CHICAGO BLOG » BCE http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 No eurobond, tre cose servono all’Italia /2010/12/07/no-eurobond-tre-cose-servono-allitalia/ /2010/12/07/no-eurobond-tre-cose-servono-allitalia/#comments Tue, 07 Dec 2010 17:35:39 +0000 Oscar Giannino /?p=7802 Dunque come previsto all’Ecofin la Germania ha detto no. No sia al rafforzamento dell’EFSF: tradotto, significa non c’è capienza per salvare Portogallo e Spagna. Sia alla proposta Tremonti-Juncker di eurobond avanzata ieri sul FT. Il ministro italiano dell’Economia ha dichiarato di essere ottimista, anche l’EFSF l’Italia lo propose a fine 2008 e molti risero, poi la Grecia in panne nella primavera 2010 obbligò a vararlo. Lo stesso avverrà per gli eurobond, pensa Tremonti. Vedremo al Conmsiglio Europeo e al summit dei capi di Stato e  di governo che lo segue. A me non pare probabile che le cose si smuovgano, e oltretutto la proposta di un’Agenzia del Debito Europeo che rilevi debito dei membri eurozona fino al 40% del Pil comune e cioè di ciascun membro, mantiene due punti che non mi sono affatto chiari e che anzi mi appaiono temibili. Continuo a pensarla come Roberto Perotti oggi sul Sole. Era meglio ristrutturare il debito greco a febbraio, avviare cioè un semidefault che avrebbe scoraggiato a insistere tutti gli altri membri “eurodeboli”. Congiuntamente credo che il problema irrisolto sia quello delle banche innanzitutto tedesche e francesi, come ho scritto ieri. E che comunque l’Italian dovrebbe fare tre cose, subito e di suo, senza confidare negli eurobond.

I due punti non chiari – a me almeno – della proposta Tremonti-Juncker riguardano: i tassi ai quali si praticherebbe lo swap tra debito nazionale e debito dell’EDA; il premio ai più deboli.  I tassi d imercato cioè spread compresi sono esclusi, naturalmente, in sede ci conversione. I proponenti hanno parlato di conversione  “alla pari”, e hanno aggiunto che anzi andrebbe assicurato un premio ai Paesi sotto stress. E’ come dire che aboliamo dal 50 al 100%b il potere del mercato di esprimere un giudizio sui diversi premi di rischio Paese: non si tratta di essere tedeschi, per respingere un’idea di questo tipo. E’ evidente che incoraggia comportamenti irresponsabili, da parte della politica fiscale e di bilancio a livello nazionale.  La seconda proposta non chiara riguarda il proposto meccanismo di sostegno da parte dell’EDA al finanziamento di almeno il 50% dei nuovi titoli che sarebbero emessi dagli Stati membri, e anche qui si propone di giungere fino al 100% dui finanziamento in caso di stress. Un secondo e temibile premio all’azzardo morale dei governi.

Veniamo all’Italia. Tremonti, tra manovra pluriennale estiva e correzioni nella legge di stabilità per il 2011, ha frenato il deficit tendenziale dello 0,9% di Pil per il 2011, e dell’1,5% sia nel 2012 che nel 2013. Altri hanno dovuto fare sforzi multipli di tali grandezze. La spiegazione del perché siano stati “costretti” a fare più dell’Italia si chiama avanzo primario. Il saldo primario è la differenza tra uscite e entrate, al netto della spesa per interessi sul debito. Tra i 16 paesi dell’eurozona l’Italia è in testa. Positivo nel 2008 (+2,5% del Pil) il saldo primario italiano ha girato, causa recessione, per la prima volta dal 1991 in territorio negativo nel 2009 (-0,6%). Per il 2010, si dovrebbe chiudere di poco sotto lo zero. Per tornare ad avanzo primario positivo nel 2011. Livelli nettamente migliori della media dell’eurozona, pari a -3,6% nel 2010 e a -2,9% nel 2011. Tra i big, la Germania registrerà disavanzi primari nel 2010 e 2011 del -2,3% e -2%, la Francia del -5,4% e -4,5%. Terribili gli andamenti dell’Irlanda (-8,8% e -7,6%), Spagna (-7,6% e -7,2%). Meglio la Grecia post massicci tagli primaverili(-4,0% e -4,1%).

Ma il premio di rischio dei titoli pubblici dipende da altre due cose: dalla crescita, dall’ammontare di interessi da pagare sul debito. Eccoli, i talloni d’Achille del nostro Paese. L’aumento del Pil italiano è dell’1,1% quest’anno e l’anno prossimo, previsto in lieve miglioramento nel 2012 all’1,4%. La serie tedesca è 3,7%, 2,2% e 2%. Quella francese +1,6% in 2010 e 2011, 1,8% nel 2012. Quando la crescita di un Paese è inferiore agli oneri sul debito, o l’avanzo primario compensa la differenza oppure il debito pubblico sale ancora. Noi siamo su quella via: ma tutti quelli che gridano contro Tremonti, al centro e a sinistra, vogliono più spesa pubblica.

Infine, gli interessi sul debito. Siamo più esposti alle oscillazioni degli spread di altri che hanno avanzi primari peggiori. Per diluire il più possibile gli interessi del debito ed accrescere la durata media dei titoli emessi noi teniamo in media quattro aste al mese, due di titoli a breve e due a durata medio-lunga. L’ammontare è minore delle maxi aste concentrate in pochi mesi adottate dai più nell’eurozona. Una strategia ottima quando è basso lo spread, come nel primo decennio dell’euro. Quando il mercato balla, più emissioni si traducono in più occasioni per il mercato di premere il doppio pedale tra basso prezzo nominale di acquisto e alto rendimento. Per questo siamo finiti sopra i 200 punti base, la settimana scorsa.

In conclusione: la finanza pubblica italiana è apparentemente più sotto controllo che tra i nostri partner, come pura dinamica di spesa comparata. Ma la bassa crescita e l’esposizione alla volatilità consigliano tre cose. Non abbassare la guardia, cioè spendere meno e non di più. Molto meno, per abbattere le tasse. E, se possibile, una manovra di rientro straordinario del debito. Il patrimonio immobiliare liquidabile pubblico – escluso tutto ciò che è vincolato, non parliamo di Colosseo e Pompei – vale circa 500 miliardi. Cederne anche solo due terzi, con veicoli e procedure di mercato, abbassa il debito pubblico di 20 punti di Pil, al di sotto della media dell’eurozona l’anno prossimo. Sarebbe la fine dell’eccezione italiana, la premessa per concentrarsi sulla vera sfida: crescere di più.

eniamo all’Italia.

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Tremonti rilancia gli eurobond. Sarà dura, perché.. /2010/12/06/tremonti-rilancia-gli-eurobond-sara-dura-perche/ /2010/12/06/tremonti-rilancia-gli-eurobond-sara-dura-perche/#comments Mon, 06 Dec 2010 11:08:38 +0000 Oscar Giannino /?p=7787 All’Eurogruppo di stasera e all’Ecofin di domani Tremonti e il presidente dell’Eurogruppo Juncker riproporrano gli eurobond europei, questa volta non per rilanciare gli investimenti pubblici ma anche e sprattutto per swappare titoli dei Paesi a rischio nell’eurozona. Ho dei fortissimi dubbi che per i tedeschi la proposta sia accettabile.  E una controproposta, dovessi essere io al tavolo.

Che cosa continua a non funzionare, nelle regole europee sin qui stabilite dopo il caso greco e quello irlandese? Che cosa non convince ancora, dopo che la Germania di Angela Merkel e la Francia di Sarkozy hanno formalmente confermato che il loro patto di Deauville diverrà proposta formale e ufficiale al Consiglio europeo, e cioè che dopo il 2013 l’attuale fondo di stabilità finanziaria EFSF varato dopo il salvagente alla Grecia diventi un meccanismo stabile – per questo serve una modifica al trattato europeo – al quale comparteciperanno anche le banche private? Non si era detto nel corso degli ultimi mesi che i salvataggi avvenivano in realtà solo per tuteklare non gli euromembri a rischio ma le banche stesse di Germania e Francia, visto che sono imbottite di titoli sovrani europei che fino a qualche mese fa avevano premi di rischio diversificati solo nell’ordine delle decine e non di centinaia punti base? Perchè non considerare allora favorevolmente, l’idea tedesca degli haircuts, cioè che le banche stesse si espongano in caso di rischio default dei Paesi di cui hanno comprato i titoli, a tagli degli interessi attesi se non a una rinuncia di parti stesse del capitale stesso impegnato?

