CHICAGO BLOG » Banca d’Italia http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Peggio di quel che credete /2010/11/13/peggio-di-quel-che-credete/ /2010/11/13/peggio-di-quel-che-credete/#comments Sat, 13 Nov 2010 14:35:20 +0000 admin /?p=7580 I lettori più attenti noteranno che oggi il valore del debito pubblico stimato dal nostro orologio ha fatto un “salto” di circa 4 miliardi di euro: da circa 1853 miliardi di euro a circa 1857 miliardi.

Come ogni mese, abbiamo manualmente aggiornato il valore del debito tenendo conto del più recente rapporto Bankitalia. La significativa revisione verso l’alto è dovuta a una correzione che la nostra banca centrale ha apportato al suo stesso database, frutto della rivalutazione di alcune voci. La buona notizia, dunque, è che il tasso di crescita da noi stimato si avvicina molto a quello realmente registrato. La cattiva notizia è che il nostro contadebito, che alcuni amici e anche qualcuno meno amico ha definito “un’iniziativa ansiogena”, si è rivelato in realtà tranquillizzante. Abbiamo dipinto un’Italia migliore di quella che è. O, se preferite, l’ansia che possiamo aver generato è inferiore a quella necessaria: ci impegnamo a restare serenamente indifferenti a chi vorrebbe nascondere la polvere sotto il tappeto. Anche perché il tappeto è piccolo e la polvere è una montagna. Comunque, nel tempo in cui avete letto questo breve post (circa 45 secondi) il debito pubblico è cresciuto di quasi 53.000 euro. (ll&cs)

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Due dubbi su Bankitalia, forse “inopportuni” ma tant’è /2010/08/20/due-dubbi-su-bankitalia-forse-inopportuni-ma-tante/ /2010/08/20/due-dubbi-su-bankitalia-forse-inopportuni-ma-tante/#comments Fri, 20 Aug 2010 14:16:42 +0000 Oscar Giannino /?p=6835 Diranno molti tra voi: ma come, con questo spettacolino che ci propone la politica, ti metti  criticare la Banca d’Italia? Avete ragione, infatti ci ho pensato molto e moltissimo, prima di prendere la penna e scrivre quanto segue. Però è anche vro che se uno fa il rompiscatole nel merito lo deve fare tutte le volte che ha un dubbio, senza mettersi a far scale comparative di oppurtnità. Quel metodo, del tutto legittimo, lo lascio ai politici e all’informazione “orientata”, cioè dominante. E alloa, pensandola così, devi dirvi che sul caso del Credito Cooperativo Fiorentino, e della Banca Popolare del Meridione, qualche mal di pancia mi è venuto e tanto vale dirlo, in modo da vedere com la pensate e con amplissima facoltà di dirmi che sono un cretino. Basta che non mi si dica che i miei dubbi sono appunto “politici”: perché non lo sono per niente.Per cultura, formazione e valori, non sono tra coloro che usano o amano criticare la Banca d’Italia. E’ anch’essa un’istituzione che cammina sulle gambe di uomini, ed è dunque soggetta come tutto ciò che è umano a imperfezioni ed errori. Ma non c’è dubbio. Nel quadro insoddisfacente delle istituzioni italiane, essa ha dato un contributo di grande valore alla stabilità, ordine e progresso del nostro Paese. Oltre ad aver rappresentato una delle poche sedi in cui si selezionava classe dirigente secondo criteri di eccellenza, in un Paese privo di scuole superiori di alta formazione come l’ENA in Francia. Tanto sono di questo convinto, che due anni fa, alla formazione dell’attuale governo, in piccolissimo tentai di adoperarmi perché tra il ministro Tremonti e il governatore Draghi il rapporto fosse migliore. Non ho avuto successo, vista la piega che ha preso il clima a via XX settembre. E ancora mi chiedo se non fosse più utile il contrario, al Paese e non solo al Paese.  Proprio per questo, mi turbo ogni qualvolta l’operato della Banca possa dare adito a polemiche.

Siamo in un Paese bancocentrico, senza eguali tra le Nazioni avanzate. Da noi, le banche sono in pressoché totale controllo dell’offerta di capitale di debito e di rischio alle imprese, controllano pressoché totalmente anche il risparmio gestito con le loro SGR. In un Paese siffatto, la vigilanza della Banca d’Italia deve essere esercitata senza guardare in faccia a nessuno, con accuratezza e rigore. Perché grandi e piccole banche hanno l’abitudine di servire e salvare grandi gruppi che storicamente sono intrecciati nei pochi patti di sindacato che più contano nell’asfittico capitalismo italiano. Perché a controllare le grandi banche sono patti di di sindacato con soggetti atipici, le fondazioni bancarie private e insieme pubbliche, senza eguali in Occidente e che rischiano di essere autoreferenziali loro, come autoreferenziali diventano i manager alla testa per decenni di grandi istituti creditizi.

Vengo dunque al punto. Vorrei vivere in un Paese in cui la vigilanza di Bankitalia non commissariasse istituti come il Credito Cooperativo Fiorentino di cui era presidente Denis Verdini, coordinatore del Pdl, solo all’indomani di una vicenda giudiziaria che lo coinvolge, e di una politica che lo delegittima. Quella banca da molti anni è affidata alla gestione su cui la vigilanza ora avanza 800 pagine grevi di irregolarità. Nulla si era trovato sino all’anno scorso, quando pure vi era stata un’ispezione. Le cointeressenze sospette con alcuni soci e i buchi sull’antiriciclaggio sono tutti degli ultimi mesi? Così facendo non si finisce per alimentare l’improprio sospetto che anche Bankitalia adotti una prassi tutta italiana, dare letture e giudizi diversi dei fatti a seconda che chi li ponga in essere sia divenuto più debole per ragioni che con la sana e prudente gestione bancaria nulla hanno a che vedere?

Il mio punto non è difendere Verdini. Da liberita senza partito, vorrei anch’io un Paese in cui ai politici, a tutti i politici, sia inibita la presidenza di una banca. Ma fatto sta che la legge vigente invece oggi lo consente, se la banca è appunto un istituto di credito cooperativo. Dunque soggettivamente Verdini  presidente non mi piace in quanto politico, ma oggettivamente per impedirglielo bisogna cambiare la legge, come ha onestamente riconosciuto anche Massimo Mucchetti sul Corriere dell sera.

