CHICAGO BLOG » Bersani http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Eni, Russia, Berlusconi. Dove stanno i soldi? /2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/ /2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/#comments Wed, 15 Dec 2010 06:58:50 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7854 Il tornado di piombo sulla “torbida relazione” tra il Cav. e Vlad ha impedito a molti di porsi la domanda più scontata: perché l’Eni vuole il gasdotto russofilo South Stream, anziché quello atlantista Nabucco? Come spesso accade, si è trascurata la risposta più semplice: perché lì stanno i soldi.

Si potrebbe replicare, con Giuseppe D’Avanzo, Andrea Greco e Federico Rampini (1, 2, 3), che South Stream è “antieconomico”. Forse. E’ molto difficile dirlo, senza conoscere dettagli precisi che nessuno (tranne Eni e Gazprom) conosce. Però, nella testa del Cane a sei zampe ciò potrebbe essere irrilevante, et pour cause. Presumibilmente, “antieconomico” significa che il costo del gas trasportato via South Stream sarebbe superiore a quello dello stesso gas trasportato via Nabucco. Ammettiamolo pure. Questo è, potenzialmente, un problema per i consumatori. Ma è soprattutto un problema per chi quel gas deve venderlo, a meno che non sia in grado di ribaltare l’extracosto sui consumatori – nel qual caso il problema vero starebbe nella struttura del mercato, e in parte è senz’altro così, non negli assetti proprietari dei gasdotti internazionali.

Il fatto è che nessuno ha mai detto che quel gas sarà gas Eni. Nessuno ha mai neppure sospettato, in verità, che Gazprom – titolare dei giacimenti a cui South Stream attingerebbe – sia intenzionata, o disposta, a cedere parte del suo gas a Eni o altri. E’ ragionevole aspettarsi che South Stream non trasporterebbe altro che gas di Gazprom. Dunque, se l’idrocarburo sia competitivo oppure no è una questione dei russi – non dei loro partner. Allora, l’Eni che ci sta a fare?

La risposta può venire da un’esperienza passata, ma simile: quella di Blue Stream, un tubo sottomarino di 1.250 km che va dalla Russia alla Turchia attraverso il Mar Nero. Eni ha il 25 per cento di Blue Stream, ma non controlla una singola molecola del gas che vi transita (tranne per uno scambio formalmente fisico, ma sostanzialmente finanziario, che si svolge alla frontiera turca e serve per remunerare il capitale). Come tutte le infrastrutture del genere, Blue Stream si finanzia solo in piccola parte con equity, e per il resto a debito. Trovare i capitali in banca fu, all’epoca, compito dei russi. Quanto all’equity di Eni, secondo fonti interne all’azienda, esso garantisce un rendimento tra il 10 e il 15 per cento. I soldi veri Eni li fece in altro modo: cioè aggiudicandosi (tramite Saipem) la realizzazione del tubo. Blue Stream fu una torta da 3,2 miliardi di euro, 1,7 dei quali relativi al tratto offshore: buona parte di questi ultimi andarono a Saipem. A queste condizioni – con zero debito, remunerazione garantita sull’equity, e soprattutto ricche commesse – all’Eni interessava che il gasdotto si facesse: non che il gas trasportato fosse competitivo, non che fosse venduto, e neppure che fosse trasportato.

Torniamo a South Stream. Il modello è, molto probabilmente, lo stesso di Blue Stream. Idem per Nabucco. Dunque, per Eni i due gasdotti sono, in astratto, equivalenti, tranne che per due particolari determinanti. Primo, e meno importante: scegliendo South Stream Eni consolida il suo rapporto con un partner strategico. Secondo, e più rilevante: South Stream vuol dire 900 km di tubo sottomarino che solo Saipem può realizzare, e qualche altro centinaio di km a terra. Nabucco sono 3.300 km tutti a terra, che possono essere divisi in lotti e affidati a “n” soggetti ugualmente bravi. Cioè, South Stream dà la certezza di una grassa commessa per Saipem; Nabucco no. I giochi sono solo e tutti lì.

Come si è visto, l’eventuale non-competitività di South Stream può tuttavia scaricarsi sui consumatori finali. I critici – se credono che esso non sia effettivamente competitivo – dovrebbero impegnarsi nell’aprire i mercati a valle, creando una concorrenza vera e rimuovendo (e facendo rimuovere) ogni sussidio erogato a qualunque titolo. In questo modo, la questione si trasferirebbe sui desk delle banche: è economico quel che è bancabile, punto, perché il recupero dei costi non è garantito.

In tutto questo, non solo non c’è traccia, ma più profondamente non c’è bisogno di Silvio Berlusconi. Che egli abbia degli interessi privati oppure no, può essere al massimo un de cuius; può investire la scelta di un intermediario anziché un altro, ma è ridicolo pensare che l’influenza di Palazzo Chigi arrivi tanto lontano. Anche perché quella che finora è stata la firma più importante risale al 23 giugno 2007, con Romano Prodi presidente del Consiglio, Pierluigi Bersani ministro delle Attività produttive e Massimo D’Alema ministro degli Esteri, un anno dopo la vittoria elettorale del centrosinistra e molto prima che la crisi dell’Unione divenisse evidente. Pensare che il Cav. potesse manovrare i fili in quelle condizioni equivale a credere che Prodi, Bersani e D’Alema fossero troppo stupidi, troppo distratti, o troppo filorussi o cointeressati per accorgersi di quello che facevano Non credo che fossero né l’una né l’altra cosa e penso che sapessero benissimo cosa stavano firmando. Peraltro, L’inizio della progettazione di Blue Stream risale al 1997, il Memorandum of understanding con l’Eni al 1999, e la costruzione avvenne tra il 2000 e il 2002: quasi tutto si svolse quando in Italia dominava il centrosinistra. Poiché le due operazioni appaiono strettamente imparentate, viene da pensare che, storicamente, centrodestra e centrosinistra sono stati ugualmente interessati, o disinteressati, alla relazione tra Italia e Russia; ugualmente leader, o follower, dell’Eni; e ugualmente attenti, o disattenti, alle implicazioni geopolitiche di tali scelte.

