CHICAGO BLOG » cdu http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Il declino (annunciato) dei liberali tedeschi /2010/10/02/il-declino-annunciato-dei-liberali-tedeschi/ /2010/10/02/il-declino-annunciato-dei-liberali-tedeschi/#comments Fri, 01 Oct 2010 23:19:49 +0000 Giovanni Boggero /?p=7188 Quando, esattamente due mesi fa, abbiamo pubblicato questo post sul futuro dei democristiani tedeschi, la bolla in casa FDP non era ancora esplosa. E sì perché, nel partito liberale, dopo il grandioso risultato di un anno fa, tira oggi una brutta aria. In meno di dodici mesi i Freidemokraten hanno letteralmente polverizzato il consenso, che aveva permesso loro di tornare sui banchi dell’esecutivo dopo 11 anni di opposizione: dal 14,6% giù in picchiata fino al 4-5%, ormai quasi fuori dal Bundestag. Non passa giorno senza che la leadership di Westerwelle venga criticata o messa in discussione, tanto che egli stesso pare abbia già pensato alle dimissioni da presidente dell’FDP. Ma anche la carica di Ministro degli Esteri e Vice-Cancelliere gli sta molto stretta. A differenza del suo predecessore, il socialdemocratico Steinmeier, Westerwelle non ha infatti tratto alcun giovamento dal ricoprire una posizione di alto profilo. Nella mente dei tedeschi c’è sempre il Guido delle campagne elettorali un po’ esuberanti e patetiche o il Guido che strilla contro i sindacati. Le elezioni del settembre 2009 non sono state altro che un’illusione ottica per chi- come noi- credeva che Westerwelle si sarebbe finalmente scrollato di dosso  gli strascichi di una carriera fino ad allora magra e deludente.

D’altra parte i tedeschi che si recarono a votare per l’FDP lo scorso anno volevano meno tasse subito. Steuersenkungen. Questo era il motto semplice e trasparente dei liberali. Fin dalla distribuzione dei Ministeri tra le varie forze politiche, è parso tuttavia chiaro che il motto non avrebbe avuto seguito alcuno. Quando si seppe che al Ministero delle Finanze si sarebbe accasata l’eminenza grigia Wolfgang Schäuble (CDU) e non il Principe Hermann Otto Solms (FDP), molti elettori si resero conto che il Governo era giallo-nero, ma solo sulla carta. Al timone c’era sempre e solo una persona: Angela Dorothea Merkel.

In un anno di legislatura è difficile fare un bilancio delle cose fatte. Non una manovra è stata condivisa dall’opposizione: il pacchetto fiscale per “l’accelerazione della crescita” (!) dello scorso anno fu anzi l’inizio della fine. Come può un partito come l’FDP, che programma la rivoluzione fiscale, che urla “fate l’amore e non la dichiarazione dei redditi”, pensare che il cambiamento possa passare dall’aliquota IVA agevolata per ristoranti ed alberghi? Per carità, ogni riduzione fiscale, tanto più se l’imposta grava sul consumo, è sempre da accogliere con favore. Ma l’elettorato liberalconservatore, quello che non aveva gradito il quadriennio interventista della signora Merkel, si aspettava ben altro. A Westerwelle è mancato il coraggio. Ha sistemato i suoi in Ministeri di dubbia rilevanza, ad esempio quello per gli “aiuti allo sviluppo del Terzo Mondo”, la cui abolizione l’FDP aveva propagandato fino al giorno prima delle elezioni. Per non parlare degli aiuti alla Grecia e del cd. fondo di stabilizzazione; una figuraccia per un partito che si era opposto alle enormi iniezioni di denaro pubblico per le banche soltanto un anno prima. Guido è stato capace di fare la voce grossa solo con i giornalisti inglesi che parlano inglese in Germania, non con Angie. L’attacco ai costumi da “decadenza tardoromana” che regnano nell’era dello Stato sociale non è stato che un lampo retorico in un buio programmatico. Dopodiché Guido si è inabissato definitivamente, perdendo quel poco appeal che ancora gli restava. Neanche il fatto di essere omosessuale, leader di una “destra moderna” (come piace dire oggigiorno), lo ha aiutato. In Germania, a differenza che in Italia, delle sue tendenze sessuali si parla il meno possibile e queste non rappresentano né un’arma contro né un’arma a favore.

