CHICAGO BLOG » bp http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Bp. L’epilogo /2010/09/26/bp-lepilogo/ /2010/09/26/bp-lepilogo/#comments Sun, 26 Sep 2010 09:24:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7148 Ora che “quel maledetto buco” è stato ufficialmente tappato, è il momento di interrogarsi sulle cause dell’incidente, e sull’eredità che esso ci lascia. Due post sul mio blog energetico preferito aiutano a porre la questione in una prospettiva “ampia”, astraendo per un attimo dal redditizio business delle compensazioni, e guardando alla lezione di Macondo. Dunque, cosa è andato storto?

L’esplosione nella piattaforma Deepwater Horizon ha una serie di cause prossime: la sfiga e la cultura industriale di Bp, anzitutto. Ma ha anche cause remote che hanno creato un humus fertile perché le cause prossime scatenassero il disastro.

Partiamo da due situazioni estreme: nella situazione A la proprietà del sottosuolo (e delle risorse minerarie in esso contenute) è “pubblica”, nella situazione B è ”privata” (non mi interessa definire come e chi ne ha diritto allo sfruttamento, è sufficiente che sia un soggetto privato e che i suoi diritti siano chiari e riconosciuti da tutti). Nella situazione A mi aspetto fenomeni di sovra- o sotto-sfruttamento, dovuti al fatto che il governo ritiene di dover spremere la rendita mineraria oppure, all’opposto, che pensa che non sia opportuno turbare l’ecosistema con le trivelle. In entrambi i casi il risultato è socialmente inefficiente. Nella situazione B, invece, mi aspetto che le risorse vengano sfruttate nella misura in cui ciò è conveniente (dati i prezzi relativi delle risorse minerarie e dei beni ambientali, naturali e paesaggistici che, per estrarle, possono essere compromessi). Guillermo Yeatts, già manager di diverse imprese attive nella filiera petrolifera e autore dello splendido Subsurface Wealth: The Struggle for Privatization in Argentina, spiega molto bene i vantaggi di B rispetto ad A. Da un lato, in A la rendita mineraria viene sovente utilizzata per puntellare regimi corrotti e dittatoriali, mentre beneficia poco e/o male le popolazioni direttamente coinvolte dalle attività estrattive. In B, è vero il contrario. Incidentalmente, questa è la ragione per cui la scoperta di un giacimento è un dramma sociale con tinte da Guerra di Troia nella foresta Amazzonica, mentre è una bella notizia, chessò, in Oklahoma. Dove le risorse minerarie sono di proprietà pubblica, l’intero beneficio è catturato dal governo e dalle sue clientele (senza contare che i mezzi di produzione sono normalmente inefficienti). Dove invece esso è privato, il benessere tende a estendersi in un clima di relativa pace sociale.

Cosa c’entra tutto questo con Bp? In fondo, ho appena scritto che gli Usa sono più simili a B che ad A. In realtà, come spiega Rob Bradley, un po’ perché l’estensione delle terre di proprietà pubblica è enorme, un po’ perché le aree offshore ricadono sicuramente (attraverso concessioni e altre diavolerie) in questa categoria, un po’ perché la regolamentazione ha fatto il resto, negli stessi Stati Uniti è in atto un processo di surrettizia “pubblicizzazione delle risorse minerarie”. In questo contesto, il ruolo del governo centrale e del Bureau of Ocean Energy Management (l’ex Minerals Management Service) diventa sempre meno di regolazione tecnica, e sempre più di pianificazione centrale. Quel maledetto buco non ci ha lasciato solo un costoso bando sulle trivellazioni offshore: lascia anche una mole di regolamentazione in crescita, che rischia di andare ben oltre la definizione di requisiti di sicurezza più o meno stringenti (che può incentivare o disincentivare l’assunzione di rischio minerario, aumentando o riducendo i costi di ingresso, ma almeno è relativamente meno distorsiva e relativamente meno arbitraria).

