ripresa delle vendite. Da inizio anno il mercato americano è cresciuto del 10 per cento, mentre Chrysler del 14,6 per cento. Certo la comparazione è con il pessimo 2009, anno del sorpasso cinese sugli USA, ma indica che finalmente la casa di Detroit sta riconquistando quote di mercato. La market share è salita nei primi nove mesi dell’anno dal 9,2 al 9,5 per cento; un piccolo passo in avanti.

La sfida americana rimane difficilissima da vincere e le incognite sono elevatissime, anche perché l’introduzione del marchio Fiat negli USA non è facile. Un dato su tutti: il segmento delle piccole utilitarie è l’unico oltreoceano, insieme al “small SUV”, che ha registrato una contrazione delle vendite da inizio anno di quasi il 3 per cento, andando in contro tendenza rispetto al mercato.

Per questa ragione Fiat ha bisogno di risorse fresche da investire negli USA (su questo punto uscirà un’analisi domani su Chicago-Blog). Se il mercato americano è essenziale per Marchionne, altrettanto importante è modificare i rapporti contrattuali in Italia.

Su questo punto le evoluzioni degli ultimi cinque mesi sono state importantissime.

Il paradosso italiano è questo: ci sono state maggiori innovazioni nei rapporti contrattuali e sindacali in cinque mesi senza Ministro allo Sviluppo Economico che negli ultimi dieci anni.

È proprio uno strano paese, l’Italia.

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Spin-off Fiat: da Pomigliano a Detroit /2010/09/20/spin-off-fiat-da-pomigliano-a-detroit/ /2010/09/20/spin-off-fiat-da-pomigliano-a-detroit/#comments Mon, 20 Sep 2010 08:05:28 +0000 Andrea Giuricin /?p=7089

Sergio Marchionne, con la “conquista” dell’America sta rendendo globale Fiat, che tuttavia si ritrova a discutere con un sindacato italiano molto antiquato. Il dato dal quale parte il ragionamento di Fiat e che una parte del sindacato italiano non ha capito è quello della produzione di veicoli.

In Italia la produzione è scesa negli ultimi anni, fino ad arrivare a poco più di 600 mila veicoli prodotti, lontano non solo da Germania, Francia, Regno Unito e Spagna, ma un livello inferiore rispetto anche alla Repubblica Ceca.

Il piano “Fabbrica Italia” nel quale si prevedono 20 miliardi di euro di investimenti in Italia nei prossimi anni, con addirittura un incremento della produzione italiana è stato un passo coraggioso di Marchionne. Certo gli obiettivi del piano industriale saranno difficilmente raggiungibili, ma l’arrivo della Nuova Panda a Pomigliano d’Arco è stato un punto a favore di Fiat e del suo piano industriale.

La nuova Panda a Pomigliano d’Arco ha tuttavia registrato un punto di scontro con la FIOM, in piena campagna di successione nella CGIL. Le nuove condizioni di Fiat, che voleva una produzione più flessibile in cambio dell’investimento di 700 milioni di euro, sono state prese di mira da Filippo Landini, alla guida della FIOM.

Questo scontro è stato solo il primo. Dopo la presa di posizione cieca della FIOM, Fiat ha annunciato che la produzione delle monovolume, presente nel piano “fabbrica Italia” sarebbe stato spostato da Mirafiori alla Serbia, lasciando capire che gli investimenti in Italia sono possibili solo a certe condizioni.

Fiat proponeva un patto ai sindacati dove in cambio di un aumento della produzione in Italia, grazie al piano “Fabbrica Italia”, si rinnovavano le relazioni sindacali e si cambiava la struttura del contratto. Questa scommessa era stata accettata dalla parte più moderna del sindacato, mentre aveva trovato la forte opposizione della Fiom. Il sindacato della CGIL si è trovato isolato e ha chiuso le porte alla contrattazione anche perché si trovava in piena campagna di successione. Guglielmo Epifani, leader della CGIL, lascerà questo anno il posto a Susanna Camusso, la quale si scontrerà con una minoranza interna guidata dalla Fiom molto forte.

Il contratto delle tute blu era stato firmato il 20 gennaio del 2008, con l’accordo di tutti i sindacati, ma giá nell’ottobre del 2009 l’unitá sindacale venne meno. Fim e Uim firmarono un accordo separato con Federmeccanica, mentre la Fiom decise di andare contro quello che definì “un contratto scandaloso”.