In questo declino che sa molto di tragedia greca, si inserisce il Liberaler Aufbruch (Risveglio liberale), un’iniziativa di un gruppuscolo di parlamentari, insoddisfatti da una FDP fiacca e arrendevole, che non trova “il coraggio di essere liberale”. Il manifesto della corrente, guidata dall’ormai noto esponente libertario Frank Schäffler, lo si è potuto leggere nelle scorse settimane sulle principali testate tedesche. Tra i riferimenti principali F.A. Von Hayek. E scusate se è poco. “In questi anni abbiamo fatto troppe concessioni al collettivismo”, si legge nel testo dei deputati. La reazione di molti liberali all’interno del partito e dello stesso Westerwelle è stata a dir poco scomposta. “Un collettivo di frustrati”, dice un membro del consiglio di presidenza del partito. “E’ solo un ritrovo di euroscettici, negazionisti del global warming e liberisti radicali. Dubito che ciò sia liberalismo”, soggiunge un altro. L’unico che invece potrebbe accogliere con favore un movimento del genere è Nigel Farage, leader dell’UKIP, il quale proprio l’altro giorno tornava a spronare i tedeschi a fondare un partito critico verso l’attuale costruzione europea.

In conclusione due previsioni sul futuro. Se è vero che un movimento liberista spinto in Germania rischia di avere il fiato corto, esattamente come un partito liberale senza nè arte nè parte come quello attuale, si può dire che l’unica speranza liberalconservatrice che non emani polvere e muffa nel centrodestra, al di là del giovane segretario generale dell’FDP Christian Lindner (molto svelto con la parola ma ancora troppo legato all’attuale dirigenza), si chiama Karl-Theodor Zu Guttenberg, un cristiano-sociale bavarese di ampie vedute, che vuole chiudere con la coscrizione obbligatoria in un partito tendenzialmente contrario, sensibile alle ragioni del mercato e abile stratega in politica estera, riuscito a cavarsi d’impaccio con maestria dall’imbroglio del raid di Kunduz e attualmente politico tra i più amati dagli elettori. Wait and see.

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Germania, per qualche atomo in più… /2010/09/06/germania-per-qualche-atomo-in-piu/ /2010/09/06/germania-per-qualche-atomo-in-piu/#comments Mon, 06 Sep 2010 10:19:49 +0000 Giovanni Boggero /?p=6958 A quasi un anno dalla storica vittoria elettorale del 27 settembre, CDU/CSU ed FDP sono finalmente giunte ad un accordo per prolungare la vita dei diciassette reattori nucleari della Repubblica federale. Basterà il voto del Bundestag; il Bundesrat, in cui l’esecutivo non ha più la maggioranza, verrà comodamente aggirato.* In una lunga riunione, tenutasi ieri in una Cancelleria assediata dai manifestanti ecologisti, gli esponenti del governo hanno stilato le linee guida di questo “phase-out dal phase-out”, come è stato ribattezzato in questi mesi dalla stampa.