Vorrei poi anche vivere in un Paese in cui, a maggior ragione dopo tre anni di crisi finanziaria, non avvengano vicende pazzesche come quella della Banca Popolare Meridionale, di cui già qui ci siamo occupati mentre la stampa nazionale non la degna inspiegabilmente di una riga, una vicenda che ha visto un tal Cacciapuoti, sedicente principe di Montebello, raccogliere milioni di euro da centinaia di soci per poi involarsi nel nulla, come in un film di Totò. Non aveva richiesto la licenza a Bankitalia. Ma perché, quando la Consob lo autorizza pubblicamente alla raccolta del capitale, non muoversi immediatamente e accertare che c’era puzza di truffa lontano miglia?

Non dirò che prestare denari a gruppi “amici” – cvedo il caso Zaleski, ma potrei enumerarne a iosa – al di là del merito di credito è prassi italiana bancaria invalsa, e dunque se vale per i grandi debba valere per tutti. Al contrario, proprio perché son di quelli che non vorrebbe valesse per nessuno, a maggior ragione non voglio pensare che ciò che oggi colpisce Verdini avviene solo perché politicamente da per bene è diventato birbone.

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Dell’incredibile Popolare per il Meridione, di Totò e della Consob /2010/08/11/dellincredibile-popolare-per-il-meridione-di-toto-e-della-conmosb/ /2010/08/11/dellincredibile-popolare-per-il-meridione-di-toto-e-della-conmosb/#comments Wed, 11 Aug 2010 19:11:00 +0000 Oscar Giannino /?p=6767 La truffa è arte pura e assoluta, quando tocca vette di maestria nel raggiro della buona fede di centinaia e centinaia di persone. L’articolo 640 del codice penale, per chi è cultore della materia e conosca la giurisprudenza accumulata in decenni di vita italiana, si applica sovente nel nostro Paese a dei maestri sommi della dissmulazione, che non avrebbero sfigurato in scena ai tempi della Commedia dell’arte, che avrebbero benissimo potuto campare quali spalle d’eccezione nei film di Totò, Peppino e Nino Taranto. Uno di questi è con ogni probabilità Lello Cacciapuoti, sedicente principe di Montebello tanto per non farsi mancare nulla sul biglietto da visita, l’ideatore e e realizzatore nella realtà del vecchio detto caro a chi brechtianamente diffida per definizione di banche e banchieri: e cioè che c’è solo una cosa moralmente più grave che rapinare una banca, fondarla appunto.

Cacciapuoti lo ha fatto. Ha raccolto 10 milioni di euro di capitale perché la ”sua” Banca del Meridione era una banca popolare. Bastavano 20 titoli da 100 euro di nominale per diventarne azionisti, e quasi 900 persone, imprese ed enti ci sono cascate. Ha coinvolto nell’iter di promozione e fondazione primari professionisti e accademici napoletani titolari di fior di cattedre universitarie, e financo un ex ufficiale presso lo stato maggiore dell’Arma dei Carabinieri, a fianco di un’improbabile compagnia composta da parenti e amici, nonché da un vetraio a Castellammare. Ha convinto a diventare soci la Popolare di Bari, la Fondazione Banco di Napoli.

Ora spetta ai magistrati Fausto Zuccarelli e Francesco Raffaele, della Procura di Napoli, accertare quanto sarà lunga e grave la lista di reati del sedicente principe, involatosi nel nulla ma, naturalmente, col più del capitale della banca intanto raccolto. La mia esperienza mi dice che non dovrete stupirvi, se il Cacciapuoti, nelle sue dichiarazioni oculatamente girate alla stampa nelle prossime settimane, riserverà veri e propri fuochi d’artificio, tra rivelazioni ad effetto e foschi scenari di oscuri complotti finanziari, domestici e financo -vedrete – internazionali, dei quali tenterà di presenterà vittima. Perché oltretutto ho l’impressione, da quel che si raccoglie riservatamente in ambienti finanziari, che agli 842 soci ufficiali della banca, registrati a raccolta del capitale chiusa, vanno aggiunti altri soggetti, anche al Nord, che si erano fidati delle stratosferiche sparare del principe e gli avevano affidato bei soldini.

Al di là del colore e della vicenda che a questo punto è puramente giudiziaria, però, il caso straordinario di Cacciapuoti e della Popolare per il Meridione non può che far suonare a mille decibel un serio campanello d’allarme. Perché la truffa non si è perpetrata secondo una legge non scritta ma ferrea in materia di truffe, e cioè nella minima unità di tempo possibile perché le vittime del raggiro non aprano gli occhi e chiedano la restituzione del maltolto. E’ una storia andata avanti per 5 anni, dacché il Cacciapuoti annuncia l’idea e affianca a sé i primi stimati professionisti, fino a presentare il progetto alla Confindustria napoletana. L’autorizzazione all’emissione di titoli da parte della costituenda Popolare è regolarmente stata concessa nell’agosto del 2008 dalla Consob. E nell’agosto 2009 l’obiettivo della raccolta è stato raggiunto. Da allora sono passati altri 11 mesi, prima che i tanti rispettabilissimi associati all’impresa capissero che qualcosa non tornava, se la prescritta richiesta di autorizzazione all’attività bancaria non era mai nemmeno stata inoltrata alla Banca d’Italia. E’ partita quando già fioccavano i primi esposti alla magistratura, quando già i buoi erano scapati dalla stalla.

L’autorizzazione Consob, e le 183 pagine di prospetto informativo che sono regolarmente scaricabili dal sito della mai nata Popolare, ci fanno amaramente capire come non ci sia lezione della crisi finanziaria che tenga. La catena di Sant’Antonio, il più classico schema di truffa finanziaria, è nata nell’Italia del Seicento. E’ a tutti gli effetti made in Italy anche il cosiddetto “schema Ponzi”, quello usato con successo per moltissimi anni da Bernard Madoff per raggirare la crema della crema di mezzo establishment finanziario e politico americano. Eppure, proprio nel nostro Paese che da secoli ha purtroppo insegnato al mondo come con carte false si possono estorcere volontariamente denari a risparmiatori e investitori, è ancora del tutto possibile che capitino vicende come questa napoletana. E’ legittimo pensare che il Cacciapuoti rinviasse a oltranza la richiesta a Bankitalia perché tanto esperto delle cose di mondo da sapere bene che lo scrutinio sarebbe stato più intenso e capillare, e non l’avrebbe superato. Ma possiamo solo supporlo. Perché intanto per raccogliere il capitale il placet della Consob era venuto eccome. E non a caso astutamente la forma giuridica della banca prescelta era quella di una Popolare, in maniera che non si dovessero dichiarare ex ante né soci né attività, ma solo il comitato promotore, e nove dipendenti in tutto compreso il direttore generale che per il primo anno sarebbero bastati e avanzati, per quello che c’era da fare.