E’ vera una cosa: ci sono alcuni indizi di coinvolgimenti berlusconiani. Ma su una scala molto inferiore. Il caso, troppe volte citato, di Bruno Mentasti – l’intermediario vicino al Cav. che avrebbe dovuto commercializzare gas russo in Italia – è indicativo non solo perché si pone, per la dimensione dell’investimento, a qualche anno luce di distanza dalla realizzazione di un gasdotto, ma anche perché – per imperizia, goffaggine o mancanza del pudore – non se ne fece nulla. C’è altro? Forse, diciamo pure probabilmente. Ma è un “altro” rispetto al quale gli stessi D’Avanzo, Greco e Rampini non hanno prova alcuna, distillano voci nell’aria. C’è di sicuro – ma questo non lo dicono – un perverso allineamento di interessi tra l’Eni e il governo che però non dipende da Berlusconi, ma è congenito nel fatto che il più grande gruppo industriale italiano è pubblico al 30 per cento. Questo è il vero conflitto di interessi e questo andrebbe sciolto – privatizzando l’Eni. Tutto il resto è un ricamare sull’inutile per evitare l’ovvio.

]]>
/2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/feed/ 11
Proposta shock per l’Autorità energia: tiratelo fuori /2010/12/06/proposta-shock-per-lautorita-energia-tiratelo-fuori/ /2010/12/06/proposta-shock-per-lautorita-energia-tiratelo-fuori/#comments Mon, 06 Dec 2010 10:15:24 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7785 A meno di dieci giorni dalla scadenza formale dell’attuale collegio, le nomine della nuova Autorità per l’energia sono in alto mare. Il naufragio è frutto della superficialità dei principali attori di questo teatrino: il Pdl, il Pd e la Lega (o, se preferite nomi e cognomi, di Gianni Letta e Paolo Romani, Pierluigi Bersani e Roberto Calderoli). Capire perché le cose sono andate male è necessario a esprimere una diagnosi del fallimento. La risposta, dati i tempi e l’apparent cul de sac in cui la politica si è cacciata (compreso il voto di sfiducia del 14 dicembre), non può che essere una terapia shock: tiratelo fuori.

Come sempre, c’è una tensione tra la lettera della legge e la sua sostanza. La legge richiede che le nomine, operate dal governo, siano approvate dalle commissioni parlamentari competenti con una maggioranza dei due terzi. Letta-Romani, Bersani e Calderoli hanno fatto le loro scelte pallottolliere alla mano. Non hanno considerato due cose: primo, che i parlamentari (almeno alcuni di loro) non sono palline ma esseri umani; secondo, che le nomine, per essere votate, devono essere votabili. Alcune, a fortiori, non lo erano. Non lo erano perché il criterio dell’appartenenza partitica ha prevalso su qualunque altro criterio, compreso quello della competenza tecnica (che pure è richiesta dalla legge istitutiva dell’Autorità).

Non apro una digressione sulla questione dell’indipendenza perché lo ha già fatto Alberto Mingardi. Nessuno crede, e pochi chiedono, che i politici si spoglino della loro appartenenza in questi momenti. E’ fisiologico che ciascuno cerchi di inserire uomini (o donne) considerati “vicini” o “d’area” nei posti disponibili. Il problema è che, dall’insieme dei “vicini”, bisognerebbe estrarre il sottoinsieme dei “competenti”, e tra di essi scegliere. Ci sono molti tecnici in gamba contigui al Pdl, al Pd, alla Lega: perché solo alcuni sono emersi, nella cinquina ormai tramontata, mentre altri erano vicini ma non competenti o addirittura incompetenti?

Non voglio rispondere a questa domanda. Non sarei in grado di farlo – e comunque non senza usare parole poco educate. Mi limito a osservare che le cose sono andate così. Osservo anche che la pezza che si per qualche giorno si è tentato di mettere era peggio del buco: si è cercato di comprare il supporto di partiti esterni alla maggioranza promettendogli incarichi non già nel collegio, ma ai vertici della struttura dell’Autorità, o di negoziare parallelamente sul tavolo dell’Antitrust. In entrambi i casi, anziché risolvere il deficit di competenza lo si sarebbe allargato, almeno se si prendono sul serio alcuni dei nomi che sono circolati e i nomi di quelli che, per far spazio a loro, sarebbero stati sacrificati. Anche questa strada, comunque, non si è rivelata utile. Così siamo alla situazione attuale: la politica in altre faccende affacendate, l’Autorità in bilico, la sua operatività appesa a un parere del Consiglio di Stato che comunque non potrà non sollevare critiche e ricorsi, la certezza di una prorogatio che potrebbe anche avere tempi molto lunghi.

In queste condizioni, pensare che la patologia – l’incapacità di operare nomine di cui da sette anni tutti conoscevano la scadenza – possa fare il suo decorso è illusorio. Quindi bisogna prendere atto della realtà e incanalarla in un percorso sostenibile. La realtà è questa: i partiti fanno le nomine. Il percorso sostenibile è questo: bene nomine di parte, ma che siano nomine decenti. Ecco, dunque, la mia proposta shock: far emergere le negoziazioni sotterranee.

Cari partiti – cari Letta, Romani, Calderoli, Bersani, Casini, Fini, Di Pietro, Vendola, e tutti quelli che mi sto dimenticando o di cui ignoro, senza particolare senso di colpa, l’esistenza: cari partiti, tiratelo fuori. Tirate fuori i nomi delle persone che avete in mente e mettete online, in modo che tutti possano vederlo, il loro curriculum.

Intendiamoci: un CV dice molto ma dice poco. Ci sono mille modi per “cucinarlo” in modo che sembri più di quel che è. Qualche corso inutile di qua, qualche consiglio di amministrazione che si è frequentato un pisolo dopo l’altro di là. Però, un CV – per quanto cucinato – è meglio di nessun CV. Non sto dicendo, dunque, che sulla base del CV si dovrebbe decidere. Sto solo dicendo che, almeno, si dovrebbe avere la decenza di scegliere persone che possano sostenere di sapere qualcosa del settore che andranno a regolare. Sto chiedendo, cioè, che i padrini si prendano la responsabilità dei loro picciotti. Starà ai “picciotti” dimostrare, col loro comportamento, se agiscono nell’interesse del mercato o in quello dei rispettivi mandanti. E sta ai “padrini” indicare personale qualificato – a cui togliamo volentieri l’etichetta di “picciotti” – anziché manovalanza partitica.

L’indipendenza sta nelle norme e sta nelle persone: uno scatto di trasparenza ex ante potrebbe consentire sia la quadratura del cerchio oggi, sia una più serena valutazione dell’operato dell’Autorità quando le nomine saranno state effettuate. Magari, ci aiuterà anche a capire se i leader politici che chiedono la nostra fiducia sanno scegliere i loro collaboratori, o se per loro l’unico metro è quello delle fedeltà. Nel qual caso, non avranno il nostro voto.

