CHICAGO BLOG » Barack Obama http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 19:45:09 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Perché da noi si mistificano i Tea Parties /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/ /2010/11/09/perche-da-noi-si-mistificano-i-tea-parties/#comments Tue, 09 Nov 2010 15:55:32 +0000 Oscar Giannino /?p=7534 Ancora una volta, negli Stati Uniti il pendolo elettorale si è potentemente spostato. E ancora una volta lo ha fatto in una maniera che in Italia e nel più dell’Europa continentale risulta incomprensibile. Ve ne fornisco una modesta riprova.

Ho condotto un’indagine registrando sul mio pc 276 articoli dell’intero spettro della stampa quotidiana nazionale e locale italiana dal manifesto a Libero e comprese 15 testate locali più importanti, articoli dedicati alla presentazione delle elezioni di midterm nella settimana che ha preceduto le consultazioni, e oltre 350 nei tre giorni successivi, a commento del risultato. In queste elezioni la grande novità è rappresentata dalla storia e dalla posizione dei Tea Parties, che hanno invertito la polarità come il Contratto con l’America di Newt Gingrich fu la base del lunghi anni di Congresso repubblicano, da metà mandato di Clinton fino alla rivincita democratica sotto Bush figlio. Ebbene, su un totale di oltre 600 articoli, circa 480 davano conto dei Tea Parties come una rete potentemente sostenuta dalle grandi corporations, pressoché agli ordini o quanto meno astutamente strumentalizzata da Karl Rove – il mago della mobilitazione repubblicana sotto Bush padre e figlio – nonché come un movimento in cui abbondavano pazzi e spostati, razzisti del Sud armati fino ai denti, antiabortisti visionari e ballisti predicatori di castità come Christine O’Donnel, che ha finito per perdere disastrosamente in Delaware. Dettagliate e più corrette – a mio giudizio, naturalmente, non ho alcuna pretesa di parlare a nome di presunte “verità” – ricostruzioni dei Tea Parties come movimento che nasce si diffonde localmente, come protesta spontanea dal basso innanzitutto contro le politiche stataliste e salvabanche seguite da Bush figlio ben prima ancora che Obama vincesse le elezioni, prima del voto sono state offerte ai lettori italiani a malapena in una cinquantina di articoli, meno cioè del 10%.

Solo all’indomani del voto, la percentuale di analisi meno estreme dedicate ai Tea Parties si è leggermente equilibrata, soprattutto grazie a vittorie di personaggi di spicco come Marc Rubio in Florida, comunque descritto come politico di lungo corso abile nel cavalcare la protesta ma estraneo alla vera natura del movimento. Gli accenti già mutavano quando si passava alla descrizione di Rand Paul, il giovane oftalmologo vittorioso grazie soprattutto al fatto di essere figlio di Ron Paul, figura di riferimento dell’elettorato libertario pronto anche a candidarsi come indipendente nella gara per le ultime presidenziali, con proposte che in Europa lo fanno passare come matto quali l’abolizione della FED e il ritorno in sua vece al regime del gold standard. Tra parentesi, nella nuova Camera dei Rappresentanti a nettissima maggioranza repubblicana è proprio Ron Paul, il candidato senior repubblicano numero uno alla carica di presidente del sottocomitato alla politica monetaria che è l’interfaccia parlamentare al quale la FED di Bernanke risponde direttamente, visto che nell’ordinamento americano l’autonomia e l’indipendenza del regolatore monetario non lo sottrae a uno stretto regime di audizioni parlamentari, nelle quali i congressmen passano al setaccio le decisioni e gli orientamenti della banca centrale.

Commentando il voto nel mio appuntamento quotidiano con gli ascoltatori di Radio24, ho chiesto esplicitamente al direttore della Stampa, Mario Calabresi, che sul suo giornale insieme al Foglio di Giuliano Ferrara a mio personalissimo giudizio ha dato le informazioni più estese e corrette sui Tea Parties, se non pesasse un pregiudizio tutto italiano e per molti versi europeo, nel leggere i fenomeni spontanei della società americana attraverso lenti deformanti e spesso addirittura caricaturali. Mi ha risposto di sì, che anche nella sua esperienza di corrispondente dagli USA aveva spesso toccato con mano che questo pregiudizio c’è eccome.

Non è questione di malafede, o di voler artatamente leggere la politica americana con l’occhio italiano ed europeo, che è abituato a considerare i partiti politici come unici veri attori della politica e, di solito, con una forza o un polo a maggioranza moderato-cristiano alla quale si oppone un grande partito o un’alleanza progressista-socialista. Un doppio binario che negli States è fuorviante: perché lì la mobilitazione dal basso indipendentemente dai partiti è costitutiva dell’idea stessa dell’Unione, il socialismo non c’è mai stato, e l’impronta religiosa e cristiana vive e influenza pesantemente entrambe le basi e le dirigenze sia democratiche sia repubblicane, con accenti diversi ma a volte assolutamente trasversali su temi come l’aborto, la bioetica e la ricerca sulle cellule staminali.

C’è qualcosa di più profondo ancora del vizio politologico. E’ un difetto culturale, quello che tanto spesso ci impedisce di capire l’America profonda. Perché siamo pronti a comprendere l’America liberal, quella delle élite accademiche, mediatiche e e degli affari della costa orientale come californiana che da sempre costituiscono il bastione del pensiero progressista americano, favorevole all’intervento pubblico e alle politiche redistribuzioniste, alla forte impronta statalista nella sanità come nel campo ambientale. Sono quelle èlite, sommate a un forte scontento per la guerra in Iraq e in Afghanistan, che nel 2008 si mobilitarono per una riuscitissima campagna dal basso e di raccolta fondi online che risultò decisiva per la vittoria del primo presidente nero contro l’accoppiata McCain-Palin. Una vittoria della quale il primo fattore era l’elevata partecipazione al voto, perché tradizionalmente più si alza l’afflusso alle urne dei ceti a basso reddito, migliori diventano le chances dei democratici.

Ma come siamo tradizionalmente propensi ad avvertire l’impegno delle èlite progressiste americane come qualcosa di familiare a quanto avviene nella politica europea, restiamo invece diffidenti e incapaci di capire una mobilitazione dal basso che non passa affatto dalle élite e che anzi le contesta apertamente, a cominciare dal campo conservatore e da quelle del partito repubblicano. E’ esattamente questo il segno originale dei Tea Parties, che in tutti i sondaggi di cui i lettori italiani hanno letto poco o nulla hanno visto impegnati in maniera crescente elettori che si dichiaravano indipendenti fino a percentuali del 40%, meno lontani dai repubblicani ma comunque per un 16-17% dei casi dichiaratamente ex elettori democratici e non solo alle presidenziali per Obama, ma tradizionalmente al Congresso o per governatori dello Stato.