La Consob replica che l’autorizzazione alla raccolta si basa sull’adempimento dei prescritti requisiti formali richiesti alla presentazione del prospetto. Di qui, le due lezioni che sin qui si possono trarre dalla storia. La prima è che, quand’anche fosse come sostiene legittimamente la Consob, significa con ragionevole certezza che c’è un buco nella regolazione, o nella concreta attività dello sceriffo finanziario. Ed è un buco al quale occorrerà subito rimediare. La seconda lezione non riguarda i regolatori, ma la società civile. Non solo quella napoletana, della Campania tutta e della Puglia, le aree in cui si concentra il più dei soci. Se per cinque anni interi fior di gente del mestiere è stata così grossolonamente raggirata, non è solo frutto della maestria certo singolare di Cacciapuoti. Significa purtroppo che la seduzione del denaro facile attraverso denaro raccolto a sbafo da terzi è ancora molto, troppo diffusa: e proprio in ambienti dove, più che nel resto della tecnicamente sprovveduta società italiana, di quest’ambizione si dovrebbe invece massimamente diffidare.

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Zopa a ottobre ripartirà: ovvero, le “liberalizzazioni” alla prova dei fatti /2010/07/07/zopa-a-ottobre-ripartira-ovvero-le-%e2%80%9cliberalizzazioni%e2%80%9d-alla-prova-dei-fatti/ /2010/07/07/zopa-a-ottobre-ripartira-ovvero-le-%e2%80%9cliberalizzazioni%e2%80%9d-alla-prova-dei-fatti/#comments Wed, 07 Jul 2010 12:51:47 +0000 Carlo Lottieri /?p=6460 Esattamente un anno fa, Zopa Italia srl. (l’impresa che ha introdotto in Italia il “social lending”, ossia la possibilità di scambiarsi denaro direttamente tra privati, senza banche e finanziarie di mezzo) era stata bloccata dalle autorità incaricate di vigilare sul mercato.

In sostanza, per un lungo periodo era stato possibile dare e ricevere denaro grazie a un sito (www.zopa.it) che operava come strumento di connessione, raggruppando i potenziali debitori secondo classi di rischio, ripartendo i contributi destinati a vari debitori tra un ampio numero di offerenti (così che chi riceveva 10 mila euro per acquistare un’autovettura, in realtà, doveva ridare 20 euro a 500 soggetti diversi), attrezzando strumenti per la riscossione dei crediti.

Poi d’improvviso tutto viene sospeso. Ecco il comunicato dell’azienda, che ancora è leggibile sul sito di Zopa:

“In data 10 luglio 2009 è stato notificato a Zopa il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze che, su indicazione di Banca d’Italia, ha cancellato dall’elenco degli intermediari finanziari ex art. 106 la nostra società. Come conseguenza immediata ci vediamo costretti a sospendere la trattazione di nuovi prestiti e l’ingresso di nuovi Prestatori”.

Nelle scorse ore, però, la società ha informato i clienti che potrà tornare ad essere operativa a breve. È stato individuato un nuovo socio di riferimento e con esso l’opportunità di integrarsi in un gruppo finanziario indipendente. A questo punto – anche grazie all’entrata in vigore della direttiva 2007/64/CE del Parlamento Europeo e la creazione di una nuova tipologia di operatore finanziario a livello europeo (l’Istituto di Pagamento) – Zopa può presentare richiesta alla Banca d’Italia per operare come Istituto di Pagamento.

Se ogni va secondo le previsioni, a ottobre Zopa tornerà a servire i propri clienti.

Tutto bene è quel che finisce bene, se non ci fosse un “se”. E cioè il fatto che istituzioni europee, ministri dell’Economia e governatori delle Banche centrali da tempo hanno un solo mantra: le “liberalizzazioni”. Il guaio è che si parla in un modo e si razzola in un altro.

Questa vicenda di un’impresa chiusa per un anno solo perché permetteva di accedere a crediti a buon mercato e al tempo stesso assicurava redditi discreti (dato che veniva saltata l’intermediazione bancaria) sembra allora attestare più di molte altre cose come vi sia una discrasia tra le parole e i fatti, tra la retorica e l’azione.

Speriamo davvero che Zopa, a ottobre, possa riaccendere i motori. E che più in generale l’esigenza di aprire i mercati venga avvertita da tutti come un’esigenza veramente cruciale.

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Finanza, siamo ancora all’anno zero? di Davide Grignani /2010/03/15/finanza-siamo-ancora-all%e2%80%99anno-zero-di-davide-grignani/ /2010/03/15/finanza-siamo-ancora-all%e2%80%99anno-zero-di-davide-grignani/#comments Mon, 15 Mar 2010 22:34:11 +0000 Guest /?p=5404 Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo alla discussione da Davide Grignani

Il sistema economico e finanziario rischia oggi una seconda crisi provocata dalla nuova bolla di statalismo e “over-regulation” innescata dalla scossa dell’estate del 2007. Sinora il complesso sistema di interazioni tra regolatori e norme ha dimostrato di non tener conto né della ciclicità degli impatti da essi provocate, né delle specificità di funzionamento dell’istituzioni finanziarie, siano esse banche, assicurazioni o non-banche (società finanziarie specializzate) operanti nelle diverse realtà geografiche, macro e microeconomiche.