Complici i dubbi del Ministro dell’Ambiente Norbert Röttgen (CDU), tradizionalmente vicino alle istanze ecologiste, l’inversione di rotta sarà solamente parziale e non certo, come la stampa italiana probabilmente titolerà, epocale. E questo perché la decisione voluta dal gabinetto rosso-verde nel 2001 di chiudere con l’esperienza nucleare non è stata affatto ribaltata. L’atomo è una “tecnologia-ponte”, hanno ripetuto in questi mesi gli esponenti democristiani e liberali. Liberarcene intorno al 2020 sarebbe prematuro, rinviamo dunque la fuoriuscita. Questo il succo del ragionamento. E così, mentre gli impianti più vecchi, quelli costruiti prima del 1980 potranno rimanere attivi per ancora otto anni, quelli più nuovi godranno di un posticipo di circa quattordici anni. Ciò significa che l’ultimo reattore chiuderà i battenti intorno al 2040. Come giustamente metteva a fuoco Henning Klodt su Wirtschaftliche Freiheit, quello che vi è stato di errato in questa stucchevole guerra di cifre sugli anni (e poi perché quattordici e non quindici o ventitré?) è che lo Stato gioca la partita sia in  qualità di regolatore, sia in qualità di attore. Non volendo limitarsi a fissare le regole del gioco (in particolare in tema di sicurezza), pretende di potersi occupare dei reattori come se fossero ancora di sua proprietà. E così il rischio continuerà ad essere quello di reattori chiusi quando ancora potevano funzionare o impianti tenuti in vita oltre ogni tempo ragionevole. In questo senso ha forse ragione – anche se la predica viene dal pulpito sbagliato – il presidente dell’SPD Sigmar Gabriel, che nell’annunciare un autunno caldo di proteste, ha accusato l’esecutivo di aver barattato la sicurezza con un po’ di denaro. E sì, perché la signora Merkel, per cercare di trovare la quadra e mettere d’accordo tutti, ha pensato di chiedere alle compagnie energetiche di pagare per circa sei anni una tassa aggiuntiva su uranio e plutonio (Brennelementesteuer) per risanare il bilancio, nonché di utilizzare i profitti per migliorare la sicurezza dei reattori e versare fondi per lo sviluppo (dopo vent’anni ancora a “sviluppà” stiamo?) delle energie rinnovabili, quasi che fosse pentita del passo intrapreso. Insomma, come al solito, la Cancelliera si dibatte vorticosamente tra le due C: confusione e compromessi. In buona sostanza, infatti, si annulla la recente decisione di tagliare i sussidi al solare. Ciò che è uscito dalla porta, pare  rientrare dalla finestra.

Al di là di quanto detto, il cambio di fronte rispetto al decennio passato è comunque da giudicare positivamente. Il rischio di un phase-out immediato avrebbe potuto condannare la Repubblica federale a bollette sempre più care e a pericolosi black-out.

*La Corte Costituzionale di Karslruhe è già stata attivata dall’opposizione.

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Se (anche) in Germania la CDU è pronta alla scissione /2010/08/01/se-anche-in-germania-la-cdu-e-pronta-alla-scissione/ /2010/08/01/se-anche-in-germania-la-cdu-e-pronta-alla-scissione/#comments Sun, 01 Aug 2010 08:56:57 +0000 Giovanni Boggero /?p=6684 In queste ore in cui il centrodestra italiano sprofonda nella crisi e, checché se ne dica, le possibilità di vedere una formazione politica liberale apparire all’orizzonte si affievoliscono di minuto in minuto, qui in Germania i quotidiani discutono di un nuovo partito che potrebbe presto nascere alla destra della CDU. Come è noto, la presenza di Angela Merkel alla Cancelleria ha ormai sbilanciato i cristianodemocratici verso sinistra, inibendo ogni prospettiva di un connubio genuinamente liberalconservatore. Basti ricordare come il trionfo del pragmatismo teutonico abbia portato la Repubblica federale, per ben due volte nello spazio di un mese e mezzo, a varare nuove norme in grado di trasformare l’Unione Europea in una vera e propria cabina di regia per pilotare i salvataggi degli Stati membri che hanno mostrato e mostreranno scarsa disciplina di bilancio. L’FDP, dimentica delle battaglie condotte durante i quattro anni passati all’opposizione, è stata brutalmente trascinata nell’operazione, perdendo ulteriore credibilità. Credibilità che è infatti sotto i tacchi per il vizio, in apparenza tutto italiano, di discettare con cadenza quotidiana di nuove mirabolanti proposte di riforma, destinate puntualmente a finire nella spazzatura. E così, in tema di energia, sanità, mercato del lavoro, sovvenzioni da tagliare molto è stato detto, ma nulla è stato fatto.

L’insoddisfazione montante verso il “metodo Merkel” all’interno della CDU e la delusione per un partito liberale, che, come ha magistralmente scritto Dirk Friedrich sulla rivista EF, si sta rivelando una “vergogna per il liberalismo” (non molto diverso il quadro tracciato dal professor Gerd Habermann) sembra aver ormai posto le basi perché molti riformisti emarginati dai due grandi partiti popolari uniscano le forze. In particolare si parla di Friedrich Merz -il grande silurato dalla Cancelliera nel 2004-, dell’ex giudice costituzionale Paul Kirchhof, dell’ex Ministro dell’Economia, il socialdemocratico Wolfgang Clement e dell’ex Ministro delle Finanze di Berlino Thilo Sarrazin, noto per le sue posizioni anti-Islam. Il tutto con la benedizione del filosofo Peter Sloterdijk.