La prima cosa che i mercati hanno capito, sapendo far di conto, è che tali haircuts più che tagli di capelli finirebbero per essere tagli di teste. Un analista di JPMorgan la settimana scorsa ha calcolato che una decurtazione pari a non più del 20% del valore di rimborso dei titoli pubblici dei Paesi a rischio – cioè Grecia e Irlanda, Portogallo e Spagna – basterebbe oggi come oggi a determinare l’azzeramento del capitale proprio delle maggiori banche francesi.

La seconda cosa che i mercati hanno capito, sapendo sempre far di conto sin qui ancora una volta meglio di regolatori e governi, è che i tassi d’interesse ai quali si dovranno sottoporre gli euromembri “deboli”, per effetto delle nuove regole tedesche, spingono in realtà questi paesi non a salvarsi, ma semplicemente al baratro. Per fare un solo esempio: poiché l’Irlanda è tenuta a pagare un rendimento del 5,8% sul prestito fattole dal Fondo Monetario internazionale e dall’EFSF.  Nelle condizioni attuali e proiettate nel triennio delle finanze pubbliche irlandesi, questo significherà che al 2014 i soli oneri sul prestito rappresenterebbero il 25% del totale delle entrate di Dublino. Una condizione di default peggiore di quella rischiata per i soli salvataggi bancari.

L’Irlanda si troverebbe a trasferire ogni anno il 10% del suo reddito nazionale tra interessi sui prestiti vecchi e nuove emissioni: siamo a proporzioni analoghe a quelle dei debiti di guerra imposti alla Germania a Versailles dopo la prima guerra mondiale, tra le grida di Keynes che per una volta vide giusto, ammonendo che così facendo si mettevano solo le basi per un nuovo conflitto europeo che sarebbe invece poi diventato mondiale. Persino uno dei pochi sinceri europeisti americani, come il liberal Barry Eichengreen che insegna economia e scienze politiche a Berkeley, ha scritto sdegnato sull’Handesblatt che questo bel pasticcio gli ha fatto cambiare idea sull’euro, perché se le classi dirigente europee sono così “corte di leadership” allora la moneta unica è destinata a saltare.

Di fronte alla malaparata degli spread impazziti di Spagna e Portogallo – e per la prima volta anche dei BTP italiano sopra i 200 bps sul BUND -  i governi europei riservatamente si sono inginocchiati di fronte al board della BCE, implorandola di informare i mercati che la banca centrale è pronta a comprare quantità industriali di titoli dei Paesi a rischio, fino a piegare il mercato nella sua speculazione se necessario. Cosa che la BCE ha sia pur riottosamente accettato di dire, contraria com’è alla monetizzazione del debito massicciamente praticata invece dalla FED.

Senonché anche questa terza cosa i mercati rischiano di capirla come una nuova circostanza aggravante. Se la BCE copre con acquisti, tanto vale per fondi monetari, banche che devono disintermediare titoli pubblici ed hedge funds scatenarsi a briglia sciolta sull’aumento degli spreads e scommesse sui relativi futures, è come dire al mercato che ci sono di aggio possibile 1000 basis points per la Grecia, 800 per l’Irlanda, 5 o 600 per Portogallo e Spagna, e magari fino a 380 o 400 per gli stessi titoli italiani, forbici amplissime in cui far razzia con la stessa facilità con cui si possono rubare le offerte dalle cassette in Chiesa. Per di più senza rischiare di rimetterci nulla della carta che ti resta in mano, dopo gli acquisti calmieratori della BCE.

Quali ricette, allora? Gli europeisti inguaribili, quelli che fanno finta che la Germania non abbia solidi limiti costituzionali e politici al salvataggio altrui, predicano e ripetono che bisogna far nascere la fiscalità congiunta europea. S’illudono, a mio giudizio.  Dui tutto abbiamo bisogno, tranne che di un fisco armonizzato. In Italia, le tasse devono scenddere se vogliamo sopravvivere e crescere.

C’è poi il, fronte degli eurorealisti comunque ottimisti, in cui militano Tremonti e  Juncker con la loro idierian proposta “eurobond salvacicale”.  Non si è riusciti a far decollare gli eurobond per finanziare la crescita e gli investimenti fuori dai limiti al deficit posti dal Patto di stabilità, non credo che nasceranno più facilmente a copertura di chi ha bolle scoppiate da curare. Il ministro Schauble, appena promosso dal Financial Times primo nella graduatoria europea di credibilità, ha già detto che ècpntrario.

I mercatisti come me, contrari a ogni armonizzazione fiscale che significherebbe solo eternare tasse altissime per tutti invece di farle scendere, pensano invece che è molto meglio occuparsi del problema vero: cioè le banche che hanno in pancia i titoli. I mercati scommettono che le banche tedesche e francesi non si toccano, a costo di far saltare l’euro. Meglio ripatrimonializzare direttamemente quelle banche allora, come i tedeschi con la loro opacità sugli attivi e gli stress test farsa non hanno voluto fare, che obbligare paesi interi a trasferire fette inaudite di ricchezza dei contribuenti a quelle stesse banche per anni a venire.

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Euro debole = illusione occupati /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/ /2010/11/16/euro-debole-illusione-occupati/#comments Tue, 16 Nov 2010 19:04:18 +0000 Oscar Giannino /?p=7620 L’Europa è di nuovo piegata su se stessa nel tentativo di evitare la crisi dell’eurodebito. In molti tra coloro che in Italia lavorano per l’export almeno si consolano, all’idea che l’euro si deprezzi riscendendo verso quota 1,3 sul dollaro invece che verso 1,5. In realtà, la gara a deprezzare le valute è la vera guerra in corso tra dollaro e yuan, e l’euro rischia di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro. Detto questo, chi qui scrive trova invece apprezzabile che sempre più numerose voci europee si levino polemicamente rilevando che non rende un servizio a nessuno, la FED, artificiosamente deprimendo il corso del dollaro e i rendimenti decennali del debito pubblico americano, con la sua politica eterodossa di acquisiti di titoli sul mercato e cioè attraverso la monetizzazione del debito, come avveniva in Italia prima che via Nazionale e Tesoro divorziasssero, sancendo la piena autonomia della banca centrale dalle tendenze deficiste della politica. La vera risposta a chi consiglia sempre il deprezzamento della moneta per difendere l’occupazione sul mercato domestico sta proprio nell’andamento dell’economia americana.

E’ il nocciolo della politica praticata da Obama e Bernanke, secondo i quali un dollaro debole aiuta a ridurre la disoccupazione USA, che nel suo aggregato ristretto è al 9,6% e in quello allargato, comprendente cioè gli “scoraggiati” a diverso titolo, sale al 16% e oltre. Tuttavia, è un assunto fallace.

Nigel Gault, chief economist al desk americano di Global Insight, ha rielaborato la relazione tra andamento del dollaro e occupati nell’ultimo decennio. Dal 2001, il dollaro ha visto il suo valore deprezzarsi del 31% rispetto a un basket comprendente le cinque maggiori valute nel commercio mondiale. L’export americano negli stessi anni è aumentato del 45%. Ma l’occupazione manifatturiera americana è diminuita negli stessi anni di un terzo, scendendo da 16,4 a 11,7 milioni. Se ci fermiamo all’ultimo trimestre cioè agli effetti sul breve, da giugno a settembre il dollaro è sceso del 10% rispetto alle stesse valute, e l’export americano a settembre è salito dello 0,3%, al livello più alto nell’ultimo biennio. Ma la disoccupazione non diminuisce.