La disdetta del contratto da parte di Federmeccanica segue l’impostazione scelta da Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat e porta un vento nuovo nella relazione tra sindacati ed industriali. È senza dubbio un passo in avanti perché nel contratto “Pomigliano”, che verrá probabilmente utilizzato in tutto il settore, si decide per una maggiore flessibilità e soprattutto per dare più spazio a quella che è detta la contrattazione locale.

La contrattazione di secondo livello, vale a dire quella aziendale o territoriale è essenziale per aumentare la produttività delle aziende italiane. Con essa si lega maggiormente il destino degli operai a quello della fabbrica, dando la possibilità di premiare nelle aziende dove i risultati sono buoni e di penalizzare laddove vi sono perdite.

Il contratto “Pomigliano” è una rivoluzione e arriva grazie anche all’accordo che nel mese di luglio raggiunse informalmente la leader si Confindustria Emma Marcegaglia con i leader di CISL e UIL.

La Fiom non ha ancora compreso che guadagnare qualche delegato in piú non ha senso nel momento in cui la produzione di Fiat è globalizzata.

La casa automobilistica torinese è ormai un gruppo globalizzato come dimostra l’avventura americana. Certo la mancanza di una forte presenza di Fiat in Cina, dove ad esempio Volkswagen vende piú auto che nel suo paese d’origine, continua a rimanere il punto debole, ma il processo di un’azienda aperta al mondo è ormai avviato.

La Fiat puó sopravvivere ad un mercato auto sempre piú competitivo e con nuovi attori “asiatici” solo con una visione globale.

Lo spin-off è dunque un modo per valorizzare l’azienda nel momento in  cui servono risorse fresche di liquiditá per crescere in America.

I dati delle vendite in USA e Europa tuttavia lasciano molti dubbi sul possibile raggiungimento degli obiettivi del Piano industriale Fiat, mentre una parte del sindacato italiano ostacola qualsiasi cambiamento.

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Fiat globale vs. Fiom locale /2010/09/04/fiat-globale-vs-fiom-locale/ /2010/09/04/fiat-globale-vs-fiom-locale/#comments Sat, 04 Sep 2010 18:30:05 +0000 Andrea Giuricin /?p=6949 La nuova Fiat è sempre più globale, come mostrano anche i dati delle vendite di agosto nei principali mercati automobilistici. Certo un singolo mese non fa un anno, ma la tendenza dopo lo sbarco di Marchionne in America è questa. Tuttavia Fiat, nonostante l’acquisto di Chrysler, rischia di non essere abbastanza grande per il mercato dell’auto del futuro.

L’acquisizione del 20 per cento di Chrysler da parte del gruppo torinese nel 2009 ha cambiato la prospettiva della casa automobilistica italiana. Nei prossimi anni la quota di Fiat in Chrysler dovrebbe salire fino al 55 per cento, rendendo il gruppo guidato da Sergio Marchionne il primo azionista del produttore americano. In questo modo l’Europa non sará piú il centro degli interessi per la casa torinese, che registrerà la predominanza del  mercato americano, grazie anche al Sud America e la posizione di forza in Brasile.

Se dal lato della produzione Fiat è riuscita da qualche anno a globalizzarsi questo processo di internazionalizzazione nel settore delle vendite è stato piú lento, anche perché costruire una rete di concessionari globale è molto difficile. Infatti, stabilire una fabbrica negli Stati Uniti è relativamente semplice, mentre è molto più complicato avere centinaia o migliaia di rivenditori.

Perché Fiat ha bisogno d’essere un’impresa sempre più globale? E perché una parte del sindacato italiano non riesce a comprendere questa nuova fase?

Innanzitutto bisogna guardare allo sviluppo del mercato automobilistico. L’Europa sta perdendo quote di mercato a discapito principalmente del continente asiatico, con il traino della Cina. Il gigante asiatico ha registrato il sorpasso sugli Stati Uniti d’America nel 2009 per quanto riguarda il numero di autoveicoli venduti.

Fiat ha compreso che l’Europa era troppo piccola ed è la ragione per la quale Sergio Marchionne ha puntato sull’operazione Chrysler. In questo modo Fiat diventa più americana che europea, con tutte le conseguenze del caso.

In Italia la produzione di autoveicoli è scesa negli ultimi anni, fino ad arrivare a poco più di 600 mila veicoli prodotti, lontano non solo da Germania, Francia, Regno Unito e Spagna, ma un livello inferiore rispetto anche alla Repubblica Ceca.