Dinamiche e cause della drammatica crisi che ci attanaglia da circa trenta mesi sono chiare ed indicano un fallimento sistemico e collettivo, in cui l’individuazione di un solo ed unico colpevole appare operazione demagogica e velleitaria . Rivediamole in breve:

  • responsabilità della politica: per molti anni, durante sia l’amministrazione democratica che quella repubblicana, la politica Usa ha spinto il sistema finanziario e bancario ad una espansione illimitata del credito alle famiglie, già fortemente indebitate, attraverso la finanziarizzazione del mercato immobiliare e la redistribuzione del rischio a livello mondiale via cartolarizzazioni e derivati;
  • responsabilità delle autorità monetarie: alla spinta della politica si è affiancata una fase di espansione del credito allargato, bancario e non, moltiplicatosi in termini di volume a tassi di interesse decrescenti ed un livello sempre più elevato di leva finanziaria del sistema bancario;
  • responsabilità dei controllori: i controllori hanno assecondato un’ enorme espansione del retail banking e del cosiddetto “shadow banking” (ovvero del sistema “ombra” dei mercati finanziari paralleli) sempre più basato su reti commerciali aggressive operanti sul mercato dei clienti al dettaglio, nell’assunto di poter poi “impacchettare” tale produzione e poterla trasferire su altri bilanci ed altre giurisdizioni contaminando l’intero globo di rischi impropri e derivati, totalmente illiquidi;
  • responsabilità dei professionisti cioè delle Rating Agencies, dei Revisori ed Esperti Contabili, dei Consulenti Strategici, degli Economisti, degli Equity e Credit Analysts: hanno assistito passivamente a questi fenomeni, o perché deresponsabilizzati da un sistema di incentivi che ha sempre privilegiato un orizzonte di breve periodo rispetto alla corretta gestione delle dinamiche di medio e lungo, o perché concentrati su modelli e schemi focalizzati su obiettivi non inerenti ai reali problemi di cui è stato, ed è tuttora, affetto il sistema finanziario. Pensiamo ai consulenti strategici, sponsor del modello “originate to distribute”, cui dobbiamo una buona parte del problema attuale; pensiamo agli economisti, non avezzi ai meccanismi microeconomici del reale funzionamento di una banca o di una assicurazione in presenza di fenomeni di innovazione finanziaria, tradizionalmente concentrati sul controllo dei fenomeni inflattivi e le conseguenti (spesso dannose) manovre sui tassi di interesse; oppure alle Rating Agencies e agli Auditor ,che non sono riusciti ad introdurre degli strumenti di prevenzione dei guai prodotti ovviando per tempo a difetti sistemici evidenti quali – uno per tutti – l’assenza di una classificazione universale, un “rating”, del grado di effettiva liquidità di tutti i prodotti finanziari al dettaglio o all’ingrosso, quotati su mercati centralizzati o Other-The-Counter (OTC), che “smascherasse” per tempo la deriva del sistema verso una finanziarizzazione sconsideratamente illiquida;
  • responsabilità degli azionisti: anche questa categoria ha supportato il modello di distribuzione massificata di prodotti cosidetti “tossici” ed illiquidi e l’espansione della leva finanziaria, promuovendo posizioni di vertice e remunerazioni eccessive a dirigenti che fossero in grado di garantire una massimizzazione di breve termine del ritorno sul capitale (il ROE, per molti istituti internazionali stato in anni recenti pari a più di vent’anni di crescita percentuale del PIL), prodotto grazie a “business model” troppo stressati (ricordiamoci che Lehman Brothers fallisce con un Tier 1 vicino al 12 % ma una leva finanziaria di oltre 70 volte rispetto al tradizionale livello di un massimo di 12,5 volte ex Basilea 1), a discapito del rapporto di lungo periodo con la clientela e della corretta e prudente gestione del risparmio;
  • responsabilità dei banchieri: i quali – dulcis in fundo – non sono riusciti a garantire al loro interno dei meccanismi di autoregolamentazione e selezione in grado di formare anticorpi sani e forti , capaci di far prevalere nell’industria “business model adeguati” ed una classe di dirigenti ed operatori che riuscissero a resistere a alle forze e pressioni viste nei precedenti punti, privilegiando e proteggendo relazioni corrette e leali con la clientela sia “corporate” che “retail”.