Per almeno due ordini di ragioni. La prima che l’export dei Paesi avanzati verso i Paesi che “tirano”, Cina e Asia innanzitutto, è soprattutto ad alto valore aggiunto, e dunque prodotta laddove macchine, automazione e tecnologie inevitabilmente continueranno a sostituire intensità di lavoro umano. La seconda ragione è che più aumenta l’export in quei Paesi più aumenta il totale di occupati delle imprese esportatrici in quei Paesi stessi: assai più che nei mercato domestici in cui le imprese esportatrici sono radicate. Secondo le cifre elaborate dall’United States Bureau of Economic Analysis il totale dei dipendenti all’estero delle aziende americane esportatrici è più che raddoppiato, negli anni 1998-2008 con l’ingresso della Cina nel WTO, passando da 5 a 10,5 milioni. Occupare dipendenti in Paesi a basso costo del lavoro aiuta a realizzare margini che son più che mai preziosi per investire di più nella qualità di innovazioni, processi e prodotti che vengono “pensati” e sperimentati nei paesi avanzati di provenienza. E più il processo diventa esteso e radicato, meno ovviamente sui bilanci aziendali incide il fattore valutario sulla competitività complessiva delle ragioni di scambio.

E’ esattamente lo stesso fenomeno avvenuto su scala europea per le grandi imprese tedesche delocalizzando nell’Est europeo non appartenente all’euro, a inizio degli anni 2000. Oggi come oggi, per BMW o Mercedes e Audi che hanno triplicato la loro produzione locale in Cina, il fattore cambio dell’euro è praticamente del tutto indifferente rispetto agli enormi margini che realizzano con oltre 500mila vetture di classe elevata vendute su quel mercato nel 2010.

Se tutto ciò è vero per l’economia USA, dove il 65% della crescita viene dalla domanda interna e solo un terzo dall’export, è a maggior ragione vero per noi, dove avviene l’esatto opposto. Chi si augura un euro debole per esportare meglio ha ragione nel breve, basta che sia chiaro che con l’occupazione l’effetto cambio c’entra poco o nulla: per quella serve essere più produttivi, non artifici monetari che nel mondo globalizzato servono più che altro da maschere agli alti debiti pubblici dei governi. Maschere che del resto non reggono più, in America come in Europa.

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Draghi non deve fare politica, ma ben altro /2010/11/09/draghi-non-deve-fare-politica-ma-ben-altro/ /2010/11/09/draghi-non-deve-fare-politica-ma-ben-altro/#comments Tue, 09 Nov 2010 16:14:31 +0000 Oscar Giannino /?p=7536 Dalle cronache politiche qualcuno continua di quando in quando ad avanzare l’ipotesi che potrebbe essere chiamato a esercitare una supplenza politica in Italia. Ma in realtà per Mario Draghi potrebbe essere un serio incomodo. Non lo dico solo perché molti gli hanno sempre attribuito una segreta voglia di far politica, ma a me è sempre personalmente risultato che non vi sia praticamente nulla di più alieno al suo pensiero, formazione e legittima ambizione. Soprattutto, l’eventuale ed ipotetica chiamata del Quirinale costituirebbe un serio ostacolo a qualcosa che invece sta concretamente maturando. Cioè la possibilità che sia proprio il governatore della Banca d’Italia, a succedere al francese Trichet alla guida della BCE.

E’ una partita che si gioca ai vertici europei l’anno prossimo. Ma intanto quel che nelle ultime settimane gli osservatori specializzati e fior di media europei hanno registrato, è che la candidatura del tedesco Axel Weber, il banchiere centrale tedesco, ha perso molte frecce al suo arco. Le reiterate dichiarazioni del capo della Bundesbank contro la politica monetaria e contro il Quantitative Easing seguito dalla BCE – per altro assai più modesto di quello praticato e rilanciato dalla FED – nonché i suoi irrituali accenni alla necessità che il debito pubblico dei paesi definiti “europeriferici” possa andare incontro ad auspicabili haircuts cioè a riscadenze e degli interessi con perdite delle banche e dei risparmiatori, hanno praticamente obbligato Trichet a smentire apertamente che Weber rappresenti la linea della BCE. In altre parole, in Weber si legge con eccessiva irruenza la matrice politica e germanica della sua nomina, e ciò lo induce a parlare più a difesa degli interessi del suo Paese che di quelli dell’eurosistema. Non è una buona credenziale per guidare la BCE. Ormai il giudizio è pubblico, esteso e condiviso.

Nell’ultima settimana, Der Spiegel ha dedicato un servizio alla “declinante stella” di Weber, accusato di avere “la bocca troppo larga”. Il Financial Times Deutschland ha scritto che è ufficiosamente riaperta la gara e che Weber non è più il candidato numero uno, e che al suo posto maggiori chanches le ha Draghi. Mentre il riflesso condizionato tedesco di preferire un fido banchiere centrale olandese a un italiano olandese non trova buona soluzione in Nout Wellink, che deve occuparsi dei problemi di bilancio e della solidità finanziaria del suo Paese. A parte il fatto che già il predecessore di Trichet, Wim Duisenberg, era olandese. Su Die Welt il presidente dell’eurogruoppo, il premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, ha anch’egli criticato duramente Weber. In futuro alla Bce, ha detto, serve un presidente che esprima con autorevolezza una sola voce, non un polemista minoritario.

E’ vero, contro Draghi gioca che il vicepresidente BCE scelto l’anno scorso è del Sud Europa, il portoghese Vitor Constancio. Ma a un francese non può succedere un altro francese, come Dominique Strauss-Kahn, oggi alla testa del FMI a almeno apparentemente il candidato di bandiera di Parigi . Al vice portoghese tanto meno si può aggiungere poi un presidente spagnolo, come spera Madrid che tiene in serbo Jaime Caruana, oggi alla rigorosissima BRI di Basilea, e alla Banca di Spagna dieci anni fa. Mentre il banchiere centrale lussemburghese, Yves Mersch, è un avvocato: il che lo esclude per mancanza di titoli. I tedeschi, scartato Weber, potrebbero giocare la carta di Klaus Regling, l’ex direttore generale della degli Affari Economici e Finanziari alla Commissione Europea oggi alla testa dell’European Financial Stability Facility da 440 miliardi nato per la crisi greca, e che i tedeschi vogliono smontare, sostituendolo con un più ambizioso Fondo Monetario Europeo subordinato però a un’improbabile modifica del Trattato. Ma Regling non ha alcuna esperienza di banca centrale.

Come si vede, all’esame delle forze in campo, Draghi ha tra tutti migliori possibilità di quanto si credesse fino a pochi mesi fa. La guida del Financial Stability Forum e l’ottimo rapporto con Geithner e gli altri regolatori mondiali lo ha reso un candidato autorevole al di là delle vicende del suo Paese. Francamente, al Quirinale potrebbero e dovrebbero pensarci, prima di dirottarlo su altro.

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I tre errori europei sulle banche /2010/10/06/i-tre-errori-europei-sulle-banche/ /2010/10/06/i-tre-errori-europei-sulle-banche/#comments Wed, 06 Oct 2010 11:20:09 +0000 Oscar Giannino /?p=7234 Abbondano gli scettici, sulla necessità del giro di vite in corso sulla vigilanza europea in materia di finanza pubblica e crescita, il doppio pilastro che dal 2011 sostituisce il vecchio rispetto – elastico e perciò non credibile – del precedente “stupido” patto di Maastricht. Eppure, l’Irlanda dovrebbe ricordare a noi tutti che siamo ancora bel lontani da una exit strategy ccredibile. Dopo la nuova iniezione di miliardi pubblici resasi necessaria per evitare che l’Anglo Irish Bank finisse gambe all’aria, Dublino è diventata leader del deficit pubblico per anno tra i Paesi avanzati, con una percentuale sul Pil che supera il 32%. Segue il Regno Unito sopra l’11%. Gli Stati Uniti che faticano a mantenersi entro il 10,5%. La Spagna oltre il 9% ,malgrado l’austerity che costa al governo socialista il minimo dei consensi. E poi nell’ordine Grecia, Francia, Giappone e Portogallo, tutti ben oltre la media dell’euroarea che sta al 7%. E poi – virtuose come si vede se conta la graduatoria del deficit annuale, e conta qualcosa santiddio – Germania e Italia, di poco entrambe sopra il 6%. Purtroppo, il caso irlandese si aggrava per la singolarità del processo di salvataggio e ricapitalizzazione bancaria seguito dall’euroarea, ispirato a due logiche abbastanza singolari, pur appartenendo tutti alla medesima area monetaria: “ciascuno a casa sua”, e “una foglia di carciofo alla volta”. Con un terzo errore, che ne consegue.