Che cos’è, allora, a impedirci di capire l’anelito libertario prima che liberista che viene espresso questa volta dai Tea Parties, ma che è una componente permanente e ricorrente dell’impegno civile americano fuori dai partiti e dalla lobbies, siano delle grandi banche che da decenni si sono “comprate” il regolatore USA odelle grande compagnie di ogni genere e settore, dal petrolio agli armamenti, dall’auto a Internet? Essenzialmente tre cose, tre valori, tre princìpi che sono fondanti per decine di milioni di americani nella loro vita quotidiana, prima ancora di ogni giudizio politico sull’amministrazione temporaneamente in carica. I tre princìpi riguardano la proprietà, la libertà e l’eguaglianza. Per moltissimi americani, queste tre parole hanno e manterranno un significato profondamente diverso da come suonano ormai a noi italiani ed europei.

Per noi, la libertà non è più minacciata da alcuna tirannide, e la proprietà privata costituisce non più un bene da affermare come diritto naturale pre esistente a qualuqnue pretesa dell’ordinamento positivo, dello Srato e della politica. La proprietà privata ormai da tempo, nel nostro Paese e nella generalità dell’Europa continentale e scandinava, è anzi un limite sempre più pesante al perseguimento dell’eguaglianza. Per milioni di americani al contrario, anche tra coloro a bassissimo reddito e con le qualifiche più basse nel mondo del lavoro – ce n’è un’infinità nei Tea Parties, non sono ricchi avvocati o rancheros texani – la libertà è per sua stessa natura non egualitaria, perché gli esseri umani differiscono tra loro per forza, intelligenza, ambizione, coraggio e per tutti i più essenziali ingredienti che contribuiscono al successo. Come ha scritto Richard Pipes nel suo bellissimo “Proprietà e libertà”, le pari opportunità e l’eguaglianza di fronte alla legge – nel senso enunciato da Mosè nel Levitico 24,22, “ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per il cittadino del Paese, poiché io sono il Signore vostro Dio” – sono non solo compatibili con la libertà, ma essenziali per la sua sopravvivenza. Ma la parità dei compensi e degli averi – tanto cara a noi – invece non lo è. Anzi essa è del tutto innaturale e pertanto raggiungibile solo attraverso la coercizione. E non c’è coercizione buona quando essa è esercitata in mille modi dagli incentivi e disincentivi pubblici o dalla fiscalità progressiva esercitata dallo Stato, perché al contrario tale coercizione stabilita e perseguita da chi esercita il potere per mandato elettorale risulta ancor più dispotica e inaccettabile di quella esercitata con la forza da un tiranno.

Per quei milioni di americani che si sono mobilitati nei Tea Parties gridando basta all’eccesso di debito pubblico acceso da Obama, ancora insufficiente per i liberals come Paul Krugman e potentemente monetizzato dalla ossequiente FED di Bernanke, l’uguaglianza redistributrice è subdola e inaccettabile perché alzerà ulteriormente le tasse, intaccherà ancor più gravemente le libertà naturali dell’individuo, attribuirà alle persone incaricate di garantirla una serie di privilegi che li innalzeranno ancor più al di sopra del popolo.

Un intero filone della storia americana continua a considerare l’eguaglianza come primo e vero nemico della libertà. E diffida dello Stato e del suo welfare invasivo. Per quegli americani, i diritti economici di libertà indidividuale – cioè la proprietà, e questo spiega anche il diritto a portare armi – resteranno sempre più forti dei diritti civili a un equo trattamento stabilito dall’alto. Per loro, la proprietà privata è l’essenza stessa della diseguaglianza, e al tempo stesso procurarsi una proprietà col successo personale è la più importante delle libertà.

L’Europa, dopo il crac della finanza ad alta leva che spingeva milioni di americani a procurarsi proprietà attraverso l’eccesso di debito, ha pensato che fosse venuto il momento di una vittoria epocale. Finalmente l’anelito proprietario e libertario americano era spezzato per sempre. Lo Stato e le sue politiche redistribuzioniste erano l’unica risposta, l’unica via alla civiltà che tempera l’individuo nel nome degli interessi generali. Che sciocca illusione roussoiana, questa europea. I Tea Parties ci dicono il contrario. L’America profonda sa che crescerà più e meglio di noi con meno Stato o senza Stato tra i piedi. Come è sempre stato. Per questo, del resto, negli USA per ogni cittadino che vive solo del proprio ce n’è non più di 0,6 che percepiscono un qualche reddito integrato o corrisposto dal settore pubblico, mentre in Europa la percentuale è più che doppia da noi, tripla in Francia e quadrupla in Svezia. NOI Siamo figli dell’idealismo organicista, in chiave solidarista cristiana o socialista. La maggioranza degli americani ne resta immune. Quando lo capiremo sarà sempre troppo tardi per noi. Perché, oltre a crescere meno, per questo errore culturale avremo anche subìto più del giusto gli effetti di un’egemonia americana che, nel mondo nuovo, è soggetta sì a potenti ridimensionamenti. Ma portati dalla Cina, non dalla vecchia Europa appesantita dalle sue illusioni.

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Un tè con Oscar. Liveblogging /2010/11/08/un-te-con-oscar-liveblogging-2/ /2010/11/08/un-te-con-oscar-liveblogging-2/#comments Mon, 08 Nov 2010 16:41:55 +0000 Alessia Cimmarrusti /?p=7504 Le elezioni di “mid term” negli Stati Uniti sembrano destinate a segnare il percorso della Presidenza di Barack Obama e da più parti si cerca di valutare quale possa essere l’impatto del movimento dei “Tea Party”: la rivolta “grass-roots” dell’America “profonda”, ricca di contraddizioni, ma in linea di massima di spirito libertario e antistatalista.

A conta ultimata, “Chicago-blog” ha organizzato un evento speciale su “Dopo le elezioni di Mid-Term. Quanto pesano i Tea Party? Parlano i protagonisti”, con Oscar Giannino (Direttore, Chicago-blog), C. Boyden Gray (già Ambasciatore americano presso l’Unione Europea), Matt Kibbe (Presidente, FreedomWorks). Coordina: Alberto Mingardi (Direttore Generale, Istituto Bruno Leoni).

Per l’occasione seguiremo il confronto in tempo reale. Dal “Caffè degli Atellani” di via della Moscova, 28 a Milano liveblogging dell’evento.

18.51. Il fenomeno Tea Party in Italia? Per Giannino non è importabile. Nella nostra storia manca la profondità del pensiero liberale. Nel nostro paese il diritto alla proprietà è ancora un ostacolo all’eguaglianza.

18.48. Si spiega così, quindi, come i tea parties nel nostro immaginario diventino una mera reazione ad Obama (prima balla) e il popolo degli stessi un manipolo di individui dalle caratteristiche antropologiche curiose (seconda balla).

18.45. Il fenomeno Tea Party difficile da comprendere in Italia dove è  raro che un movimento parta dal basso.

18.41. Seicento gli articoli scritti prima e dopo il voto del mid-term. Solo il 10% ha superato il “test della qualità”. Le testate italiane più attendibili: La Stampa e Il Foglio.

