CHICAGO BLOG » Berlusconi http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Eni, Russia, Berlusconi. Dove stanno i soldi? /2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/ /2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/#comments Wed, 15 Dec 2010 06:58:50 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7854 Il tornado di piombo sulla “torbida relazione” tra il Cav. e Vlad ha impedito a molti di porsi la domanda più scontata: perché l’Eni vuole il gasdotto russofilo South Stream, anziché quello atlantista Nabucco? Come spesso accade, si è trascurata la risposta più semplice: perché lì stanno i soldi.

Si potrebbe replicare, con Giuseppe D’Avanzo, Andrea Greco e Federico Rampini (1, 2, 3), che South Stream è “antieconomico”. Forse. E’ molto difficile dirlo, senza conoscere dettagli precisi che nessuno (tranne Eni e Gazprom) conosce. Però, nella testa del Cane a sei zampe ciò potrebbe essere irrilevante, et pour cause. Presumibilmente, “antieconomico” significa che il costo del gas trasportato via South Stream sarebbe superiore a quello dello stesso gas trasportato via Nabucco. Ammettiamolo pure. Questo è, potenzialmente, un problema per i consumatori. Ma è soprattutto un problema per chi quel gas deve venderlo, a meno che non sia in grado di ribaltare l’extracosto sui consumatori – nel qual caso il problema vero starebbe nella struttura del mercato, e in parte è senz’altro così, non negli assetti proprietari dei gasdotti internazionali.

Il fatto è che nessuno ha mai detto che quel gas sarà gas Eni. Nessuno ha mai neppure sospettato, in verità, che Gazprom – titolare dei giacimenti a cui South Stream attingerebbe – sia intenzionata, o disposta, a cedere parte del suo gas a Eni o altri. E’ ragionevole aspettarsi che South Stream non trasporterebbe altro che gas di Gazprom. Dunque, se l’idrocarburo sia competitivo oppure no è una questione dei russi – non dei loro partner. Allora, l’Eni che ci sta a fare?

La risposta può venire da un’esperienza passata, ma simile: quella di Blue Stream, un tubo sottomarino di 1.250 km che va dalla Russia alla Turchia attraverso il Mar Nero. Eni ha il 25 per cento di Blue Stream, ma non controlla una singola molecola del gas che vi transita (tranne per uno scambio formalmente fisico, ma sostanzialmente finanziario, che si svolge alla frontiera turca e serve per remunerare il capitale). Come tutte le infrastrutture del genere, Blue Stream si finanzia solo in piccola parte con equity, e per il resto a debito. Trovare i capitali in banca fu, all’epoca, compito dei russi. Quanto all’equity di Eni, secondo fonti interne all’azienda, esso garantisce un rendimento tra il 10 e il 15 per cento. I soldi veri Eni li fece in altro modo: cioè aggiudicandosi (tramite Saipem) la realizzazione del tubo. Blue Stream fu una torta da 3,2 miliardi di euro, 1,7 dei quali relativi al tratto offshore: buona parte di questi ultimi andarono a Saipem. A queste condizioni – con zero debito, remunerazione garantita sull’equity, e soprattutto ricche commesse – all’Eni interessava che il gasdotto si facesse: non che il gas trasportato fosse competitivo, non che fosse venduto, e neppure che fosse trasportato.

Torniamo a South Stream. Il modello è, molto probabilmente, lo stesso di Blue Stream. Idem per Nabucco. Dunque, per Eni i due gasdotti sono, in astratto, equivalenti, tranne che per due particolari determinanti. Primo, e meno importante: scegliendo South Stream Eni consolida il suo rapporto con un partner strategico. Secondo, e più rilevante: South Stream vuol dire 900 km di tubo sottomarino che solo Saipem può realizzare, e qualche altro centinaio di km a terra. Nabucco sono 3.300 km tutti a terra, che possono essere divisi in lotti e affidati a “n” soggetti ugualmente bravi. Cioè, South Stream dà la certezza di una grassa commessa per Saipem; Nabucco no. I giochi sono solo e tutti lì.

Come si è visto, l’eventuale non-competitività di South Stream può tuttavia scaricarsi sui consumatori finali. I critici – se credono che esso non sia effettivamente competitivo – dovrebbero impegnarsi nell’aprire i mercati a valle, creando una concorrenza vera e rimuovendo (e facendo rimuovere) ogni sussidio erogato a qualunque titolo. In questo modo, la questione si trasferirebbe sui desk delle banche: è economico quel che è bancabile, punto, perché il recupero dei costi non è garantito.

In tutto questo, non solo non c’è traccia, ma più profondamente non c’è bisogno di Silvio Berlusconi. Che egli abbia degli interessi privati oppure no, può essere al massimo un de cuius; può investire la scelta di un intermediario anziché un altro, ma è ridicolo pensare che l’influenza di Palazzo Chigi arrivi tanto lontano. Anche perché quella che finora è stata la firma più importante risale al 23 giugno 2007, con Romano Prodi presidente del Consiglio, Pierluigi Bersani ministro delle Attività produttive e Massimo D’Alema ministro degli Esteri, un anno dopo la vittoria elettorale del centrosinistra e molto prima che la crisi dell’Unione divenisse evidente. Pensare che il Cav. potesse manovrare i fili in quelle condizioni equivale a credere che Prodi, Bersani e D’Alema fossero troppo stupidi, troppo distratti, o troppo filorussi o cointeressati per accorgersi di quello che facevano Non credo che fossero né l’una né l’altra cosa e penso che sapessero benissimo cosa stavano firmando. Peraltro, L’inizio della progettazione di Blue Stream risale al 1997, il Memorandum of understanding con l’Eni al 1999, e la costruzione avvenne tra il 2000 e il 2002: quasi tutto si svolse quando in Italia dominava il centrosinistra. Poiché le due operazioni appaiono strettamente imparentate, viene da pensare che, storicamente, centrodestra e centrosinistra sono stati ugualmente interessati, o disinteressati, alla relazione tra Italia e Russia; ugualmente leader, o follower, dell’Eni; e ugualmente attenti, o disattenti, alle implicazioni geopolitiche di tali scelte.

E’ vera una cosa: ci sono alcuni indizi di coinvolgimenti berlusconiani. Ma su una scala molto inferiore. Il caso, troppe volte citato, di Bruno Mentasti – l’intermediario vicino al Cav. che avrebbe dovuto commercializzare gas russo in Italia – è indicativo non solo perché si pone, per la dimensione dell’investimento, a qualche anno luce di distanza dalla realizzazione di un gasdotto, ma anche perché – per imperizia, goffaggine o mancanza del pudore – non se ne fece nulla. C’è altro? Forse, diciamo pure probabilmente. Ma è un “altro” rispetto al quale gli stessi D’Avanzo, Greco e Rampini non hanno prova alcuna, distillano voci nell’aria. C’è di sicuro – ma questo non lo dicono – un perverso allineamento di interessi tra l’Eni e il governo che però non dipende da Berlusconi, ma è congenito nel fatto che il più grande gruppo industriale italiano è pubblico al 30 per cento. Questo è il vero conflitto di interessi e questo andrebbe sciolto – privatizzando l’Eni. Tutto il resto è un ricamare sull’inutile per evitare l’ovvio.