Il piano “Fabbrica Italia” nel quale si prevedono 20 miliardi di euro di investimenti in Italia nei prossimi anni, con addirittura un incremento della produzione italiana è stato un passo coraggioso di Marchionne. Certo gli obiettivi del piano industriale saranno difficilmente raggiungibili, poiché si prevede un raddoppio delle vendite entro il 2014, ma l’arrivo della Nuova Panda a Pomigliano d’Arco è stato un punto a favore di Fiat e del suo piano industriale.

La nuova Panda a Pomigliano d’Arco ha tuttavia registrato un punto di scontro con la FIOM, in piena campagna di successione nella CGIL. Le nuove condizioni di Fiat, che voleva una produzione più flessibile in cambio dell’investimento di 700 milioni di euro, sono state prese di mira da Filippo Landini, alla guida della FIOM.

Questo scontro è stato solo il primo. Dopo la presa di posizione cieca della FIOM, Fiat ha annunciato che la produzione delle monovolume, presente nel piano “fabbrica Italia” sarebbe stato spostato da Mirafiori alla Serbia, lasciando capire che gli investimenti in Italia sono possibili solo a certe condizioni.

L’ultimo scontro si ferma a Melfi, come ben descritto da Oscar Giannino.

La FIOM, per difendere i tre lavoratori che bloccarono probabilmente la produzione degli impianti di Melfi, ha deciso di assumere una posizione strumentale al fine di avere qualche voto in più alle prossime elezioni CGIL.

Una FIOM che non vede oltre Melfi o Pomigliano d’Arco e che per interessi elettorali rischia di cancellare il progetto “fabbrica Italia”.

La FIAT si scontra con una sfida globale estremamente difficile e si trova una parte del sindacato che non va oltre a Melfi. La posizione della FIOM pur comprensibile a livello di lotte di successione, non è giustificabile e dimostra l’arretratezza di una parte del sindacato italiano.