]]>
/2010/12/06/proposta-shock-per-lautorita-energia-tiratelo-fuori/feed/ 1
L’acqua è di tutti. O tutti fanno acqua? /2010/10/21/lacqua-e-di-tutti-o-tutti-fanno-acqua/ /2010/10/21/lacqua-e-di-tutti-o-tutti-fanno-acqua/#comments Thu, 21 Oct 2010 17:56:45 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7350 Il Partito democratico ha presentato, questo pomeriggio, la sua proposta sull’acqua – o, meglio, sul servizio idrico integrato. Qui si può leggere un sommario della proposta (presentata dalla responsabile Ambiente del partito, Stella Bianchi, assieme al segretario, Pierluigi Bersani, e ai capigruppo alla Camera e al Senato) e qui il testo della proposta di legge. Cosa dice il Pd? E’ fedele alla vocazione riformista oppure si allinea alla retorica referendaria? La risposta, come spesso accade, è più complessa.

di Luigi Ceffalo e Carlo Stagnaro

Anzitutto, visto che la faccenda dell’acqua è gonfia di richiami simbolici e identitari, la proposta va contestualizzata nello scenario politico. In questo senso, non crediamo si debba dare troppo peso alla precisazione, più volte ribadita dallo stesso Bersani, che “l’acqua è un bene pubblico e sono beni pubblici anche le strutture del servizio idrico integrato”. Non gli diamo peso a dispetto di due cose: (a) non crediamo che la “pubblicità” del bene e delle infrastrutture, e la relativa retorica, portino alcunché di buono: nella migliore delle ipotesi, non introducono miglioramenti, nella peggiore creano distorsioni; (b) lo stesso decreto Ronchi, obiettivo polemico del Pd e dei referendari (e della Lega, a cui si devono primariamente ritardi, ambiguità e incertezze) afferma con forza la pubblicità dell’acqua e delle infrastrutture (acquedotti, fognature, depuratori, ecc.). Dunque, sotto questo profilo, non c’è alcuna differenza tra i due maggiori partiti, e semmai c’è un passo indietro rispetto alla situazione precedente, che tollerava la proprietà privata delle infrastrutture. Altro che privatizzazione!

E’ però sicuramente positivo il fatto che, per la prima volta, il Pd prenda ufficialmente ed esplicitamente le distanze dai referendum. “Ufficialmente” la ragione è lo scetticismo verso lo strumento referendario, che essendo di natura meramente abrogativa è considerato (giustamente) inadeguato a correggere gli aspetti del decreto Ronchi su cui il Pd è critico. Sospettiamo che vi sia anche la consapevolezza che, qualora la logica referendaria dovesse prevalere, il paese farebbe non un passo, ma un salto indietro rispetto ai progressi faticosamente compiuti in questi anni, che in qualche maniera hanno portato quanto meno ad accettare che il servizio idrico ha una irrinunciabile dimensione industriale, che non può essere sacrificata alla mitologia delle gestioni collettive.

Il progetto affronta una molteplicità di temi, di cui non ci occupiamo perché li riteniamo marginali. La ciccia vera e propria, infatti, sta tutta in cinque articoli: il gruppo 4-5-6 (“assemblea di ambito territoriale ottimale”, “partecipazione dei comuni all’assemblea d’ambito”, “autorità nazionale di regolazione del servizio idrico”), il 9 (“affidamento e revoca della gestione”), e il 10 (“tariffa del servizio idrico integrato”).

Gli articoli 4 e 5 reintroducono le autorità d’ambito (chiamandole “assemblee di ambito”), coordinate dal presidente della regione o della provincia (a seconda dei casi) e composte dai sindaci, a cui viene conferito il compito di affidare il servizio, determinare le tariffe (sulla base di una procedura di cui parleremo tra poco), e decidere gli investimenti. Questi soggetti erano stati soppressi dal decreto Calderoli “taglia enti”, che però, passando alle Regioni il compito di individuare cosa e come dovrà prenderne il posto, finisce per risolvere la contraddizione… creando confusione.

La situazione è parzialmente raddrizzata dagli articoli 6 e 10. Il primo – che costituisce il vero punto forte del progetto e il cui recepimento potrebbe, speriamo, rappresentare un elemento di mediazione virtuosa tra il Pd e il governo – trasforma l’attuale Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche – un ente senza risorse e senza poteri – in una vera e propria autorità di regolazione, con poteri di controllo e sanzione. Soprattutto, essa

definisce gli schemi tipo degli atti delle concessioni, delle autorizzazioni, delle convenzioni e dei contratti regolanti i rapporti tra i diversi soggetti (art.6 comma 10 lettera m)

verifica la congruità delle tariffe, i parametri e gli altri elementi di riferimento per determinare le stesse, nonché le modalità per il recupero dei costi eventualmente sostenuti nell’interesse generale in modo da assicurare la qualità, l’efficienza del servizio e l’adeguata diffusione del medesimo, nonché la realizzazione degli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse, tenendo separato dalla tariffa qualsiasi tributo od onere improprio; verifica la conformità ai criteri di cui alla presente lettera delle proposte di aggiornamento delle tariffe eventualmente presentate (art.6 comma 10 lettera n)

con apposito Regolamento definisce la metodologia per la determinazione della tariffa per usi civili e industriali nonché le modalità per la revisione periodica (art.10 comma 2)

L’Autorità è nominata dal governo su proposta dei presidenti delle camere, teoricamente garanzia di indipendenza anche se avremmo preferito il voto a maggioranza qualificata nelle commissioni parlamentari competenti, o qualcosa del genere. Essa, insomma, è contemporaneamente l’ente tecnico di riferimento – che, si spera, verrebbe messo in grado di raccogliere i dati che il Conviri non riesce a ottenere – e agisce in modo tale da ridurre, per quanto possibile, la discrezionalità e i pasticci delle assemblee d’ambito. In breve, la proposta del Pd prevede un quadro regolatorio nazionale di natura relativamente più tecnica e relativamente meno politica, ma rischia di vanificarne o ridurne le potenzialità mischiandone le competenze con quelle delle assemblee, che poi saranno nella pratica chiamate a prendere o eseguire le decisioni rilevanti.