Come spesso accade, insomma, la risposta a un disastro è irrazionale e sbagliata: anziché rimuoverne le cause, essa finisce per ingigantirle. Di fatto, il modo in cui l’amministrazione Obama (e altri governi in giro per il mondo) sta gestendo la faccenda lascia prevedere che, se nell’immediato avremo un giro di vite sulla ricerca ed estrazione petrolifera e quindi una produzione subottimale nei paesi Ocse, nel lungo termine potremmo incrementare il disallineamento tra gli incentivi delle compagnie petrolifere e gli interessi “pubblici” (comunque definiti). E avremo una maggiore dipendenza delle decisioni di investimento dal parere, variamente definito e variamente raggiunto, degli uffici pubblici, con l’inevitabile creazione di azzardo morale (se ho tutte le carte bollate a posto, posso fare cose che altrimenti non farei).

Ci troviamo, cioè, di fronte a un doppio effetto Peltzman: c’è un effetto Peltzman “di primo ordine” in virtù del quale imprese e governi reagiranno ai bandi occidentali spostando produzioni e investimenti nei paesi da cui, ogni giorno e ogni ora del giorno, si dice dovremmo dipendere di meno (non lo dico io, che non me ne frega niente: rilevo che quelli che diventano isterici per il petrolio iraniano e il gas russo, non dovrebbero sostenere bandi e vincoli sulle risorse Ocse…). Poi, c’è un effetto Peltzman di second’ordine in virtù del quale chi ottiene permessi si sentirà “blindato” e dunque agirà prestando relativamente meno attenzione ai rischi reali, e relativamente più attenzione agli obblighi burocratici (come è in parte successo a Bp, in fondo, seppure con una serie di aggravanti).

In breve, per minimizzare la probabilità di incidenti spiacevoli bisognerebbe privatizzare in senso proprio le risorse minerarie (cioè il sottosuolo), ridurre le regolamentazioni alla mera definizione di standard tecnici operativi, e cancellare ogni norma che possa collettivizzare i rischi (come il ridicolo limite alla responsabilità civile delle compagnie petrolifere).

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Bp, la regolamentazione, e l’eterogenesi dei fini /2010/08/09/bp-la-regolamentazione-e-leterogenesi-dei-fini/ /2010/08/09/bp-la-regolamentazione-e-leterogenesi-dei-fini/#comments Mon, 09 Aug 2010 16:17:49 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6741 I cittadini del mondo vogliono più regolamentazione. Nel senso che la larga maggioranza delle persone interpellate in un ampio sondaggio di cui dà contooggi il Financial Timescredono che il disastro del Golfo del Messico dimostri che la regolamentazione delle perforazioni in acque profonde non è sufficiente. In media, chiedepiù norme e più strette circa l’80 per cento del campione, con punte in Italia, Spagna e Francia superiori al 90 per cento. Bizzarramente, la domanda di regolamentazione è molto più alta dell’effetto reputazionale che l’incidente ha avuto su Bp, ossia la compagnia che l’ha causato: se è comprensibile che i due terzi degli americani abbiano maturato un’opinione negativa sul gruppo, lascia di stucco che solo il 33 per cento dei britannici abbia avuto la stessa reazione (va detto che “solo” il 73 per cento di loro vuole più regolamentazione). E’ una coincidenza curiosa, ironica e triste al tempo stesso, che questi risultati (i cui effetti politici si sono immediatamente manifestatianche in Italia) arrivino mentre aumenta l’evidenzasulle responsabilità di Bp e dei suoi subcontractors: il personale a bordo della Deepwater Horizon era inadeguato. Come mettere assieme i cocci?