La prima logica ha visto i diversi sistemi bancari nazionali e i rispettivi governi procedere come se il funding bancario fosse ristretto all’interno del rispettivo mercato nazionale, cosa che naturalmente è falsa visto che avviene sul mercato globale e secondo i tassi overnight dei mercati per le esigenze a breve e con le finestre di liquidità speciali della Bce per quelle a medio-lungo. Continua a prevalere il criterio delle diverse responsabilità a seconda della prevalente cittadinanza dei depositanti, ma è un errore anche questo. Perché ciò ha significato che vi sono stati governi e regolatori nazionali che tra 2008 e 2009 hanno fatto un vero “punto a capo” per le banche che andavano nazionalizzate o ricapitalizzate d’emergenza, come è avvenuto con qualche approssimazione in Francia, Regno Unito e Paesi Bassi.

Altri hanno fatto come la Germania, a tutt’oggi la più lenta nell’arginare i pessimi attivi bancari delle sue Landesbanken pubbliche, per via della cattiva coscienza politica che il marcio delle banche regionali inevitabilmente esprime. L’Irlanda ha seguito questa cattiva strada, col risultato che dal solo mese di marzo scorso – quando la stima della banca centrale nazionale era che il sistema bancario aveva bisogno di ricapitalizzazioni per ulteriori 28,4 miliardi di cui oltre 18 a carico dell’Anglo Irish nazionalizzata nel gennaio 2009 – prima ad agosto la linea di denaro pubblico alla banca era salita di 10 miliardi aggiuntivi, e poi il 30 settembre è cresciuta di altri 6,4 miliardi. Nel frattempo, raddoppiava a 10,4 miliardi di euro rispetto alle previsioni di marzo anche il costo della ricapitalizzazione pubblica dell’Irish Nationwide Building Society, la scassata Freddie Mac irlandese prova evidente della bolla immobiliare.

E così, nel giro di due soli anni, la tigre celtica ha visto passare il suo debito pubblico da meno del 60 al 98.6% del suo Pil. Per quanto si dia retta al programma di rigore fiscale annunciato dal governo, difficilmente il debito pubblico potrà stabilizzarsi prima di raggiungere quota 115%. Ed è anche per questo che il ministro irlandese delle Finanze, Brian Lenihan, ha continuato negli ultimi giorni a escludere perdite per i creditori senior delle banche, ma non esclude più una ristrutturazione quanto meno degli interessi a danno dei debitori subordinati.

Con una strategia diversificata nazionalmente del bank loss e con una procedura di scoperta a tempo della sua gravità, il terzo errore è che Paesi come l’Irlanda si indeboliscano ulteriormente per una fuga non solo di capitali, ma anche di depositi bancari (la garanzia straordinaria di copertura per correntisti e debitori insieme annunciata nel 2008 dal governo di Dublino scade attualmente a fine anno).

In queste condizioni in cui oggettivamente la separatezza delle vie nazionali a banche solide continua come si vede a ingenerare instabilità per l’intera euroarea, si potrebbe ritenere che proprio il caso irlandese provi che la risposta non può essere quella del rigore di finanza pubblica. In proposito, la comunità accademica mondiale resta più che mai divisa. Da una parte ci sono economisti come Alberto Alesina e Silvia Ardagna di Harvard, che hanno recentemente aggiornato un loro studio sui maggiori episodi di consolidamento fiscale nei Paesi Ocse (Large Changhes in Fiscal Policy: Taxes Versus Spending,  NBER working paper n. 15438, revised jan 2010)concludendo che nella maggioranza dei casi il taglio delle spese e delle tasse anche nella fasi restrittive del ciclo consolida la fiducia e rilancia la crescita assai più della rilassatezza di una finanza pubblica keynesianamente concepita a sostegno della domanda. Dall’altra, se si legge il capitolo 3 del World Economic Outlook del Fondo Monetario appena uscito in vita dell’assemblea annuale che si terrà tra pochi giorni (Will it Hurt?Macroeconomic Effects of Fiscal Consolidation), si legge esattamente l’opposto, e cioè che quando l’economia si contrae tagliare la spesa è più deleterio che aumentare le tasse.

Chi qui scrive, sta nel partito Alesina-Ardagna. E vi spiega perché. La differenza di fondo tra le due prospettive, la prima ispirata a meno tasse e la seconda a più spesa pubblica, non sta tanto nell’essere pro o contro il feticcio del vecchio Keynes, che riposi in pace, ma nel tasso d’interesse. Aumentare la spesa pubblica in deficit da parte della politica spinge le banche centrali oggi a tenere i tassi bassissimi e ad acquisire sui mercati carta pubblica per deprimere artificialmente gli yields decennali. Con tagli alla spesa e alle tasse, la politica delle banche centrali sarebbe di segno opposto e i tassi risalirebbero. Per tante banche ancora malate – e tenute in piedi solo dall’oceanica liquidità iperscontata loro garantita dalle banche centrali, come ha giustamente osservato pochi giorni fa Mario Draghi, che dunque si colloca coraggiosamente in minoranza rispetto all’indirizzo prevalente – tassi in risalita sarebbero un brutto guaio. Per noi mercatisti offertisti chicagoers, ciò consentirebbe di ripartire prima e meglio, distinguendo finalmente anche tra le banche grano dal loglio. Ma politici e banchieri preferiscono tassi bassi: per questo il debito pubblico cresce. L’errore dei banchieri centrali è non separare le loro responsabilità da questo rischioso andazzo.

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/2010/10/06/i-tre-errori-europei-sulle-banche/feed/ 4
Il rischio giapponese a cui ci espongono BCE e banche centrali /2010/08/12/il-rischio-giapponese-a-cui-ci-espongono-bce-e-banche-centrali/ /2010/08/12/il-rischio-giapponese-a-cui-ci-espongono-bce-e-banche-centrali/#comments Thu, 12 Aug 2010 12:22:26 +0000 Oscar Giannino /?p=6773 di Silvano Fait (IHC)

Purtroppo non abbiamo avuto ancora il piacere di vedere fare a Trichet uno spot televisivo al ritmo di “La mia banca è differente! Banca Centrale Europea: la Banca con “B” maiuscola”. Mai pubblicità sarebbe stata maggiormente azzeccata. Come noto, la Banca Centrale è il monopolista autorizzato ex lege alla produzione di moneta. Il suo compito istituzionale è preservare la stabilità dei prezzi dei beni al consumo. I driver sono: il target di inflazione programmata pari al 2% e l’espansione della base monetaria determinata in un 4,5% annuale. Nella pratica la (teorica) k-rule è diventata una D&D Rule (Dungeons & Dragons’ rule) ovvero: lancia quattro dadi da sei, incrementa la base monetaria della percentuale corrispondente e poi compra tutti gli asset di dubbio valore sul mercato fino all’occorrenza. Anche la prima idea, quella di un perseguimento di un tasso di incremento dei prezzi dei beni di consumo costante è un po’ perniciosa: per un approfondimento il tal senso può essere opportuna una lettura di “The Sphere of Economic Calculation” (Human Action, cap. XII di Ludwig von Mises) come pure di questo “antico” pezzo di IHC, in quanto una discussione in tal senso richiederebbe uno spazio così ampio da esulare dagli scopi del presente articolo. Torniamo adesso invece al monopolio di emissione riservato alla Banca Centrale. Questo costituisce indubbiamente il principale asset (occulto) all’interno del bilancio della ECB – lo stesso dicasi per i bilanci di Fed, BoE, BoJ, etc. Per un periodo di tempo “t” può essere espresso dalla seguente formula:

I = (it – i Mt) / (1 + it) Mt-1

Dove I ” rappresenta il valore attuale netto (NPV) degli interessi risparmiati dalla Banca Centrale in forza del monopolio di emissione sulla base monetaria, “i ” il tasso di mercato che la stessa dovrebbe pagare in assenza di tale monopolio, “i Mt” il tasso di effettiva remunerazione e “Mt-1” la base monetaria all’inizio del periodo preso in considerazione. Attualmente i Mt è la media ponderata tra l’1% pagato sulle riserve obbligatorie, lo 0,25% sulle riserve in eccesso e l’ammontare delle banconote remunerate a zero, ovviamente.