Questo ci conduce all’aspetto più discutibile della proposta: quello relativo alle modalità di affidamento. Mentre il decreto Ronchi fissa il principio dell’affidamento in via ordinaria tramite gara, relegando l’affidamento diretto o in house a una casistica residuale, il Pd torna ad aprire il vaso di Pandora . Infatti, pur salvaguardando (e ci mancherebbe altro!) la possibilità di affidamento a soggetti privati che dovrebbe avvenire tramite procedura a evidenza pubblica, prevede la possibilità di conferire la gestione del servizio

a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano

La clausola del “controllo analogo” è un requisito necessario per la legittimità comunitaria dell’affidamento ma rischia di essere, come è stata fino a ora, l’escamotage attraverso cui può essere fatto passare qualunque cosa – cioè la preservazione di inefficienze, opacità e collateralismi attuali. Ma, se e nella misura in cui questo “qualunque cosa” passa, è davvero difficile immaginare che sia possibile trovare capacità e volontà per ammodernare le reti nel senso che pure gli stessi esponenti del Pd auspicano.

In sintesi, la proposta ha alcuni aspetti positivi (la creazione di un’autorità di regolazione, pur mitigata dal ripescaggio delle autorità, pardon assemblee, d’ambito) e altri negativi (la retromarcia sulle gare). Il migliore dei mondi possibili, per noi, sarebbe impiantare il contesto regolatorio immaginato dal Pd nel tessuto del decreto Ronchi. Di certo, però, la conferenza stampa di oggi ci rincuora perché, al di là delle valutazioni di merito, ci lascia sperare che i referendum – tra la presumibile opposizione del Pdl e quella sperabile del Pd – no pasaràn.

(Crossposted @ www.ilfoglio.it/duepiudue)

]]>
/2010/10/21/lacqua-e-di-tutti-o-tutti-fanno-acqua/feed/ 1
N = N(V) /2010/07/27/n-nv/ /2010/07/27/n-nv/#comments Tue, 27 Jul 2010 16:44:40 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6648 Il polverone che si è sollevato attorno a Umberto Veronesi è una triste dimostrazione delle difficoltà in cui si dibatte il nostro paese. Credo di essere stato tra i primi a proporre il nome di Veronesi come presidente dell’Agenzia, proprio su Chicago-blog. La mia idea era che, tendendo la mano al centrosinistra offrendo il posto a un suo uomo, il governo avrebbe rafforzato quella parte del Partito democratico che nel nucleare ci crede non come una panacea ma, laicamente, come una tecnologia di cui è sciocco fare a meno. La provocazione era stata compresa e rilanciata dalla parte del Pdl che riconosce l’importanza di essere bipartisan, in queste cose. La proposta a Veronesi è infine arrivata, ma con che risultati?

Il quadro politico lo ha ricostruito poco fa Oscar Giannino, col quale mi sono praticamente sovrapposto nello scrivere questo post. Oscar evidenzia una serie di cose molto giuste, per cui non sto a farla lunga. Paradossalmente, indicando Veronesi si è messo il Pd alle strette, tanto che Pierluigi Bersani ha dovuto assumere una contorta e bislacca posizione – lui che, si mormora, in fondo nel nucleare ci crede – chiedendo all’oncologo le dimissioni da senatore. Dimissioni prontamente offerte, ma che non hanno mutato la posizione apparente del Pd. Credo che, in parte, a determinare il crollo degli eventi sia stato anche il modo in cui, nel frattempo, è cambiato il mondo. L’anno scorso, il nucleare era un progetto concreto per costruire il quale era più che necessario, era indispensabile costruire un sentiero di dialogo (come aveva colto perfettamente il responsabile energia e servizi pubblici del partito, Federico Testa).

Da allora è cambiata soprattutto una cosa: Claudio Scajola non è più ministro dello Sviluppo economico. In passato ho espresso tante perplessità sul modo in cui Scajola stava gestendo la faccenda, ma almeno una cosa gli va riconosciuta: la stava gestendo. Le sue dimissioni e lo sconsolante vuoto che hanno lasciato rivelano che, tutto sommato, il nucleare non è nelle priorità dell’esecutivo. Non basta l’impegno del sottosegretario Stefano Saglia: Saglia sarebbe l’uomo giusto, ma non è al posto giusto, nel senso che un sottosegretario è sempre un sottosegretario. Potevano farlo ministro all’Energia, magari scorporando l’Energia dallo Sviluppo economico, e non l’hanno fatto. Ne stiamo pagando le conseguenze (non solo sul nucleare, beninteso).

Il fatto è che tornare al nucleare – cioè costruire l’infrastruttura legale e regolatoria per consentire la costruzione e l’esercizio di impianti atomici – o è una priorità, o non è. Bisogna fare troppo lavoro per svolgerlo nei ritagli di tempo. Non basta darsi buone norme: serve anche credibilità e, per questo, non si può fare senza l’opposizione. La mano tesa del governo, forse allungata fuori tempo massimo ma comunque tesa, è rimasta senza controparte. Credo che questo dimostri, anzitutto, un grave limite del maggior partito d’opposizione: la versione brutale di quello che penso è che Bersani non conti, non abbia il controllo sul partito e dunque ne subisca gli istinti più populisti. La versione diplomatica della stessa cosa è che il Pd non è in grado di ospitare un dibattito interno degno di questo nome e, sulla base di questo dibattito e di quella trascurabile cosa circostante che si chiama “realtà”, di prendere una posizione. Con questa opposizione, verrebbe da dire, chi ha bisogno di una maggioranza: e infatti pure la maggioranza, come vediamo giorno dopo giorno, ha la stessa consistenza di un pupazzo di neve a Ferragosto.

C’è, poi, un altro problema, che emerge anche dalla lettera di Milena Gabanelli sul Corriere, è una scarsa comprensione di quello che il nucleare è. A questo proposito, segnalo l’uscita di un libro molto spiccio e molto chiaro sul tema: Fattore N. Tutto quello che c’è da sapere sull’energia nucleare, di Gino Moncada Lo Giudice e Francesco Asdrubali. Senza troppi fronzoli, Moncada e Asdrubali – due ingegneri e professori di fisica tecnica ambientale – raccontano la verità sul nucleare in quanto tecnologia. Non fanno politica, non appendono gagliardetti. Spiegano come funziona una centrale, che differenza c’è tra le centrali di oggi e quelle di ieri, perché Chernobyl è irirpetibile, quali rischi si corrono e in quali stadi della filiera, eccetera.