Abbiamo, infatti, due aspetti diversi e sghembi. Da un lato, c’è la realtà di quello che è accaduto: un incidente che, se per un verso è comunque un’eventualità della vita (shit happens), per l’altro è spiegabile, almeno parzialmente, guardando alla cultura aziendale di Bp (come ho cercato di spiegare a suo tempo sul Foglio e come viene ulteriormente illustrato in una serie di postsu MasterResource). A farne le spese è soprattutto il Ceo uscente di Bp, Tony Hayward, che a ottobre abbandonerà la sua posizione nel disonore e tra i fischi consolato solo da una non disprezzabile buonuscita, ma la responsabilità (politica) ultima è del suo predecessore, l’inossidabile Lord Browne, che assieme al suo amichetto Ken Lay (l’onnipotente Ceo di Enron) aveva coniugato nel senso più profondo il senso dell’espressione “capitalismo politico”. Per loro, fare profitti (anche se poi, a conti fatti, di perdite si è trattato) era una faccenda più politica che economica; più di marmellamento con gli uomini di Stato che di soddisfazione dei clienti e dei loro bisogni. Così, Bp aveva baricentrato la sua strategia sulla caccia di favori politici, e aveva trascurato altri aspetti del business, come la costruzione di una solidità industriale e il continuo investimento in sicurezza. Da lì, le condizioni predisponenti il disastro (la condizione scatenante è, sempre, la sfiga).

Accanto a questa vicenda – che è soprattutto una vicenda relativa a una singola società, o addirittura allo specifico caso di Macondo, e non può in alcun modo essere generalizzata – c’è la vicenda, più ampia e politica in senso stretto, della politicizzazione del disastro. Da Obama in giù, virtualmente tutti i politici americani e poi internazionali hanno immediatamente colto la palla al balzo per chiedere più regolamentazione, inizialmente dell’offshore drilling, e poi di tutto e di più purché tenuamente collegabile (stile telefono senza fili) con quanto accaduto nel Golfo del Messico. Come è possibile? E’ la stessa domanda a cui ha risposto ieri Alberto Mingardi sul Riformista. Dice Alberto:

Oh sicurezza, quanti delitti si commettono in tuo nome! É così che si sono allargate senza controllo le maglie della regolamentazione e dell’intervento pubblico, nell’ultimo secolo. Ovunque, nel mondo occidentale, si è fatta prevalente una mentalità per cui se abbiamo un “problema”, ci serve un “programma”. In Italia, ancor più schiettamente, se abbiamo un problema facciamo una legge. Perché? Perché è facile. Mettevi nelle scarpe del legislatore – per ipotesi, un legislatore di un Paese con una legge elettorale che rientri negli standard minimi di civiltà: una legge elettorale che consenta agli elettori di concorrere a scegliere i propri rappresentanti sapendone nome e cognome. Questo legislatore ha un suo collegio. Succede l’incidente del kite surf. Il suo collegio è fatto di madri e di padri preoccupati che i figli possano fare uno sport pericoloso, persone per bene, persone attente, che amano i propri cari ma come tutti si fanno prendere dalla paura del momento, odiano sentirsi in balia dell’incertezza. Che cosa fa, il legislatore? S’imbarca nell’esercizio mentale che abbiamo fatto poc’anzi. Immagina i contorni di “regole” più stringenti, che in qualche modo contribuiscano a ridurre il rischio di incidenti tanto drammatici. Poi, aspetta l’arrivo dei gruppi d’interesse, ciascuno comprensibilmente propenso ad evitare che la scure ricada sul suo capo. Si rimpalleranno dati e statistiche, produttori di barche e commercianti di tavole e acquiloni. Cercheranno di prevenire il legislatore, presentandosi da lui con un elenco più ragionevole di restrizioni cui essi stessi suggeriscono lo Stato li sottoponga. Proveranno a raggrumare un proprio fronte contro il “nemico”. Il risultato sarà il più delle volte una normativa annacquata rispetto alle intenzioni originarie, ma che comunque andrà a regolamentare un altro pezzettino della vita dei cittadini.