]]>
/2010/12/15/eni-russia-berlusconi-dove-stanno-i-soldi/feed/ 11
Silvio è vivo e Sergio lotta /2010/12/14/silvio-e-vivo-e-sergio-lotta/ /2010/12/14/silvio-e-vivo-e-sergio-lotta/#comments Tue, 14 Dec 2010 13:57:31 +0000 Oscar Giannino /?p=7840 Dedicherò solo poche righe al voto della Camera, coem avete visto cui siamo dati la regola di non fare post di politique politicienne. Silvio Berlusconi è un osso duro. Fini ha perso, Casini ha rotto politicamente e si è fatto contare alle urne, lui ha rotto personalmente e al dunque non ce l’ha fatta. Il Pd è nella palta. I problemi del Paese sono altri, e avremo altri terribili mesi di inedia. Sullo sfondo, elezioni con questa legge elettorale con Berlusconi ancora capo del centrodestra, e auguri al risultato. Per gente seria un nuovo impulso a emigrare perché non si salva praticamente nessuno, e nel pensarlo si prova autoribrezzo all’idea di diventare qualunquisti, qualunque cosa pensiate degli eccessi e delle tragiche promesse liberali mai mantenute da SB (io ne penso male e malissimo, dalle tasse alla spesa pubblica altissime alla riforma della giustizia mai varata pensando solo a sé, ma al dunque non c’è mai chi lo affronti senza scappare e lui resta in piedi ingessando sempre più tutto su se stesso, quanto alla sinistra in questi due anni l’ala liberal r firomista mi sembra travolta da posizioni neostataliste e tassaiole che mi fanno orrore, dei giustizialisti non parlo per evitare parole improprie, il neoproporzionalismo mi atterrisce per la spesa pubblica che provocherebbe con le mani libere di ogni partitino in Parlamento). Di fronte a tale scontro a coltello che fa altre macerie e avviene ignorando che tra poche settimane riparte l’euroballo del debito e noi ci finiremo dentro, dico che Dio aiuti l’Italia – e cioè i milioni di italiani che faticano seriamente senza fiatare e vengono assassinati dal fisco. Preferisco dedicarmi a una questione che considero purtroppo più seria. Anch’essa perfetta sintesi del gap italiano. Che cosa vuole Marchionne a Mirafiori?

Sergio Marchionne spacca e divide. Per quello che mi riguarda, che Dio lo benedica. Nel mondo – non in Cina, in Germania e Francia e Stati Uniti – le imprese vanno avanti per contratti aziendali e non per contratti nazionali che definiscono ogni cosa. Per questo in quei Paesi il salario variabile pesa fino al 40% e oltre della busta paga, e da noi non arriva al 4%. Però che piaccia a me che sono liberista non è un viatico per Marchionne. In Italia, non piace a moltissimi. Cerchiamo allora di capire, da osservatori e non da partigiani, il come e il perché della nuova frizione sul caso Mirafiori.

Sin qui, la nuova Fiat di Marchionne, finitala droga degli aiuti pubblici all’auto, aveva posto due problemi “approfittando”delle svolte che Emma Marcegaglia, con Cisl e Uil (d’accordo il governo), hanno impresso alle relazioni industriali. La prima: l’accordo sui nuovi assetti contrattuali a inizio 2009, senza più attendere per anni a vuoto la Cgil come Montezemolo. La seconda: applicare da allora le deroghe al contratto nazionale per più produttività e più salario detassato, a cominciare dal contratto dei meccanici che la Fiom non ha firmato, e con il recesso di Federmeccanica dal precedente. Ne è nata l’intesa per Pomigliano, senza Fiom ma col sì del 62% dei lavoratori. Per consentire alla Fiat di tornare all’utile nei suoi stabilimenti italiani, che da anni reggono solo sui risultati in Polonia e Brasile. Per Cgil e Fiom il contratto nazionale è un totem. Solo concentrandovi ogni minuto aspetto della prestazione d’opera e degli obblighi datoriali, si impedisce che ogni azienda possa raggiungere coi suoi dipendenti gli accordi migliori, ma slegati da una solidarietà di cui il solo sindacato nazionale si considera interprete e depositario.

Su Mirafiori, la Fiat chiede un altro passo. Dopo Pomigliano e lo sciopero dei Cobas sugli straordinari in deroga sino al 2014, la Fiat scopre che anche le deroghe condivise coi sindacati non impediscono a chi dice no di continuare a rompere le scatole. Non è il contratto nazionale, ma la concertazione del 1993 a stabilire che i diritti sindacali restino a tutti coloro che hanno almeno il 5% dei voti nella RSU. La Fiom può dire no alla newco di Mirafiori, ma continua a godere dei suoi bei diritti e a protestare. A Marchionne non va giù, per questo vuole una newco fuori da Federmeccanica e anche dalle sue deroghe, convinto che Cisl e Uil e Fismic diranno sì.

Di qui l’attrito con Confindustria. Emma Marcegaglia a New York ha concordato con Marchionne che Fiat ci provi, e se ci riesce la porta a un siffatto contratto auto in Confindustria è spalancata. Ma molti imprenditori di Federmeccanica sono scettici. Lavorano a testa bassa per inseguire la ripresa e riescono a farlo senza scontri, hanno gestito le relazioni industriali meglio di Fiat che a Pomigliano e Mirafiori aveva alto assenteismo. Non amano che alzi lo scontro chi per decenni ha avuto gli aiuti di Stato, loro mai. Il confronto resta aperto, anche Fiat deve riflettere sulle impugnative che rimetterebbero il nodo ai giudici. E aggiungete che molti, dal Corriere della sera a grandi banchieri, pensano che Marchionne cerchi scuse perché gli investimenti vuole farli solo in Usa, e considera l’Italia al più un mercato qualunque, non la sua base nazionale che è ormai a stelle e strisce. Vedremo se tiene duro. Ma questa volta non è detto che ce la faccia. Perché a dare una mano a Fiom e Cobas sarebbero i grandi giornali nazionali e le trasmisisoni tv di maggior successo, intellettuali e opinionisti. Oltre alle toghe, che in Italia fanno la differenza.

]]>
/2010/12/14/silvio-e-vivo-e-sergio-lotta/feed/ 36
I segreti di South Stream. Di Stefano Agnoli /2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/ /2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/#comments Fri, 10 Dec 2010 18:01:30 +0000 Guest /?p=7823 Volentieri ripubblichiamo questo articolo di Stefano Agnoli, comparso per la prima volta sul Corriere della sera di oggi.

L’agenzia del turismo del Cantone di Zug raccomanda soprattutto il tramonto sul lago, «un’esperienza da non mancare». Oppure la vista dei giochi di luce sulla facciata della stazione ferroviaria, opera del californiano James Turrell. Difficile però che qualche centinaio di grandi «corporation» di tutto il mondo e di ricchi contribuenti siano confluiti verso la campagna, i laghi e i monti della Svizzera centrale solo per le attrazioni locali. Diciamola subito: a Zug si va perché si pagano poche tasse, e le aliquote fiscali per le aziende sono tra le più basse della Svizzera, e quindi d’Europa. Tra il 9 e il 15%.

Ma non solo: il «tax ruling» locale dà alle società che decidono di installarsi nel Cantone la possibilità (teorica ovviamente) di confezionare bilanci che sarebbe un eufemismo definire incompleti e poco trasparenti. Qualche esempio di illustri «clienti fiscali»? A Zug, e nei suoi dintorni, hanno deciso di spostare la propria sede mondiale o europea grandi multinazionali americane. Così nel giro di pochi chilometri quadrati si ritrovano Foster Wheeler, Noble, Amgen. Il colosso del trading Glencore. Persino la Transocean, la società petrolifera responsabile del disastro del Golfo del Messico nell’estate scorsa, ha sede a Zug. Le grandi corporation sfruttano le agevolazioni cantonali, e così anche i loro manager.