Quo Vadis ?
Il FOREX appena tenutosi a Napoli è stato un momento importante di riflessione sulle problematiche del settore finanziario. Focus particolare è stato dato al tema degli sviluppi e delle tendenze dei mercati collateralizzati, alla luce delle nuove regolamentazioni e delle nuove architetture e regolamentazioni di vigilanza in Europa. Ma altri temi trasversali e prioritari hanno impegnato, tutti gli operatori del settore :
Gli impatti delle nuove norme previste da Basilea 3 sulle banche italiane.
Ormai almeno su un punto siamo tutti d’accordo in Italia: Basilea 3 – se mantenuta come è stato comunicato dal Comitato per la Supervisione Bancaria – non farà affatto bene né alle banche, né alle imprese italiane.
Contrariamente a quanto accadeva qualche anno fa, quando nelle aule dei seminari sulla riforma di Basilea 2 si vedevano sempre le stesse facce dei pochi “addetti ai lavori” mentre degli imprenditori sottocapitalizzati – complice la fase economica espansiva – neppure l’ombra, questa volta politici, imprenditori, banchieri e regolatori italiani sono tutti d’accordo che le nuove norme penalizzino troppo le nostre banche, radicate sul territorio e sulle PMI, rispetto ai colossi anglosassoni del trading in proprio e degli investimenti a rischio. Tra i due tipi di “business model” – diametralmente diversi ed opposti – le differenze di leva finanziaria ed assorbimento di capitale dovrebbero essere macroscopiche, mentre invece alla luce della nuova normativa Goldman Sachs e Monte Paschi risulterebbero e verrebbero trattate in modo simile.
Ora tutte le banche stanno svolgendo i test previsti dal programma dei lavori del Comitato, ma già si sa che i principali istituti italiani nella migliore delle ipotesi (nella peggiore si parlerebbe di tagli di 4-5 punti percentuali su livelli medi di capitalizzazione oggi vicini al 7%) patirebbero una riduzione del Core Tier I di almeno un punto e mezzo percentuale. Un impatto negativo importante, in un mondo bancario che stenta a convincere gli azionisti, gli analisti, gli osservatori e soprattutto la clientela che ciò che residuerà al netto di tali nuove deduzioni potrà dare il comfort circa la possibilità di superare nuove crisi e remunerare adeguatamente il capitale azionario per il rischio dell’attività.
Banche ed assicurazioni italiane nel 2010
Il sistema finanziario italiano ha retto bene al primo tsunami del 2007-2008 grazie alla sua natura essenzialmente finanziaria: “tanquam non esset” abbiamo potuto ripetere con orgoglio per alcuni mesi, forti di un modello bancario che aveva espresso la sua capacità produttiva su aggressive reti di vendita di prodotti per la gestione del risparmio al dettaglio, senza essere impattato dalla crisi dei subprime, delle cartolarizzazioni e dei prodotti derivati esportati dagli USA in Europa, poi finiti copiosamente nei portafogli dei gestori inglesi, tedeschi, belgi ed olandesi.
Il panico è stato però tale da “tetanizzare” anche il sistema reale: gli ordini sono crollati, l’export pure e da finanziaria la crisi è divenuta realissima. Ed ecco il secondo tsunami, questa volta sospinto da cause reali che determinano, da una parte, la crescita rapida ed impetuosa delle sofferenze, dei pagamente rateali insoluti, dei sinistri assicurativi e delle frodi, dall’altra, l’accresciuta difficoltà delle famiglie a mantenere il risparmio, gli investimenti, ed il consumo di un tempo.
Soffrono ora di più le banche e le assicurazioni italiane: soffrono per la struttura ed i problemi reali, legali e fiscali del paese a cui non possono ovviare da sole; soffrono per la prociclicità perniciosa delle norme che aggravano il funzionamento del loro motore già sotto stress; soffrono anche per fattori molto tecnici come essere giunte a questo appuntamento con un livello di strumenti ibridi di capitale sacrificato rispetto ai concorrenti europei. Se la dinamica in atto proseguirà il suo corso, è assai probabile che le banche e le assicurazioni italiane debbano ricorrere a capitali freschi, chiamate a cui – ad oggi – non è certo chiaro se e come potranno rispondere gli attuali azionisti. Se si esclude per un momento l’eventualità degli”aiuti di stato”, non sono da escludersi alleanze ed accordi per necessità, prima a livello nazionale tra banche minori, e poi a livello transnazionale: AXA, BNPP, Calyon, Deutsche Bank, Allianz , Barclays, Santander, Groupama ed altri grandi gruppi finanziari hanno buone ragioni per mantenere un livello d’attenzione alta sull’Italia.
Cosa accadrà nei prossimi anni e cosa occorre fare subito perché il sistema riparta e trovi un suo nuovo sentiero di crescita stabile.
Analizzare questo punto fondamentale in una prospettiva solo italiana è scorretto: la globalizzazione dell’economia e l’interconnessione degli intermediari finanziari bancari e parabancari sono tali da richiedere necessariamente un coordinamento internazionale su vasta scala. In tal senso il Financial Stability Board presieduto dal Governatore Draghi rappresenta senz’altro una chance sistemica importante.
Purtroppo ad oggi non appaiono soddisfatte tre condizioni necessarie per la soluzione della crisi finanziaria in Europa: 1. un sistema politico forte e trasparente per la gestione della crisi; 2. una chiara politica economica europea per la riduzione degli squilibri interni dei vari paesi coordinata dall’Eurogruppo; 3. una supervisione unitaria della regolamentazione del sistema finanziario di Eurolandia.
Quid faciam?
In attesa che ciò si realizzi al più presto, un numero molto limitato di nuove regole semplici e globali potrebbe avere un impatto positivo sul sistema finanziario globale in tempi rapidi:

  • l’adozione di una “Stiglitz Rule”, che, senza rigettare il modello europeo di banca universale, non combatte le dimensioni, ma distingue le funzioni del trading in conto proprio, degli investimenti nel settore degli hedge e del private equity dall’attività di banca commerciale e di deposito e di conseguenza discrimini le forme di passivo in termini di finanziabilità delle diverse attività con capitale di rischio o di debito;
  • una “Liquidity Rule” che attribuisca a tutti gli strumenti finanziari, prescindere dal fatto che essi siano trattati sui listini o OTC, un rating di liquidità da affiancarsi obbligatoriamente ai sistemi classici di rating attualmente in essere;
  • una “Leverage Rule”, che ponga limiti assoluti e relativi al massimo livello di leva finanziaria a cui ogni tipo di istituzione finanziaria può sottoporre il proprio bilancio in funzione dei modelli di business e dei contesti nazionali specifici delle diverse istituzioni;
  • una “Liquidity-Based Value Rule” che imponga l’obbligatorietà dell’applicazione contabile e fiscale del principio del “mark-to-market” solo alle attività finanziarie che hanno caratteristiche di liquidità e volatilità tali da permetterne la pronta ed effettiva disponibilità in ogni momento del loro possesso;
  • una “Enforcement Control Rule” che imponga anche alla classe politica ed ai regolatori di rispondere di fronte ai cittadini (e non solo in occasione delle kermesse elettorali) dell’effettiva attività svolta dai regolatori per evitare il ripetersi di crisi e fallimenti finanziari

Ciò che invece non va fatto:

  • lasciare il sistema finanziario in un lungo periodo (e per “lungo” si intende qualche mese nella situazione attuale ) di assenza di chiarezza normativa e regolamentare sul finanziamento del sistema bancario ed assicurativo: ciò implica un immediato “grandfathering” degli strumenti utilizzati in passato per il finanziamento dei passivi con strumenti ibridi (cosiddetti “innovativi e non-innovativi”) per garantire la continuità di accesso delle banche e delle assicurazioni agli investitori istituzionali del reddito fisso: il solo mercato del capitale azionario non può e non deve sopportare da solo questo compito e questa funzione per l’intero sistema economico e finanziario;
  • forzare il sistema all’adozione di nuovi principi contabili e fiscali tali da provocare da una parte una brusca perdita di liquidità e valore di parti rilevanti di attivi finanziati da depositanti ed investitori istituzionali, dall’altra l’impossibilità di competere e gestire correttamente le forme di approvvigionamento dei capitali necessari per garantire il funzionamento stabile e continuo del sistema di trasferimento e intermediazione del risparmio nel credito bancario;
  • introdurre ora, post-facto, ulteriori regolamentazioni e controlli che impattino decisioni e comportamenti microeconomici relativi alla gestione dell’impresa bancaria o assicurativa alterandone il naturale funzionamento aziendale a danno della concorrenza e della selezione meritocratica dei migliori operatori: a causa dei tempi della politica e dei processi regolativi complessi a livello nazionale, europeo ed intercontinentale, questi provvedimenti sono sempre stati non solo tardivi ma anche pro-ciclici e distorsivi dei principi di equità e trasparenza.

La gestione dinamica della crisi è senz’altro possibile (ed alcuni governi hanno dimostrato sicuramente di avere il senso e la capacità degli interventi di urgenza) ma richiede, da una parte, molto più tempo e determinazione da parte di tutti gli attori coinvolti, dall’altra grande attenzione a mantenere un po’ di pressione ed abbrivio nelle vele del sistema, che si trova ora in una zona di pesante bonaccia, evitando con cura di dare continui colpi di barra al timone, tanto illusori quanto inutili per riprendere una buona navigazione.