Alberto prende spunto da un incidente sul lago di Como, ma la cicca è la stessa del caso Bp – e di molti altri. E’ un film già visto troppe volte e che troppe volte ancora vedremo. E non c’è veramente una via d’uscita. Tutti abbiamo diritto (e, in un certo senso, abbiamo ragione) a rimanere razionalmente ignoranti sulle reali conseguenze della regolamentazione, che ci tocca solo indirettamente. Tutti siamo pronti a indignarci quando vediamo la morte inspiegabile di un velista, o la marea nera devastare l’ambiente (anche se meno del previsto, per fortuna e perché il mondo è stato progettato perbene da uno che se ne intende). E così, il processo politico ci trascina su una discesa dove non c’è mai veramente un punto d’arresto.

Nel caso specifico di Bp, l’aspetto forse più paradossale è che l’azienda ha fatto di tutto per ottenere più regolamentazione in quasi qualunque campo della sua attività. Non so se abbia mai fatto lobbying per avere più regole anche all’offshore drilling, ma non mi stupirebbe. E’ nella cultura aziendale di Bp promuovere leggi che o risultino in un sussidio a suo favore, oppure limitino la concorrenza alzando le barriere all’ingresso sul mercato (che poi è lo stesso). Ma nessuna azione di lobbying avrebbe potuto generare una reazione tanto violenta, nell’opinione pubblica, quanto l’incidente di Macondo. A suo modo, è una manifestazione di eroismo postumo da parte di Lord Browne, che vede il suo disegno compiersi sempre più, e come con Enron, si compie infine a spese di chi l’ha perseguito, cioè Bp. Ma se la regolamentazione è il frutto di questo tipo di eroismo, e se il mezzo (inintenzionale) di questo eroismo è la devastazione che sappiamo, allora beato quel mondo che non ha bisogno di eroi. Le compagnie petrolifere che, come Bp, perforano in acque ultraprofonde, ma, a differenza di Bp, investono di più in cantiere e di meno a Washington, forse sono meno eroiche agli occhi del grande pubblico, ma fanno anche meno casini.

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BP-Eni, l’idea non era balzana. Un po’ di charts /2010/07/14/bp-eni-lidea-non-era-balzana-un-po-di-charts/ /2010/07/14/bp-eni-lidea-non-era-balzana-un-po-di-charts/#comments Wed, 14 Jul 2010 09:24:48 +0000 Oscar Giannino /?p=6516 L’idea lanciata qualche giorno fa di mandar avanti ENI con offerte per l’upstream pregiato di BP non era poi così balzana, visto che nel frattempo le prime compagnie petrolifere USA iniziano a farsi sotto strappando il titolo verso l’alto di 10 punti,  e Abu Dhabi vuole acquistar quote di BP per prenotarne il diritto ad acquisirlo in futuro.  Intanto, tutti sperano che il nuovo “tappo” tenga, nelle profondità del Golfo del Messico. Ma in casi come questi, un azionista pubblico di controllo – il governo italiano, per ENI – o ha al suo interno o è in grado di procurarsi fini expertises di settore, in grado di vagliare tempi e modi per operazioni straordinarie valutandone l’impatto sul titolo ENI, il suo debito, i tantissimi primari fondi internazionali presenti nel suo capitale; ed è capace al tempo stesso di decidere nei tempi rapidi imposti dal mercato una volta confrontatosi col management della società; oppure tanto per cambiare si pone – e pone l’azienda – su un piano di assoluta subordinazione rispetto agli sviluppi di mercato, fatti da operatori del mercato con logica di mercato. Una logica che comprende anche  il cinico diritto di prender per sè a buon prezzo il meglio di chi è in grave difficoltà ed esposto ad azioni multipulrimiliardarie come BP. Intanto, qui oltre 50 utili videografiche del caso Deepwater Horizon-BP  rispetto aglia ndamenti e consumi e interessi energetici globali, e qui la graduatoria stimata complessiva globale dei più gravi incidenti della storia.

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Il governo del vietare /2010/07/01/il-governo-del-vietare/ /2010/07/01/il-governo-del-vietare/#comments Thu, 01 Jul 2010 10:39:14 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6407 UPDATE: Meno male che Saglia c’è.