Willem Buiter, Chief Economist di Citigroup, nel Global Economic Outlook and Strategy del 21 luglio ha elaborato delle stime circa l’ammontare del valore attuale di “I” combinando alcuni scenari tra di loro. Assumendo un costo nullo di emissione della moneta ed ipotizzando che la Banca Centrale voglia tenere fede al proprio impegno di un incremento nominale dei prezzi al consumo del 2% su base annua, la “deep pocket” (la tasca profonda) di Trichet oscillerebbe da 1.985mlrd a 6.864mlrd di euro. In ogni caso decisamente superiore ai 78mlrd di patrimonio netto che ufficialmente figurano a bilancio nell’Eurosistema, quale perdita massima assorbibile dall’istituto di emissione.

Per svuotare una tasca profonda ci vuole una mano profonda, ma attualmente il lavoro è semplificato dal fatto che di mani ce ne sono due: quella a disposizione della Banca Centrale e quella a disposizione del Tesoro (in senso lato), ovvero le agenzie fiscali dei vari paesi dell’eurozona. Nonostante i programmi di austerity dichiarati, i Governi hanno un interesse oggettivo ad estrarre parte di questa rendita monopolistica della Banca Centrale (sul legame finanziario diretto tra Tesoro e Banca Centrale si veda anche qui). Il metodo è tutto sommato semplice: scaricare su di essa il mantenimento della stabilità del sistema finanziario, fatto che a sua volta implica un sostegno diretto o indiretto al collocamento e/o alla negoziazione dei titoli sovrani (se non altro a condizioni meno onerose di quelle che verrebbero richieste in un mercato libero e competitivo). In ultima istanza l’ECB è e sarà costretta ad ogni occorrenza ad espandere la base monetaria e ad accettare collaterali di pessima qualità, anche oltre le intenzioni dichiarate. Non è in discussione quindi se la politica monetaria resterà o meno inflativa, ma semplicemente in che modi e in quali termini.

Il veicolo speciale (SPV), che dovrebbe prendere vita entro qualche mese, e la concertazione di linee di credito bilaterali tra Governi dell’eurozona sono un evento senza precedenti dalla creazione dell’euro ad ora. Come già sottolineato l’ SPV può rivelarsi del tutto inutile a fermare la speculazione: in assenza di credibili politiche di risanamento di bilancio questo diventa un peg contro cui giocare per ottenere free lunch fino all’esaurimento delle risorse finanziarie ivi conferitevi. Senza poi considerare il fatto che i processi di negoziazione intracomunitari raramente seguono la velocità con cui si evolvono le crisi di carattere finanziario e pertanto richiedono (prima, durante e dopo) la fattiva e proattiva assistenza della ECB. È necessario sottolineare come i prestiti intergovernativi stiano al libero mercato dei capitali come il miele sta al diabetico. Non riflettono le preferenze intertemporali degli attori, i tassi e le modalità concessione non rispecchiano alcun costo opportunità riferibile a dei liberi agenti economici, le rinegoziazioni avvengono sotto l’egida della politica. Se la veste formale è pur sempre quella di obbligazioni creditizie, nella sostanza sono uno strumento di carattere egemonico con cui creare e gestire vincoli di sovranità tra Governi, istituzioni intergovernative o sovranazionali. Non sono uno strumento del mercato. Sono uno strumento del nazionalismo economico ed il “patriottismo monetario” è senza ombra di dubbio un elemento di sfaldamento, non di integrazione commerciale tra Paesi.

Nel grande gioco a mantenere lo status quo rimane aperto il problema della sottocapitalizzazione degli istituti di credito. Le leve su cui agire ovviamente sono due: l’attivo ed il passivo. L’emergere dei malinvestimenti della fase espansionista (2003 – 2008, anche se allargando la discussione ci sarebbe da riflettere sulle scelte di politica monetaria degli ultimi vent’anni) ha bloccato l’espansione creditizia, o quantomeno l’ha diretta verso il comparto statale – allocazione questa che non richiede particolari accantonamenti di capitale. Una contrazione prolungata e poco discriminata degli impieghi al settore privato genererebbe un fenomeno di selezione avversa: i soggetti in grado di rientrare sarebbero quelli più solvibili mentre gli altri crediti diventerebbero manifestamente deteriorati o inesigibili (i.e. apparirebbero per quello che già sono). Ciò comporterebbe l’insolvenza degli istituti che più hanno finanziato progetti non sostenibili, come ad esempio le casse di risparmio spagnole. In un’economia di mercato non vi sarebbe niente di anomalo in tutto questo: la pulizia delle inefficienze e la riallocazione delle risorse sono processi salutari. Nel caso attuale invece, è proprio ciò che si cerca sistematicamente di evitare. Sull’asset side delle banche si è intervenuti (i) a livello normativo con il passaggio dal mark to market al mark to fantasy, per favorire l’occultamento delle perdite e (ii) a livello finanziario con quello che ormai giustamente possiamo definire un “quali-quantitative flooding“. Per quanto riguarda il capitale di vigilanza in una prima fase molti paesi hanno proceduto ad interventi sia di nazionalizzazione che di ricapitalizzazione (in gran parte pubblici, più modestamente privati). Questo tuttavia ha semplicemente tamponato la situazione e favorito fenomeni di evergreening. È utile ricordare che un evergreening attuato su scala sistemica, oltre a rallentare la riallocazione del risparmio verso i settori profittevoli dell’economia, rende più difficoltoso sia l’accesso al credito che la realizzazione di nuovi progetti potenzialmente redditizi e maggiormente richiesti dai consumatori: risorse e capitali continuano a permanere dove non dovrebbero, anziché cambiare la propria allocazione in maniera conforme al mutato scenario economico.

In conclusione Europa e Stati Uniti, seppur con alcune significative divergenze circa la tempistica di rientro dalle politiche di spesa, guidati da Governi e Governatori centrali sembrano decisi ad imboccare una via occidentale alla giapponesizzazione delle proprie strutture finanziarie, produttive e sociali. Non è possibile prevederne gli esiti a priori. È possibile che le forze vive del capitalismo producano abbastanza risparmi e beni capitali da permettere un superamento della congiuntura “relativamente” poco doloroso, ma ciò non potrà non essere accompagnato da un riequilibrio dei pesi a livello geopolitico ed economico globale. Allo stesso tempo non è affatto da escludere l’ipotesi che la socializzazione delle perdite – attività che vede gli istituti di emissione impegnati da molti anni – provochi l’apparizione di imprevisti buchi neri (nella gestione del central banking) tali da portare all’ordine del giorno la necessità di ridiscutere l’intera architettura su cui si basa il sistema monetario attuale.

Fino ad oggi le Banche Centrali sono più o meno sempre riuscite a cartellizzare e coordinarsi in maniera tale da garantire la sopravvivenza del sistema (negli ultimi anni in particolare tramite operazioni di currency swap). Tuttavia si sta verificando una situazione in cui, nei Paesi occidentali, vi sono sempre meno margini – sia finanziari che politici – per ulteriori operazioni di supporto tramite l’indebitamento pubblico, mentre in quelli asiatici e in via di sviluppo le riserve accumulate finora potrebbero – essendo espresse prevalentemente in dollari, euro, yen, sterline e franchi svizzeri – accusare pesanti perdite in caso di significativi movimenti al ribasso nel mercato dei cambi di queste valute. Comunque vada, il “global central banking” proseguirà nel suo sentiero inflazionistico ed il suo destino è ad esso indissolubilmente legato.