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Draghi alla BCE, pochi giorni e si decide /2010/01/21/draghi-alla-bce-pochi-giorni-e-si-decide/ /2010/01/21/draghi-alla-bce-pochi-giorni-e-si-decide/#comments Thu, 21 Jan 2010 19:09:12 +0000 Oscar Giannino /?p=4863 Entro tre settimane, i Paesi dell’euro sono chiamati a una scelta importante. Per l’Europa, e per il peso dell’Italia in Europa. Mario Draghi ha delle buone chanches per diventare presidente della BCE, l’anno prossimo. Ma la partita è nei prossimi 10 giorni. Se l’Italia non si muove subito e con accortezza, i tedeschi ci fregano.
All’Ecofin di lunedì, i ministri delle Finanze dell’euroarea hanno concordato che l’indicazione del prossimo vicepresidente della Banca Centrale Europea avverrà il 15 febbraio. Com’è noto, il Trattato Europeo prevede che per la nomina del Comitato esecutivo della Bce – formato dal presidente, un vicepresidente e altri 4 membri; che esercita la gestione corrente della banca e l’attuazione della politica monetaria, conformemente agli orientamenti del Consiglio dei governatori di tutte le banche del sistema – la procedura di nomina prevede l’accordo dei governi degli Stati membri, con una decisione che verrà assunta al Consiglio Europeo di marzo, una volta che il nome indicato dall’Ecofin il 15 febbraio ottenga il parere favorevole del Parlamento Europeo e del Consiglio dei governatori.
Il vicepresidente in scadenza è il greco Lucas Papademos, che a fine maggio terminerà il mandato di 8 anni, e che subentrò al francese Christian Noyer. I membri del board hanno un mandato che scade in anni diversi, in modo da evitare un rinnovo complessivo che minerebbe la continuità della BCE e sottoporrebbe l’accordo politico a maggiori tensioni. Nel board esistono infatti pesi di rappresentanza espliciti, ed impliciti. Quelli espliciti sono rappresentati dalle rispettive quote detenute dalle diverse banche centrali nazionali nel capitale della Bce, a sua volta ripartito tra un 70% nelle mani dei membri dell’euroarea attuale, e un 30% riservato ai Paesi dell’Ue che non hanno adottato l’euro, che non partecipano agli utili o ai ripiani della BCE e non ne determinano la politica monetaria, ma partecipano al Sistema Europeo delle Banche Centrali che dà sostenibilità e stabilità alla politica comunitaria. Tra i paesi dell’eruoarea, i tedeschi hanno il 19% del capitale BCE, i francesi il 14%, l’Italia il 12,5%, la Spagna l’8,5%, e poi via via a scendere, in proporzione alla popolazione.
Ma, naturalmente, contano molto i pesi che derivano dall’influenza economica e politica dei diversi Paesi. La BCE è nata per sviluppo diretto della Bundesbank tedesca, assumendone modello gestionale, finalità antiinflazionistica, strumenti operativi. Perciò il primo presidente della BCE era sì un olandese, Wim Diusenberg, ma di comprovata osservanza germanica, e “invigilato”, per così dire, nel board da Otmar Issing, un falco nemico dell’inflazione che con la delega alla ricerca economica era di fatto, a nome della Bundesbank, il vero banchiere centrale europeo. Nel secondo comitato esecutivo, che ora inizia a vedere in scadenza i suoi membri, il presidente è il francese Jean-Claude Trichet, ma di fatto egli ha deluso le aspettative di Parigi di tassi d’interesse più laschi negli anni pre-crisi, perché il membro tedesco del board Juergen Stark (scade nel 2014) e quello italiano, Lorenzo Bini Smaghi (scade nel 2013), appartengono a una solida tradizione di rigore monetario.
Per gli equilibri attuali e futuri della BCE, la scelta del vicepresidente oggi significa una precisa ipoteca sull’identità del presidente da scegliere l’anno prossimo, poiché il mandato di Trichet scade nell’ottobre 2011. Detto in chiaro: se al posto del greco Papademos viene indicato un altro banchiere centrale dell’Europa del Sud, inevitabilmente il successore di Trichet sarà espresso dall’Europa del Nord. Ed è per questo che francesi e tedeschi vogliono come vicepresidente il portoghese Victor Constancio. Sarebbe un via libera pressoché certo alla guida della BCE, l’anno prossimo, per l’attuale capo della Bundesbank, Axel Weber.
Ed è per questo che l’Italia ha pochi giorni per giocare le sue carte. Ci sono almeno tre buone ragioni, per promuovere un’alleanza con austriaci e olandesi, greci e spagnoli, slovacchi, sloveni e irlandesi, per un vicepresidente appartenente all’area “nordica” del BeNeLux. Come il belga Peter Praet, se al lussemburghese Yves Mensch dovesse ostare la nomina del premier e ministro delle Finanze del suo Paese, Jean-Claude Juncker, appena confermato alla guida dell’Eurogruppo.
La prima ragione è semplice: la persona. L’Italia ha in Mario Draghi un candidato tra i più autorevoli, per la presidenza della BCE. Come presidente del Financial Stability Board, è al suo coordinamento che è stata affidata la messa a punto delle misure di riforma e stabilità della finanza globale che verranno sottoposte al G20 che, dopo Pittsburgh, tornerà a riunirsi quest’anno a maggio e novembre. Tra i banchieri centrali europei gode di vasti consensi e stima, come Oltreoceano alla FED e nella business community mondiale. L’Italia si è vista negare la presidenza del Parlamento europeo con l’onorevole Mauro, e la carica di mr Pesc con l’onorevole D’Alema. La guida della BCE è un’occasione ancor più impegnativa. Ma il candidato ha titoli di grande valore.
La seconda ragione riguarda la crisi. Che è stata originata dalle banche e dalla finanza ad alta leva. Se gli Stati Uniti hanno dovuto spendere 561 miliardi di euro per salvare e aiutare oltre 700 banche, e la Gran Bretagna 747 miliardi per 6 sole banche, non dimentichiamo che la Germania ha dovuto stanziare 262 miliardi del contribuente per 8 banche. Ai tedeschi non piace sentirselo dire, ma per via delle elezioni dello scorso novembre proprio la Germania è stato il Paese europeo che ha fatto meno chiarezza negli attivi patrimoniali del suo sistema bancario, come comprovato da molte Landesbanken pubbliche che hanno continuato a rivelare buchi pericolosi a ogni trimestrale. Proprio il governatore della Bundesbank, qualche mese fa, allineandosi alle pressioni del suo governo, ha tuonato da una pagina intera del Financial Times contro le richieste di chiarezza sul sistema bancario germanico che venivano dagli altri Paesi dell’Euroarea. Il problema è irrisolto. La prudenza sconsiglia di premiare chi l’ha tenuto aperto.
Il terzo motivo è conseguente. Il sistema bancario italiano, per la maggior prudenza dei banchieri privati e per i controlli della Banca d’Italia, è quello che si è trovato meno esposto al rischio di fallimenti e follie. Ha altri e antichi problemi, ma non la peste. A parole, ce lo hanno riconosciuto tutti. Esattamente come la prudenza di bilancio pubblico del governo e del ministro Tremonti – oltre a conseguenze non proprio esaltanti per rilancio della crescita e rinvio di riforme – hanno allontanato dall’Italia i sospetti di instabilità finanziaria.
Giochiamocela, allora. L’Italia, per una volta, ha tutte le carte in regola. Si tratta di dimostrarlo, con la giusta determinazione. Perché è nei prossimi dieci giorni, che si decide.