18.35. Possibile movimento Tea Party in Italia? Cosa la stampa ha riferito sul movimeto americano e come? …Le “balle” più diffuse. Questi i punti dell’intervento di Oscar Giannino.

18.32. Termina l’intervento di Boyden Gray. Giannino impugna il microfono.

18.30. …che torna sul punto di forza dei Tea Parties: il potere dell’individuo. “Not big government, not big business, only individual power!”.

18.20. La parola passa a Boyden Gray

18.18. Termina l’intervento Matt Kibbe. Arriva Oscar Giannino.

18.13. “Look at the contract!”... “Contract from America”, s’intende. L’ “opa dei Tea Party” sul partito repubblicano.

18.06. Ancora Matt Kibbe sul senso intrinseco al movimento: mobilitare l’elettorato, creare un modo nuovo di fare politica, aggregare il consenso.

18.02. Quali sono le motivazioni che spingono a fare parte del movimento Tea Party? …La parola a Matt Kibbe.

17.54. Mingardi introduce l’incontro e i relatori: C.Boyden Gray, Ambasciatore americano presso l’Unione Europea e Matt Kibbe, presidente di Freedomworks. Due attori principali del movimento dei Tea Party che si fa interprete dello sbigottimento cittadini americani per alcune soluzioni indigeste di Obama.  Raccoglie chi dice No all’aumento della spesa pubblica.

17.52. Gli ospiti si accomodano. Mingardi giustifica il ritardo: “…Minuti utili a spiegare agli ospiti stranieri come funziona l’Italia!”

17:45. La sala è già gremita. In attesa di Oscar Giannino, lasciamo i filtri a riposo per una concentrazione ottimale…

17:30. É l’ora del tè… Un tè con Oscar! Caldi i teapots, fervente l’attesa per l’incontro…

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Fiat: Marchionne, Fini e l’auto di Stato /2010/10/25/fiat-marchionne-fini-e-l%e2%80%99auto-di-stato/ /2010/10/25/fiat-marchionne-fini-e-l%e2%80%99auto-di-stato/#comments Mon, 25 Oct 2010 14:42:18 +0000 Andrea Giuricin /?p=7367 Le parole del Presidente della Camera Gianfranco Fini verso Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat sono molto forti: “si è dimostrato più canadese che italiano”. Senza dubbio è solo un vantaggio. Ci voleva il canadese Marchionne per cambiare le relazioni sindacali in Italia. Vogliamo davvero che si continui ad avere una Fiat che sopravvive grazie ai soldi dei contribuenti? Né Fini né Marchionne lo desiderano. In realtà le affermazioni del presidente della Camera devono essere prese più come uno slogan elettorale e meno come un attacco a Fiat e al suo amministratore delegato; meglio dunque discutere del modello produttivo italiano, del suo fallimento e degli esempi da seguire o non seguire. E su questo ultimo punto vi è un’analisi di Massimo Mucchetti, che nel suo editoriale del Corriere della Sera sostiene che l’America non ha più nulla da insegnarci nel settore auto motive.

Ma è davvero cosi? Esiste una sola America dell’auto, vale a dire quella salvata da Barack Obama grazie ai miliardi di sussidi pubblici e simile all’Italia anni ‘90?

L’America di cui parla Mucchetti nel suo intervento non è un esempio da seguire. Questo è certo. Salvare l’industria dell’auto di Detroit è stato uno dei maggiori errori dell’Amministrazione Democratica americana e l’unico perdente è stato il contribuente americano.

Sergio Marchionne è stato capace di entrare nel capitale di Chrysler senza sborsare un euro. Fiat possiede giá il 20 per cento delle azioni dell’ex gigante di Detroit e potrá salire al 51 per cento per “soli” pochi miliardi di dollari. Un’operazione politica, perché di questo stiamo parlando, perfetta.

Ha dunque ragione l’editorialista del Corriere della Sera?

L’America, per fortuna, non si ferma a Detroit. Esiste un’altra America, più dinamica, che ha capito da che parte girava il vento dell’auto.

Sono gli Stati del Sud, che sempre hanno avuto uno sviluppo economico inferiore rispetto al Nord e agli Stati della Costa Atlantica. Sorprenderà, ma i grandi Stati produttori di veicoli oggi si chiamano Ohio, Kentucky, Alabama. Qui vi è stata ormai da circa due decenni una rivoluzione silenziosa, che ha saputo riformare il settore dell’auto statunitense. Quattro milioni di veicoli prodotti nel momento di picco, grazie all’arrivo di investitori stranieri e non ai soldi dei contribuenti pubblici. Una sana concorrenza tra gli Stati, che il Governo Obama ha pensato di falsare grazie al salvataggio pubblico di due delle “big three”.

Nel vecchio polo automobilistico di Detroit, le posizioni sindacali e l’incapacità di cambiare di un intero “distretto” hanno portato al fallimento di GM e di Chrysler.

La soluzione adottata da Barack Obama è stata quella di iniettare decine di miliardi di dollari per tenere in piedi un sistema ormai vecchio. Questi miliardi hanno portato ad avere una Chrysler che ancora adesso, è a maggioranza azionaria dei sindacati (gli stessi che hanno portato al fallimento) e il Governo Americano.

Il costo del lavoro negli Stati del Sud degli USA nel settore auto, che producono ormai quasi il 40 per cento delle auto americane, grazie agli investimenti diretti esteri delle case automobilistiche europee, giapponesi e coreane, è inferiore di oltre il 40 per cento rispetto al distretto di Detroit.

Si parla di un settore che genera oltre 81 mila posti di lavoro diretti e oltre mezzo milione di posti di lavoro indiretti.

La concorrenza nel sapere attrarre gli investimenti è essenziale e questo l’Italia non l’ha capito, nonostante gli avvertimenti di Marchionne.

Avere una parte del sindacato che vuole bloccare Fiat, perché l’azienda porta un investimento di centinaia di milioni di euro in Italia (caso Pomigliano d’Arco) in cambio di maggiore produttività, mostra come l’Italia sia destinata a fare ulteriori passi indietro nelle classifiche di competitività citate ieri da Sergio Marchionne nella trasmissione televisiva condotta da Fabio Fazio.

L’America ha ancora tante cose da insegnare all’Italia nel settore dell’auto. L’esempio però arriva da quegli Stati del Sud degli USA che hanno saputo attrarre investimenti esteri e non arriva certo dal modello di “fabbrica di Stato” che è stato alla base della politica di Obama negli ultimi due anni.

“L’auto di Stato” non è il modello americano, è il modello Obama. L’unica certezza è che l’Italia, che per troppi anni ha sussidiato Fiat, con Marchionne ha l’opportunità di voltare pagina.

Saranno capaci i politici e i sindacati a comprendere la svolta?