Un drammatico incidente all’estero. L’Italia che reagisce scompostamente, castrando il suo futuro energetico nonostante le condizioni in cui la tragedia si è verificata in un paese molto lontano non abbiano nulla a che vedere con le tecnologie e le procedure impiegate nel nostro. Non sto parlando dell’uscita dal nucleare dopo Chernobyl. Sto parlando delle reazione, altrettanto scomposta, del ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, che pensa sia cosa saggia rispondere al disastro della Deepwater Horizon imponendo un bando alle estrazioni offshore in una fascia di 5 miglia dalle coste nazionali (12 nelle zone marine protette). Greenpeace applaude. Dovrebbe far pensare.

Anzitutto qualche informazione di base. La Deepwater Horizon – qui le specifiche tecniche – è una piattaforma petrolifera attrezzata per la perforazione in acque fino a circa 2.500 metri di profondità, cioè in quelle che si definiscono acque “ultra profonde” (sebbene non vi sia una definizione codificata, generalmente si intendono “profonde” le acque oltre i 300 metri, “ultra profonde” sotto la soglia – fino a poco tempo fa economicamente e tecnologicamente impensabile – dei 1.500 metri, o 5.000 piedi, come spiega bene Ed Crooks). La piattaforma estraeva petrolio dal campo denominato “Macondo“, che sta a una profondità di circa 1.500 metri. Qui si trovano maggiori informazioni. Il pozzo – che sotto la colonna d’acqua scende ancora per 5 o 6 mila metri attraverso la crosta terrestre – è così difficile da sistemare proprio per le condizioni estreme di pressione che si vengono a creare nelle profondità oceaniche. Il trovarsi in acque profonde non è, di per sé, una condizione facilitante l’incidente, ma è sicuramente una delle ragioni per cui aggiustare le cose è così difficile.

Quale relazione ha questo con le avventure esplorative nelle coste italiane? La risposta è semplice: nessuna. Come è facile verificare dall’elenco delle piattaforme attualmente esistenti, gran parte delle nostre avventure estrattive si mantiene in acque basse, attorno o sotto i 100 metri di profondità. Solo in un paio di casi si scende significativamente più in basso, cioè attorno ai 1.000 metri, peraltro in entrambi i casi a grande distanza dalla costa (oltre 40 chilometri). Tempo fa qualcuno ha provato a cercare in acque ultra profonde al largo della Puglia, ma senza risultati. Dunque, oggi pochi o nessuno credono vi siano giacimenti abbastanza ricchi in acque così profonde, e pochi o nessuno vanno a cercarli. Ma la vera differenza è un’altra, e mi spiace non trovare un modo per dirlo con tatto, e dunque senza sconvolgere il ministro Prestigiacomo: l’Italia galleggia nel mar Mediterraneo. Il Mediterraneo non è il golfo del Messico. Noi non abbiamo giacimenti giganti da sfruttare, e neppure grandi. Abbiamo dei dignitosi reservoir che danno un piccolo – importante, ma piccolo – contributo a soddisfare il fabbisogno nazionale.

Basta un numero: da quando c’è stata l’esplosione della Deepwater, Macondo rigurgita qualcosa tra 5.000 e 100.000 barili di greggio al giorno (la verità sta probabilmente attorno alle poche decine di migliaia). L’intera produzione quotidiana di tutti i nostri pozzi sottomarini messi assieme è stata, nel 2009, in media di 11.000 barili / giorno. Questo significa che le perdite da Macondo valgono tra la metà e dieci volte la nostra produzione aggregata. Le dimensioni contano.