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Termini Imerese: l’Italia a fine corsa con la politica dei sussidi? /2010/01/14/termini-imerese-l%e2%80%99italia-a-fine-corsa-con-la-politica-dei-sussidi/ /2010/01/14/termini-imerese-l%e2%80%99italia-a-fine-corsa-con-la-politica-dei-sussidi/#comments Thu, 14 Jan 2010 13:11:23 +0000 Andrea Giuricin /?p=4751 Lo sciopero di Termini Imerese nello stabilimento della Fiat è cominciato in concomitanza con l’inizio del Salone dell’Automobile di Detroit, l’appuntamento del settore più importante nel Nord America. La chiusura dell’impianto produttivo siciliano è ormai quasi una certezza e la casa automobilistica non ha intenzione di cambiare i propri piani.Le affermazioni di Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo torinese in risposta alle motivazioni dello sciopero sono molto forti: “Siamo un’azienda privata e non un Governo”. La frase evidenzia la fermezza dell’azienda di fronte all’ennesimo blocco che colpisce gli stabilimenti italiani. Le relazioni tra sindacati e Fiat sono sempre più tese, dato che la casa automobilistica non solo ha annunciato la chiusura dello stabilimento siciliano, ma ha messo anche in dubbio la continuazione dell’attività a Pomigliano d’Arco.
Tutti questi accadimenti molto italiani e molto difficili da far digerire alle parti sociali e al Governo arrivano proprio nel momento in cui Marchionne annuncia il rilancio del marchio Chrysler negli Stati Uniti. Entro la fine del 2010 è previsto il lancio di nuovi modelli e il Salone di Detroit è un po’ il punto di svolta. Il marchio americano, che nel corso del 2009 ha perso ulteriori quote di mercato nel mercato nord americano, dove è sceso all’8,9 per cento, ha bisogno di un cambio molto forte. Il produttore è diventato il quinto a livello statunitense, superato sia da General Motors e Ford, che dai produttori giapponesi Toyota e Honda.
Fiat sta razionalizzando la gestione di Chrysler e il rilancio del gruppo americano sarà molto difficile, nonostante l’enorme sperpero di denaro pubblico che le amministrazioni americane hanno immesso nella casa automobilistica.
La razionalizzazione che il gruppo dirigente Fiat sta compiendo è necessaria in vista di un mercato, che dopo la crisi, sarà ancora più competitivo. Sempre meno gruppi saranno sulla scena di un mercato sempre più globale. Nell’anno in cui la Cina è diventata il primo paese per numero di veicoli venduti è ormai chiaro che le case automobilistiche devono aggregarsi per rispondere alle sfide competitive globali.
E l’Italia e la Fiat non potranno sfuggire a questa nuova sfida che la globalizzazione del mercato automotive impone. Se da un lato Fiat sta provando a diventare un attore globale, il sistema Italia dell’automotive sembra non essere in grado di rispondere ad un mondo sempre più competitivo.
In Italia nel 2008 sono state prodotte 659 mila autovetture, tutte costruite dalla casa automobilistica nazionale. Nessun gruppo straniero ha investito in Italia per produrre autoveicoli e questa tendenza è ormai in atto da diversi anni.
Fiat s’internazionalizza sempre più nella produzione di veicoli, non solo per il costo del lavoro esageratamente alto, ma soprattutto per gli enormi vincoli burocratici che affliggono il nostro Paese. La mancanza d’investimenti stranieri non è, infatti, una prerogativa del solo mondo automotive, ma è una triste costante che percorre tutto il tessuto produttivo italiano.
Nel momento in cui Fiat cerca di agganciarsi alla globalizzazione e si avvicina lentamente ai mercati di sbocco, il nostro paese rimane incapace di reagire. Per anni le uniche politiche pubbliche nel settore, da parte di tutti i Governi, sono state quelle di fornire incentivi per stimolare la domanda. Il 2009 è stato il tipico anno dove i sussidi pubblici hanno dopato le vendite che altrimenti avrebbero visto una caduta molto più accentuata del sostanziale pareggio registrato.
Spendere centinaia di milioni di euro l’anno per sussidiare le vendite serve a poco per rilanciare la produzione italiana che necessiterebbe invece di un cambio di marcia. Riforme generali che aiuterebbero tutto il mondo produttivo – come quelle proposte nel volume “Dopo” (Ibl Libri) – darebbero anche al settore automotive quello slancio per trovare investitori.
I sindacati continuano a chiedere a Fiat e al Governo di aumentare la produzione di autoveicoli, senza capire che il mondo è cambiato. Il mondo sindacale potrebbe porsi una semplice domanda: perché la Repubblica Ceca o il Belgio producono più automobili dell’Italia?
È necessario fare riforme importanti per portare le case automobilistiche straniere a produrre in Italia.
Senza di queste, l’Italia è a fine corsa.

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Auto di Stato: come spiegarla /2009/06/01/auto-di-stato-come-spiegarla/ /2009/06/01/auto-di-stato-come-spiegarla/#comments Mon, 01 Jun 2009 10:35:15 +0000 Oscar Giannino /index.php/2009/06/auto-di-stato-come-spiegarla/ Quando sono Stato e politica a decidere di imprese private e settori di produzione, i media dovrebbero essere capaci di offrire analisi interpretative diverse dal puro colore, pur necessario e utile, su quali siano le predilezioni ideologiche del ministro zu und von Guttenberg della Csu rispetto ad Angela Merkel della Cdu, e agli esponenti della Spd. Occorrono anche criteri analitici ben più taglienti. Propongo un esempio, da zerohedge.blogspot.com che offre quotidianamente una miniera di dati finanziari. Date un occhio all’ipotesi proposta a http://zerohedge.blogspot.com/2009/05/i-am-marlas-observations-on-artifical.html, intorno alle eventuali inferenze tra potenziali sopravvissuti tra i dealers dell’auto nazionalizzata Usa,e le liste di donors per candidato alle primarie nelle ultime presidenziali.
Senza data di uscita dello Stato dall’auto come da tutti i settori che vengono “salvati”, data che deve essere dichiarata dalle autorità pubbliche in tempo contestuale agli interventi straordinari deliberati e attuati, non si attua solo una distorsione temporalmente illimitata del mercato con effetti a catena su migliaia di imprese che lavorano per il settore, ma si effettua anche una manipolazione sinergica del mercato del consenso politico. Allegria! È più utile elaborare e proporre numeri su questi fenomeni, o continuare a interrogare i diversi eredi della famiglia Agnelli fino al settimo grado di affini e consanguinei, per sapere che cosa avrebbero pensato di Opel i loro zii e nonne?