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Il mattone di Stato porta a fondo /2010/08/24/il-mattone-di-stato-porta-a-fondo/ /2010/08/24/il-mattone-di-stato-porta-a-fondo/#comments Tue, 24 Aug 2010 19:35:58 +0000 Oscar Giannino /?p=6844 Il mercato americano si attendeva oggi  una vendita mensile di nuove abitazioni pari a 4,6 milioni, e invece quelle davvero avvenute sono state inferiori del 20%, fermandosi a 3,8 milioni. E’ il dato più basso da maggio 1995, una nuova doccia gelata che sposta gli indicatori della crisi immobiliare americana a 12 anni prima dell’inizio della crisi. La notizia ha portato al ribasso i listini europei, oltre a quelli statunitensi, ma mai come questa volta è l’America, il problema. Un’America che sta vedendo il mito di Obama, almeno in economia, squagliarsi come neve al sole.

Eppure la crisi era nata proprio dal sogno americano – sbagliato – di sostenere oltremisura gli acquisti di case da parte di chi aveva pochi dollari ed era già molto indebitato, oltre il proprio reddito disponibile. Tassi d’interesse troppo bassi e disinvolte tecniche finanziarie di ripiazzamento dei mutui a bassa sostenibilità hanno regalato al mondo intero la più grave crisi del dopoguerra. Senonché, a distanza di tre anni, l’America non ha ancora imparato la lezione.

A differenza che da noi, i massicci acquisti di case avvenivano con la garanzia di giganti parapubblici, Freddie Mac e Fannie Mae. A differenza che da noi, l’errore della loro maxi esposizione è stato curato con un nuovo salvataggio ancora pubblico, garantendo l’equivalente di 6 trilioni di dollari, l’equivalente del 50% dell’intero Pil nordamericano . Si è detto per tre anni che la mano pubblica era necessaria per garantire che il prezzo delle case americane non cadesse troppo, e che dunque milioni di altri mutui ancora non rescissi dai contraenti continuassero ad essere garantiti da un valore adeguato dell’immobile sui quali erano stati contratti. Ma il mercato non ha creduto alla prima garanzia pubblica, e non crede nemmeno a quest’ultima. La presenza dilagante della mano pubblica fa solo pensare a tutti che le cose andranno di male in peggio, e dunque tra i privati nessuno se la sente ancora di rischiare, facendo ripartire il mattone.

Aggiungete a questo che l’economia privata americana non crede più alla crescita per effetto del debito aggiuntivo per un altro trilione di dollari votato dall’amministrazione Obama a sostegno dell’economia. Esauriti gli effetti delle assunzioni pubbliche aggiuntive, che avevano spinto la ripresa USA oltre il 3% annuo, i profitti delle società quotate americane nel secondo trimestre sono andati meglio delle aspettative, ma si devono ancor a tagli dei costi e a licenziamenti, non alla ripresa di ordini. Per questo il ritmo della crescita americana è in caduta, verso il 2% annuo, probabilmente anzi già al di sotto, se anche il terzo trimestre si chiuderà com’è cominciato..

La lezione è che a crescere di più nel mondo avanzato – la Cina e l’India e il Brasile sono un mondo a parte – sono i Paesi in cui si è tagliato di più il deficit pubblico, come Germania e Regno Unito, non quelli come l’America che continuano a seguire la ricetta deficista keynesiana, si tratti del debito pubblico o dell’invadente e distorcente presenza dello Stato nell’immobiliare. Nei mercati globali, alla vecchia ricetta di ispessire il ruolo e l’intervento pubblico nelle crisi, gli attori privati dell’economia reagiscono dopo un po’ iniziando a far di conto su quante tasse aggiuntive costerà la nuova massa di debito pubblico aggiunta dalla politica a quella precedente.

Il paradosso è che tutto ciò avvenga in America, cioè in un Paese che siamo da sempre abituati a considerare come a bassa presenza pubblica nel mercato. E che la lezione non venga capita malgrado che la crisi sia nata lì, e di lì si sia diffusa in altri parti del mondo, che per carità avevano anch’esse le loro colpe e i loro squilibri.

All’immobiliare di Stato e all’eccesso di deficit pubblico si somma infine un ruolo della FED e della politica monetaria anch’esso al traino della prevalenza pubblica, e anch’esso attualmente sempre più alle corde. La FED aveva iniziato a limitare i suoi acquisti di titoli pubblici e privati sui mercati, la modalità d’intervento a cui era ricorsa per sostenere il debito federale e per tirare su le Borse. Ma Obama e le sue politiche in sempre maggiori difficoltà hanno costretto la FED a tornare indietro, e a riprendere gli acquisti. Il mercato però, a differenza di prima, interpreta questa marcia indietro come un segno di debolezza della FED verso la politica e come un segno di disperazione della politica stessa. I mercati dunque vanno giù. E i rendimenti dei titoli pubblici USA vanno ancora più giù, mostrando che il mercato ricrede alla minaccia della deflazione.

Ecco spiegata la giornata di ieri. Che colpisce anche i mercati europei perché il dollaro è la moneta mondiale. Ma noi per fortuna non abbiamo lo Stato nel mattone, abbiamo fatto meno deficit pubblico di tanti altri, e mi auguro che presto avremo una BCE che con tassi adeguati spinga la politica a essere ancora più virtuosa.

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Perché Obama perde consenso /2010/08/19/perche-obama-perde-consenso/ /2010/08/19/perche-obama-perde-consenso/#comments Thu, 19 Aug 2010 14:22:18 +0000 Oscar Giannino /?p=6832 Anche oggi deludente il dato di giornata sull’economia USA, con i nuovi sussidi di disoccupazione che ci si aspettava scendessero a 476mila, mentre sono saliti a 500mila. Dopo lo scivolone ancor più verso il basso  nei sondaggi di popolarità a seguito della difesa a spada tratta della moschea a Ground Zero, e il rischio molto oncreto che il presidente scenda ormai verso quota 30 per cento dopo aver resistito sopra 40 (partiva da quasi il 70), la presidenza appare in affanno, anticipa di settimane l’uscita ufficiale dell’ultima brigata americana impegnata in ordine di combattimento in Iraq invece che apuro sostegno di militari e polizia nazionali. Non è un caso, he l’Iran n approfitti e con la benedizione russa dal 21 agosto, dopodomani, avvii ufficialmente il reattore atomico di Bhusher.  Il mondo non mi pare per niente più sicuro con questa presidenza Obama, che dalla Corea del Nord all’Iran ai Taleban ha fatto rialzare il capo a tutte le  forze più dissenatamente violente e rresponsabili della scena internaziomale. Ma la chiave vera della discesa nei sondaggi,  che ruischia di essere ininterrotta fino alle elezioni di Midterm, è l’economia.   Vale la pena di considerare qualche numero, di quelli che non si trovano sui giornali. Qui trovate le cifre ufficiali dei fallimenti personali, possibili com’è noto nell’ordinamento statunitense (un istituto tral’altro che sarebbe saggio importare, visto che consente punti a capo nell finanze personali senza passare per il calvario dei protesti e dell’espulsione dal consorzio civile di ogni titolo di pagamento come invce capita da noi): nell’anno chiusosi al 30 giugno, i fallimenti personali sono stati 1,57 miliomni, con un aumento del 20% netto sull’anno precedente. Il ritmo sta ulteriormente salendo, visto che nel secondo trimestre 2010 i fallimenti sono saliti a 422mila , con un aumento del 9% sul trimestre precedente e del’11%  sull’anno precedente. California, Florida, Ohio, Georgia e Ilinois sono gli Stati messi peggio. E’ la prima volta che in un trimestre si supera la quota 400mila da quando, 5 anni fa, sono cambiate le norme fderaòi, rendendo meno facile rispetto a prima l’ammissioe al fallimento. E’ una misura di come al momento si resti ancora lontani dal turning point degli effetti della crisi sulle finanze delle famiglie.