I gasdotti
L’attrazione esercitata dalla Svizzera e da Zug non ha effetto solo sulle aziende occidentali. Gli oligarchi russi spuntati dopo la dissoluzione della vecchia Urss hanno ampiamente sfruttato le «opportunità» concesse dalle leggi e dal tax system elvetico. Le società intermediarie al 50% tra Gazprom e l’Ucraina nel corso del conflitto del gas dell’inverno 2005-06 (come la Centragas Holding) avevano sede in Svizzera, e ora sono da tempo liquidate. Per il colosso moscovita del gas, tuttavia, l’abitudine di servirsi dello Stato alpino per i propri affari è diventata un’usanza consolidata. Come nel caso del progetto South Stream, oggetto dei preoccupati «cable» delle ambasciate americane rivelati da Wikileaks. Il memorandum tra l’Eni di Paolo Scaroni e i russi viene siglato il 23 giugno 2007. Il 18 gennaio 2008 viene costituita la South Stream Ag, posseduta al 50% ciascuno da Gazprom e da Eni International Bv. Dove? A Zug naturalmente. Nello stesso luogo dove, dal dicembre 2005, si trova anche il veicolo societario per il gasdotto «Nord Stream», il fratello gemello sul fondale del mar Baltico che dovrà bypassare la Polonia, e che vede tra i soci la tedesca E.On e come presidente l’ex cancelliere Gerhard Schröder. Ancora: quando all’incirca un anno fa i russi chiudono il negoziato con la Serbia per il transito del South Stream si comportano nello stesso modo. Creano al 50% con Srbijagas la South Stream Serbia Ag, infilano in consiglio il capo di Gazpromexport Alexander Medvedev (solo omonimo del presidente Dmitri), quello di Srbijagas Dusan Bajatovic, e dove la piazzano? A Zug naturalmente. Curioso: in Serbia l’aliquota sui profitti «corporate» è già al 10%, e di meno in Europa non si trova, se si fa eccezione per il Montenegro (9%). Per i russi, evidentemente, in queste scelte giocano altri fattori, primo fra tutti la riservatezza, se si vuole utilizzare anche in questo caso un eufemismo. In Svizzera, dettaglio non da poco, le società non quotate in Borsa non hanno alcuno obbligo di deposito del loro bilancio, che rimane a disposizione esclusivamente dell’amministrazione finanziaria.

Costi a forfait
Focus su Zug, dunque. Dove ci si può immaginare che su mandato di Gazprom e Eni un esperto professionista locale abbia costituito la joint-venture in tre-quattro giorni e con una spesa di 7-8 mila franchi. «Diciamo che le autorità cantonali – commenta Tommaso di Tanno, docente di diritto tributario a Siena – hanno una “capacità dialettica” assai elevata nel negoziato con aziende e contribuenti facoltosi». Con vantaggi fiscali di tutto rilievo: una tassa federale dell’8,5% sugli utili alla quale se ne aggiunge una cantonale del 6,5%, che tuttavia le holding non pagano, visto che a Zug possono godere di regimi «privilegiati». Il tutto grazie alla «concorrenza fiscale» interna alla Svizzera, che fa sì che tra i quaranta luoghi migliori in Europa per non pagare le tasse una ventina siano cantoni elvetici. Ma, soprattutto, a far premio c’è la «flessibilità» sulla redazione dei bilanci, che per quanto riguarda attivi e profitti devono semplicemente soddisfare dei «principi di ordinata presentazione». Senza l’obbligo, quindi, di uniformarsi a standard internazionali riconosciuti, come quelli Ias o quelli americani Gaap. E in particolare – nel caso di aziende che operano «estero su estero» come è e sarà il caso di South Stream – è possibile trattare direttamente con l’amministrazione fiscale un forfait sui costi da riconoscere in bilancio. Una quota percentuale prefissata sui ricavi, detratta la quale resta l’imponibile su cui pagare le tasse. Un sistema che come si può facilmente immaginare lascerebbe un’autostrada davanti a chi volesse mettere in atto pratiche poco trasparenti o addirittura al di là della legge, come consulenze facili, o addirittura la costituzione di fondi. Questione delicata, e all’Eni comunque percepita, visto che nei bilanci la quota del 50% in South Stream Ag (che non è consolidata) compare con una sintetica noterella a margine: la società, si precisa, come altre partecipate svizzere del gruppo risulta ricadere nella «black list» stilata dal ministro Giulio Tremonti nel 2001. Tuttavia essa dichiara che «non si avvale di regimi fiscali privilegiati». Corretto, ma se alla fine South Stream Ag pagherà sugli utili l’aliquota svizzera «senza privilegi» (15%), o quella italiana, pare tutto sommato una questione secondaria rispetto alle domande che pone l’adozione di un sistema, diciamo così, «flessibile» di redazione dei bilanci.

Arriva Gazprombank
Sul versante Nord delle Alpi, però, negli ultimi tempi la partita Gazprom non si è giocata solo sulle joint-venture per i gasdotti. Da un anno e mezzo a questa parte, infatti, in Svizzera ha fatto la sua comparsa anche il braccio finanziario del monopolista di Mosca: Gazprombank, terzo istituto di credito della Russia, dove la casa madre energetica conta per il 41% del capitale e controlla sostanzialmente il board, presieduto da Andrey Akimov. Nel giro di pochi mesi Gazprombank ha messo a segno un paio di manovre che si intersecano con i vecchi scenari noti anche in Italia (caso Mentasti) e lasciano il sospetto che, forse per volontà del Cremlino, si siano ormai regolati diversi affari del passato. A metà 2009 Gazprombank ha acquistato da Vtb, la seconda banca russa, il controllo della Russian Commercial Bank, uno storico crocevia degli interessi russi in Europa occidentale. Ma meglio sarebbe dire che Gazprombank ha provveduto a un vero e proprio salvataggio della Rcb, visto che in pochi mesi ha dovuto sborsare tra garanzie e fondi supplementari 160 milioni di dollari. Rcb, dal 2006, era la controllante del fondo del Liechtenstein Idf, a sua volta controllante della Centrex austriaca ai tempi dello sfumato affare Mentasti. L’uno-due di Gazprombank, che sostiene di aver approfittato dell’occasione per accaparrarsi una banca che ha piena licenza operativa in Europa, ha di fatto azzerato anche i conti sospesi degli anni precedenti. Tra i fondi dei clienti della Rcb si è assistito nel corso del 2009 a una migrazione particolare: 600 milioni di dollari che risultavano attivi su Cipro, dove opera una Russian Commercial Bank Cyprus, sono improvvisamente rientrati verso Mosca. E in questi movimenti non sembrano essere coinvolti interessi esclusivamente russi.

di Stefano Agnoli

]]>
/2010/12/10/i-segreti-di-south-stream-di-stefano-agnoli/feed/ 1
Un’ovvietà sull’Eni e Berlusconi /2010/12/04/unovvieta-sulleni-e-berlusconi/ /2010/12/04/unovvieta-sulleni-e-berlusconi/#comments Sat, 04 Dec 2010 17:06:29 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7775 Da quando Wikileaks ha rilanciato i dubbi dei diplomatici americani sul rapporto tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin – dubbi tanto poco riservati che l’ambasciatore Usa, David Thorne, li ha sollevati nella sua prima intervista dopo l’insediamento – tutti i quotidiani italiani fanno la gara a chi, sull’Eni, la spara più grossa. Il comune denominatore della “macchina del fango” è, grosso modo: le strategie dell’Eni in Russia sono dettate dagli interessi personali del Cav., e sono mosse dalla sua amicizia speciale con lo Zar. Credo che questa reazione corale e rabbiosa abbia un che di liberatorio: poiché dell’Eni non si poteva (fino a ieri) dir che bene, e non per nobili ragioni o per le virtù del Cane a sei zampe, adesso non si può dirne che male. Non avendo alcun complesso del genere e non avendo mai avuto atteggiamenti particolarmente teneri, credo di poter dire tranquillamente: avete letto un sacco di sciocchezze. Tutti hanno ricamato sull’inutile, e nessuno ha evidenziato l’ovvio.

Perché quello di cui si è parlato sia inutile, lo chiarisce molto bene Massimo Nicolazzi in un lungo articolo sul prossimo numero di Limes, anticipato oggi dal Foglio. Cito:

I governi, in questo non hanno fatto nè da leva nè da filtro. Al più, hanno fornito una qualche forma di assistenza. Le grandi amicizie, per dirla sommessamente, non c’entrano granchè.

E ancora:

La Politica  con questo sviluppo sembra c’entrai assai poco. Per carità, è comunque meglio se il Nostro [Berlusconi] è amico dell’Altro [Putin]. Però siamo alla marginalità del marginale. E’ l’essere nemici che può far danni, e magari farti discriminare; e non è  l’essere amici che da solo crea opportunità.