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Fiat, Chrysler e l’avidita’ dei creditori /2009/05/02/fiat-chrysler-e-lavidita-dei-creditori/ /2009/05/02/fiat-chrysler-e-lavidita-dei-creditori/#comments Sat, 02 May 2009 09:34:16 +0000 Alberto Mingardi /?p=390 Chi siano gli eroi della vicenda Chrysler-Casa Bianca-Fiat, e’ chiaro: Obama e Marchionne. Chi siano i villain, pure: i tre hedge fund Oppenheimer Funds, Perella Weinberg Capital Management LP e Stairway Capital Advisors (imitati poi da MatlinPatterson, Avenue Capital, York Capital ed Eton Park Capital Management) che non hanno accettato di “cancellare il debito” dell’industria automobilistica americana. La portavoce del Tesoro, Jenni Engebretsen ha ringhiato che “avevamo dato ai creditori riottosi la possibilita’ di fare la cosa giusta ma loro hanno posto il veto”. Obama ha a sua volta biasimato “chi non è pronto ad accettare sacrifici”. L’eterno ritorno del “greed” come tema politico. Per una prospettiva diversa,  date un’occhiata al giudice Napolitano su Fox.

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Fiat-Chrysler e l’editto di Caracalla /2009/05/01/fiat-chrysler-e-leditto-di-caracalla/ /2009/05/01/fiat-chrysler-e-leditto-di-caracalla/#comments Fri, 01 May 2009 16:02:40 +0000 Oscar Giannino /index.php/2009/05/fiat-chrysler-e-leditto-di-caracalla/ Per l’industria dell’auto italiana, cioè per Fiat Group Automobiles, l’intesa con Chrysler è l’equivalente dell’editto di Caracalla. Nel 212 dopo Cristo, Marco Aurelio Antonino figlio di Settimio Severo prese definitivamente atto che Roma era irreversibilmente “internazionalizzata”, dunque la sua cittadinanza andava estesa a tutti gli abitanti dell’Impero per riscuoterne le tasse, altrimenti le casse imperiali col cavolo che bastavano a pagare le legioni senza di cui non si ascendeva (e si restava) sul trono. La conseguenza fu la sempre più accentuata e poi definitiva emarginazione del Senato, come organo di legittimità e controllo della sovranità. In cambio, però, c’erano un paio di altri secoli di sovranità da guadagnare. Le cose non andarono proprio come previsto, ma era un atto di realismo.
Anche nell’intesa Fiat-Chrysler, c’è non solo un comandante militare capace di grandi intuizioni e veloci campagne come Marchionne, ma pure un Senato che accetta la rischiosa prospettiva di contare assai meno: cioè Exor che ha il controllo di Fiat, la Giovanni Agnelli&co alla quale partecipano in forma di sapa gli eredi Agnelli che controlla Exor, e risalendo ancora la Dicembre ss, in cui John Jaki Elkann con il 30,1% della sapa custodisce i custodi dell’intera catena. Tra le tante cose che all’indomani dello storico accordo i media italiani non mettono molto a fuoco, per le ragioni oggettive richiamate da Alberto Mingardi (a proposito, però: il neodirettore della Stampa mi è piaciuto, Mario Calabresi invece di levare peana ha preferito fare il giornalista vero, con un’intervista a Marchionne nella quale l’ad ammette che con le donne non batteva chiodo vergognandosi dell’accento, e aggiunge per amor di verità che senza Opel e altri pezzi di Gm nel mondo l’accordo è ancora largamente subottimale…) c’è innanzitutto il saggio realismo di chi, alla testa della catena, mostra davvero di non essere più tetragono nella difesa del controllo, di Fiat com’è e soprattutto di ciò che è obbligata in qualsivoglia modo a diventare, se intende sopravvivere. Jaki Elkann l’aveva già detto diverse volte, ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo tutti i numerosissimi matrimoni internazionali falliti dalla Fiat in passato. Questa volta si fa sul serio, ed è bene così. Si potrebbe parlare di paradossale rivincita della posizione umbertina su quella dell’Avvocato, come in fondo da Umberto venne l’indicazione di Marchionne nel 2004. Ma sarebbe pura letteratura fiattista, quella in cui eccellono Castronovo e Berta. In realtà, l’esplosione dei mercati dell’auto è una delle più benefiche conseguenze della crisi finanziaria, perché ha mandato al pettine d’un colpo tutti i nodi che nell’ultimo decennio i giganti dell’auto -soprattutto americani – tentavano di eludere. E’ questo, a rendere del tutto diversa la situazione, e dunque fuori luogo anche ogni riferimento al passato torinese.