Insomma. Non è solo che il bilancio tra i costi e i benefici dell’offshore drilling è ancora, tutto sommato, positivo, nonostante Deepwater Horizon. Non è solo che, almeno negli Usa e almeno in parte, la corsa verso le profondità abissali dipende anche da una politica troppo conservativa nel rilasciare concessioni estrattive a terra. Non è solo che l’incidente è, almeno in parte, figlio della cultura aziendale di Bp, titolare di Deepwater Horizon. Non è solo che, nonostante tutti i nostri tentativi di razionalizzare l’accaduto, c’è sempre di mezzo anche la sfiga – cioè, una cosa normalmente buona (l’estrazione sottomarina) ha avuto, occasionalmente, conseguenze nefaste. E’, soprattutto, che qualunque cosa sia accaduta nel Golfo del Messico non è neanche parente di qualunque cosa sia accaduta o possa accadere nel nostro paese.

Ovvio che questo implica anche che il danno effettivo di un bando sull’esplorazione petrolifera in Italia è diverso da quello dello stesso provvedimento, poniamo, negli Usa. Ma ci sono almeno due aspetti rilevanti. Primo: per piccola che sia, la produzione petrolifera italiana è comunque importante. Per sacrificarla, bisogna avere ragioni molto forti, che non mi pare vengano portati da Prestigiacomo e da chi la pensa come lei. Secondo: c’è un problema di credibilità del paese. Più ci comportiamo in modo isterico, più reagiamo in modo uterino a quello che accade fuori dai nostri confini, e più spaventiamo gli investitori e riduciamo le nostre prospettive di crescita. La chiusura delle centrali atomiche non ha fatto male al paese solo perché ci ha fatto perdere una fonte di energia: ha detto al mondo che l’Italia è un paese di cui non ci si può fidare. Avanti così, dunque?

Tutti i politici hanno un bisogno patologico di mostrare i muscoli. Prestigiacomo non fa eccezione. Ma in ultima analisi andrebbe presa di petto l’idea che, di fronte a qualunque problema, da Chernobyl alla marea nera, la reazione giusta sia di nascondere la testa sotto la sabbia e fare un passo indietro verso le caverne. Se si trattasse di un individuo, potrebbe sbrigarsela con lo psichiatra. Trattandosi di diverse generazioni di un’intera classe politica, forse dovremmo farci delle domande più profonde.

Vietare tutto, vietare subito, vietare sempre non ci renderà più sicuri. Ci renderà solo più poveri e marginali.

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Navarro falls /2010/06/09/navarro-falls/ /2010/06/09/navarro-falls/#comments Wed, 09 Jun 2010 10:07:38 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6238 Sull’Occidentale, Gengis – tra l’altro fedele lettore di Chicago-blog – fa il pelo a Mario Tozzi e il contropelo a Joaquìn Navarro-Valls. Da non perdere.

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Shit happens /2010/06/04/shit-happens/ /2010/06/04/shit-happens/#comments Fri, 04 Jun 2010 13:52:07 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6170 Nove scienziati della Commissione grandi rischi sono indagati dalla procura dell’Aquila per omicidio colposo, in quanto avrebbero sottovalutato il rischio sismico nei giorni precedenti il disastroso terremoto del 6 aprile 2009. Pochi giorni fa, il presidente americano, Barack “tappate quel maledetto buco” Obama, ha licenziato Elizabeth Birnbaum, capo del Minerals Management Service, e annunciato una moratoria sull’offshore drilling nel Golfo del Messico. Un comune denominatore unisce queste due notizie, e tante altre simili che riguardano incidenti meno tragici. E’ la presunzione che per tutto si possa trovare sempre un responsabile, una testa da far rotolare, una soluzione. E’ la consolante illusione che tutto possa andare bene sempre, se abbiamo le leggi giuste. Purtroppo ho una brutta notizia: l’ultima volta che ho controllato, l’uomo era stato scacciato dal giardino dell’Eden e non gli era più stato permesso di farvi ritorno.