Infine:

[I russi, a proposito di Yukos, si sono detti:] Facciamola comprare da un amico fidato, col diritto di (ri)comprarcela a cose più chiare. L’amico prescelto fu Eni, che per essersi prestata ad un’operazione parente stretta di un portage si beccà dal Financial Times la patente di ‘utile idiota’.  Idiozia peraltro benedetta (il Financial Times in realta’ era la voce dell’invidia), e dal cui contorno  Eni ed Enel si sono assicurate un importante contributo di riserve di idrocarburi. La scelta di puntare sull’Eni non fu un mirabolante successo della nostra politica estera. Fu un successo dell’Eni. Ci giocarono anni di rapporti… Qualunque governo sensato non avrebbe potuto che incoraggiare.  Un Presidente del Consiglio al posto di un altro non avrebbe fatto differenza alcuna.

Su quest’ultimo passaggio, preciso che io la penso diversamente sull’opportunità di partecipare all’asta per i brandelli di Yukos, ma sono perfettamente d’accordo con Massimo che qualunque governo si sarebbe comportato allo stesso modo di quello presieduto da Berlusconi. E lo avrebbe fatto perché, nella logica un po’ industriale, un po’ politica e solo un po’ economica che muove l’Eni (e dietro di essa i governi italiani) era perfettamente razionale comportarsi così. Il problema è proprio questo: non gli interessi personali di Berlusconi, che – per quanto rilevanti dal punto di vista politico – sono irrilevanti rispetto alla big picture che stiamo osservando. Non è che che Eni e Gazprom vadano d’amore e d’accordo grazie a Berlusconi: al massimo, Berlusconi, grazie alla sua amicizia con Putin, può trarre vantaggio da una relazione che esisterebbe comunque. In altre parole, tutti cercano di ingigantire le dimensioni di una storia che è piccola piccola, rispetto agli investimenti di cui stiamo parlando (a partire dal gasdotto South Stream, la cui vicenda è raccontata con obiettività da Stefano Agnoli). In altre e più nette parole: gli affari di Berlusconi, che siano verità o menzogna, sono importanti per Berlusconi e per il modo in cui lo valutiamo; sono del tutto irrilevanti per le strategie dell’Eni. Per cui, tutto il complottismo di cui avete letto sui giornali è roba da tanto al mucchio.

Ciò che invece conta è quello che non avete letto e che non leggerete. Ossia che c’è, nell’Eni, uno scandalo: uno scandalo che prescinde da Berlusconi e che investe chiunque stia a Palazzo Chigi. Lo scandalo è che l’Eni, essendo contemporaneamente una società controllata dal Tesoro e il più grande gruppo industriale italiano per capitalizzazione di borsa, è un cappio al collo della libertà di mercato in questo paese. Non è che l’Eni subisca la politica: l’Eni fa la politica. E la fa per l’ottima ragione che c’è un perfetto allineamento di interessi tra l’Eni e il governo, da qualunque partito politico sia detenuto. Finché l’Eni fa soldi, il Tesoro incassa dividendi, che sono percepiti ormai come un’entrata parafiscale. E se per far soldi e staccare dividendi, l’Eni deve mantenere il suo ruolo di monopolista, allora i governi italiani – di centrodestra e di centrosinistra, senza alcuna differenza apprezzabile – manterranno e rafforzeranno il suo ruolo di monopolista.

La vera notizia, oggi, non è Wikileaks, ma il fatto che si è messo in moto il processo per cedere i gasdotti internazionali dell’Eni alla Cassa depositi e prestiti: la notizia è che, pur se cambiano formalmente gli assetti proprietari dei gasdotti in risposta alle accuse dell’Antitrust comunitario di abuso di posizione dominante, in realtà nulla cambia. Il conflitto di interesse si sposta semplicemente più a monte, visto che nel frattempo la Cdp è divenuta il maggiore azionista dell’Eni. Il conflitto di interessi c’era, c’è e ci sarà. Solo che tutto questo sui giornali non lo leggerete perché la macchina del fango è, in realtà, una macchina della fuffa: produce, macina e diffonde solo leggerezze che non contano nulla, se non rispetto alle patetiche sceneggiate del nostro teatrino politico, ma non affronta – se non in modo molto obliquo – le questioni che, invece, sono ovvie e centrali.

Perché c’è un solo modo per sanare il conflitto di interessi, peraltro producendo un duplice beneficio: privatizzare l’Eni. Scindere ogni rapporto tra l’azienda e il governo. Trasformare l’Eni in un’azienda come un’altra, le cui scelte – se investire in Russia o su Marte, nel South Stream o altrove – riguardano lei e i suoi azionisti, ma non sono l’oggetto dei buffi cablogrammi dell’Ambasciata americana né di ridicoli dibattiti politici o di inchieste alla marmellata. Privatizzare l’Eni avrebbe un beneficio diretto: cancellare l’ambiguità che sempre circonda le scelte dell’azienda, e che non è mai chiaro a quale titolo vengano prese. Eliminare le distorsioni del mercato e i meccanismi preferenziali che le norme assegnano a Piazzale Mattei per l’unica, ovvia e perfettamente razionale ragione che l’Eni è lo Stato e lo Stato è l’Eni. La privatizzazione non dovrebbe avvenire con la semplice cessione delle azioni Eni in pancia al Tesoro o alla Cdp (a proposito: un giorno dovremo anche chiederci perché la Cdp esista e se abbia senso mantenerla così com’è).

Dell’Eni bisognerebbe fare spezzatino, dividendola in tre: la rete nazionale e le altre infrastrutture; la “oil company” tradizionale; e la utility che commercializza gas ed energia elettrica. In questo modo, non solo si scioglierebbe uno dei più rognosi nodi gordiani della politica e dell’economia italiane, ma si creerebbero anche quelle condizioni di maggiore concorrenza – attuale e potenziale – che solo una rete indipendente può garantire. Inoltre, la vendita dell’Eni frutterebbe al Tesoro (direttamente o attraverso Cdp) un gettito che spannometricamente si potrebbe stimare in circa 23 miliardi di euro (un terzo dell’attuale capitalizzazione), più fino ad altri 16-17 miliardi (un terzo dei 50 miliardi di valore “nascosto” che, secondo il fondo Kinght-Vinke, potrebbero emerge dopo l’annuncio credibile dello “spezzatino”).

Quindi, sotto il tappeto della discussione sterile e rumorosa, si nascondono 40 miliardi di euro che Giulio Tremonti potrebbe raccogliere. E’ un’ovvietà che discende da informazioni pubbliche, valutazioni mai smentite coi numeri (ma solo a parole), e dalle esplicite richieste dell’Autorità per l’energia. Perché tutti perdono tempo con le stupidaggini, e nessuno si occupa delle ovvietà?

]]>
/2010/12/04/unovvieta-sulleni-e-berlusconi/feed/ 24
Il Sud, il federalismo e le cattive abitudini PdL /2010/08/18/il-sud-il-federalismo-e-le-cattive-abitudini-pdl/ /2010/08/18/il-sud-il-federalismo-e-le-cattive-abitudini-pdl/#comments Wed, 18 Aug 2010 11:45:08 +0000 Oscar Giannino /?p=6825 L’attacco ferragostano dell’onorevole Bossi ha avuto il merito di puntare il dito su una verità che finora raccontavano solo i giornali. La verità è che, nella frattura tra Berlusconi e PdL da una parte e Fini e la neonata Futuro e Libertà dall’altra, il Mezzogiorno è il tema decisivo e centrale. Più della giustizia, più delle tasse, più di tutto il resto. Ad alcuni poteva sembrare che fosse suggestione, che si trattasse di esagerazione. Al contrario l’accusa di Bossi – “Fini e si suoi vogliono un po’ di soldi da sprecare al Sud” – conferma che, quando si tratta di indicare alla propria base il problema numero uno della frattura nel centrodestra , è proprio al Sud che ci si riferisce. Tanto che è anche già cominciata la rituale serie di pensosi editoriali di grandi testate d’informazione, che da una parte riconoscono il problema e dall’altro invocano sia i colonnelli di Berlusconi sia quelli di Fini ad evitare una deriva pericolosa: quella, cioè, di una gara improvvisa tra chi più si posiziona davanti all’elettorato del Mezzogiorno invocando la propria primazia, nell’impedire che l’agenda del governo finisca per svantaggiare ulteriormente il Sud. E’ un rischio concreto? Sì che lo è, almeno a mio avviso. Ma, per come si son messe le cose tra PdL e Fini, non credo affatto che si possa risolvere con qualche generico e moralistico appello a moderare i toni. Partiamo da tre dati di fatto. Il primo è che tutti i sondaggi mostrano che la stragrande maggioranza di elettori del Sud hanno la convinzione che in questi anni il Nord abbia avuto la meglio, nelle attenzioni concrete del governo e nelle risorse. E’ vero, non è vero? Non è vero, visto che finora le cose sono ontinuate più o meno esattamente come in passato, Tremonti ha  stretto i cordoni della borsa ma non aveva titolo per cambiare criterio di alocazione delle riorse. Ha dato dei “cialtroni” agli amminitratori del Sud , spreconi e recriminanti, questo sì. Cosa che ha confermato a moltisimi elettori del Sud la falsa mpressione di essere spodestati. E’ purtroppo secondario che di fatto non si cambiato pressoché nulla, quel che conta per delle forze politiche desiderose di contarsi e pesare è che l’elettorato che mirano a rappresentare la pensi così.