La “nuova CDU”, insomma, forte di un bacino di potenziali elettori pari al 20%, dovrebbe poggiare le sue fondamenta su questi tre pilastri: valori cristiani, libero mercato ed euroscetticismo. Non proprio una destra finiana, per fortuna. Fantapolitica? Può darsi. Tanto più che è la stessa storia della Germania del dopoguerra ad insegnare che i partiti che contano, difficilmente nascono o muoiono nello spazio di un mattino. D’altra parte, però, alcuni elementi sembrerebbero poter dare ragione alle speculazioni di Bild e Focus.

1)       I partiti popolari (Volksparteien) stanno per tirare le cuoia: l’emorragia di iscritti e il continuo calo di consensi alle elezioni politiche da una decina d’anni a questa parte sono il chiaro segnale che i tedeschi vedrebbero con favore una piattaforma politica ulteriormente variegata, in grado di rispecchiare in modo più fedele gli interessi in gioco. Un sesto partito aiuterebbe a bilanciare i rapporti di forza con il blocco di sinistra.

2)      Negli ultimi mesi la signora Merkel ha perso un gran numero di colonnelli. Alcuni di essi sono andati ad occupare altre posizioni (Wulff ed Oettinger), ma altri si sono dimessi per ragioni non del tutto chiare. Non è escluso che l’iniziativa possa venire dai governatori insoddisfatti, in testa ai quali c’è Roland Koch, falco conservatore law & order.

3)      Nello spazio di poche settimane la Germania ha conosciuto due esperienze di democrazia diretta estremamente significative per un paese che, per ragioni storiche, ha deciso di non dare copertura costituzionale a questo strumento. Il referendum bavarese a favore di un divieto totale di fumo nei locali pubblici e il referendum amburghese organizzato da decine di migliaia di famiglie contro la riforma della scuola “livellatrice” varata da CDU e Verdi e appoggiata da Spd e Linke hanno fatto parlare alcuni analisti di una svolta in stile Tea-Party anche per la Germania. Il paragone va preso con le molle, tanto più che la prima iniziativa popolare fa in realtà piombare il paese in un clima pericolosamente proibizionista. D’altra parte, però, è del tutto evidente il desiderio di molti conservatori (fiscali e non) di dire la loro in prima persona, senza l’intermediazione di una casta politica che sembra non rappresentarli più.

Staremo a vedere.

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Roland Koch Berlusconi? /2009/11/24/roland-koch-berlusconi/ /2009/11/24/roland-koch-berlusconi/#comments Mon, 23 Nov 2009 23:41:49 +0000 Giovanni Boggero /?p=3891 C’è qualcosa che non quadra nell’ultima polemica politicamente corretta, messa in scena dalla stampa tedesca e da un manipolo di professori di diritto pubblico. Ora, la questione è questa: l’emittente televisiva ZDF, nata negli anni ’60 dietro la spinta di alcuni Länder per reagire al dominio informativo targato ARD (il primo canale televisivo tedesco), tendenzialmente posizionato su una linea sozialdemokrat, ha un bel consiglio di amministrazione. Questo bel consiglio di amministrazione ha tanti bei consiglieri, quattro dei quali rappresentano i Länder, uno la Federazione e otto nominati dal presidente e dal vicepresidente. Chi sono costoro? Politici naturalmente e nello specifico, Kurt Beck, governatore socialdemocratico della Renania Palatinato e Roland Koch, governatore democristiano del Land dell’Assia. La maggioranza è attualmente di centrodestra.

Ebbene, uno spiritoso (quanto irrilevante) politico locale dell’SPD lo ha di recente molto polemicamente ribattezzato: “Roland Koch Berlusconi”. Perché? Perché il nostro avrebbe osato dare ad intendere che a lui il direttore della rete (tal Nikolaus Brender) non piace affatto e che farà di tutto perché il CdA non gli rinnovi il contratto l’anno prossimo. Apriti cielo. La libertà di informazione è in pericolo. Scenari sudamericani (o italiani, a seconda dei punti di vista) alle porte: si viola l’articolo 5 I comma II paragrafo della Costituzione! E via di seguito. Ora, non c’è dubbio che il comportamento del governatore sia obiettivamente inadeguato. Al di là dell’obiezione del “così fan tutti” (che pure andrebbe rispolverata, dato che la lottizzazione è da decenni anche nelle reti televisive tedesche un inoppugnabile modus operandi), sorge però spontanea un’altra domanda: ma allora che diavolo ci sta a fare Koch nel consiglio di amministrazione?

