CHICAGO BLOG » beni pubblici http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Nuova PAC: a capofitto verso il 2013 /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/ /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/#comments Sun, 21 Nov 2010 11:46:52 +0000 Giordano Masini /?p=7647 Prendo spunto da un post pubblicato su Agricoltura24 che riprende a sua volta un articolo di Terra e Vita e che mi sembra dare, fino a questo momento, il quadro più completo degli indirizzi proposti per la nuova Politica Agricola Comune post 2013. Ho sempre pensato che la PAC sia uno strumento perverso e tendenzialmente criminogeno, per le gravi distorsioni che induce nel mercato agroalimentare. Ma dalle proposte che circolano oggi, a mio avviso la PAC sta prendendo una strada del tutto insensata, iniqua e controproducente anche rispetto alle stesse intenzioni dichiarate dai suoi sostenitori, e rischia di essere la pietra tombale per l’agricoltura europea. In questo post (forse un po’ lungo) proverò a spiegare perché.

Dai primi orientamenti si comprende che alcune scelte della nuova Pac sono inevitabili, come la soppressione dei pagamenti storici. In tutti i documenti emergono due nuovi temi: la remunerazione dei beni pubblici e gli strumenti per contrastare l’instabilità dei mercati.

Non tutti possono aver chiaro, ovviamente, cosa significhi “remunerazione dei beni pubblici”. Con questa denominazione, inserita nella PAC all’inizio del nuovo millennio, si pretende che gli agricoltori, oltre a mettere sul mercato prodotti agroalimentari e trarre profitto da questa attività, producano anche beni che avrebbero valore per la collettività, ma che non sarebbero remunerati adeguatamente sul mercato: paesaggio agrario, presidio territoriale, biodiversità, lotta al cambiamento climatico, conservazione dell’ambiente, sviluppo rurale, salubrità degli alimenti, benessere degli animali.

Sulla base di questo principio (la cui arbitrarietà e scarsa fondatezza è evidente anche a un bambino) la PAC è stata, ormai quasi un decennio fa, suddivisa in due pilastri: da una parte gli aiuti diretti, destinati a sostenere il reddito dell’agricoltore, dall’altra i cosiddetti aiuti allo sviluppo, focalizzati da una parte a sostenere lo sviluppo delle aziende e dall’altra a premiare quei comportamenti e quelle pratiche agricole in grado di produrre “beni pubblici”. Per esempio, se in Europa le autorità pubbliche possono finanziare le aziende agricole biologiche ma non le compagnie aeree lo si deve proprio al fatto che, secondo i tecnocrati di Bruxelles, Almaverde Bio produce beni pubblici ed Alitalia no.

Ora, il primo pilastro della PAC sembra avere un problema: il sistema in base al quale è stato calcolato il premio che ogni azienda riceve, e sul quale non mi dilungo, ha prodotto delle differenze inaccettabili tra paese e paese e deve essere superato: attualmente l’Italia percepisce mediamente 300 euro/ha, mentre la Grecia percepisce 600 euro/ha e la Romania soltanto 40 euro/ha.

Il dibattito su questo tema è molto acceso e, per trovare un equilibrio tra le varie posizioni, è probabile che i pagamenti diretti potrebbero essere rimodulati in più componenti:

  • una parte (ridotta rispetto ai livelli attuali, ad esempio 100-200 euro/ettaro) erogata a tutti gli agricoltori;
  • una parte riservata alle zone con svantaggi naturali, ad esempio la montagna e le zone svantaggiate; a tal proposito, c’è la proposta di portare le indennità compensative dal 2° al 1° pilastro;
  • una parte, selettiva, in funzione del fabbisogno di lavoro o del valore aggiunto o di specifici comportamenti orientati alla fornitura di beni pubblici ambientali.