Secondo. Da 16 anni la Lega ha saputo vendere al Nord con crescente successo e consenso la convinzione che solo con il federalismo spinto – pur senza mai entrare in particolari e numeri, ciò che solo in realtà fa la differenza – aupicato da Bossi e dai suoi, il Nord riequilibra a proprio vantaggio l’eccesso di risorse che dà allo Stato rispetto a quelle che si vede tornare indietro, pur spendendo in media meno e meglio. Rispetto a questo, in 16 anni nel Sud il consenso elettorale, alle politiche come per le Autonomie, ha visto le diverse componenti tanto della sinistra quanto della destra ripetere in realtà – al di là del colore delle bandiere – esattamente la stessa cosa. E cioè che, appunto, quello a sé era il miglior voto per equilibrare quello dato al Nord alla Lega. Gli elettori del Sud pensano la Lega sia debordante nel centrodestra non tanto perché neghino gli aiuti finanziari straordinari che in realtà Tremonti ha autorizzato solo in casi eccezionali nel Mezzogiorno, ma perché se lo son sentiti ripetere da anni in primis dai candidati alle elezioni dello stesso PdL

E’ da questi due dati di fatto, che deriva il terzo. Se rottura finale dovesse essere tra Berlusconi e Fini, come i toni sembrano sin qui continuare a indicare, allora è ovvio che a essere in condizione di avvantaggiarsi della cosa alle elezioni, presto o tardi che siano, sono proprio Bossi da una parte al Nord, e al Sud Fini e i suoi, seguaci e futuri alleati.

Sono Berlusconi e il PdL, nelle condizioni attuali, a rimetterci di più. Bossi al Nord avrebbe buon gioco a dire agli elettori di centrodestra che è meglio votare direttamente Lega, visto che in caso contrario il federalismo vien promesso vien promesso, ma poi di fatto ancora una volta come sempre non arriva mai. Al Sud. a Fini a quel punto converrebbe far AntiLega con Lombardo e Micciché e, aggiungo, con tutte le Poli Bortone inascoltate dai colonnelli PdL, e che se sinora sembrano più vicine a Berlusconi è sol perché da quella posizione – sulla carta, la più forte – si è poi in migliori condizioni, per trattare poi al momento buono gli sviluppi più convenienti. Un PdL che non portasse a casa i premi di maggioranza in Sicilia e anche solo poco più che in Sicilia, nel resto del Mezzogiorno, con la Lega in crescita ulteriore al Nord comunque al Senato non avrebbe la maggioranza, con l’attuale legge elettorale.

Per evitare questo rischio, meglio sarebbe stato se Berlusconi e la Pdl negli anni scorsi avessero parlato al Mezzogiorno una lingua chiara e univoca. Capace cioè di ammettere che nel Mezzogiorno in media c’è un eccesso di spesa pubblica discrezionale, e cioè acquisti stipendi e sussidi dove il rapporto tra Sud e Nord è di 125 a 100, perché la politica ha preferito moltiplicare i redditi indotti dal settore pubblico, alla ricerca di voti. Ma altresì aggiugendo che in ogni caso c’è Sud e Sud, visto che sommando tutte le componenti Puglia e Campania figurano più tra tre le creditrici che le debitrici rispetto a Calabria, Basilicata e Sicilia dove il riequilibrio è inevitabile e deve essere pure molto energico. E, infine, ribadendo come garanzia agli elettori che l’orizzonte temporale della convergenza verso la virtù sarebbe stato adeguato: diciamo da 5 ma anche fino 10 anni, per chi vi è più distante come Calabria e Sicilia.

Difficile immaginare che, essendo mancata questa chiarezza per 16 anni, venga proprio ora e sia scritta nel punto “Mezzogiorno” che Berlusconi ha ormai pronto, da sottoporre a Fini prima che, a inizio settembre, l’annuncio ormai scontato di un partito nuovo diventi anche la tomba della maggioranza. Per questo continuo a pensare che se Berlusconi non ha già deciso comunque di provare la via elettorale, allora non solo sul Sud dovrà indicare impegni il più possibile precisi – il punto non sono gli 80 miliardi fondi FAS e di coesione europea di cui si occupa Fitto e che bisogna sperare vengano sbloccati su poche priorità vere condivise dalle Regioni che hanno potre di veto, invece che su mille progettoi inutili, il punto sono i numeri del federalismo che sin qui mancano nei decreti attuativi della delega -  ma soprattutto dovrà anche essere disposto a concedere che sia un esponente finiano, a rappresentare quegli impegni nell’agenda, nella composizione e nelle attribuzioni del governo stesso.

Per me, sbaglierò ma resta del tutto improbabile. In quel caso, comunque la pensiate su Fini rispetto al patto elettorale sottoscxritto due anni fa con gli elettori, il PdL può però prendersela solo con se stesso.

]]>
/2010/08/18/il-sud-il-federalismo-e-le-cattive-abitudini-pdl/feed/ 56
Crescere di più, non frottole politiche /2010/08/09/crescere-di-piu-non-frottole-politiche/ /2010/08/09/crescere-di-piu-non-frottole-politiche/#comments Mon, 09 Aug 2010 09:05:54 +0000 Oscar Giannino /?p=6732 Le prossime settimane di agosto saranno decisive, per capire se il governo riuscirà  davvero stringere un patto di legislatura con la neonata componente guidata dall’onorevole Fini. In queste settimane, bisogna augurarsi che gli organi d’informazione e la maggioranza degli osservatori economici del nostro Paese sappiano levare una voce decisa, una voce che richiami la politica alla responsabilità.  C’è una priorità, che non è né  l’incomprensione personale tra Fini e Berlusconi.  Né la volontà del  premier  di un’intesa che non faccia sconti, e che comprenda innanzitutto la sempiterna giustizia: dove tanto per cambiare l’errore è stato di non occuparsi della riforma dell’ordinamento ma di ciò che serviva nei processi. E’ l’economia, la grande dimenticata. L’attenzione va richiamata sulla necessità di consolidare la ripresa. Spero che media e osservartori lo capiscano. E’ la priorità delle priorità. Mentre la politica sembra come persuasa che ormai gli andamenti economici siano del tutto indipendenti da quel che essa può fare, dopo che si è comunque evitato – ed è un merito, comunque la si pensi per il resto sul governo – che spesa pubblica e deficit finissero fuori controllo, trascinando anche l’Italia nella crisi dell’eurodebito. Al contrario, non è affatto così. Basta richiamare un dato di fatto, per comprendere come proprio ora la politica dovrebbe pensare a uno sforzo straordinario.