Quanto allo stato della finanza pubblica, i più interessati possono approfondire qui le più recenti proiezioni del Congressional Budget Office. Segnalo che l’ipotesi peggiore è che il debito publio si alzi fino al 500% del GDP entro il 2050-60, e che la spesa pubblica federale passi dall’attuale già record livello del 23% GDP a ben oltre il 50%.  Qui trovate invece tabelle e commenti del “nostro” John Taylor in cui si compara lo scenario CBO con quello proposto invece dal congressman repubblicano Paul Ryan: il debito pubblico resta ben sotto il 100% del GDP, con una spesa che in proiezione scende sotto il 20% del GDP e tagli alle tasse. Inutile dire nche la forbice tra i due scemnari, in termini di deficit, debito e tasse, è letteralmente spaventevole: ed è questa attesa di tasse inevitabilmente bibliche, che l’economia americana tende a iniziare a incorporare nel suo atteggiamento concreto. E’ per questo che l’economia frena, dopo l’effetto effimero dei maggiori assunti nel settore pubblico tutti gli altri iniziano a fare i conti di quanto tutto questo costerà negli anni a venire.  Qui trovate un’ottima grafica sugli effetti per diverso decile di reddito dei contribuenti USA del ripristino indicato da Obama a fine 2010 dei tagli alle tasse voluti da Bush: sono 3 mila miliardi di dollari di maggior gettito per l’affamta Belva pubblica, tanto per greadire l’antipasto.

Dice Larry Kotlikoff che gli USA sono già al fallimento,anche se non fa fino ammetterlo. Leggete bene, Larry insegna a Boston e non è un pazzo, perché troverete conferma che se si adotta uno schma di sostenibilità intertemporale a tempo infinito degli attuali entitlements pubblici sanitario-previdenziali, il debito pubblico USA è di 202 trillioni di dollari cioè 15 volte superiore a quello ufficiale. Ed è di fronte a questi numeri, che Obama vuole fare ancora più deficit e più tasse. Vi stupite ancora, che la ripresa americana sia in picchiata?

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Gli USA e noi, ancora più deficit e tasse? /2010/08/03/glu-usa-e-noi-ancora-piu-deficit-e-tasse/ /2010/08/03/glu-usa-e-noi-ancora-piu-deficit-e-tasse/#comments Tue, 03 Aug 2010 16:42:37 +0000 Oscar Giannino /?p=6703 Negli Stati Uniti è partito il grande dibattito (vedi l‘impostazione che ne dà Morgan Stanley)  intorno a se confermare i tagli alle tasse introdotti da Bush e che il Congresso approvò solo “a tempo”, con scadenza al dicembre 2010. E il dibattito si innesta su richieste sempre più corpose di una nuova manovra di finanza pubblica con massiccio debito aggiuntivo, per sostenere l’economia. Non è un confronto che riguarda solo gli USA, ma l’exit strategy mondiale dalla crisi. La scelta americana su fisco e spesa pubblica avrà effetti complessivi. Perché a sua volta si innesta su una ripresa mondiale che nel secondo trimestre 2010 ha cambiato passo rispetto al primo, rivelatosi insostenibile. Tanto è vero che l’indice PMI degli ordini esteri globali è in frenata nella seconda metà 2010 rispetto alla prima, a luglio la previsione era su 54,4 (oltre quota 50 significa espansione) rispetto al 58,1 del primo semestre. E’ l’effetto combinato dell’atterraggio morbido della Cina, e dell’esaurimento progressivo dell’effetto aiuti pubblici negli USA. Il primo fattore merita un voto positivo. Il secondo, no.

La Cina ha visto la crescita del suo Pil nel secondo trimestre 2010 decelerare al più 1,9% rispetto al più 2,3% del primo, col che il tasso di crescita annuo è sceso dal più 11,9% a un pur sempre rispettabilissimo più 10,3%. Il freno segue alle politiche restrittive attuate per evitare il surriscaldamento del tono generale dell’economia e del credito, nonché per impedire che l’inflazione salga stabilmente sopra la soglia del 3% (era al 2,9% in giugno). L’indice Pmi manifatturiero cinese si tiene in area espansiva ma in giugno scende a 52,1 da 53,9, e nel mese la produzione industriale cresce sull’anno di un più 13,7% rispetto al precedente più 16,5%. Analogo il tono della crescita dell’export, che sull’anno in giugno sale di uno spettacolare più 43,9%, ma in attenuazione sul più 48,5% di maggio. Vedremo nei prossimi mesi quale sarà l’effetto che sulla domanda interna – e sull’export dei Paesi Ocse verso la Cina – sarà determinato dalle massicce politiche di aumento salariale in atto in Cina, dal più 10% al più 20% in termini annuali reali a seconda delle diverse aree e settori.

Quanto agli Usa, dopo un ultimo trimestre 2009 che vedeva la crescita del Gdp annuale quasi più vicina al 6 che al 5%, e dopo un primo trimestre 2010 più vicino al 4% che al 3, ecco che la prima stima del secondo trimestre è scesa ancora, ed è più vicina al 2% che al 3%. Per chi viene dalla “nostra” scuola di Chicago, è l’effetto fin troppo prevedibile della sopravvalutazione dei moltiplicatori keynesiani della spesa pubblica effettuata dall’amministrazione Obama con il grande deficit pubblico 2009 per sostenere l’economia. Nel breve l’effetto sembra portentoso, ma dopo tre-quattro trimestri ecco che l’effetto traino del deficit pubblico si rivela per quel che è: assai meno stabile e – soprattutto – sano di tagli duraturi alle tasse comprimendo la spesa, poiché gli attori del mercato iniziano a scontare l’aumento futuro delle tasse in cui inevitabilmente si tradurrà il deficit odierno. Nel marzo-aprile 2009, mentre l’amministrazione Obama si imbarcava nei maxi deficit pubbici a sostegno dell’economia, Harald Uhlig – economista tedesco che insegna a Chicago – aggiornava alla condizione degli USA di allora il suo noto studio sui più benefici effetti di aumento dell’output potenziale che vengono da tagli fiscali duraturi, rispetto alla spesa pubblica in deficit, mettendo in questione inoltre la riservatezza del modello econometrico DSGE seguito dalla FED, che improvvisamente asseverava moltplicatori keynesiani largamente superiori all’unità predicati dai consiglieri economici di Obama. Consiglio veramente a tutti di leggerlo, è molto istruttivo e pianamente affronta i punti salienti – verifiche alla mano – di ciò di cui siamo convionti noi portatori di questa visione.