Purtroppo, suggerire la lettura di questo libro è, credo, abbastanza inutile, e dunque – mi spiace per Moncada e Asdrubali – inutile è stato scriverlo. Perché nessuno di quelli chiamati a decidere lo leggerà, perché le decisioni sono già state prese e, se l’opposizione le ha prese abdicando al suo ruolo di guardiano responsabile sull’operato del governo (con le dovute, lodevoli, romantiche e pure loro inutili eccezioni), il governo vi ha sostanzialmente abdicato nel momento in cui ha perso gran parte dei primi 2 anni di mandato nei quali si doveva avviare il cantiere istituzionale per il nucleare.

Dunque, N = N(V). Il nucleare (N) può essere - non necessariamente è – essere funzione di Veronesi (V), o di qualunque altro nome preparato e credibile si voglia proporre per la testa dell’Agenzia. Non vi piace l’oncologo? Prendete qualcun altro che abbia competenze, palle e indipendenza (tra pochi mesi ce ne sarà almeno uno disponibile, credo, uno che si è battuto come un leone per rendere il nostro mercato energetico migliore di quanto fosse, e in cambio ha ricevuto pesci in faccia e sgambetti un po’ puerili). Ma un buon presidente non è sufficiente. Ci vuole anche una reale indipendenza, e l’Agenzia di sicurezza nella sua versione attuale non ce l’ha (è di nomina governativa). Ci vuole soprattutto una cultura condivisa: cultura delle istituzioni (non si gioca con gli investimenti) e cultura dell’energia e cultura della tecnologia. Questa cultura condivisa non c’è. Non perché non ci sia una cultura condivisa. Perché non c’è una cultura. E si vede.

]]>
/2010/07/27/n-nv/feed/ 2
Pd e nucleare. Qualcuno batte un colpo /2010/05/11/pd-e-nucleare-qualcuno-batte-un-colpo/ /2010/05/11/pd-e-nucleare-qualcuno-batte-un-colpo/#comments Tue, 11 May 2010 08:15:28 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5972 UPDATE: Il dibattito si allarga dentro il Pd. Il sito del Sole 24 Ore sente, su posizioni diverse, il responsabile energia del Pd, Federico Testa, e gli “ecodem”, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante.

UPDATE 2: Qui la risposta evasiva di Bersani. Il segretario dice cose in parte condivisibili, nel criticare il piano del governo. Ma la lettera dei 73 non era a proposito di questo: riguardava l’opposizione preconcetta al nucleare. Con la sua replica, Bersani non fa altro che alimentare che l’opposizione del Pd non riguardi il progetto dell’esecutivo, le sue specificità, ma, appunto, il nucleare di per sé. Almeno gli “ecodem” hanno le palle di dirlo chiaro e tondo.

Il Riformista di oggi apre con la notizia di una lettera inviata da una settantina di intellettuali e politici, più o meno di sinistra, che scrivono al segretario del Pd, Pierluigi Bersani, una lettera dai contenuti molto chiari e molto condivisibili: il no al nucleare, senza se e senza ma, non trova riscontro nella storia della sinistra in questo paese, nella logica, nell’ambiente. Tra i firmatari, Umberto Veronesi, Margherita Hack, Enrico Morando, Gilberto Corbellini, Chicco Testa, Umberto Minopoli, e molti altri.

Il senso della lettera si riassume nella conclusione:

Riterremmo innaturale e incomprensibile ogni chiusura preventiva su un tema che riguarda scelte strategiche di politica energetica, innovazione tecnologica e sviluppo industriale così critiche e con impatto di così lungo termine per il nostro paese.

La maggior parte dei firmatari non sostiene queste tesi per la prima volta. Anzi, le ha affermate con forza in vari momenti e in diverse sedi. Per la prima volta, però, vediamo emergere lo scontento e il disappunto di una fetta importante del mondo che guarda al Pd, e che chiede al partito di smetterla con posizioni approssimative e populiste. In qualche modo, l’elezione di Bersani rispondeva anche a questa esigenza: consentire al Pd di darsi una struttura e un programma più solidi, in modo da esprimere posizioni che non siano, semplicemente, il percolato di quello che i sondaggi dicono essere l’opinione pubblica. Il nucleare è una questione troppo importante e troppo complessa per liquidarla in uno slogan. Condannarsi a un “no” pregiudiziale, per il principale partito dell’opposizione che aspira a essere principale partito di governo, significa marginalizzarsi, rinunciare alla possibilità di influire sui modi e i tempi (e Dio solo sa quanto avremmo bisogno di un confronto di merito tra centrodestra e centrosinistra).

Di fronte a una domanda tanto pressante, con firme tanto numerose e tanto autorevoli, Bersani non può sottrarsi. Aspettiamo, tutti, una risposta.

]]>
/2010/05/11/pd-e-nucleare-qualcuno-batte-un-colpo/feed/ 11
A proposito di acqua e servizi pubblici locali. Di Federico Testa /2010/04/24/a-proposito-di-acqua-e-servizi-pubblici-locali-di-federico-testa/ /2010/04/24/a-proposito-di-acqua-e-servizi-pubblici-locali-di-federico-testa/#comments Sat, 24 Apr 2010 08:22:02 +0000 Guest /?p=5750 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Federico Testa, economista e deputato Pd. In risposta ai dubbi avanzati ieri da Carlo Stagnaro, Testa esprime le ragioni di perplessità sul decreto Ronchi.

Il tema dei servizi pubblici locali è certamente complesso, lo dimostrano anche i tentativi di intervenire fatti nel passato e non sempre riusciti. Quando si parla di servizi pubblici locali si parla di servizi che vanno a soddisfare bisogni fondamentali della collettività, pertanto è importante, da un lato, lavorare per un approccio organico -e l’articolo inserito in un decreto-legge che parla d’altro non rappresenta certamente un approccio organico- ma è anche importante capire cosa si mette al centro.


Io credo che, se si vuole affrontare correttamente questo tema, al centro sia doveroso mettere il cittadino e il suo diritto ad avere servizi di buona qualità ad un prezzo corretto, il minimo possibile.

Da questo punto di vista, quando si ragiona di questo tema, il primo punto su cui bisogna confrontarsi  è sempre quello privatizzazione-liberalizzazione, perché la teoria ci dice che bisogna prima liberalizzare e poi privatizzare, altrimenti  si corre il rischio o di trasferire una rendita di monopolio dal pubblico al privato.