Nel secondo trimestre l’Italia ha consolidato la sua ripresa, con un aumento dello 0,4% del PIL sul trimestre e un più 1,1% su base annuale. La disoccupazione ha invertito il suo segno, non aumenta più ed è scesa di qualche decimale, all’8,4%. In Europa c’è chi sta molto peggio, dalla Grecia alla Spagna. Ma l’Italia è il secondo Paese manifatturiero ed esportatore in Europa dopo la Germania, ed è alla Germania che noi dobbiamo guardare. Orbene la Germania ha preso a crescere nel secondo trimestre a un ritmo praticamente doppio del nostro. Significa che le imprese tedesche stanno riposizionandosi sui mercati che “tirano”, a cominciare dall’Asia e dalla Cina, più rapidamente di noi, e per questo fanno il pieno di ordini. Il governo tedesco è in crisi nei sondaggi popolari peggio di quello italiano, visto che l’83% dei tedeschi si è dichiarato ieri insoddisfatto della Merkel, ma in realtà tiene malgrado al Bundesrat abbia perso la maggioranza. Tiene perché ha fatto l’esatto contrario di ciò che quasi sempre preferiscono i governi, di fronte a una seria crisi economica. I tedeschi hanno sopravvalutato il loro deficit pubblico tendenziale, e sottostimato la crescita reale. Non sarà un sistema ortodosso, ma è più virtuoso del suo contrario.

Proprio per questo, il governo italiano non può considerare la politica economica come un tema secondario. Servirebbero scelte rapide e aggiuntive. Questa volta non sul versante della finanza pubblica: l’impegno su quel capitolo può limitarsi a un’intesa blindata perché la finanziaria del prossimo autunno consista solo di tre articoli e tre tabelle, senza ridiscutere saldi e tagli della manovra biennale appena approvata, ma semmai rendendoli ancora più stringenti. Quel che serve oggi, da parte della politica, è uno sforzo straordinario per consentire alle imprese di collocarsi più dinamicamente nella ripresa mondiale. Servono cioè iniziative rapide per rispondere a tre obiettivi: più capitale, più produttività, più occupati.

Per dare più equity alle imprese leader sull’export, si può e si deve rendere immediatamente operativo il Fondo per la capitalizzazione delle piccole e medie aziende che era stato convenuto tra imprese e governo ormai un anno fa, ma che non è decollato. Se ci sono problemi per l’autorizzazione necessaria da parte di Bankitalia, forse è perché il modello su cui hanno trattato  banche e Tesoro rischia di apparire più una scelta di risulta a favore di soggetti a cui le banche negano capitale, che un vero veicolo di mercato capace di scegliere i soggetti che razionalmente e internazionalmente è più utile sostenere, per i prodotti e le tecnologie di cui dispongono. Ma è un nodo da sciogliere anche a ferragosto se necessario, perché dal primo settembre il Fondo sia finalmente operativo e il più rapido possibile nelle sue procedure e decisioni.

Quanto alla produttività, occorre un’operazione-verità. Dalle grandi crisi, escono prima e più forti le economie che consentono alle imprese la più rapida e decisa ristrutturazione, per rispondere meglio al mutare della domanda. Ristrutturare significa investire, ma anche rivedere le piane organiche dei dipendenti in eccesso. Invece, non solo in Italia ma persino negli Stati Uniti, la politica preferisce non affermare questa elementare verità e si fa mettere sotto da coloro che dicono che finché non si torna alla piena occupazione allora la ripresa è finta, e riguarda solo il capitale. Nell’Italia di oggi, dove a distanza di 20-22 mesi preferiamo tenere i cassintegrati in deroga nell’illusione che torneranno tutti a lavorare dove stavano, bisognerebbe autorizzare le imprese che non hanno prospettiva di riassorbirli a recedere. La parola d’ordine dovrebbe essere “una-dieci-cento Pomigliano”. Non “Pomigliano è solo un’eccezione”.

Dopodiché si potrebbe giustamente dire: ma che costo sociale comporterebbe, questa politica economica straordinaria fatta d capitale e produttività alla tedesca? E’ la stessa domanda alla quale ha risposto da par suo Edmund Phelps sul New York Times tre giorni fa. Si riferiva agli USA di Obama, dove la ripresa promessa dai keynesiani al potere stenta malgrado il deficit pubblico stellare. E faceva l’esempio di Singapore, la frontiera più avznaata del libero mercato.  Ma quel che ha proposto vale anche per l’Italia. Meglio, molto meglio, un piano governativo di detassazione aggiuntiva per chi assume in altre imprese i disoccupati strutturali vittime della crisi, piuttosto che tenerli in cassa integrazione impedendo alle imprese di ristrutturare.

Sono solo tre esempi, non ho alcuna pretesa – né alcuna voglia, a dire il vero, perché è buona regola che ciascuno risponda del suo, e il tempo mi sembra e spero voglia avvicinarsi – di sostituirmi al ministro Tremonti , a Berlusconi e all’intero governo. Ma se la politica oggi perde di vista che l’economia mondiale corre e punisce i distratti, non ci sarà raffinata alchimia personale capace di evitare che l’Italia cresca meno di quel che potrebbe e dovrebbe.

]]>
/2010/08/09/crescere-di-piu-non-frottole-politiche/feed/ 3
No allo sciopero dei magistrati per gli aumenti automatici /2010/06/04/no-allo-sciopero-dei-magistrati-per-gli-aumenti-automatici/ /2010/06/04/no-allo-sciopero-dei-magistrati-per-gli-aumenti-automatici/#comments Fri, 04 Jun 2010 16:16:12 +0000 Oscar Giannino /?p=6172 Questa opinione è solo mia personale, e non impegna alcun altro di coloro che scrivono per Chicago-blog. Sono assolutamente senza parole, di fronte allo sciopero dei magistrati a difesa del portafoglio. “A pensare male si fa peccato, ma forse c’è da leggere nella manovra una particolare volontà di punire i magistrati italiani”. Lo ha detto Giuseppe Cascini, segretario dell’Anm, annunciando che i magistrati italiani si apprestano allo sciopero, contro le misure annunciate dal governo. I magistrati “vogliono fare la loro parte in un momento così difficile per il Paese”, dicono, ma denunciano il contenimento degli aumenti retributivi disposto ai loro danni come discriminatorio e, dunque, punitivo. Ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, Cascini ha aggiunto di ritenere che deve trattarsi di una rappresaglia per l’opposizione che i magistrati riservano alle riforme dell’ordinamento e delle procedure sostenute dal governo. A me il ragionamento politico non interessa e sembra ancor più improprio, ciò che conta sono i numeri.

Come stanno davvero le cose? Se c’è un tema che in tanti anni di roventi polemiche si impara obbligatoriamente a maneggiare con cura, è quello della magistratura. Comunque la pensi e comunque ti muovi, ti si appioppa addosso il sospetto che tu lo faccia per secondi fini. Ed è poi inutile parlare di fini al plurale, perché tanto il fine osceno di cui vieni accusato è sempre lo stesso: dare una mano a quel famigerato bandito – ritiene chi ti accusa – incidentalmente premier – aggiungi tu, tuo malgrado – che risponde al nome di Silvio Berlusconi. Eppure a mio avviso questa volta Berlusconi non c’entra un beneamato piffero, con la questione che spinge i magistrati a scioperare.

L’associazionismo magistratuale lamenta che il governo abbia disposto che chi guadagna di più paghi di meno, mentre chi ha minori paghe è più colpito. Consiste in questo, l’iniquità intollerabile – e, naturalmente , “incostituzionale”, come ti sbagli – per i magistrati, che per il resto si presterebbero volentieri a dare il loro contributo. Senonché non l’ha disposto il governo: è il meccanismo di retribuzione dei magistrati e solo dei magistrati, a determinare la conseguenza che un blocco pluriennale degli aumenti abbia conseguenze di quel tipo. Perché, cerchiamo di non dimenticarlo, i signori magistrati godono dell’aumento automatico delle retribuzioni – nonché delle qualifiche, a prescindere dalle funzioni concretamente svolte per le quali, da tre anni a questa parte, è stata tra mille resistente reintrodotto un vaglio autoesercitato da colleghi che, per altro, è tanto severo da concludersi al 96% naturalmente con uno scontato assenso alla promozione.