Le due vicende della piattaforma Deepwater Horizon e del terremoto dell’Aquila sono, naturalmente, molto diverse. Tendo a pensare che Bp non sia esente da responsabilità per il disastro del Golfo del Messico. Bp è notoriamente una compagnia relativamente poco attenta alle questioni della sicurezza, come ha riconosciuto anche il New York Times e come yours truly sostiene fin dal primo giorno (forse perché troppo impegnata a investire attenzione e risorse nel lobbying a favore dell’introduzione del cap and trade negli Usa). Diversamente, trovo davvero improbabile che i sismologi italiani possano essere anche solo sospettati di aver sottovalutato il terremoto che si stava per scatenare. Tuttavia, la domanda rilevante, in questo momento, non è se e quali responsabilità e da parte di chi sia possibile, con ragionevole certezza, tracciare. Le domande rilevanti sono: se tutto fosse andato per il verso giusto, avremmo potuto evitare, con assoluta certezza, una o entrambe le catastrofi? E, posto che le catastrofi si sono verificate, dovremmo dedurne che l’attuale regolamentazione è insufficiente e va inasprita?

Sul primo punto, francamente, trovo perfino imbarazzante dovermi soffermare. Le “buone pratiche” possono minimizzare, ma non eliminare, i rischi. Ecco la cattiva notizia: a volte delle cose, generalmente buone, vanno male. Succede. E’ la vita. Shit happens, dicono gli americani. Ti sei appena lavato rasato e vestito e messo la cravatta nuova, esci di casa e vieni stirato da un pirata della strada. Succede. Sarebbe meglio che non succedesse? Certo. E’ possibile che non succeda? Sicuramente: non uscire di casa.

Questo però mi porta alla seconda questione: conviene non uscire di casa, per evitare di essere investiti? Non conviene. Non conviene perché il valore di tutto ciò a cui rinunceresti vale molto di più del rischio di essere investito. Infatti, c’è anche la buona notizia: generalmente non vieni investito. Il petrolio ci ha resi ricchi. Il petrolio, che sta inquinando il Golfo del Messico e perciò è un bastardo, ci ha dato le automobili, l’elettricità, la plastica, ci ha dato la civiltà industriale con tutte le sue mille storture e tutti i suoi milioni di benefici. La stessa estrazione di greggio offshore, che d’ora in poi sarà per tutti sinonimo della chiazza che si riversa sulle coste della Louisiana, avviene in condizioni di accettabilissima sicurezza in innumerevoli piattaforme in giro per il mondo, in tanti mari diversi, e nessuno se ne accorge e anzi tutti ne siamo felici perché anche grazie al greggio cavato dai fondali oceanici possiamo uscire di casa e, con un giro di chiave, innescare il miracolo del fuoco, dei cilindri e dei pistoni e lasciarci trascinare dal nostro carro d’acciaio virtualmente dovunque.

Quindi, lasciandoci catturare dal gorgo della paura non ci aiuterà. Anzi,peggiorerebbe le cose, complicherebbe la vita e la renderebbe meno degna d’essere vissuta. Come scrive Massimo de’ Manzoni sul Giornale. Come spiega Sheldon Richman su Master Resource. Come evidenzia Michael Giberson su Knowledge Problem. C0me mostra Randal O’Toole su The Antiplanner:

The tragic explosion that killed 11 people and led to millions of gallons of oil spilling into the Gulf of Mexico has many people, even die-hard auto enthusiasts, arguing that we should undertake a crash program to find alternatives to petroleum to fuel our transportation system. While it is nice to fantasize that some sort of “race-to-the-moon” research program will uncover magically new energy sources and technologies, realistically it isn’t going to happen.

La regolamentazione, di per sé, non ci salverà. Potrebbe perfino peggiorare le cose, facendoci sprecare risorse preziose. Ma soprattutto la regolamentazione, per quanto perfetta e informata alle migliori intenzioni, non ci libererà dall’imperfetta natura umana o, se preferite, dal peccato originale. Non renderà perfetti i nostri manufatti, i nostri atti, i nostri processi. Non ci libererà dall’errore (anzi, potrebbe renderlo più probabile). Cedere alla presunzione fatale di poter conoscere tutto, e dunque prevenire tutto, non ci renderà né onniscienti né onnipotenti né immortali.