Ma la via “offertista” alla ripresa è rimasta inascoltata in America. Tanto che oggi non solo il solito Paul Krugman, ma anche osservatori come Bob Shiller scrivono che in queste condizioni tanto vale fare come Roosevelt, e assumere un milione di americani a 30 mila dollari l’anno per 30 miliardi di deficit aggiuntivo, allo scopo di piantare alberi ai lati delle strade. La stessa Goldman Sachs invoca una nuova manovra in deficit nei suoi report macro riferiti agli USA.

Analogamente, Fareed Zakaria e tutta l’intellettualità liberal che in Europa fa sognare le sinistre ha preso a occupare le colonne del New York Times e del Washington Post invocando l’abrogazione integrale dei tagli fiscali bushiani, sostenendo che ne verrebbero oltre 100 miliardi di dollari di entrate aggiuntive da destinare alla spesa. Dimenticando puntualmente di ricordare che da questa decisione discenderebbe un’ulteriore decelerazione della crescita americana, da uno 0,5 a uno 0,7% di Pil in meno. Vedremo. Se fossi un cittadino americano sarei in piazza a protestare con chi anima il movimento dei tea parties, ma in novembre si avvicinano le elezioni del midterm e non c’è da contare sul fatto che l’Amministrazione non spenda altri dollari del contribuente, pur di non far scendere troppo la crescita. Nel breve, perché il medio-lungo è problema che per definizione i politici rimandano al dopo. In Europa, che ha intrapreso obbligatoriamente ma stentatamente la via del taglio al deficit, la politica tax and spend degli USA rischia di produrre pessimi effetti politici.

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I sogni di monete globali, il $ e il suo nemico /2010/07/13/i-sogni-di-monete-globali-il-e-il-suo-nemico/ /2010/07/13/i-sogni-di-monete-globali-il-e-il-suo-nemico/#comments Tue, 13 Jul 2010 15:36:41 +0000 Oscar Giannino /?p=6512 Ma quanto conta davvero, il fattore cambio tra le valute delle tre macroaree mondiali, ai fini dell’exit strategy? Se diamo un’occhiata alle tante proposte del post Lehman, c’è da perdere la testa. Mi faccio aiutare da una guida, elaborata in proposito da Kati Suominen del German Marshall Fund a Washington. La conclusione? Il dollaro ha un solo nemico al momento, checché dicano in tanti. Un nemico interno, però. Al G20 di Londra nell’aprile 2009, il governatore centrale della Cina, Zhou Xiaochuan, pose ufficialmente il tema. Il dollarocentrismo non andava più bene. Occorreva una profonda rivisitazione dell’attuale paniere sulla base dei quali sono definiti i Diritti Speciali di Prelievo (SDRs) in sede di FMI. Anche il presidente russo Dmitry Medvedev aggiunse la sua bocciatura al dollaro, invocando però un mix di valute regionali. Statisti ed economisti europei, timidamente, tentarono di sostenere un ruolo crescente dell’euro.

Washington rifiutò. Promise disciplina fiscale per mantenere solido il dollaro. Il governatore della BCE, Jean-Claude Trichet, prudentemente si astenne dalla partita, preferì dichiarare che il dollaro era lungi dall’aver terminato la sua missione. Una prudenza saggia, vista la crisi dell’eurodebito che sarebbe esplosa sui mercati da metà gennaio 2010.

Al G20 di Toronto a fine giugno, le valute sono scomparse dai comunicati finali. Per tre fattori diversi. L’eurocrisi del debito, appunto. La ripresa americana, comunque superiore al 3% anche se con segni di frenata da maggio. Il ritorno del renminmbi alla fluttuazione controllata già vista all’opera dal 2005 al 2008, prima di tornare nella crisi al cambio assolutamente fisso sul dollaro. In effetti, da fine 2009 a oggi la valuta cinese si è apprezzata di ben il 18% sull’euro, assai meno sul dollaro. I cinesi, fidandosi poco dell’euro a seguito della crisi di debiti sovrani del nostro continente, non sono tornati sul dollaro ma hanno ripreso a comprare massicciamente titoli in yen. Non capitava da anni.

Eppure, il tema continua a occupare la riflessione degli economisti.

Nella famosissima conferenza a Bretton Woods che mise le fondamenta di FMI e Banca Mondiale, John Maynard Keynes propose una valuta globale, il bancor, emessa da una International Clearing Union, e fondata sul valore di 30 commodities oro incluso, scambiabili a tassi fissi rispetto alle valute nazionali. I diversi Paesi avrebbero mantenuto conti in bancor presso l’ICU, attingendovi quando fossero incorsi in problemi di bilancia dei pagamenti. Le cose andarono diversamente. Ma ancora nel 1967, prima della tempesta che portò all’inconvertibilità del dollaro, il FMI prevedeva che a fine secolo gli SDRs avvrebbero rappresentato la metà delle riserve mondiali. Il Nobel Bob Mundell, teorico delle aree monetarie ottimali e padre putativo dell’euro, sposò la stessa tesi. Oggi ripresa da Zhou Xiaochuan.

Nel post Lehman diverse altre idee si sono fatte avanti. Fred Bergsten ha proposto la facoltà per i Paesi membri del Fmi di swappare dollari per SDRs, per diminuire l’esposizione sul biglietto verde. Un’apposita commissione ONU guidata da Joe Stiglitz è andata oltre, riprendendo l’idea di chi vorrebbe espandere i SDRs fino al bancor di Keynes. Strauss-Khan ha sostenuto a inizio 2010 che presto o tardi sarà l’FMI, a “stampare” SDRs. Una commissione nominata dal FMI ha invece proposto una vera e propria banca centrale indipendente globale, con un rating a quattro A senza rivali nel pianeta, capace di emettere bonds e altri strumenti finanziari denominati in una vera e propria valuta mondiale.

Lo scopo di tali proposte è comune. Assicurare stabilità ai cambi, benefici per ciascuno sulla base di economie di scala, abbattendo i privilegi impropri che al dollaro vengono dal signoraggio mondiale. Tuttavia, la realtà dista da questi intenti come gli oceani dai lavandini.

Il G20 ha espanso gli SDRs di 250 miliardi di dollari nella crisi. Ciò vale a malapena un 4% scarso delle riserve mondiali. Per superare il $ nelle riserve, ne occorrerebbero circa 4 triliardi in valore di SDRs neomessi. Il Fmi dovrebbe diventare una vera banca centrale mondiale. I nuovi SDRs dovrebbero essere trattati sui mercati e non solo attraverso operazioni di tesoreria tra Paesi membri del Fmi, per esporsi alla concorrenza con assets esistenti. Tutto questo non si vede come potrebbe avvenire, visto l’avverso interesse di Washington e il diritto di veto attribuito in sede FMI agli USA per emettere nuovi SDRs. Persino su una nuova composizione del basket di riferimento per gli SDRs atuali, basata su dollaro, euro, yen e sterlina, non si è riusciti a fare un solo passo avanti, rispetto a chi ha proposto di inserirvi valute come quella di Australia, Cile, Canada e altri detentori di materie prime.