Il più della progressione automatica retributiva per i magistrati avviene in due tranche. Nei cinque anni successivi ai primi tre dall’assegnazione in ruolo, e poi una decina d’anni dopo. Sono i due “gradoni” di avvicinamento alla retribuzione di magistrato di Cassazione che comunque spetta a tutti i signori magistrati. Ed è per questa gaurentigia che spetta ai soli magistrati, nel pubblico impiego, che la sospensione degli aumenti implica per la classe di magistrati giovani prossima a maturare il primo gradone ciò che essi considerano un indebito scippo.

In altre parole, secondo i capi dell’ANM, una misura ben fatta dovrebbe invece prevedere: primo, naturalmente, che solo ai signori magistrati resti la prerogativa del progresso retributivo automatico, che non vale né per il resto del pubblico impiego, né tanto meno ovviamente per quello privato; secondo che lo stop agli aumenti – per solidarietà verso il resto dell’impiego pubblico, che ha avuto aumenti maggiori di quello privato negli ultimi anni – venga scritto con una norma ad hoc che tenga conto della retribuzione ad hoc, e dunque salvando dal congelamento proprio coloro che per tutela di casta più avranno di aumento nel biennio avanti a noi.

A me pare una logica quanto meno parecchio singolare. Non esattamente la prova di condivisione e di responsabilità istituzionale che è legittimo attendersi da chi non fa altro che ripeterci di svolgere una funzione delicatissima. Che cosa dovrebbero fare allora militari e poliziotti, carabinieri e finanzieri?  Puntarci le armi addosso, per come li trattiamo? Ma dimenticavo: non sono essi, in prima fila nella lotta contro il male. Quello è un ruolo riservato ai soli magistrati. Deve essere per questo, che pensano il loro portafoglio sia l’unico tutelato dalla Costituzione. Se poi, come immagino, il governo alla fine tratterà e accetterà questa impostazione – magari, puta caso, per non lasciare i magistratui troppo vicini al solo onorevole Fini, mi scapperà tristemente ancor più da ridere.

]]>
/2010/06/04/no-allo-sciopero-dei-magistrati-per-gli-aumenti-automatici/feed/ 53
Repubblica, Silvio e l’evasione /2010/06/03/repubblica-silvio-e-levasione/ /2010/06/03/repubblica-silvio-e-levasione/#comments Thu, 03 Jun 2010 09:23:48 +0000 Oscar Giannino /?p=6153 Ci vado piatto: sulla presunta giustificazione dell’evasione fiscale, tra Repubblica e Berlusconi, io sto con Berlusconi.  Per una ragione molto diversa da quella che Repubblica tende a identificare nelle frasi del premier, però. E continuando ad avere grande rispetto per Massimo Giannini, il vicedirettore di Repubblica le cui frasi a ballarò hanno ingenerato la polemica e la telefonata del premier. Per Giannini ho stima e amicizia. Da anni, può capitare di non essere d’accordo. Ma è sempre stimolante e documentato. Su mercato e concorrenza, la pensa molto più similmente a noi di quanto capiti con autorevoli colleghi del Corriere, per limitarsi a un punto essenziale. Su tasse e politica, però, la linea di Repubblica è la linea di Repubblica. Ed è una linea che trovo sbagliata, in quanto profondamente diseducativa. Anche quando si applica – per prevalenti ragioni di polemica politica, rispetto al merito – a Silvio Berlusconi, il nemico numero uno da sempre del quotidiano di largo Fochetti.

Per Repubblica, Berlusconi difende l’evasione fiscale. La prova starebbe nelle frasi che anche oggi vengono puntualmente riproposte dal quotidiano, pronunciate nelle numerose campagne elettorali dal 1994 ad oggi. Sono frasi in cui Berlusconi ripete che un prelievo giusto e comprensibile non dovrebbe andare oltre il terzo del reddito, rispetto al 50 e 60% e oltre in cui esso invece si traduce sul reddito d’impresa nelle piccole aziende oggi in Italia. Berlusconi dice e ripete che, quando ci si trova invece a richieste così esose, l’adesione spontanea e convinta alla pretesa tributaria provoca resistenza, elusione ed evasione.

In nome di quello che ripetiamo da anni e del tutto a prescindere da Berlusconi e dai suoi, difendo a spada tratta questo semplice assunto: affermare che la pretesa dello Stato è eccessiva, eccessiva in termini assoluti in confronto agli altri Paesi, ed eccessiva in termini relativi rispetto a ciò che offre in cambio, non è affatto giustificazione dell’evasione, è solo attacco alla cattiva politica che – in nome dei presunti servizi sociali offerti a tutela dell’universalità dei diritti – gestisce invece in maniera discrezionale e per interesse proprio oltre metà dell’economia nazionale.

Dire e ripetere questo, gridare allo scandalo di ciò che lo Stato ci prende dalle tasche, è puro seme di pensiero liberale, difesa del diritto naturale della persona e della famiglia – che in altri ordinamenti hanno presìdi costituzionali antifisco, come in Germania dove infatti spesa e tasse scendono insieme. E’ fortificazione delle premesse fodnanti di una sana democrazia di uomini liberi, non schiavi di chi protempore amministra lo Stato e pratica i propri interessi in suo nome.

La colpa ormai irrisarcibile di Berlusconi è limitarsi ad aver detto queste cose da 16 anni, senza far mai seguire i fatti. Repubblica crede di difendere la virtù pubblica, pretendendo che i politici pensino e dicano che le tasse sono belle e basta, perché lo Stato ha sempre ragione.  Ma, per chi la pensa come noi, Repubblica difende invece il vizio tassa-e-spendi della politica, e le parole di Berlusconi restano invece parole di libertà. Purtroppo, una libertà così incoerente nei fatti che indebolisce proprio chi la pensa come noi, e continuerà a farlo senza timore di essere schiacciato dal virtuismo giacobino degli statalisti vecchi e nuovi.

]]>
/2010/06/03/repubblica-silvio-e-levasione/feed/ 52
Nucleare entro tre anni. Perché non si può /2010/04/26/nucleare-entro-tre-anni-perche-non-si-puo/ /2010/04/26/nucleare-entro-tre-anni-perche-non-si-puo/#comments Mon, 26 Apr 2010 14:50:30 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5786 Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha spiazzato tutti promettendo che i lavori per la prima centrale nucleare in Italia “saranno iniziati entro tre anni“. La determinazione del Cav. è inedita e lodevole, ma bisogna stare attenti a fare promesse che non si possono mantenere. Sarebbe più utile concentrarsi sui più modesti, ma necessari, obiettivi di breve termine, senza i quali non avremo l’atomo né tra tre, né tra trent’anni.

Sono almeno tre le ragioni per cui promettere che la “prima pietra“, per usare la poetica espressione di Claudio Scajola, sarà messa entro la fine della legislatura. La prima è che, semplicemente, non ci se la può fare. La tempistica per sviluppare e autorizzare un progetto è intrinsecamente più lunga del tempo che ci separa dalla naturale scadenza della legislatura. Lo avevo scritto due anni fa, quando la prima pietra è stata scagliata, e lo confermo oggi. A quelle motivazioni, che restano sostanzialmente valide nonostante gli importanti passi avanti compiuti con la legge 99/2009 e il decreto 15 febbraio 2010, n.31.

In primo luogo, l’Italia, a oggi, non si è ancora dotata dell’apparato regolatorio richiesto, oltre che dal buonsenso, dalle norme internazionali e comunitarie. Se anche un soggetto volesse presentare un progetto, non avrebbe lo “sportello” a cui depositarlo, e non conoscerebbe gli standard tecnici da rispettare. C’è un motivo per cui queste informazioni non esistono: da cinque mesi il paese attende la creazione dell’Agenzia di sicurezza nucleare, il cui statuto continua a rimbalzare tra il ministero dello Sviluppo economico e quello dell’Ambiente senza trovare, per ora, una chiusura. Sebbene le voci di corridoio dicano che la composizione è ormai vicina, niente statuto, niente Agenzia. Peraltro, non di solo statuto è fatta un’Agenzia: servono anche i nomi. Per quel che riguarda il collegio, siamo ancora in alto mare e, se alcuni nodi si sono sciolti (la rosa degli aspiranti presidenti e commissari avrebbe ormai pochissimi petali, alcuni dei quali di indubbio valore), altri restano insoluti.