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Quello che Deepwater Horizon insegna agli ambientalisti (e agli altri) /2010/05/21/quello-che-deepwater-horizon-insegna-agli-ambientalisti-e-agli-altri/ /2010/05/21/quello-che-deepwater-horizon-insegna-agli-ambientalisti-e-agli-altri/#comments Fri, 21 May 2010 08:52:36 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6026 Il disastro della Deepwater Horizon, la piattaforma della compagnia eco-petrolifera Bp che dal 20 aprile ha iniziato a disperdere greggio nel mare, insegna molte cose. Ma ne insegna una in particolare, che gli ambientalisti – anziché baloccarsi col cattivo tempo tra cent’anni – dovrebbero prendere sul serio. Insegna che i sussidi creano sempre distorsioni, e che le distorsioni hanno sempre conseguenze (anche ambientali) negative, nel lungo termine. Insegna, quindi, che una buona battaglia è quella per l’abolizione dei sussidi di vario tipo alle compagnie petrolifere (oltre che alle fonti rinnovabili).

Negli Stati Uniti, il problema è una norma del 1986, che limita la responsabilità delle compagnie petrolifere per i danni da esse arrecate. Secondo la legge, devono farsi carico del cleanup, ma non devono interamente pagare per il danno a persone, imprese o enti pubblici:

Under the law that established the reserve, called the Oil Spill Liability Trust Fund, the operators of the offshore rig face no more than $75 million in liability for the damages that might be claimed by individuals, companies or the government.

Il paradosso, come spiega bene l’articolo del New York Times linkato sopra, è che il fondo di garanzia è troppo grosso per gli incidenti ordinari, che vi attingono solo marginalmente, ma troppo piccolo per gli incidenti eccezionali, come questo. Dal fondo dovranno, in qualche maniera, uscire tra 1 e 1,6 miliardi di dollari di compensazioni varie, che Washington, specie in un momento come questo, non può permettersi di scucire. E’ anche per questa pressione assai poco prosaica che l’amministrazione Obama ha iniziato a picchiar duro: dalle accuse sulla scarsa trasparenza alle minacce vere e proprie.

Compresa l’aria che tirava, non è stupefacente la reazione di Bp:

Lamar McKay, chairman and president of BP America Inc., said there are no major regulations requiring a ‘subsea intervention plan.’ He agreed that regulations, planning and the types of capabilities and resources available for a blowout will need to be examined in the wake of the spill.

Sul piano legale, probabilmente ha ragione Bp: la responsabilità è limitata dalle legge, punto. Sul piano politico e sostanziale, ha probabilmente ragione Obama: ci sono molti modi “laterali” per rendere la responsabilità illimitata (come dovrebbe essere). Certo, la Casa Bianca non è disposta a correre rischi, e per questo ha proposto una sorta di “Robin Tax” di un centesimo per barile. Ma il punto, a me pare, è la tensione costante tra regolamentazione e responsabilità. In assenza di ogni tipo di regole – nel far west petrolifero – una compagnia petrolifera sarebbe incentivata a mettersi in sicurezza, perché dovrebbe sostenere tutti i costi degli incidenti. In un contesto pesantemente regolato, invece, l’incentivo è opposto: barare finché si può, interpretare le norme, paraculare in vario modo e, alla disperata, chiedere ancora più regole (e ancora meno responsabilità).

Chi ha a cuore l’ambiente, dovrebbe comprendere meglio questi meccanismi, anziché farsi abbagliare dal trionfo verde della politica Bp (a cui non sempre corrispondono comportamenti adeguati). Vale la pena ricordare che Bp, assieme a Enron e Lehman Brothers, è stata uno dei maggiori sponsor dell’introduzione di uno schema di cap and trade negli Usa. Due della banda dei tre sono già andati. Il disastro nel Golfo del Messico potrebbe dare una seria botta alla credibilità, se non alla sopravvivenza, del terzo.

(Hat tip: Rob Bradley, Jesse Walker)

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