Proprio per questo, la consapevolezza di dover fare di necessità virtù a Torino poteva essere condivisa solo da un controllo societario estraneo alla vecchia generazione, e perseguita e realizzata da un capoazienda che la Fiat l’ha rimessa in piedi dal fallimento in cui versava proprio perché geneticamente altro e diverso, dalla precedente tradizione subalpina. Un anno e mezzo fa misi al lavoro una giovane giornalista del giornale che allora dirigevo a un libro che resta ancor oggi la miglior guida interpretativa (insieme a quello del professor Giuseppe Volpato, edito dal Mulino la scorsa estate) per comprendere che cosa davvero abbia fatto nei primi 4 anni a Torino Marchionne, al di là dell’agiografia mediatica. Si intitolava appunto “Il rebus Marchionne”. Davamo atto a Mr. Pullover, numeri alla mano, di aver realizzato nei primi tre anni gli obiettivi di recupero efficienza e utili annunciati per il quarto. Ma concludevamo con un giudizio e una domanda. Il giudizio era relativo al fatto che i piani al 2010-11 risultavano, nelle date e allora prevedibili condizioni di mercato, non alla portata dell’azienda (soprattutto per i marchi Alfa e Lancia, di cui si ipotizzava più del raddoppio dei volumi con oltre 300mila veicoli a testa l’anno). Lo slogan marchionnesco, “in 5 anni ciò che Toyota ha fatto in 50″, era attuato e credibile per la miglior efficienza del management e degli impianti, ma non poteva funzionare a fronte di un’intensità di capitale in ricerca per unità prodotta drammaticamente sottodimensionata, rispetto a quella dei maggiori concorrenti (FGA ha investito tra 2002 e 2006 poco più di 11 miliardi, i francesi di PSA 22, Daimler 25, Renault 26, Nissan 32, Volswagen 46, Toyota 73). La domanda, di conseguenza, era rivolta agli azionisti. O un matrimonio con un partner complementare e forte, accettando il ridimensionamento sia pur portando in dote motori e cambi avanzati e una ricca panoplia di alleanze già operanti nei diversi segmenti, da Ford a Psa a Tata. Oppure uno “spacchettamento” della conglomerata, separando l’auto da camion, veicoli industriali e agricoli, per liberare valore e aumentare la leva possibile dei finanziamenti da chiedere al mercato per crescere.
La crisi mondiale è come dicevo benefica, perché mette l’intero settore dell’auto di fronte a interrogativi che prima gravavano solo su Fiat. Ma la proprietà intanto una risposta l’ha data, accettando di mettersi in gioco in un matrimonio con un partner debole ma che rappresenta l’accesso diretto al mercato Usa, e che consente di avere tutt’altre credenziali dal passato per aggregare anche ciò che più serve, cioè partner credibili in Cina e Russia (il peggior fallimento internazionale di Marchionne, purtroppo, sta in quei due mercati decisivi), nonché rafforzamenti in Europa e Sudamerica (per questo servono gli asset che GM potrebbe dismettere, tra Vauxhall e Opel come in Brasile dove Fiat è leader, e per fortuna che il Brasile di Lula regge alla crisi visto che in questi anni l’utile auto di Fiat viene al 90 e più per cento solo dal Brasile e dalla Polonia, gli unici stabilimenti del gruppo torinese che in questi anni sono andati in over capacità produttiva, con margini altissimi).
Nessuno è in grado di dire oggi a quali condizioni societarie avverrà un domani la “salita” di Fiat al 35% di Chrysler, perché ciò comporterà denari da investire che oggi la Fiat non ha (più 6 che 5 miliardi di debiti finanziari, più di 7 miliardi di debito obbligazionario, da poche settimane degradato al rango di junk bond). Ma quei denari potrebbero venire davvero, non solo dal governo e da primarie banche Usa oltre che italiane, se entro i primi 9-12 mesi Washington e i mercati vedranno che il tornado Marchionne si produrrà in Chrysler come ha beneficamente funzionato a Torino.
Di incognite ce ne sono moltissime. Mi limito ad elencarne alcune, tra quelle che mi sembrano maggiori. Il mondo degli analisti per esempio è diviso sulla “natura” della crisi in corso. Gli ottimisti a oltranza ritengono che si tratti di una pura crisi della domanda, effetto del piantarsi drastico dei consumi a causa dello spavento