Invece che guardare il dito, occorrerebbe prendere di mira la luna. Detto con un po’ di realismo à la public choice, se Koch è lì, ha tutto il diritto- o perlomeno è normale- che tenti in qualche modo di esercitare la sua influenza. Titolava bene Die Zeit qualche tempo fa: Brender è vittima della partitocrazia, non di Koch. Ecco perché qualche accademico più avveduto suggerisce che le regole che presiedono al funzionamento del consiglio di amministrazione della ZDF vadano alfine dichiarate costituzionalmente incompatibili con l’articolo 5 GG; rectius, chiedono che la politica esca dalle televisioni. E con lei -aggiungiamo noi- i 7,5 miliardi l’anno spesi per i due principali canali televisivi ARD e ZDF. Bene, bravi, bis. Basta solo aver chiaro il bersaglio: se è Koch oppure la tv in mano pubblica.

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Domande scomode, Frau Merkel. /2009/10/31/domande-scomode-frau-merkel/ /2009/10/31/domande-scomode-frau-merkel/#comments Fri, 30 Oct 2009 23:13:42 +0000 Giovanni Boggero /?p=3502 Per un attimo ho creduto di trovarmi a Palazzo Chigi. E invece no. Come potete vedere dal video qui linkato, siamo a Berlino. Conferenza stampa dei leader del nuovo governo. “Signora Merkel, perché ha deciso di riporre la sua fiducia per il Ministero delle Finanze in una persona che non ricorda di aver ricevuto 100.000 DM dal lobbista Schreiber nel famoso caso delle mazzette alla CDU alla fine degli anni ’90?” Gelo in sala. Westerwelle e Seehofer sorridono sotto i baffi. La signora Merkel è visibilmente seccata e liquida il giornalista olandese (nessun giornalista tedesco avrebbe osato porre una domanda del genere) con un breve “semplicemente perché ha la mia fiducia”. Fatto sta che Wolfgang Schäuble, ex braccio destro di Helmut Kohl e uomo che consacrò la giovane Angela Merkel a segretario generale del partito, rimane un’eminenza grigia della politica tedesca. Non solo per le sue pulsioni “manettare” di controllo capillare del web e della società tedesca, ma per le sue relazioni non troppo pulite con certi finanziatori. La Germania ha conosciuto e conosce ogni giorno centinaia di casi di corruzione e di bustarelle. Ogni tanto varrebbe la pena ricordarlo. E non per tentare un improbabile autoassoluzione del nostro paese, ma per dipingere le cose come realmente sono, senza edulcorarle.

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Germania: altri quattro anni di incertezza con un sistema in cambiamento /2009/09/28/germania-altri-quattro-anni-di-incertezza-con-un-sistema-in-cambiamento/ /2009/09/28/germania-altri-quattro-anni-di-incertezza-con-un-sistema-in-cambiamento/#comments Mon, 28 Sep 2009 13:36:18 +0000 Giovanni Boggero /?p=3005 Mi voglio ricollegare a quanto scritto da Oscar Giannino sulle elezioni in Germania per fare due ulteriori brevi considerazioni.