Sembra, quindi, che la produzione di questi fantomatici beni pubblici debba diventare un criterio per indirizzare, oltre agli aiuti allo sviluppo, anche i fondi che dovrebbero servire al sostegno del reddito, quello uguale per tutti. Ma se una quantità così rilevante di soldi dei contribuenti europei dovrà essere spesa in questa direzione, sarebbe giusto chiedersi se e come, al di là dei luoghi comuni, questi beni pubblici portino qualche vantaggio alla salute e all’ambiente (anche se basterebbe il fatto che nessuno sembra disposto a pagare di tasca sua per essi, ma si sa, c’è sempre chi è in grado di scegliere per noi meglio di noi)

Se parliamo di agricoltura biologica, non esiste un solo studio scientifico serio (e si sono dati da fare per cercarlo) in grado di dimostrare che nutrirsi di alimenti biologici rechi qualche beneficio per la salute, mentre per quanto riguarda l’ambiente, è di un’evidenza lapalissiana che fornire all’umanità il fabbisogno di cibo con tecniche scarsamente produttive come quella biologica comporterebbe l’impiego di una quantità enorme di superficie agricola, oggi occupata da praterie e foreste.

Anche dal punto di vista del contenimento delle emissioni, è l’agricoltura intensiva che produce i migliori risultati, come ho avuto già modo di argomentare citando un autorevole studio di PNAS, e per quanto riguarda il presidio territoriale e la tutela del paesaggio agrario (anche questi sono concetti strani da capire: per quale ragione il paesaggio rurale attuale dovrebbe essere migliore di quello passato e di quello futuro?) è solo un’azienda agricola competitiva e orientata al profitto ad avere interesse a continuare a lavorare la terra, invece che abbandonarla e sostenersi solo con i sussidi (non è un’ipotesi, è quanto sta accadendo).

Quindi, una PAC seria dovrebbe, avendo a cuore l’ambiente, premiare l’agricoltura intensiva, l’uso delle biotecnologie, la ricerca del profitto. E’ ovvio che per premiare questi comportamenti la maniera migliore sarebbe quella di eliminare completamente i sussidi, incentivando i produttori a perseguire l’efficienza. Premiare e sostenere comportamenti opposti è completamente demenziale, oltre ad essere uno spreco intollerabile di denaro pubblico.

Per quanto riguarda invece la “stabilizzazione dei mercati”, questi sono gli orientamenti che emergono dal summenzionato articolo:

In molte proposte emerge una nuova richiesta per la Pac: il contrasto all’instabilità dei mercati e il miglioramento della posizione degli agricoltori nella filiera agroalimentare. Gli strumenti della vecchia politica di garanzia (prezzi garantiti, dazi, sussidi all’esportazione, ammasso pubblico, quote, set aside, ecc.) hanno mostrato tutti i loro limiti e non sono più applicabili nella prospettiva futura. Tuttavia l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi e dei mercati rimane ancora attuale. Anziché la vecchia politica di garanzia, si richiede di favorire gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori agricoli, attraverso la concentrazione dell’offerta, il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti tramite la cooperazione, l’associazionismo, l’interprofessione.

Il fatto che si ribadisca l’inutilità di quegli strumenti perversi utilizzati fin ora per stabilizzare (forse sarebbe più corretto dire “distorcere”) i mercati è senz’altro positivo. Preoccupa però il fatto che si continui a ritenere l’apertura dei mercati come un pericolo da cui proteggersi, e sono inquietanti gli strumenti di cui l’UE vorrebbe dotarsi per perseguire tale risultato.

Ci sono fin troppe evidenze che dimostrano come i prezzi di quei prodotti che vengono scambiati sui grandi mercati internazionali siano molto più stabili di quelli che da questi mercati vengono esclusi, quindi l’idea che l’agricoltura di prossimità e “il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti” possa portare qualche beneficio è completamente sballata. Sarebbe meglio che ci si concentrasse sulle opportunità per le aziende agricole di affacciarsi con i loro prodotti sui mercati emergenti e lontani, piuttosto che forzarle a rimanere ancorate ad un desolante status quo.

Se è vero come è vero che il prezzo di un prodotto tiene conto di tutti i costi di produzione, la tendenza a localizzare tutte le produzioni rinunciando all’efficienza di produrre su terreni e a climi vocati e vendere ovunque ci sia domanda rappresenta un violento colpo di zappa sui piedi della nostra agricoltura, soprattutto nel momento in cui le produzioni agricole di altri grandi paesi, come Cina, India e Brasile, cominciano a volare, e non, come recita la vulgata, a causa del basso costo del lavoro (altrimenti dovevano volare anche negli scorsi decenni) ma proprio grazie alle biotecnologie, all’intensificazione e all’apertura al mercato globale. Un esempio per tutti: negli ultimi 10 anni il Brasile ha triplicato il proprio export agroalimentare, la sua produzione agricola è cresciuta del 79% con un incremento della superficie utilizzata limitato al 28%.