ingenerato dalla crisi finanziaria e bancaria. Basterà che i governi varino iper rottamazioni incentivate in Europa – come puntualmente avvenuto in Germania, Italia, Francia, UK ecc -e magari stanghino di tasse alla pompa gli americani per indurli a “comprare verde”, ed ecco che i volumi torneranno tali da poter consentire a ciascuno il suo, senza necessità di grandi rivoluzioni. Non sono di questa idea. La crisi è salutare perché mette alla frusta il settore dell’auto mondiale dal versante dell’offerta: la sovraccapacità produttiva nell’ordine del 30% è figlia di un quindicennio di rinvii di scelte necessarie, poiché tranne la Gran Bretagna nessun grande Paese avanzato ha voluto rinunciare al suo o ai suoi campioni nazionali dell’auto, senza mai imboccare un’ottica davvero globale (Renault-Nissan è stata l’eccezione, grazie a Goshn), con la scusa che l’auto resta “strategica” e ogni occupato in fabbrica se ne porta dietro altri sei nell’indotto. L’auto, in realtà, è un settore a tecnologia matura assai meno decisivo dell’ICT o dell’energia, e quei ragionamenti sono solo comprova di come politici e regolatori ragionino con la testa rivolta all’indietro, e manager e proprietà siano lesti nel saperne approfittare.
Se la crisi è dell’offerta – e dunque l’America deve accettare di incidere in profondità, come sta facendo a spese del contribuente, i suoi tre giganti malati – è pur vero che nessuno è in grado di dire davvero oggi quali saranno le modifiche “strutturali” della domanda, una volta che si esca dal puro terrore ribassista in materia di redditi disponibili dei consumatori. Su questo capitolo gravano molti equivoci, quanto a lettura della futura domanda di veicoli nel mercato Usa, come negli altri avanzati. Solo degli sciocchi possono credere che la 500 si venda a centinaia di migliaia di unità nell’America profonda o nel Nordovest (idem dicasi per le Alfa, al di là di qualche migliaio per amatori). Una delle tre condizioni sottoscritte da Marchionne come test del successo verificabile in progressione, per consentire a Torino di giungere domani al controllo industriale di Chrysler (quello di fatto, resterà per chissà quanto ai sindacati, che oggi ragionano, ma un domani che la domanda riparta, auguri) è di produrre entro il 2012 una vettura che faccia 40 miglia a gallone, 16,5 km a litro. Si può fare benissimo, già oggi qui in Europa siamo pieni di auto che consumano meno. Ma il punto è che quella da produrre in Chrysler dovrà essere una vettura “americana e per gli americani” a tutti gli effetti, non una 500 superfetata. E quanto a Daimler e BMW, saranno le loro berline di lusso a continuare ad attirare volumi crescenti di ricchi russi e cinesi, così come VW è il gruppo che meglio in questi anni ha saputo giocare a livello mondiale la complementarietà di ben 7 marchi diversi.
Marchionne lo sa benissimo. E del resto all’accordo c’è potuto arrivare proprio perché era l’unico capoazienda dell’auto al mondo più canadese e americano che del proprio Paese d’origine, e insieme perché la nazione su cui insiste Fiat è, paradossalmente, la meno “ingombrante” agli occhi Usa rispetto alla tetragona Germania o all’infida ma velleitaria Francia. La relativa debolezza dell’Italia ha aiutato il deal, invece di ostacolarlo. Oltre alla memoria del terribile errore compiuto da Gm pagando 2 miliardi per non esercitare l’opzione su Torino negoziata da Fresco.
Marchionne se ne sarebbe andato, se non fosse scoppiata la crisi che gli ha prima impedito di lasciare Torino per UBS, e poi sempre la crisi non gli avesse fatto balenare quella che oggettivamente è l’occasione della vita. Per gli eredi Agnelli, in termini machiavellici è una fortuna assai superiore alla virtù. Una fortuna da alimentare con preghiere incessanti a Numi dell’Olimpo, e con la necessità di iniziare rapidamente a pensare a nuovi mezzi finanziari per il balzo mondiale, ben superiori al miliardo di euro che Exor ha in cassa, e che del resto non intende convogliare nell’auto. Senza adeguate risorse per crescere, si rischia di ripetere l’errore dei successori di Caracalla. Si affidarono solo all’alea delle legioni, e furono 70 anni di terribile anarchia, fino a Diocleziano.

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