Come ha notato Gian Enrico Rusconi negli scorsi giorni su La Stampa e come ha ripetuto ieri sera al Goethe Institut di Torino, il tentativo di stabilire un nesso tra politica italiana e politica tedesca è destinato rovinosamente a fallire. E questo sotto più punti di vista: innanzitutto, dal punto di vista dell’importabilità di un modello elettorale, che se già in Germania è momentaneamente inceppato, figuratevi in Italia quale potrebbero esserne gli esiti. Da Prima Repubblica. E mi fermo qui. In secondo luogo, però, anche il tentativo di dipingere la frammentazione tedesca come un elemento di italianizzazione non è del tutto corretto. Ciascun paese ha la sua specificità e la sua evoluzione storica. La Germania ha già avuto a che fare in più occasioni con momenti di crisi del proprio sistema elettorale. In realtà la crisi si è rivelata poi solo una fase di cambiamento che è sfociata in un riequilibrio. La capacità di garantire l’alternanza e una rapida formazione di un esecutivo stabile ha sempre retto piuttosto bene. Con la prima grande coalizione tra il 1966-1969 si temeva per l’esito antidemocratico e potenzialmente distruttivo delle grandi intese. Stessa cosa nel 1983, quando i Verdi entrarono per la prima volta al Bundestag, spezzando il monopolio dell’FDP quale unico “partito di coalizione”. E poi ancora dopo il 1990 con l’estensione del sistema partitico all’Est. La PDS è rimasta a lungo confinata nei nuovi Länder e solo in un secondo tempo FDP e Verdi hanno incominciato a penetrarvi (questi ultimi sino ad oggi senza mai ottenere un grosso successo). Il sistema pentapartitico, quindi, è un portato del crollo del Muro e della capacità della PDS di resistere e radicarsi in quelle zone meglio di quanto siano riusciti a fare le altre formazioni politiche. Ora, grazie anche all’opera di saldatura di Lafontaine e della sua WASG, questa instabilità ha contagiato l’intero paese. Il sistema è inceppato, ha detto D’Alimonte. Alcuni studiosi, meno pessimisti, considerano che quando sarà venuto meno il periodo della conventio ad excludendum dei postcomunisti  (oggi Die Linke) un riequilibrio sia nella natura delle cose. Proprio come fu con i Verdi. Ma più partiti si aggiungono, più sarà difficile raggiungere intese elettorali e compromessi al momento di governare. Lo scenario da Repubblica di Weimar non è poi così remoto.
Proprio a tal proposito, permettetimi ancora due battute sull’alleanza FDP-CSU/CSU. Se fino ad oggi ha governato una “grande coalizione”, d’ora in poi ne avremo per così dire la bella copia.  La mediazione e il litigio continueranno ad essere all’ordine del giorno. I partiti di governo hanno obiettivi comuni in campo energetico, fiscale (ma attenzione a non illudervi, Giannino l’ha spiegato bene) e il no al salario minimo generalizzato (come ho già scritto altrove, quelli nei vari settori finora varati rimarranno). Sostanziale consonanza invece sulla politica estera e di difesa (a parte l’impiego dell’esercito all’interno dei confini tedeschi). Grosse difficoltà in tema di riforma sanitaria, obbligo di leva (che l’FDP vuole abolire) e alleggerimento delle regole sul licenziamento. Se si aggiunge che la CSU vorrà fare come al solito la prima donna e metterà i bastoni fra le ruote, stiamo pure certi che la Germania va incontro ad altri quattro anni in cui l’incertezza continuerà a regnare sovrana.

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Niente di nuovo lassù in Germania /2009/09/18/niente-di-nuovo-lassu-in-germania/ /2009/09/18/niente-di-nuovo-lassu-in-germania/#comments Fri, 18 Sep 2009 09:53:37 +0000 Giovanni Boggero /?p=2809 A dieci giorni dalle elezioni in Germania, pubblichiamo qui di seguito la traduzione del contributo inviatoci dall’amico Dirk Friedrich, giovane giurista e blogger, redattore della rivista di cultura politica Eigentümlich Frei (EF-Magazin) e membro della corrente libertaria dell’FDP  (Libertäre Plattform).

Il prossimo 27 settembre si terranno le elezioni politiche per eleggere il Bundestag numero diciassette nella storia della Repubblica Federale. Ai nuovi deputati toccherà confrontarsi con una mole infinita di vecchi problemi, che anziché essere stati affrontati, sono stati letteralmente rinviati dall’attuale governo di Angela Merkel. A livello di politica interna in agenda c’è da anni il problema del finanziamento delle casse sociali. La critica al contributo assicurativo unico e all’idea stessa del fondo sanitario (Gesundheitsfonds), istituito dal governo è più forte che mai. Medici e pazienti si lamentano di continuo dei bassi salari e degli altissimi costi. L’impronta estremamente anticoncorrenziale della riforma conduce a ciò che è del tutto inevitabile in un sistema socialista, ossia la corruzione. I primi scandali di mazzette non fanno che confermarlo.