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Liberalizzare: 5 punti di Pil in 3 anni /2009/10/16/liberalizzare-5-punti-di-pil-in-3-anni/ /2009/10/16/liberalizzare-5-punti-di-pil-in-3-anni/#comments Fri, 16 Oct 2009 10:35:52 +0000 Oscar Giannino /?p=3320 L’output potenziale in Italia è calato incessantemente dall’inizio degli anni Settanta. All’epoca era sul 4% annuo, e di gradino in gradino era giunto all’1,2% nel 2008, prima della crisi in corso che l’ha azzerato.  Per Francia e Germania, pur conoscendo un trend analogo, il prodotto potenziale è sempre rimasto di quattro-cinque decimi di punto superiore al nostro. Il grande problema, come abbiamo ripetuto spesso, è la bassa produttività del terziario. “ Liberalizziamo per crescere di più” è la ricetta qui scontata. Meno scontato saper quantificare gli effetti di maggior crescita  di decise liberalizzazioni. Per questo è utilissimo che lo facciano studiosi di Bankitalia. Sono  Lorenzo Forni, Andrea Gerali e Massimilano Pisani, in questo paper. Vado alle conclusioni, il modello seguito nella simulazione è macro e non micro. Diminuendo il market power delle imprese di settore, che le induce a fare più markups scaricati sui costi rispetto all’eurozona – che pure non è certo l’Eden liberalizzato -  ci sono 11 punti di Pil di maggior crescita italiana da liberare, di cui 5 conseguibili in un triennio.  Non è solo il caso di dire: i politici non lo sanno o non ci credono. La notizia è che la crescita potenziale aggiuntiva supera di gran lunga il fuoco di sbarramento inevitabile, posto in essere su politica e media  dal market power esistente. Quindi “si può fare”. Per politici che ci credessero.

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Draghi sul welfare: come sprecare buoni consigli /2009/10/13/draghi-sul-welfare-come-sprecare-buoni-consigli/ /2009/10/13/draghi-sul-welfare-come-sprecare-buoni-consigli/#comments Tue, 13 Oct 2009 18:08:21 +0000 Oscar Giannino /?p=3260 La lezione tenuta oggi dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi al Collegio Carlo Alberto di Moncalieri – solida istituzione di gloriosi tempi che furono – è un bell’esempio di spiegazione a studenti non versati nella questione dei princìpi di fondo, dei fini e degli strumenti attuativi dell’assicurazione sociale pubblica in tutte le sue forme, sostanzialmente per la garanzia contro i rischi da perdita di lavoro, e per il sostegno alla vecchiaia. È un intervento che riprende talvolta alla lettera le riflessioni e le proposte che, con decenni di anticipo, alla materia furon dedicati da quel grande attuarialista che era Onorato Castellino, maestro di Elsa Fornero. Non contiene solo analisi, ma anche indicazioni di punti critici irrisolti, e di eventuali proposte per affrontarli. La politica si è divisa in due: alcuni nella maggioranza, come Urso e Della Vedova, hanno apprezzato e condiviso. Il ministro Sacconi ha mostrato di non gradire.  Chi ha ragione, e perché? È nel merito, che non piacciono a taluni le indicazioni del governatore? O piuttosto è una questione di metodo? Per quanto mi riguarda, le proposte sono sagge. Il governo poteva e può non dico farle proprie integralmente, ma opportunamente farne uso per procedere sulla via del dialogo sociale e delle riforme. Infine, se la questione non è di merito ma di metodo, forse è il caso di approfittarne per chiarirsi le idee: su che cosa debba o non debba dire e fare, un governatore della Banca d’Italia.

Sugli ammortizzatori, come potete leggere Draghi riconosce che il governo molto ha fatto quest’anno per attenuare le disparità tra coloro che non ne erano coperti in terziario e artigianato, in caso di perdita dell’impiego. Ma aggiunge che ancora allo stato attuale almeno 1,2 milioni di lavoratori dipendenti ne restano esclusi, e quasi mezzo milione di lavoratori parasubordinati, oltre al fatto che il requisito dei 12 mesi di contributi versati nei due anni precedenti al sussidio non è solo distonico rispetto a criteri più limitati e diluiti nel tempo di altri grandi Paesi europei, ma soprattutto poco coerente alla flexicurity verso la quale il governo stesso vuole meritoriamente procedere. Per questo, dice Draghi, usciti dall’emergenza occorre una riforma complessiva. Poiché aggiunge chiaramente “usciti dall’emergenza”, mi pare che abbia ragione non una ma due volte. Non vedo contraddizione con quanto il governo ha sempre sostenuto.