Il fronte dei limitati sostenitori del renminmbi o dell’euro come nuove valute di riserva mondiale destinate a scalzare il dollaro si è raffreddato, dopo i primi entusiasmi post Lehman (pensate solo all’entusiasmo con cui tedeschi e italiani hanno salutato la recente svalutazione dell’euro sul dollaro). C’è infine l’idea di tornare ad avere più valute di riserva in concorrenza, come avveniva nel sistema finanziario mondiale precedente al 1914. E’ effettivamente a mio giudizio un’idea meno balzana di quanto appaia. L’Asia potrebbe avviarsi a una vera e propria unione dei mercati finanziari, fino a sfociare in una comune e molto potente area monetaria. E a quel punto le tre macroaree potrebbero trovare accordi temporalmente variabili di cambio, una sorta di maxi accordi tipo Plaza di anni fa, ma su basi valutarie integrate in ciascuna delle tre maggiori aree del mondo.

Fatto sta che siamo ancora molto lontani, da questi che al momento restano sogni ambiziosi. Dal che si deduce una sola cosa. Che il dollaro non corre alcun rischio, checché si dica, come vero sovrano monetario. Il vero nemico del re-dollaro è solo interno: l’eccesso di debito pubblico acceso da mister Obama. E servià probabilmente – penso io, assumendomi l’impopolarità del vaticinio – un altro presidente, per spegnerlo e tenere il dollaro in salvo.

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Il lento funerale di BP, l’occasione per ENI /2010/07/12/il-lento-funerale-di-bp-loccasione-per-eni/ /2010/07/12/il-lento-funerale-di-bp-loccasione-per-eni/#comments Mon, 12 Jul 2010 09:11:21 +0000 Oscar Giannino /?p=6471 Anticipo uno dei miei pezzi dal prossimo numero di Capo Horn

Penso che, se fossi l’azionista di controllo dell’ENI, avrei già fatto da tempo un ragionamento semplice semplice. Argomento: come approfittare del disastro che ha investito BP.  Ma prima di arrivare alla considerazione e alla proposta, serve un bel passo indietro per valutare tutti gli aspetti “epocali” della vicenda. I danni accollati a BP costituiranno un vero benchmark destinato a fare precedente. La compagnia mi pare che assai difficilmente possa sopravvivere. Non com’era fino a ieri, questo è sicuro.

Sono tre mesi che da 4mila metri di profondità, nel Golfo del Messico, fuoriescono ogni giorno nell’Oceano dapprima si era detto tra i 4 i 6 mila barili di petrolio al giorno, per poi ritoccare la stima fino a vette stellari, da un minimo di 35mila fino addirittura a un massimo di 60mila barili al dì. Il disastro della Deepwater Horizon per British Petroleum appare ormai prossimo a sancire, a tutti gli effetti, la fine di un gigante storico tra le maggiori oil companies. BP ha il 65% della concessione e dunque dell’impianto ma in pratica ne risponde integralmente, visto che è nei suoi confronti che faranno azione per negligenza i soci di minoranza Mitsui e Anadarko, come tutte le compagnie fornitrici degli impianti collassati, tipo Halliburton, Transocean e Cameron.

Alla chiusura  di Borsa di venerdì 9 luglio scorso, BP era ancora la terza compagnia petrolifera europea per capitalizzazione, a quota 81,8 miliardi di euro rispetto agli 89 di Total, e ai 128,8 miliardi a cui si giunge sommando le azioni di classe A e B di Royal Dutch Shell. Ma, quando è cominciato il disastro nel Golfo BP sfiorava i 195 miliardi di capitalizzazione, apparteneva a pieno diritto alla serie A mondiale come Exxon Mobil, che il 9 luglio capitalizzava 277 miliardi di dollari,ed era ben sopra la Chevron, che ne vale 143,5.

In altre parole, in tre mesi in BP si sono liquefatti oltre 100 miliardi di valore. I suoi CDS sono passati da 55-60 punti base, a oltre 700: a tutti gli effetti, peggio del peggio nella lista internazionale dei candidati al fallimento.

Ma è una stima esagerata, oppure ragionevole, quella del mercato? Perché se fosse esagerata, decadrebbe del tutto ogni idea intono a che cosa potrebbe fare l’ENI. E invece no, esaminata per benino la questione bisogna proprio concludere che il mercato non esagera. BP può andare in default eccome. Vediamo perché. A tutti gli effetti,il disastro della Deepwater Horizon costituirà infatti il nuovo benchmark di tutte le politiche risarcitorie nella oil industry mondiale. Un punto di riferimento integralmente nuovo, se si pensa che finora il disastro petro-ambientale più grave era  quello della petroliera Exxon Valdez in Alaska, con 250mila barili in mare che fanno quasi sorridere, rispetto al milione e mezzo che ogni mese si riversano nel Golfo del Messico. La stima  di metà maggio, quando sembrava che BP potesse cavarsela con 7 o 8 miliardi di dollari in tutto, è  ormai ridicola per quanto appare sottostimata.

L’Oil Pollution Act, la legge vigente negli USA che fu approvata proprio a fronte del disastro della Exxon Valdez, prescrive infatti a totale carico dell’inquinatore le spese per restituire l’ambiente alla sua condizione precedente. Se ci si basa sul precedente della Exxon, che va matematicamente integrato e modificato come modello previsivo visto che in questo caso lo spillover è continuativo e non concentrato nel tempo e con danni influenzati dalle correnti, al ritmo di un milione e mezzo di barili al mese il conto per la sola “pulizia” è di circa 6 miliardi di dollari per ogni mese di dispersione. Al terzo mese compiuto, siamo già a quota 18 miliardi per questa sola voce.

C’è poi il capitolo delle sanzioni amministrative e regolatorie, disciplinate dal Clean Water Act.  Nella prassi USA sin qui seguita, le multe vanno da un minimo di 1.100 a un massimo sin qui di 4.300 dollari per ogni barile disperso, ma nulla vieta di credere che la somma potrebbe in questo caso ultimamente salire. In ogni caso, se si applica al milione e mezzo di barili persi ogni mese una stima prudenziale sanzionatoria di 3.500 $ per barrel, siamo a circa 5,2 miliardi di dollari al mese di multa. In tre mesi, siamo già insomma a quota 15,2 miliardi.