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Le banche centrali Re Mida, l’eccesso di pseudo-moneta /2010/08/12/le-banche-centrali-re-mida-leccesso-di-pseudo-moneta/ /2010/08/12/le-banche-centrali-re-mida-leccesso-di-pseudo-moneta/#comments Thu, 12 Aug 2010 12:13:18 +0000 Oscar Giannino /?p=6771 di Leonardo Baggiani e Silvano Fait (IHC)

Per capire quanto il mercato obbligazionario possa trovarsi in futuro sotto pressione, si può dare un occhio a qualche report di Standard & Poor’s, tra cui uno citato anche dal Sole24ore: da qui al 2013, dovranno essere rimborsati più di 3.000 miliardi di dollari, con un picco di 903 miliardi previsto per il prossimo anno, ed a questo vanno aggiunte le necessità di cassa degli Stati sovrani (circa 870 miliardi di dollari a titolo di rifinanziamento solo 2011, più gli oneri derivanti dal servizio del debito e il finanziamento dei rispettivi deficit). La conseguente, ed evidente, scarsa sostenibilità di politiche di deficit spending ed il rischio che queste possano spiazzare la domanda privata di fondi. In questo scenario la BCE non potrebbe ritirarsi dal suo monetary easing, anzi dovrebbe trovarsi ad incrementarlo. La nuova “moda” del debito potrebbero essere i covered bond, la cui emissione è incrementata del 60% nel primo semestre dell’anno in seguito al programma di acquisto previsto dalla Banca Centrale (tale programma è terminato il 30 giugno, ma vi sono tutti i presupposti per riedizioni future più o meno analoghe). E che ne sarà delle tanto sbandierate “politiche di sterilizzazione monetaria”? Come evidenziato anche da Bagus, tali interventi comportano comunque un drenaggio di fondi che renderebbe più restrittive le condizioni del mercato interbancario, a da lì sul resto dell’economica, il che va “contro” il quadro appena sopra disegnato. La situazione non sembra offrire vie d’uscita: imperante e imperituro monetary easing. Riguardo l’aspetto più “quantitativo” del monetary easing, inciderà sicuramente la disponibilità di capitali strategici provenienti dall’estero, di cui una possibile anteprima è stata offerta con gli acquisti cinesi sui titoli di Stato spagnoli: questo alleggerirebbe il compito della BCE riducendo in generale la pressione sull’obbligazionario seppur rischiando un nuovo “patto scellerato tra oriente e occidente”.

Ma la partita più interessante si gioca ormai sul piano qualitativo, tanto da mandare in secondo piano il mancato rinnovo a inizio luglio della mega-operazione a un anno per oltre 400 miliardi di euro, che non può considerarsi “compensato” semplicemente da quelle poche decine di miliardi di euro di acquisti di covered bond. D’altra parte la grande creazione centrale di base monetaria non ha avuto tutti gli effetti moltiplicativi attesi: le banche hanno per lo più preferito parcheggiare le somme nelle deposit facility (e pure in debito sovrano fino ad annullarne il rendimento) piuttosto che rischiare un prestito privato. Nei fatti le riserve di liquidità in eccesso nell’eurosistema sono balzate a luglio 2009 verso i 300 miliardi di euro, e dopo il minimo di inizio anno sono rimbalzate fino a circa 350 miliardi di euro a inizio luglio 2010 appena prima della scadenza nella suddetta mega-operazione; scaduta la mega-operazione le riserve sono cadute verso i 140 miliardi di euro. Al netto, insomma, il sistema ha visto ridurre la quota di riserve in eccesso per circa 200 miliardi di euro (oltre la metà), ma gli effetti sull’interbancario non sono stati così drammatici come si temeva (l’euribor andrà ad aggiustarsi con un 1% sulla nuova scadenza media del rifinanziamento centrale probabilmente a tre mesi, tutto qui), il che indica che pure la fase espansiva è stata povera di risultati, sia per l’interbancario che per l’intero circuito del credito.

Le Banche Centrali stanno dando vita ad una vera e propria politica di creazione e ampliamento dei surrogati monetari, il qualitative easing. In un contesto di moneta irredimibile e monopolizzata dalla Banca stessa, ogni decisione espansiva in materia di accettazione di collateral o acquisto di una qualsiasi attività, conferisce a questa uno status di pseudo moneta, innalzandone la domanda e quindi il prezzo. Questo è ciò che avviene con i titoli di Stato, e che è avvenuto con i covered bond prima e con i titoli greci dopo il declassamento. Il rischio di controparte viene fortemente controbilanciato con la liquidabilità assicurata dalla Banca stessa (gli emittenti di questi surrogati monetari sono i primi ad esserne beneficiati a scapito degli altri soggetti poiché l’attività di espansione è  non uniforme e discrezionale, quindi non è neutrale).

Se lo status di pseudo moneta di un qualsiasi asset viene definitivamente riconosciuto dal mercato, lo stesso asset entra agli effetti pratici nella massa monetaria, al punto che non sarà più indispensabile che la Banca Centrale converta immediatamente l’asset in “moneta strictu sensu”, e l’asset può arrivare a circolare come, appunto, moneta, semplicemente sulla fiducia che volendo, prima o poi, possa venir convertito in “moneta strictu sensu”. Vista la facilità con cui soprattutto gli Stati possono “creare” debito,  e che fenomeni di “circolazione di certificati” come moneta non sono impossibili, esiste un significativo pericolo di una nuova forma di inflazionismo che sfrutta forme endogene di circolazione monetaria.

Ogni nuovo interventismo cerca di lenire il tessuto finanziario dove questo appare stressato. Lo scenario descritto a inizio articolo, quando andasse a minare lo stato di banche ed istituzioni finanziarie, è plausibile che spinga la Banca Centrale ad interfacciarsi ulteriormente anche con il mercato delle emissioni private, così che lei prima ampli tutti gli strumenti a disposizione delle banche commerciali per favorire l’evergreening del loro attivo, e poi allarghi la gamma di collateral accettati, per finire con la creazione di strutture o veicoli finanziari ad hoc. In questo modo la BCE acquisirebbe definitivamente il “tocco di Mida”, tramutando in “oro” tutto ciò che tocca; il problema è che Mida scoprì di non poter più alimentarsi, trasformando in oro anche il proprio cibo, e allo stesso modo la BCE potrebbe trovarsi “accerchiata” da (pseudo) moneta che ella stessa ha creato. E Trichet ha forti incentivi per cadere, consapevolmente o meno, nella spirale della pseudo moneta, in una nuova fase di qualitative easing piuttosto che dell’indistinto quantitative easing, rischiando che lui, il nostro Re della liquidità, diventi un novello Re Mida: la semplice politica monetaria (quantitativamente) espansiva ha mostrato una troppo ridotta efficacia perché si “perde” nella politica creditizia delle banche commerciali, quindi può diventare necessario cercare di scavalcare il sistema bancario facendo fluire liquidità, ad esempio sotto forma di acquisto di titoli quali covered bond, titoli di Stato, o accettazione di nuovi collateral ben specifici, fin nei settori che si vogliono specificatamente stimolare.

Qualcosa del genere era già stato detto nel 2008 riguardo la politica della Federal Reserve: scavalcare quel percorso fatto di finanziamenti della Banca Centrale alle banche commerciali e di speranze che quest’ultime concedano prestiti nell’economia, puntando direttamente con la propria liquidità “dentro” ai settori da sostenere. Il punto è che facendo questo si può finire appunto in un ambiente di pseudo moneta come sopra descritto. In una situazione simile le statistiche non riuscirebbero a cogliere questa forma di inflazione, anzi potrebbero descrivere una apparente riduzione degli aggregati monetari, specialmente quelli di  grado inferiore, mentre il sistema già si muove su una moneta qualitativamente ampliata. Sterilizzazione apparente, e inflazionismo qualitativo; Re Mida potrebbe nemmeno accorgersi del suo “tocco”.