In questo senso, quello che a me pare manchi nel recente decreto legge su cui il Governo ha posto la fiducia, sono interventi seri proprio sul fronte delle liberalizzazioni. Ma cosa non ha funzionato nelle liberalizzazioni in Italia? Non ha funzionato, ad esempio, tutto il tema delle gare: molto spesso abbiamo a che fare con gare che sono assolutamente non vere e ciò dipende anche dal fatto che i soggetti che sono chiamati a bandire le gare, da un lato, non hanno le competenze per poterlo fare, dall’altro, molto spesso sono in palese conflitto di interessi rispetto chi si aggiudicherà la gara stessa.

Inoltre, vi è la questione dell’autorità di regolazione, nel senso che la concorrenza perfetta non è uno stato naturale del mercato; le imprese vanno alla ricerca di un vantaggio competitivo nei confronti delle altre, e quindi là dove lo si ritenga opportuno, bisogna realizzare interventi affinché la concorrenza venga mantenuta.

Il Governo, con il recente provvedimento, ragiona al contrario, ossia pone vincoli molto rigidi in tema di privatizzazione, e quindi l’effetto che si ottiene pare essere prevalentemente quello, diciamo così, di “spartire” la rendita di monopolio del pubblico con qualche privato, il tutto senza alcun vantaggio certo e chiaro per i cittadini e per i consumatori. Questo è reso evidente dal fatto che le concessioni in house vanno a scadenza purché nel soggetto pubblico che ne è titolare entri il privato almeno per il 40 per cento. Quindi, in questo modo, invece di stabilire di bandire una gara, visto che si tratta di una concessione in house e che magari chi ha vinto la gara poteva non essere il soggetto che dava la migliore qualità e il miglior prezzo ai cittadini, si prevede di fare entrare un privato e questo, di per sé, sana la questione.

L’approccio al tema, invece, dovrebbe essere profondamente diverso: occorre mettere al centro i consumatori sapendo che si deve tra l’altro affrontare –in tema di ciclo idrico- una questione delicatissima, che è quella degli investimenti che bisogna effettuare nel nostro Paese, in quanto il dato di oltre il 35 per cento di perdite degli acquedotti in Italia è purtroppo realistico.

Occorre, dunque, fare investimenti e che questi siano finanziati: sia che li faccia il pubblico, sia che li faccia il privato, gli investimenti devono avere una sostenibilità finanziaria. Se il finanziamento è a carico della fiscalità generale, dobbiamo avere il coraggio di andare a dire che la fiscalità generale probabilmente deve crescere o diventare più efficiente per finanziare gli investimenti nell’acqua; se gli investimenti devono essere finanziati dal settore stesso, dobbiamo sapere che probabilmente le tariffe sono destinate a crescere perché si dovrà investire parecchio, o che bisognerà riuscire a recuperare, attraverso gli interventi regolatori, importanti spazi di efficienza e produttività.

Quindi, l’autorità indipendente di garanzia –che il provvedimento del governo non prevede- è importante proprio perché, nel momento in cui si vanno a chiedere maggiori risorse ai cittadini per finanziare gli investimenti, è fondamentale che tali maggiori risorse vadano alla destinazione richiesta e non vadano, invece, a costituire profitto o sprechi.

Da questo punto di vista, forse, la scelta migliore era quella di non perseguire un approccio ideologico qual è quello che, a mio modo di vedere, si è voluto assumere ma, invece, di mettere correttamente in competizione pubblico e privato allo scopo di garantire la qualità e il servizio migliore ai cittadini.

In questo senso credo che, un’altra volta, si sia persa un’occasione importante per intervenire in un settore che, proprio perché riguarda i bisogni fondamentali dei cittadini, è assolutamente importante e rilevante per tutti noi.

(Pubblicato per la prima volta su Management delle utilities, vol.8, no.1, 2010, pp.97-98).

]]>
/2010/04/24/a-proposito-di-acqua-e-servizi-pubblici-locali-di-federico-testa/feed/ 0
Acqua. Mr Pierluigi ma anche, e sempre più, Dr Bersani /2010/04/23/acqua-mr-pierluigi-ma-anche-e-sempre-piu-dr-bersani/ /2010/04/23/acqua-mr-pierluigi-ma-anche-e-sempre-piu-dr-bersani/#comments Fri, 23 Apr 2010 18:06:03 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5748 Comincia domani la guerra dell’acqua. Il comitato “Acqua bene comune” avvia la raccolta delle firme per tre quesiti referendari, per l’abrogazione dell’art.23 bis del “decreto Ronchi” e delle altre norme il cui combinato disposto produce l’attuale (insoddisfacente) assetto di parziale liberalizzazione. La battaglia populisticamente, e scorrettamente, intitolata all’acqua pubblica – populisticamente e scorrettamente perché non c’è un rigo, nelle norme, che “privatizzi” l’acqua - ha trovato, fin da subito, il sostegno (esplicito e forte) dell’Italia dei Valori, e quello (implicito e paraculesco) della Lega. Da ieri, il Partito democratico si è, più o meno, aggregato alla carovana.

Dico “più o meno” perché, pur avversando il decreto Ronchi in merito alla “privatizzazione” dell’acqua, durante l’apposita conferenza stampa il segretario, Pierluigi Bersani, ha parlato di tutelare la proprietà pubblica della risorsa idrica e il “ruolo fondamentale delle regioni e degli enti locali nelle scelte di affidamento del servizio idrico integrato” (così si legge nella nota distribuita alla stampa). Tradotto in italiano corrente: il Pd difende lo status quo. Il colpo al cerchio: il Pd raccoglierà le firme su una proposta di legge di iniziativa popolare. Il colpo alla botte: il Pd non raccoglierà le firme per il referendum. (Ma, verosimilmente, lo appoggerà nel caso in cui vada in porto).