In secondo luogo, i costi dell’accorpamento dei sussidi di disoccupazione e degli aiuti sociali voluti da Gerhard Schröder con la cosiddetta formula Hartz IV sfuggono di mano. Mai vi sono stati di fronte ai tribunali sociali tanti ricorsi (peraltro gratuiti per chi ha diritto ad una prestazione sociale) contro le decisioni dell’amministrazione pubblica come oggi. Del tutto simile la questione della pensione di vecchiaia. Benché riformata – non in ultimo proprio attraverso la tassazione dei lavoratori a riposo e l’aumento forzoso dell’età pensionabile- le giovani generazioni sono estremamente preoccupate, dato lo sviluppo negativo del mercato del lavoro, di quanto possa essere sicura la loro futura pensione, mai messa in dubbio ai tempi di Kohl e oggi vacillante.

Origine di tutti i problemi è la disoccupazione. Il mercato del lavoro è finito nel tritacarne del cartello della contrattazione collettiva. Le parti sociali, sindacati ed organizzazioni datoriali, contrattano condizioni che sono collettivamente valide per tutti i rapporti di lavoro. La concorrenza per accaparrarsi nuovi occupati è limitata e le conseguenze le pagano in particolare le imprese più piccole, che tradizionalmente e proporzionalmente hanno sempre trainato l’andamento dell’occupazione in Germania. Proprio per evitare gli svantaggi procurati dai contratti collettivi, sempre più imprese abbandonano le organizzazioni datoriali o delocalizzano la produzione nell’Europa dell’est. Per reagire a questa situazione CDU ed SPD hanno introdotto ope legis salari minimi in determinati settori. Proprio laddove stava per crearsi un minimo di concorrenza salariale, si è deciso insomma di intervenire ed eliminarla. Il mercato del lavoro si continua a trovare nella morsa delle parti sociali da una parte e della regolazione statale dall’altra. Dal momento che il taglio agli stipendi non è politicamente accettabile, l’economia tedesca reagisce logicamente con massicci licenziamenti ad ogni recessione congiunturale e questo sempre che la  rigida regolamentazione sul tema lo permetta.  Al contrario, la crescita congiunturale contribuisce ad un aumento del tasso di occupazione nei ceti a più alto reddito, mentre il tasso di disoccupazione tra quelli più disagiati rimane alto.

Una prospettiva di miglioramento della situazione è esclusa, piuttosto c’è da aspettarsi un peggioramento delle condizioni, qualora venissero approvati ulteriori salari minimi o addirittura se dovesse entrare in vigore il salario minimo unitario, come vuole l’SPD.

Prospettive non meno rosee per quanto riguarda l’integrazione degli immigrati. Proprio nelle città più grandi la nascita dei ghetti è ormai cosa fatta e dalla quale difficilmente si può tornare indietro. La società è d’altra parte divisa, non in ultimo proprio perché non v’è nessun bisogno per gli stranieri di doversi adattare ai costumi e alle tradizioni tedesche. L’integrazione delle giovani generazioni è avvenuta per ora soltanto nel sistema sociale, non nel mercato del lavoro. I mondi paralleli che si sono sviluppati fino ad oggi non riescono ad essere battuti con i mezzi a disposizione e non sono altro che il segno distintivo di una politica dell’immigrazione da decenni fallimentare. La Germania non ha mai preso coscienza di essere terra d’immigrazione.

Non soltanto uno, ma ciascuno dei problemi qui sopra appena accennati esiste da anni. Tanto i cittadini tedeschi quanto i politici che li rappresentano ne sono consapevoli.