Per quanto riguarda poi gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori (leggi: i consorzi potranno intervenire sui mercati regolando l’offerta, al fine di indurre un aumento dei prezzi) basterebbe la triste esperienza del vino italiano (e francese), che con metodi del genere si sta progressivamente autoescludendo dal mercato mondiale a far desistere da simili proponimenti. Perché si tende a dimenticare che qualsiasi consumatore, sia esso un consumatore finale o un trasformatore, reagisce a questi meccanismi orientando altrove le sue scelte, e in tempi di mercati globalizzati le alternative non mancano. Se il protezionismo è un errore lo è sempre, ed è inutile e controproducente farlo uscire in pompa magna dalla porta per farlo rientrare, in silenzio e sotto mentite spoglie, dalla finestra.

Per finire, ed è il dato forse che preoccupa di più, nella nuova PAC post 2013 aumenteranno a dismisura quelle voci di spesa in cui è indispensabile il ruolo attivo degli intermediatori pubblici e parapubblici (checché se ne dica sono loro i veri beneficiari della PAC, e che siano loro stessi a disegnarne gli indirizzi forse aiuta a capire ciò che sta succedendo), come le associazioni professionali. Quando si parla di cooperazione, associazionismo, e interprofessione non si intende altro. E il fatto che anche i fondi del primo pilastro della PAC, quello degli aiuti diretti, verranno distribuiti secondo criteri sempre più discrezionali e meno automatici non fa che confermare questa tendenza costosa e perversa.

]]>
/2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/feed/ 9
Un bene pubblico? privatizzare l’acqua: Charles Murray docet /2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/ /2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/#comments Mon, 03 May 2010 17:36:56 +0000 Serena Sileoni /2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/ Come spesso accade, e come troppo spesso ci si dimentica quando si affrontano le politiche pubbliche, la semplicità è il modo migliore per giudicare la bontà o meno di una scelta.

A proposito della cd. privatizzazione dell’acqua, la lettura di questo brano di Charles Murray, tratto da What it means to be a libertiarian, che a breve sarà disponibile anche in italiano, è appunto una di quelle occasioni in cui poche parole semplici sono molto più efficaci di tante welfariane previsioni e stime.

Esse sembrano tanto più sinteticamente efficaci quanto più, credo, ognuno di noi può ritrovare la propria esperienza di rapporto vissuto con la pubblica amministrazione, rimanendo difficile contestare la verosimiglianza di un quadro del genere, anche se dipinto avendo a mente un paese straniero (gli USA) e qualche anno fa (nel 1997).

Dopo la lettura della citazione, chiedetevi pure se ancora siete convinti che privatizzare l’acqua sia un male pubblico.

In una parte della nostra vita, quella gestita dal governo, dobbiamo compilare dichiarazioni di redditi, rinnovare la patente di guida [...] cercare rettificare la somma pagata in più per la bolletta dell’acqua [...] Ciò che il settore privato può risolvere in pochi minuti al telefono, per ventiquattro ore al giorno, il governo può risolverlo dalle dieci alle tre, dal lunedì al venerdì, andandoci di persona e con la necessità di tre visite perché il problema sia compreso bene. La somma in eccesso sulla bolletta dell’acqua? Si finisce per pagarla, poiché, se si insiste, un ufficio amministrativo caduto in confusione potrebbe chiudere il rubinetto per mancato pagamento.