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Giavazzi&Giovannini su tassi, FED e BCE: viva Taylor! /2010/08/11/giavazzigiovannini-su-tassi-fed-e-bce-viva-taylor/ /2010/08/11/giavazzigiovannini-su-tassi-fed-e-bce-viva-taylor/#comments Wed, 11 Aug 2010 17:31:34 +0000 Oscar Giannino /?p=6764 Il comunicato FOMC della FEd di ieri comprensibilmente orienta verso il basso i mercati mondiali, poiché realisticamente prende atto del rapido deterioramento della ripresa americana  – meditino i deficisti keynesiani! Di qui le decisioni della FED: conferma della valutazione che i bassi tassi resteranno intoccabili a lungo, conferma – estendendola invece di farla diminuire – della politica eterodossa di quantitative easing, cioè di acquisti di bonds federali e di commercial papers, per sostenere il debito sovrano monetizzandolo e per sostenere la Borsa, da parte della banca centrale che si trova così esposta a rischi di ulteriore deterioramento del suo balance sheet ipertroficamente esteso a livelli record.  La domanda è: c’è un’alternativa a questa politica monetaria? se la plolitica continua nel suo deficit tednenmzialmente mostruoso, convinta che sia “la” risposta alla crisi quando l’aggrava, la banca centrale deve tener bordone, oppure può e anzi deve mandare al mercato e alla politica segnali in controtendenza? Sapete qual è la nostra risposta standard: può e anzi deve. Anzi, la crisi triennale è figlia proprio innanzitutto della politica monetaria lasca seguita dalla FED con Greenspan. Mentre noi crediamo che banche centrali indipendenti, seguendo la Taylor rule, abbiano il dovere di tenere i tassi mediamente più su di quanto piace alla politica. Tra il 2002 e il 2005, la distanza dai tassi bassi di Grrenspan e quanto avrebbe prescritto John Taylor giunse a superare i 400 punti base!   Ma anche limitarsi a chiedere l’applicazione della formula di Taylor è sbagliato. Perché i modelli devono inglobare la realtà che si modifica. E a questo poposito su questo tema è appena uscito un paper molto interessante di Francesco Giavazzi e Alberto Giovannini. Leggerlo attentamente farebbe molto bene, alla FED come alla BCE. Che cosa propongono, Giavazzi e Giovannini? Trovo la loro considerazione di partenza assai condivisibile. I banchieri centrali dopo questi tre anni non devonmo orientare la loro politica monetaria solo tenendo in considerazione inflazione attesa (aggiugno io: un’inflazione calcolata senza gli “alleggerimenti impropri” adottati dalla FED negli anni Greenspan isolando dall’inflazione core quella importata, i prezzi energetici etc, in modo da “far finta” di rispettare la Taylor rule aggirandola nella sostanza) , differenza tra inflazione attesa e inflazione-obiettivo, ed effetti dei tassi sull’output potenziale e cioè inanzitutto sul livello dell’occupazione oltre che in generale delle attività. A questo tre fattori la crisi attuale insegna che occorre aggiungerne almeno un quarto. Poiché una funzionne fondamentale a cui presiedono le banche centrali è assicurare  efficacia ed efficienza del trasferimento di liquidità agli intermediari e dagli intermediari ai prenditori, occorre aggiungere nella valutazione del tasso opttimale l’effetto che esso esercita su tale circuito: in maniera che agli intermediari bancari sia chiaro NON che la liquidità verrà comuqnue garantita dalla banca centrale attraverso politiche eterodosse di sostegno e salvataggio illimitate, bensì che il mercato sconta un premio al rischio di trasformazione della liquidità, per il quale può avvenire che uin circostanze eccezionali la banca centrale sussidi e sostenga la funzione, ma comunque entro certi limiti.

Il punto è stabilire “quali” limiti, e Giavazzi e Giovannini fanno benissimo a sollevare il problema, perché è esattamente la lezione dalla crisi che ancora le banche centrali – sospinte dall’emergenza politica che chiede loro solo di non ostacolare una ripresa indebolita negli USA e da sempre gracile in Europa, Germania esclusa – non mettono a  tema, dopo tre anni. Tre anni in cui, a dire la verità, FED e BCE hanno seguito tecnicamente due sentieri molto diversi, anche se analoghi nei presupposti di estendere i propri interventi ben oltre l’esaurimento della politica monetaria tradizionale quando il tasso ufficiale diventa zero o negativo.

In ogni caso, al di là dei tecnicismi che appassionano gli addetti ai lavoro (ma sono la sostanza), la sintesi è: i banchieri centrali dovrebbero avere più che mai opggi non solo buoni argomenti, ma sopratttuto determinazione e fegato per deludere i politici, e cominciare ad alzare i tassi.

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Bankitalia avverte Usa e Ue: serve meno deficit /2010/08/10/bankitalia-avverte-usa-e-ue-serve-meno-deficit/ /2010/08/10/bankitalia-avverte-usa-e-ue-serve-meno-deficit/#comments Tue, 10 Aug 2010 17:57:30 +0000 Oscar Giannino /?p=6751 Mentre il day by day conferma la decelerazione della crescita americana – il dato di oggi sulla diminuita produttività si aggiunge alle delusioni sull’occupazione - e la Cina ha segnato un allentamento della crescita delle importazioni dai Paesi avanzati e una ripresa dell’export al più 38% su base annua, tornando ad alimentare i timori su una ripresa troppo accentuata sulla sola costa asiatica del Pacifico, quanto possiamo stare sicuri che non si riproponga il problema dei debiti sovrani? La risposta che viene da due giovani e brillanti economisti della Banca d’Italia è di quelle che fanno riflettere. No, non possiamo essere affatto certi che la grana dei debiti sovrani sia alle nostre spalle. Al contrario, l’instabilità finanziaria complessiva resta il segno dominante nel medio periodo, e non c’è bisogno di un vero e proprio default di uno Stato per accenderne la miccia. A scriverlo in una recente ricerca sono Fabio Panetta, capo del Dipartimento addetto alle previsioni economiche e monetarie di Bankitalia, e il suo vice Giuseppe Grande. Si tratta di un aggiornamento del filone che si ispira alla ricerche di Carmen Reinhart, ex capo della ricerca del FMI dopo un passato in Bear Stearns e oggi all’Università del Maryland, e Kenneth Rogoff, oggi ad Harvard alla prestigiosa cattedra Thomas Cabot dopo un passato a Princeton. I due economisti hanno rielaborato le serie storiche dei default sovrani addirittura degli ultimi 800 anni, per focalizzarsi poi sugli ultimi 200. Ma la tesi dei due economisti di Bankitalia è che nelle attuali condizioni serva molto meno di un rischio-nazione alla greca, per gettare lunghe ombre sui mercati.

Secondo le proiezioni più recenti del Fondo monetario, il debito pubblico continuerùà a crescere in maniera molto significativa. Misure di contenimento del deficit sono state varate solo da alcuni Paesi europei e dal Regno Unito. Ma il debito pubblico americano al ritmo attuale supererà il 100% del GDP USA prima del 2015. Quello dell’euroarea sarà allora al 95%. E sopra il 90% sarà anche quello del Regno Unito, pur inglobando le energiche misure correttive intanto annunciate dal governo Cameron-Clegg.

In tali condizioni, il rischio è che la sfiducia dei mercati non si limiti più a un novero ristretto di Paesi come è avvenuto nella crisi europea, concentrata su Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda. Ma che si estenda ai Paesi maggiori: con l’eccezione probabile della Germania. La conseguenza? Un aumento dell’inflazione attesa o della svalutazione delle monete, con ripercussioni inevitabili sui tassi d’interesse. Il consenso degli osservatori è che i bassi tassi d’interesse – che la Fed ha appena confermato necessari nel medio periodo, visto che anzi deve estendere le manovra eterodosse di quantitative easing per sorreggere debito pubblico, debito corporate e corsi azionari – sarebbero messi a rischio da tale scenario. Le serie storiche mostrano che a ogni stabile aumento di 100 punti base pagati al collocamento dal debito pubblico USA quando è in forte aumento tendenziale, corrisponda un aumento dei tassi a lungo termine sul dollaro tra i 300 e i 500 punti base addirittura. L’effetto sui tassi e valute europee è del tutto analogo, anche se in questo caso le serie storiche sono più recenti e dunque meno attendibili.

Tutto ciò potrebbe portare, se le autorità monetarie dovessero persistere in un atteggiamento lasco invece di ritoccare i tassi verso l’alto, a un circolo vizioso tra l’aumento del costo e del livello del debito pubblico, e la pressione aggiuntiva che ciò determinerebbe sul costo dell’ulteriore deficit in formazione: la relazione tra deficit pubblici e yields di mercato diventerebbe non lineare. A ciò si aggiungerebbe inevitabilmente l’effetto di crowding out, cioè di spiazzamento che i titoli sovrani eserciterebbero sull’enorme ammontare di obbligazioni private – di istituzioni finanziarie e imprese – che nello stesso orizzonte temporale attende di essere rinnovato a scadenza. Le grandezze in gioco sono molto rilevanti. Nell’euroarea nel 2011 scadono circa 700 miliardi di corporate bonds di cui i sei settimi non sono di banche, negli USA 610 miliardi di cui un terzo bancari. Nel 2012, l’ammontare sale a 750 miliardi nell’euroarea, e a 635 miliardi negli USA. Solo nel 2013 la tendenza è al ribasso, con 590 miliardi in Eurolandia e 440 negli States.