Ora, c’è un che di stupefacente in tutto questo. Quello che meraviglia non è tanto l’incapacità per il Pd di ammettere (capire, lo capiscono) che il decreto Ronchi, pur non essendo in alcun modo perfetto, è il migliore dei mondi politicamente possibili. Non meraviglia neppure che, dentro il Pd, vi siano voci simili a quelle che si sentono comunemente provenire dalle parti della sinistra massimalista: qualche dissonanza c’è sempre stata. Quel che lascia a bocca aperta è che, di tutti i democratici, sia proprio Bersani a impugnare lo scettro dell’acqua pubblica. Stupisce perché, come riconosce un critico intellettualmente onesto quale Giuseppe Altamore, non c’è tutta queste differenza tra il decreto Ronchi e il mitico, e affossato dalle opposizioni interne, ddl Lanzillotta (in realtà l’acqua era stata esclusa, ma il ministro Lanzillotta disse a più riprese che aveva subito una forzatura, e poté contare, tra l’altro, sul soccorso dell’Antitrust). Non risulta che, all’epoca, Bersani si sia opposto agli sforzi di Lanzillotta. Risulta, dalla cronaca e dall’anedottica, il contrario: che Mr Pierluigi, che cesellò attorno sé l’epica del liberalizzatore coraggioso, si sia battuto per ottenere quello che poi non avvenne.

Stupisce e delude, allora, assistere oggi al “contrordine compagni” del Dr Bersani, che non sa trovare un modo migliore di interpretare il proprio ruolo se non quello di cedere agli istinti più belluini del suo partito. E sì che questa sarebbe una splendida occasione per dimostrare la maturità del Pd, a fronte dello spettacolo che il Pdl sta offrendo al paese. Sic transit gloria, si fa per dire, mundi.

]]>
/2010/04/23/acqua-mr-pierluigi-ma-anche-e-sempre-piu-dr-bersani/feed/ 5
Nucleare: Bersa-nì /2010/03/06/nucleare-bersa-ni/ /2010/03/06/nucleare-bersa-ni/#comments Sat, 06 Mar 2010 14:18:02 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5313 Il Pd è favorevole o contrario al nucleare? O, meglio, è favorevole o contrario alla possibilità per le imprese elettriche operanti nel paese di tornare a investire in questa tecnologia? E, quindi, rispetto alla strategia governativa conduce una opposizione senza se e senza ma, oppure la sua è una critica costruttiva per correggere le eventuali storture? Apparentemente – se almeno si giudica dagli atti parlamentari – il Pd non è contrario a priori. Se invece si giudica in base alla percezione pubblica delle posizioni del principale partito d’opposizione è vero il contrario. Finalmente, il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, intervistato sul Secolo XIX da Luigi Leone, esprime in modo chiaro la posizione del Pd. Forse. Più o meno. Grosso modo.

La domanda è chiarissima: “E il nucleare?” (prima di leggere la risposta, bisogna tener conto del fatto che a Genova hanno sede Ansaldo Energia e Ansaldo Nucleare, eredi di quel che resta delle competenze tecniche del nostro paese, e che il capoluogo ligure si è candidato - per voce della sindaco democratica, Marta Vincenzi – a ospitare l’Agenzia di sicurezza nucleare). Ecco, testualmente, le parole di Bersani:

Un’azienda come l’Ansaldo avrebbe solo da guadagnare se facessimo le cose che dobbiamo, come il “decommissioning” (lo smantellamento delle vecchie centrali, ndr). Invece questo percorso è stato abbandonato, con un piano portato avanti dal ministro Claudio Scajola che è velleitario e irrealizzabile. Tanto per dire: si può parlare di nucleare senza aver previsto siti di superficie per le scorie e con procedure che escludono sostanzialmente le responsabilità dei territori? Noi siamo disponibili a ragionare, ma su cose concrete.

Ora, cosa ha detto Bersani? Assolutamente nulla. Ha pacchianamente sviato la questione. Per certi versi ha ragione: senza un percorso chiaro per lo smaltimento delle scorie, nessuno si sogna di rischiare. L’iter autorizzativo delineato nel decreto del Mse è discutibile. Tutte queste cose, e altre, le spiega benissimo Diego Menegon in questo Focus dell’IBL. Ma tutto ciò c’entra solo marginalmente con l’oggetto della discussione parlamentare di oggi, che non riguarda la realizzazione di centrali nucleari – e dunque l’effettivo ritorno all’atomo – ma la costruzione della cornice di norme e regole che rendano possibile tale sviluppo – e dunque stiamo parlando di uno dei tanti tasselli relativi al ritorno potenziale all’atomo.

Un partito serio – come senza dubbio aspira a essere il Pd – non può permettersi ambiguità su questi temi. Deve saper dire se è favorevole o contrario all’opzione nucleare (che è cosa enormemente diversa dall’essere favorevoli o contrari al decreto del governo, o favorevoli o contrari a uno specifico progetto). Dalla risposta che si fornisce a questa domanda, discende poi logicamente il tipo di approccio, sia nella comunicazione sia nell’azione parlamentare e nell’elaborazione di progetti di legge, verso la maggioranza e i suoi tentativi. Voglio essere chiaro: si può benissimo essere favorevoli all’opzione nucleare e contrari al modo in cui il governo sta tentando di declinarla. O si può essere serenamente contrari. Ma non si può nascondersi dietro questioni specifiche per evitare il cuore del problema, perché da un lato è un tema troppo importante e di troppo ampia dimensione per essere dribblato, dall’altro perché un “nì” equivale, agli effetti pratici, a un “no”. Una centrale costa troppi soldi e troppo tempo perché qualcuno investa in presenza della percezione di un forte rischio politico. Il niet del principale partito d’opposizione sortisce esattamente questo fatto. Quindi, nicchiare è un modo ipocrita di essere contrari.

Bersani, che ha le palle, le mostri e prenda una decisione. Farebbe un favore a sé, al suo partito, al mercato e a tutti i cittadini che prendono il nucleare sul serio (favorevoli o contrari che siano).

]]>
/2010/03/06/nucleare-bersa-ni/feed/ 9
Post hoc, propter hoc? Ovvero, sui farmaci liberalizzati /2009/09/08/post-hoc-propter-hoc-ovvero-sui-farmaci-liberalizzati/ /2009/09/08/post-hoc-propter-hoc-ovvero-sui-farmaci-liberalizzati/#comments Tue, 08 Sep 2009 08:19:25 +0000 Carlo Lottieri /?p=2565 Sul “Corriere della Sera” di oggi un ampio servizio di Alessandra Mangiarotti prende spunto da un’indagine di Altroconsumo per fare il punto sugli effetti della (parziale) liberalizzazione della commercializzazione dei farmaci “da tavolo”, a tre anni dal decreto Bersani.