]]>
/2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/feed/ 16
Nella Dacia di Putin /2009/11/03/nella-dacia-di-putin/ /2009/11/03/nella-dacia-di-putin/#comments Tue, 03 Nov 2009 18:46:28 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3603 Sul Corriere della Sera di oggi Dacia Maraini prende a male parole il progetto del governo sulla “privatizzazione” dell’acqua. Poco importa che l’esecutivo non abbia alcuna intenzione di privatizzare l’acqua, né che la manovra attualmente in discussione al Senato, pur essendo marginalmente migliorativa rispetto alla situazione attuale (descritta da Rosamaria Bitetti nell’Indice delle Liberalizzazioni), sia tutto fuorché rivoluzionaria. L’offensiva della Maraini è culturale e politica, e su questo piano bisogna risponderle. Ma prima mettiamo i puntini sulle “i”

Secondo la Maraini, il timido processo di apertura del mercato avviato dall’Italia sarebbe responsabile tanto del peggioramento ella qualità del servizio quanto dell’aumento dei prezzi. Va da sé che un’accelerata verso una maggiore libertà produrrebbe conseguenze ancor più disastrose. Sarebbe semplice rispondere che nessun dato consente di parlare di un peggioramento qualitativo, o che i prezzi sono ancora troppo bassi rispetto all’effettivo valore dell’acqua, che infatti nel nostro paese iene ampiamente sprecata. Tuttavia è ancora più importante notare che né l’una, né l’altra cosa sono affidate agli “spiriti animali” del capitalismo (peraltro, in Italia, animaletti domestici). Le tariffe dell’acqua non le fanno le SpA concessionarie del servizio: le decidono gli ATO, enti mezzi regolatori, mezzi politici. Se la Maraini ritiene che l’acqua sia troppo cara, se la prenda coi burocrati. Quanto alla qualità, se anche fosse vero che è nell’interesse delle imprese private giocare al ribasso (e non lo è), esistono comunque degli standard minimi da rispettare, anch’essi fissati per via tecnico-politica. Al massimo si può sostenere che la regolazione è inefficace e gli standard non sempre vengono rispettati: ma quest’accusa riguarda il modo in cui le operazioni di sorveglianza e controllo sono organizzate, non il comportamento delle società titolari del servizi. Se la Maraini vuole venire su questo terreno, saremo perfettamente d’accordo con lei: l’Italia avrebbe solo da guadagnare dall’esistenza di un’Autorità dell’acqua in grado di dare una regolazione organica al settore e di vigilare su suo rispetto.
Questo approccio non è però abbastanza populista per le papille delicate della Maraini e in più richiede studio e competenze che più faticose da ottenere, e meno gratificanti da utilizzare, che non i proclami da comizio elettorale. Tant’è che l’unico argomento più o meno rispondente alla realtà fattuale schierato sulle pagine del principale quotidiano borghese è che la “privatizzazione” dell’acqua è avvenuta in Cile sotto il regime di Augusto Pinochet. Se permettete, ’sti cazzi. Immagino che in base alla stessa logica Maraini sia per l’abolizione dell’INPS perché è stato istituito da Benito Mussolini. In ogni caso, quello che è stupefacente nel pezzo della Maraini è la totale incomprensione della differenza tra proprietà del bene acqua e modalità dell’affidamento della gestione del servizio idrico integrato. È soltanto di queste ultime che si parla. E l’alternativa è, da questo punto di vista, secca: o il monopolio pubblico, o l’affidamento tramite gara. La gestione del servizio richiede non solo di far funzionare acquedotti e fognature, ma anche la capacità tecnica di realizzarne di nuovi e di raccogliere i capitali necessari agli investimenti. Il meccanismo delle gare ha quanto meno il merito di rompere il conflitto di interessi in capo agli enti locali, che altrimenti sarebbero contemporaneamente concedenti e concessionari. Potrebbero quindi essere tentati di utilizzare le risorse destinate al servizio o agli investimenti per altre attività, per esempio l’assunzione di personale non necessario a scopi clientelari. Maraini farebbe bene a guardare quanto gli acquedotti italiani, specie nel Mezzogiorno, siano sovraorganico e a quanto ammontano le perdite, in media circa un terzo dell’acqua captata. Questo stato disastroso è frutto chiaramente del deficit di concorrenza, non di quel po’ di apertura del mercato che si è riusciti a praticare.
Quando Maraini parla di ripubblicizzazione del settore e di ritorno all’affidamento diretto non fa altro che contrabbandare una visione putiniana della politica: dove è lo Stato a decidere chi fa cosa, come e con quali risorse. Se poi le risorse vengono sprecate per saldare debiti personali o promesse elettorali, tanto peggio per i consumatori

]]>
/2009/11/03/nella-dacia-di-putin/feed/ 7