Per ora nessuno partito in campagna elettorale ha promesso una riforma o un programma per correre ai ripari. Le ricette proposte si assomigliano tutte nella loro scarsa fantasia e nella loro illibertà. Al posto di questi frusti progetti socialisti, sarebbe invece auspicabile un drastico abbandono della via imboccata, in particolar modo attraverso un processo di liberalizzazione di vasta portata, che di liberale non abbia però solo il nome. Il liberalismo non rientra infatti nelle proposte di alcun partito. Persino l’FDP, che normalmente viene dipinto come avamposto liberale nello scacchiere politico tedesco, non riesce a risolversi a rappresentare in maniera autentica e coerente le posizioni liberali. Stando al suo programma, la tutela contro il licenziamento dovrà rimanere pressoché inalterata, il meccanismo noto come di Mitbestimmung non viene quasi messo in discussione e il cosiddetto Bürgergeld impedirebbe un taglio dei redditi da transfer e rafforzerebbe nello stesso tempo i poteri di inchiesta degli uffici del fisco. Per queste ragioni le possibilità che l’FDP  possa influenzare in maniera liberale il prossimo esecutivo federale sono limitate. Le misure stataliste della CSU costruiscono un chiaro contrappeso agli sforzi liberali e vincolano la CDU a seguire senza obiezioni il corso intrapreso. Dopo che la signora Merkel ha eliminato gli ultimi residui liberali (mi riferisco a Friedrich Merz) nella CDU, la vicinanza ideologica e politica dell’Unione all’SPD è diventata via via più grande. Tale vicinanza l’abbiamo notata tutti anche nel corso del duello televisivo della scorsa settimana tra la Cancelliera e il suo sfidante Steinmeier, tanto che i media hanno ironicamente parlato di duetto. Tale sintonia si è vista in ultimo persino nell’ambito della questione sull’ampliamento dei poteri di sorveglianza dello Stato attraverso la regolamentazione di Internet e la restrizione della tutela dei dati personali.

In considerazione delle misere prospettive di cambiamento qui in Germania è probabile insomma che anche in Italia un giorno si dirà: niente di nuovo lassù al Nord.

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Ancora sul salario minimo tedesco /2009/09/14/ancora-sul-salario-minimo/ /2009/09/14/ancora-sul-salario-minimo/#comments Mon, 14 Sep 2009 21:02:27 +0000 Giovanni Boggero /?p=2711 Nell’opaco duello televisivo di ieri sera tra la signora Merkel e il suo sfidante socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier si è discusso animatamente anche di salario minimo, del quale ci siamo già occupati qui. Sul tema andrebbe fatta ancora qualche breve osservazione.

a) La proposta dell’SPD di introdurre un Mindestlohn generalizzato (pari a 7,50 € all’ora) in tutto il paese sarebbe economicamente devastante per alcune zone dell’ex-Germania Est. Lo ha già dimostrato quello per il settore postale.
Oggi, comunque, con un sistema ancorato al costo della vita che ricorda su scala minore quello delle gabbie salariali proposte da Bossi, i salari minimi fissati settore per settore sono rigidamente differenziati a seconda che ci si trovi nell’Ovest o nell’Est del paese. Questo però (ovviamente) a prescindere dalle condizioni di produttività delle singole aziende. Eppure, come è noto, l’Ovest della Germania non è tutto uguale a sé stesso, così come non lo è l’Est. Anche in Germania restituire alla contrattazione aziendale la determinazione di gran parte del salario contribuirebbe forse a trasformare l’ex DDR in un territorio economicamente (più) attrattivo di quanto non lo sia ora, a vent’anni dalla riunificazione. Ad oggi si continua invece ad ingessare (o a ingabbiare, per meglio dire) le due zone del paese.

b) La richiesta di un salario minimo generalizzato è una sconfitta dei sindacati tedeschi che non riescono più a polarizzare adesioni e a risolvere i problemi salariali per mezzo della contrattazione collettiva. Un tempo si diceva che chi non era soddisfatto della propria retribuzione si sarebbe unito ad un sindacato. Oggi, a fronte di un sensibile calo di iscritti, pare che l’unica soluzione a portata di mano sia quella di chiamare in causa i politici, perché siano loro a sconvolgere dall’alto il meccanismo dei prezzi.

c) Nel caso dei parrucchieri i salari da fame denunciati dai sindacati sono da porre in diretto collegamento con un’offerta di manodopera ben superiore alla domanda effettiva. A formarne più del necessario è lo Stato, che poi pretende però di fissarne anche il compenso.

d) A scanso di equivoci, nessuno viene effettivamente pagato 3,50 Euro all’ora. Innanzitutto perché ci sono premi di produttività (nel caso dei parrucchieri anche la mancia), in secondo luogo perché lo Stato copre queste situazioni di disagio, versando il cosiddetto sussidio Hartz IV.

e) I lavoratori scarsamente qualificati hanno una chance all’impiego solo se si consente che per lavori diversi vengano pagati stipendi diversi. Altrimenti, con l’introduzione di un salario minimo “livellatore”, i lavoratori con la produttività più bassa verranno più facilmente esclusi dal mercato del lavoro.

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