Fin dal titolo (“I farmaci, la liberalizzazione e i prezzi aumentati dell’8,7%”), l’impressione è che si stesse meglio quando si stava peggio. I prezzi dei prodotti farmaceutici non soltanto sono molto diversi da un posto all’altro (e questo non dovrebbe stupire nessuno), ma nell’ultimo anno sono pure cresciuti: del 4,8% delle farmacie, dell’8,7% nelle parafarmacie e del 6,1% nella grande distribuzione.

Leggendo fino in fondo l’articolo, e dopo aver resistito (ma ci vuole una solida “fede” nel mercato!) all’idea che prezzi controllati siano meglio che prezzi liberalizzati, si capisce il perché di quell’aumento, dato che con ogni probabilità – come afferma Laura Filippucci di Altroconsumo – “tre anni di varie imposizioni di legge avevano bloccato la crescita delle tariffe nel settore farmaceutico. E come era prevedibile, tolto il tappo, i prezzi hanno fatto il botto: gli aumenti sono nettamente superiori all’inflazione”. Quindi non è stata la liberalizzazione a far crescere i prezzi ed anzi è legittimo ritenere che senza liberalizzazione i prezzi sarebbero cresciuti anche di più.

Allora prendiamo l’essenziale: i farmaci venduti nei supermercati “co­stano il 17% in meno rispetto alle farmacie e il 13% rispetto alle parafarmacie” (è sempre Filippucci che parla). Questo è il punto. Poi certamente la liberalizzazione è stata molto parziale – da vari punti di vista – e va quindi rapidamente completata, elevando il livello della competizione. Si evitino, però, ragionamenti capziosi (del genere “post hoc, propter hoc”) che vorrebbero mettere sul banco degli imputati una scelta come quella di Bersani, che ha comunque aperto alla concorrenza e che quindi si era mossa nella direzione giusta.

Senza dimenticare una cosa: liberalizzare è giusto perché restituisce ai legittimi proprietari il controllo dei loro beni (questione giuridica) e perché restituisce alla logica del mercato la gestione efficace di una scarsità (questione economica). Detto questo, non sempre liberalizzare deve condurre ad una riduzione dei prezzi, e in particolare questo non avviene quando la liberalizzazione interviene in un settore con prezzi tenuti artificiosamente bassi: fu questo il caso, ad esempio, delle economie socialiste dell’Est europeo, non a caso caratterizzate per lungo tempo da una strutturale penuria di ogni prodotto.

]]>
/2009/09/08/post-hoc-propter-hoc-ovvero-sui-farmaci-liberalizzati/feed/ 6
Rosso porpora /2009/04/24/rosso-porpora/ /2009/04/24/rosso-porpora/#comments Fri, 24 Apr 2009 06:52:53 +0000 Alberto Mingardi /?p=255 I giornali scrivono oggi che il Papa avrebbe finalmente pronta quell’enciclica sociale di cui si parla da che è uscita “Deus Caritas Est”. L’uscita è fissata per il prossimo 29 giugno. Fra gli altri, si dedica al tema sul Riformista Paolo Rodari, che è un attento conoscitore dei flussi bidirezionali fra Vaticano e palazzi della politica. L’articolo di Rodari si intitola “Bersani, Tremonti e il nuovo club degli antiliberisti”. Si fa riferimento a due recenti occasione seminariali: un evento Aspen, al quale ha partecipato il cardinal Bagnasco. E il dibattito di Nens cui è intervenuto il cardinale Silvestrini, vecchia volpe della prima repubblica mai finita in pellicceria. Sull’enciclica “sociale” ovviamente aleggia l’ombra del cardinale Renato Martino, noto ai più per alcune uscite molto discusse in tema di politica internazionale e affezionato nemico dell’economia libera. Martino avrebbe dovuto incontrare egli stesso Tremonti nei giorni scorsi. Che cosa è emerso da questi dibattiti? La convinzione che

riflettere sulla crisi e sul modello di sviluppo economico che l’ha provocata, significa in qualche modo affondare il colpo su quella che Bersani ha chiamato «egemonia neoliberista». Un’egemonia che ha provocato lo sfacelo attuale. Un’egemonia che trova nella visione sociale cattolica un suo naturale nemico.

Ai politici piace fare i filosofi morali (pensiamo agli ultimi seminari organizzati da D’Alema con la sua Fondazione Italianieuropei), ai cardinali evidentemente piace fare gli economisti. Non stupisce che il cardinal Bagnasco faccia presente all’opinione pubblica le esigenze degli ultimi. E’ un po’ diverso che egli proponga una “cabina di regia”, cioè scelga la via della pianificazione pubblica degli interventi di solidarietà anziché quella della valorizzazione delle capacità d’azione, autonoma, libera e per questo autenticamente solidale, della società civile.
Personalmente ho un po’ nostalgia del Cardinal Ruini che, certo: fra mille cose, faceva uso della sua notevole influenza anche per promuovere l’adozione del buono scuola – dando espressione a una domanda di libertà educativa e religiosa. In generale, la Chiesa di quegli anni, un po’ per la caduta del comunismo, un po’ per il carisma di Giovanni Paolo II, pareva in generale più interessata a capire il capitalismo moderno, che a emettere giudizi affrettati. I quali, beninteso, non sono mancati. Ma il trend di lungo periodo sembrava essere un altro.
La Chiesa fa parte della società, e non c’è da stupirsi se in una società che ormai non ha più pudore nel fare l’apologia dell’economia di piano anche la Chiesa sia sempre più socialista. Ma si possono aggiungere due considerazioni. In primo luogo, la Chiesa di oggi ha un rapporto diverso con la politica italiana, da quello che aveva durante il precedente Papato. Il senso dei ruoli era diverso, e sia detto non per fare propaganda. Tuttavia, mi pare pacifico che la Chiesa non dovrebbe contraddistinguersi per l’avere un’agenda politico-civile, quanto per una proposta di vita nella quale la politica non è certo la dimensione più importante. Non mi permetterei certo di suggerire che questo sfugga al Pontefice attuale. Eppure la goffaggine (o la spudoratezza) dei suoi collaboratori che gestiscono le relazioni coi Palazzi romani, spesso porterebbe ad immaginarlo.
In seconda battuta, fa specie che “l’organismo mondiale che possiede la maggiore accumulazione di esperienze organizzative e propagandistiche” (Gramsci) si accodi speditamente ad analisi così abborracciate come quelle fatte proprie da questo “club degli antiliberisti”. C’è da preoccuparsi?

]]>
/2009/04/24/rosso-porpora/feed/ 0