A fronte di tutto questo, i mercati tendono ancora a non orientarsi. Gli yields pubblici decennali statunitensi sono di poco superiori ai 300 punti base, e di circa 350 nel caso britannico. Troppo poco, rispetto a tutto ciò che è nella pipeline. Sino a questo momento è prevalso sui mercati il volo verso il dollaro come moneta -rifugio comunque, il cosiddetto flight to quality. E contano anche i massicci acquisti di bonds pubblici disposti dalle banche centrali e da molte grandi banche private che danno loro una mano. Ma ci sono alcune conseguenze negative.

Le banche si troveranno ad essere sempre più esposte a un rischio di deterioramento dei titoli pubblici che detengono in portafoglio. Negli USA, per le cinque maggiori banche a fine giugno i titoli pubblici erano pari all’8% del loro total assets e al 94% del loro equity. I titoli pubblci servono inoltre come collaterali in moltissime operazioni repos e di finanziamento delle banche centrali, e il deterioramento dei bonds sovrani impatterebbe queste operazioni fondamentali per la liquidità dei mercari. Ciò comporterebbe nuove tensioni sul costo medio del funding a lungo e poi a breve delle banche stesse. Oltre alla crisi di molte aziende private che non potrebbero rinnovare la loro raccolta obbligazionaria.

Conclusione. Anche l’America deve capire che la via al taglio del deficit è necessaria, e l’Europa deve batterla con ancor più decisione di quanto abbia fatto finora sotto l’impulso tedesco. Non proprio ciò che i politici amano sentirsi dire.

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I sogni di monete globali, il $ e il suo nemico /2010/07/13/i-sogni-di-monete-globali-il-e-il-suo-nemico/ /2010/07/13/i-sogni-di-monete-globali-il-e-il-suo-nemico/#comments Tue, 13 Jul 2010 15:36:41 +0000 Oscar Giannino /?p=6512 Ma quanto conta davvero, il fattore cambio tra le valute delle tre macroaree mondiali, ai fini dell’exit strategy? Se diamo un’occhiata alle tante proposte del post Lehman, c’è da perdere la testa. Mi faccio aiutare da una guida, elaborata in proposito da Kati Suominen del German Marshall Fund a Washington. La conclusione? Il dollaro ha un solo nemico al momento, checché dicano in tanti. Un nemico interno, però. Al G20 di Londra nell’aprile 2009, il governatore centrale della Cina, Zhou Xiaochuan, pose ufficialmente il tema. Il dollarocentrismo non andava più bene. Occorreva una profonda rivisitazione dell’attuale paniere sulla base dei quali sono definiti i Diritti Speciali di Prelievo (SDRs) in sede di FMI. Anche il presidente russo Dmitry Medvedev aggiunse la sua bocciatura al dollaro, invocando però un mix di valute regionali. Statisti ed economisti europei, timidamente, tentarono di sostenere un ruolo crescente dell’euro.

Washington rifiutò. Promise disciplina fiscale per mantenere solido il dollaro. Il governatore della BCE, Jean-Claude Trichet, prudentemente si astenne dalla partita, preferì dichiarare che il dollaro era lungi dall’aver terminato la sua missione. Una prudenza saggia, vista la crisi dell’eurodebito che sarebbe esplosa sui mercati da metà gennaio 2010.

Al G20 di Toronto a fine giugno, le valute sono scomparse dai comunicati finali. Per tre fattori diversi. L’eurocrisi del debito, appunto. La ripresa americana, comunque superiore al 3% anche se con segni di frenata da maggio. Il ritorno del renminmbi alla fluttuazione controllata già vista all’opera dal 2005 al 2008, prima di tornare nella crisi al cambio assolutamente fisso sul dollaro. In effetti, da fine 2009 a oggi la valuta cinese si è apprezzata di ben il 18% sull’euro, assai meno sul dollaro. I cinesi, fidandosi poco dell’euro a seguito della crisi di debiti sovrani del nostro continente, non sono tornati sul dollaro ma hanno ripreso a comprare massicciamente titoli in yen. Non capitava da anni.

Eppure, il tema continua a occupare la riflessione degli economisti.

Nella famosissima conferenza a Bretton Woods che mise le fondamenta di FMI e Banca Mondiale, John Maynard Keynes propose una valuta globale, il bancor, emessa da una International Clearing Union, e fondata sul valore di 30 commodities oro incluso, scambiabili a tassi fissi rispetto alle valute nazionali. I diversi Paesi avrebbero mantenuto conti in bancor presso l’ICU, attingendovi quando fossero incorsi in problemi di bilancia dei pagamenti. Le cose andarono diversamente. Ma ancora nel 1967, prima della tempesta che portò all’inconvertibilità del dollaro, il FMI prevedeva che a fine secolo gli SDRs avvrebbero rappresentato la metà delle riserve mondiali. Il Nobel Bob Mundell, teorico delle aree monetarie ottimali e padre putativo dell’euro, sposò la stessa tesi. Oggi ripresa da Zhou Xiaochuan.

Nel post Lehman diverse altre idee si sono fatte avanti. Fred Bergsten ha proposto la facoltà per i Paesi membri del Fmi di swappare dollari per SDRs, per diminuire l’esposizione sul biglietto verde. Un’apposita commissione ONU guidata da Joe Stiglitz è andata oltre, riprendendo l’idea di chi vorrebbe espandere i SDRs fino al bancor di Keynes. Strauss-Khan ha sostenuto a inizio 2010 che presto o tardi sarà l’FMI, a “stampare” SDRs. Una commissione nominata dal FMI ha invece proposto una vera e propria banca centrale indipendente globale, con un rating a quattro A senza rivali nel pianeta, capace di emettere bonds e altri strumenti finanziari denominati in una vera e propria valuta mondiale.

Lo scopo di tali proposte è comune. Assicurare stabilità ai cambi, benefici per ciascuno sulla base di economie di scala, abbattendo i privilegi impropri che al dollaro vengono dal signoraggio mondiale. Tuttavia, la realtà dista da questi intenti come gli oceani dai lavandini.

Il G20 ha espanso gli SDRs di 250 miliardi di dollari nella crisi. Ciò vale a malapena un 4% scarso delle riserve mondiali. Per superare il $ nelle riserve, ne occorrerebbero circa 4 triliardi in valore di SDRs neomessi. Il Fmi dovrebbe diventare una vera banca centrale mondiale. I nuovi SDRs dovrebbero essere trattati sui mercati e non solo attraverso operazioni di tesoreria tra Paesi membri del Fmi, per esporsi alla concorrenza con assets esistenti. Tutto questo non si vede come potrebbe avvenire, visto l’avverso interesse di Washington e il diritto di veto attribuito in sede FMI agli USA per emettere nuovi SDRs. Persino su una nuova composizione del basket di riferimento per gli SDRs atuali, basata su dollaro, euro, yen e sterlina, non si è riusciti a fare un solo passo avanti, rispetto a chi ha proposto di inserirvi valute come quella di Australia, Cile, Canada e altri detentori di materie prime.

Il fronte dei limitati sostenitori del renminmbi o dell’euro come nuove valute di riserva mondiale destinate a scalzare il dollaro si è raffreddato, dopo i primi entusiasmi post Lehman (pensate solo all’entusiasmo con cui tedeschi e italiani hanno salutato la recente svalutazione dell’euro sul dollaro). C’è infine l’idea di tornare ad avere più valute di riserva in concorrenza, come avveniva nel sistema finanziario mondiale precedente al 1914. E’ effettivamente a mio giudizio un’idea meno balzana di quanto appaia. L’Asia potrebbe avviarsi a una vera e propria unione dei mercati finanziari, fino a sfociare in una comune e molto potente area monetaria. E a quel punto le tre macroaree potrebbero trovare accordi temporalmente variabili di cambio, una sorta di maxi accordi tipo Plaza di anni fa, ma su basi valutarie integrate in ciascuna delle tre maggiori aree del mondo.

Fatto sta che siamo ancora molto lontani, da questi che al momento restano sogni ambiziosi. Dal che si deduce una sola cosa. Che il dollaro non corre alcun rischio, checché si dica, come vero sovrano monetario. Il vero nemico del re-dollaro è solo interno: l’eccesso di debito pubblico acceso da mister Obama. E servià probabilmente – penso io, assumendomi l’impopolarità del vaticinio – un altro presidente, per spegnerlo e tenere il dollaro in salvo.

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