Sul piano industriale, intanto, continuano le schermaglie: la cordata principale, quella paritetica tra Enel ed Edf, scalpita, ma attorno a essa il mondo è ancora magmatico. Finché Scajola non riuscirà a trovare un ragionevole equilibrio tra gli interessi contrapposti – tanto per citare alcuni comprimari particolarmente vocali, sono al momento a bocca asciutta o quasi A2a e Finmenccanica – la situazione resterà quella, confusa, descritta qualche giorno fa su Repubblica da Luca Iezzi.

Secondariamente, è la stessa tempistica dettata dalle norme oggi approvate che allunga, e non di poco, i tempi. Il nostro Diego Menegon ha fatto i conti in questo Briefing Paper: dal momento in cui le norme sono presisposte, ci vogliono almeno 6-10 mesi perché sia emanata la Strategia energetica del governo, che assieme alle delibere dell’Agenzia dovrebbe delineare il quadro entro cui situare gli investimenti; poi ci vogliono 90 giorni per certificare i siti candidati a ospitare gli impianti, a cui farebbe seguito l’istanza di autorizzazione a costruire impianti, della durata potenziale fino a 14 mesi. Arriviamo così facilmente alla seconda metà del 2011. A questo punto sarà possibile depositare un progetto, per il quale sono necessarie l’Autorizzazione integrata ambientale e la Valutazione di impatto ambientale: a essere ottimisti, ci vorrà un anno, dopo il quale riprenderà la fase concertativa con gli enti locali. Quindi, si potrebbe arrivare alla prima metà del 2013 con un’autorizzazione in mano solo se (a) l’Agenzia e tutti gli altri aspetti normativi fossero immediatamente risolti; (b) l’Agenzia iniziasse subito a lavorare a pieno regime (cosa non scontata data la provenienza eterogenea del personale, non sempre abituato a ritmi di lavoro adeguati); (c) la Corte costituzionale bocciasse, il 22 giugno, il ricorso delle regioni, e contemporaneamente accogliesse quello del governo contro le tre regioni anti-atomo, altrimenti tutto salterebbe per aria; (d) durante l’iter autorizzativo, tutto filasse liscio come l’olio, con progetti a prova di bomba ed enti locali collaborativi; (e) durante e dopo l’iter autorizzativo, nessuno presentasse ricorsi al Tar o simili. Mi sembra che ipotizzare un simile andamento sia del tutto irrealistico. Nel mezzo, ci sarebbero da disinnescare altre mine vaganti come l’individuazione del sito per lo smaltimento delle scorie.

Con questo non voglio fare il pessimista o lo iettatore, ma solo sottolineare che tornare al nucleare è una faccenda dannatamente complessa, che mal si presta a prendere scorciatoie più o meno populiste. Oltre che complesso, creare le condizioni per tornare all’atomo è anche uno sforzo necessario e importante, che richiede la maturità del governo (vabbé) e dell’opposizione (doppio vabbé), oltre che un’adeguata campagna di informazione che sensibilizzi i cittadini dei potenzili siti (vabbé coi fiocchi). Promettere, o enfatizzare, termini che già si sa di non poter rispettare può essere una strategia controproducente, anche se nell’immediato fa molto rumore (tra gli applausi dei supporter e i fischi degli altri). Rischia, però, di essere tanto, troppo rumore per nulla.

PS Ringrazio Antonio Sileo per avermi segnalato un errore sulla tempistica della Corte Costituzionale.

]]>
/2010/04/26/nucleare-entro-tre-anni-perche-non-si-puo/feed/ 4
Clima. Europa pazza, Italia pirla /2010/03/26/clima-europa-pazza-italia-pirla/ /2010/03/26/clima-europa-pazza-italia-pirla/#comments Fri, 26 Mar 2010 15:48:26 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5528 Con un colpo di mano, la possibilità di alzare dal 20 al 30 per cento il target di riduzione delle emissioni europee entro il 2020, dopo essere uscita dalla porta notturna, rientra dalla finestra mattutina. Ordinaria cronaca di un’incredibile giornata negoziale a Bruxelles, dove oggi si conclude la sessione di primavera del Consiglio europeo. Se la questione di maggior interesse è, ovviamente, l’accordo franco-tedesco sul salvataggio della Grecia, un tema non marginale riguarda appunto le politiche del clima. L’Italia non voleva questa clausola. L’Italia era riuscita a toglierla dalla dichiarazione conclusiva del vertice. L’Italia poi si è voltata dall’altra parte. L’Italia, infine, senza accorgersene ha votato contro se stessa.

Quello che è successo è da manuale dell’idiozia politica. E pensare che le cose si erano messe bene. Grazie anche al presidente del consiglio italiano, Silvio Berlusconi, la bozza di dichiarazione conclusiva concordata ieri notte non conteneva alcun accenno all’aumento del target, come riferiscono fonti vicine al dossier. La logica è semplice: nel pacchetto energia e clima, approvato alla fine del 2008 dopo una lunga trattativa di cui l’Italia era stata uno dei protagonisti, prevedeva la possibilità di passare dal 20 al 30 per cento se si fosse trovato un accordo globale in tal senso (sottinteso: a Copenhagen, dicembre 2009). A Copenhagen è andata come è andata: quindi, tutto in vacca. Nota non banale: a mandare tutto in vacca è stata, principalmente, l’indisponibilità dei due attori cruciali, cioè la Cina (di cui mi sono occupato qualche giorno fa) e gli Stati Uniti (dove il presidente, Barack Obama, ha investito l’intero suo capitale politico sulla riforma sanitaria e neppure si sogna di piagare i contribuenti con iniziative verdi).

Nonostante ciò, alcuni Stati membri hanno deciso di tentare la carta dell’aumento unilaterale, determinando una frattura in seno all’Europa che si è ricomposta solo, duramente, ieri notte. Tutto bene? Macché. Perché nessuno aveva fatto i conti con la fessaggine negoziale che storicamente contraddistingue il nostro paese. Il Cav. ha pensato bene che la chiusura della campagna elettorale doveva avere la precedenza sulla sua presenza al Consiglio Ue. Nessuno, purtroppo, deve avergli spiegato che, secondo il trattato di Lisbona, un primo ministro assente non può delegare un suo ministro, ma deve per forza farsi rappresentare dal presidente del Consiglio europeo.

Accade così che l’Italia venga rappresentata da Herman van Rompuy. Magari non sta bene, ma nella cosa in sé non ci sarebbe nulla di male. Non ci sarebbe nulla di male se ci si ricordasse di istruire il rappresentante sulle posizioni che il rappresentato vuole che siano, appunto, rappresentate. In assenza di istruzioni, van Rompuy ha fatto di testa sua (chi avrebbe fatto diversamente?) e ha dunque accettato, a nome dell’Italia, l’inserimento del seguente fraseggio:

the EU is committed to take a decision to move to a 30% reduction by 2020 compared to 1990 levels as its conditional offer with a view to a global and comprehensive agreement for the period beyond 2012, provided that other developed countries commit themselves to comparable emission reductions and that developing countries contribute adequately according to their responsibilities and respective capabilities.

E’ una formula abbastanza standard e non avrà gravi conseguenze politiche. Forse non ne avrà nessuna. Però, intanto, una notte di fatica è andata in fumo, visto che viene ancora una volta alimentato l’equivoco, dando agli estremisti l’appiglio per sostenere le loro tesi. E poi, ancora una volta il nostro paese non ha perso l’occasione di dimostrare di che pasta è fatto.

]]>
/2010/03/26/clima-europa-pazza-italia-pirla/feed/ 16