C’è poi una terza voce, quella che riguarda i rimborsi su causa intentata da chiunque possa rivendicare un danno o un lucro cessante, a seguito dell’inquinamento.  E quando si dice chiunque vale proprio per chiunque, dagli Stati rivieraschi che possono chiedere il rimborso per gli interventi speciali che hanno dovuto sostenere e per gli aggravi di tasse e tariffe che hanno dovuto imporre,  alle municipalità e comunità locali per danni al turismo, a ogni singolo albergo, ristorante, pescatore  che legittimamente ritengano di essere stati danneggiati.  L’Oil Pollution Act pone un tetto esplicito a 75 milioni di dollari, per tali rimborsi. Ma il presidente Obama, nella seconda settimana di giugno, con un gesto degno del venezuelano bolivarista Chavez ha sbattuto i pugni sul tavolo, sostenendo che il cap posto per legge era inadeguato, e BP avrebbe fatto bene a mettere subito sul tavolo almeno 20 miliardi di dollari. Tanto per cominciare, ha detto il presidente. Con un bel saluto allo Stato di diritto, anche se so che nel dirlo tutti gli ambientalisti mi azzanneranno.

Poiché l’economia legata a turismo marino e pesca dei quattro Stati rivieraschi -  Alabama, Louisiana, Mississippi e Florida – si può cifrare intorno ai 30 miliardi di dollari, e il tratto di costa  investito sino a inizio luglio era di circa 120 km, una previsione dei rimborsi ai quali BP può essere obbligata dai tribunali americani può agevolmente raggiungere i 18-20 miliardi.

Se si sommano le stime delle tre voci di costo per BP, siamo sui 75 miliardi. Per i soli primi tre mesi. A prescindere da quanto bisognerà aggiungere, se non ha successo nei prossimi giorni e settimane il nuovo “tappo”. 75 miliardi: non tutti in un anno, d’accordo. Ma le stime finanziarie e di cassa per BP nel 2010, con un barile intorno ai 65-70 $ per barile, parlavano di 30 miliardi di generazione di cassa, di cui 20 da destinare  a investimenti e oneri finanziari, 10 a dividendo per i soci. E’ vero che BP ha circa 14 miliardi tra liquidità e linee di credito inutilizzate, ma c’erano già 17 miliardi di bonds e prestiti da rimborsare, tra 2010 e 2011.

La domanda a questo punto è duplice. Va bene non distribuire dividendi, come subito l’Amministrazione Obama ha irritualmente chiesto e ottenuto da BP per il 2010: ma per quanti anni? E inoltre: i tribunali USA seguiranno il principio che occorre sempre porre un limite ragionevole alla responsabilità illimitata di una società per danni catastrofici da eventi estremi, oppure faranno propria la demagogia populista del presidente ?

In ogni caso, nelle condizioni attuali per il board di Bp non c’è alternativa. A parte la speranza che qualche nuovo marchingegno consenta di mettere uno stop al deflusso, occorre far cassa subito per miliardi, per evitare un nuovo downgrading come quello che Fitch ha già comminato a metà giugno, e che ha fatto schizzare il costo del debito. Secondo le malelingue, in realtà Obama  picchia duro non solo perché, come BP, deve recuperare sull’impressione popolare che abbia del tutto sottovalutato l’evento e  la sua portata, per lunghe settimane. Ma anche perché, a questo punto, tanto vale portare BP alla canna del gas il più possibile sotto le elezioni del midterm del prossimo autunno. Magari assicurando alle oil companies americane buona parte di ciò che BP ha in pancia di più prezioso, e cioè moltissimo upstream di grande qualità e in aree non devastate da pericolosa instabilità mondiale.

Ma se è così, perché non arrivare per primi dico io? Per questo dico che, se fossi stato l’azionista pubblico di controllo italiano dell’ENI, e cioè il governo, in queste settimane avrei fatto  un bel pensierino. Perché non farsi subito vivi con il board di BP, e fare una bella offerta per 10-15 bn  di uspstream pregiato, prima che le procedure giudiziarie mettano inequivocabilmente BP alla mercé sei suoi creditori? Per conto mio, è un’operazione che da sola varrebbe la cessione di tutta la filiera nazionale del gas, approvvigionamento stoccaggio e distribuzione, che nessun concorrente  di Eni mantiene altrettanto integrata. Non è un’idea balzana, perché ne ho parlato con banchieri e oilmen e tutti mi hanno dato ragione. Ma è il governo italiano, che da questo punto di vista non ci sente. Peccato, dico io. Non tutti i mali vengono per nuocere, aggiungo cinicamente. Ma vale solo per chi ne sa approfittare, ovvio.

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Anche Business Week tax-nd-spend, contro Alesina /2010/07/02/anche-business-week-tax-nd-spend-contro-alesina/ /2010/07/02/anche-business-week-tax-nd-spend-contro-alesina/#comments Fri, 02 Jul 2010 06:57:25 +0000 Oscar Giannino /?p=6425 La gratitudine di Wall Street per la riforma bancaria di Obama che in definitiva celebra un nuovo compromesso tra regolatori e grandi intermediari, invece di preludere a politica monetaria meno lassista e a meno salvataggi a spese del contribuente, inizia a dare i suoi risultati. Qui il commento critico che Business Week riserva alla tesi di Alberto Alesina, per il quale tagliare i bilanci pubblici porta a più crescita, esempi alla mano di Paesi che hanno perseguito con successo tale strada come l’Irlanda, l’Olanda e la Norvegia. Se anche Business Week, abitualmente tra i falchi sulla spesa pubblica e le tasse, si è iscritto al partit0 tax and spend, significa due cose. La prima è che la divisione in campo teorico vede i keynesiani in netto vantaggio, checché strepiti Krugman. La seconda è che in primis i grandi gruppi finanziari americani preferiscono oggi uno Stato che spende molto, perché è la miglior premessa per continuare a esserne inondati di liquidità a costo zero, anzi negativo. Come a dire: l’errore di fondo continua.

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Anche Taylor stronca la “nuova” finanza di Obama /2010/07/01/anche-taylor-stronca-la-nuova-finanza-di-obama/ /2010/07/01/anche-taylor-stronca-la-nuova-finanza-di-obama/#comments Thu, 01 Jul 2010 17:15:55 +0000 Oscar Giannino /?p=6423 Abbiamo coperto di critiche il Reform Bill finanziario di Obama. Ma il nostro monetarista preferito, John Taylor, è ancora più spietato. Qui la sua stroncatura odierna del Frank-Dodds Act. I margini aggiuntivi di discrezionalità attribuiti ai regolatori americani su materie decisive come i derivati e la loro trattazione su mercati regolamentati, sui tempi e sui modi delle modalità di proprietory trading delle banche entro certi limiti del proprio patrimonio di vigilanza ma con separazioni societarie e gestionali tutte ancora da riempire di contenuti, la retorica della tutela del consumatore in nome della quale si introduce un nuovo regolatore competente per prodotti e servizi che nulla hanno a che fare con la crisi, come si può vedere i difetti sono tanti e gravi. Del resto, servono a coprire la vera ragione della crisi stessa: cioè, per chi la pensa come noi, errori dei regolatori monetari e dei mercati e non del mercato in quanto tale, come ancora una volta qui – a beneficio dei tanti sordi, antimercatisti e statalisti incalliti – Taylor spietatamente argomenta.

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