In materia previdenziale, Draghi non solo sottolinea che pur dopo le correzioni recenti sui coefficienti di trasformazione a partire dal 2015 sembrano permanere problemi legati al basso tasso di sostituzione per chi ricadrà integralmente nella riforma Dini, a capitalizzazione “virtuale”, ma avanza l’ipotesi che al pilastro integrativo su base volontaria possano essere trasferiti parte di quel monte contributi del 33% individuale che sono attualmente il tetto più elevato in area Ocse. In che cosa consiste, a tale proposito, l’invasione indebita di campo rispetto al governo? Piuttosto, mi pare un utile osservazione che potrebbe essere utilizzata dall’esecutivo nel suo rapporto con i sindacati, per ottenere maggiore disponibilità a incentivare il rialzo dell’età media pensionabile effettiva. A ciò si aggiungono molte pertinenti osservazioni, sull’eccesso di costi e commissioni che continuano a gravare sulle gestioni e prodotti previdenziali integrativi, nonché sulle ripercussioni che derivano dall’essere troppi gestori non di adeguata  massa critica amministrata, nonché ancora sulla necessità di sottoporre le rendite a condizioni di trasparenza nelle modalità di erogazione, che oggi continuano a mancare per asimmetria informativa. Non vedo se non del bene, da tali proposte. Richiamano a più responsabilità non solo lo Stato, ma anche gli operatori finanziari e assicurativi.

Il punto di fondo è forse un altro. La politica diffida ormai dei tecnici non eletti, dopo anni nei quali proprio da essi venne una straordinaria supplenza politica al clamoroso fallimento di un’intera classe politico-istituzionale. In questo, posso capirla e anzi la capisco. Deve governare chi si presenta al giudizio dell’elettorato e ne ottiene la maggioranza. Ma se questo significa che un governatore della Banca d’Italia deve tacere su qualunque argomento abbia a che fare con la finanza pubblica e privata, vuol dire solo che la politica ha ancora poca stima di se stessa. Così facendo mostra non di avversare legittimamente ipotesi improprie – che oggi non esistono -  ma di temere fantasmi. Che sono figli della propria inadeguatezza, dei propri complessi di inferiorità.

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Cattive notizie /2009/07/13/cattive-notizie/ /2009/07/13/cattive-notizie/#comments Mon, 13 Jul 2009 20:00:11 +0000 Massimiliano Trovato /?p=1499 UPDATE [22.00] Si apprende che la Banca d’Italia rimprovera a Zopa di effettuare raccolta del risparmio attraverso la giacenza sul conto prestatori (grazie anche a darmix nei commenti a questo post). Personalmente, credo che nella migliore delle ipotesi il provvedimento sia frutto una lettura capziosa delle norme. La più severa regolamentazione dell’attività bancaria rispetto alla semplice intermediazione finanziaria trova, infatti, la sua ratio nella divaricazione tra titolarità ed impiego delle somme versate. La giacenza del conto prestatori, viceversa, non entra mai nella disponibilità di Zopa. Assai più verosimile mi pare la ricostruzione del direttore Giannino, che allude all’arrocco corporativo delle banche. Come osserva correttamente Giacomo Dotta, d’altro canto, i rilievi di via Nazionale non riguardano unicamente Zopa, ma più in generale l’intero comparto del social lending. Insomma, la partita è appena iniziata.

Zopa, il servizio di social lending che ha già distribuito oltre 7 milioni di euro di prestiti, sospende l’attività.

In data 10 luglio 2009 è stato notificato a Zopa il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze che, su indicazione di Banca d’Italia, ha cancellato dall’elenco degli intermediari finanziari ex art. 106 la nostra società. Come conseguenza immediata ci vediamo costretti a sospendere la trattazione di nuovi prestiti e l’ingresso di nuovi Prestatori.
La società sta valutando tutte le iniziative, anche di natura giurisdizionale, per tutelare la propria posizione e la community. Vi terremo informati su tutte le attività che metteremo in atto per salvaguardare un’iniziativa innovativa, etica, sociale e vantaggiosa per tutti i partecipanti.

[HT: Roberto Venturini]

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Draghi “asciutto”, ma non delude /2009/05/29/draghi-asciutto-ma-non-delude/ /2009/05/29/draghi-asciutto-ma-non-delude/#comments Fri, 29 May 2009 12:09:53 +0000 Oscar Giannino /index.php/2009/05/draghi-asciutto-ma-non-delude/ All’assemblea dei partecipanti della Banca d’Italia, il governatore Mario Draghi anno dopo anno sta imprimendo una svolta di comunicazione a mio giudizio giusta. Le sue considerazioni finali diventano sempre più asciutte ed essenziali. La parte di analisi macro internazionale ed italiana si dà per scontata o quasi, idem dicasi per le analisi e le rilevazioni di contabilità nazionale e bancaria, rinviando alla corposa relazione in più tomi che da sempre correda i documenti dell’appuntamento annuale. Ne soffre forse l’aulica corposità della messa cantata di un’intera mattinata, lasso di tempo che a stento in passato conteneva le diverse parti dell’orazione. Ma se ne guadagna in essenzialità.
A Draghi non interessa apparire un contro-centro di potere economico, con una ricetta complessiva per il Paese e una analitica per ogni problema. Gli preme confermare che Bankitalia c’è e resta, pronta a fare il suo dovere come sempre, in funzione e vigilante come centro di elaborazione dati e d’intervento d’emergenza, se e quando necessario. Ma, per il resto, il governatore è uomo di pochi messaggi. E a me sembra cosa giusta: è un limite del centrodestra attuale, non averlo ancora capito.
Di conseguenza, Draghi si è limitato solo a poco più che ricordare le parti dell’agenda di ri-regolazione internazionale che sono essenziali, ma non si decidono in Italia (e, tra chi sta in Italia Draghi ne deciderà, col FSB che presiede, comunque più di altri). Domani, i giornali titoleranno soprattutto sulla parte delle considerazioni che in apparenza suona allarmistica per Pil e occupati italiani: in realtà, si tratta dei dati già noti, e bene fa il governatore a star fermo su quelli, invece di puntare sul sentiment in ripresa.
A ma è piaciuta la chiara identificazione dei due maggiori rischi per l’Italia, la forte riduzione dei consumi interni e il pericolo-mortalità per migliaia di manifatturiere attive nell’export; e, di conseguenza, la conclusione che le riforme di welfare e pensioni non sono procrastinabili. Alle banche, Draghi non ha fatto sconti e non ha affatto sposato le cifre dell’Abi su impieghi e relativi tassi praticati. Non è poco. Su Tremonti bonds e necessità di prossime svalutazioni patrimoniali, grande prudenza invece. Ma per due volte Draghi è tornato sul tema, pur senza citare per esempio le tesi di Prometeia, e ricordando alle banche che devono insieme dare credito e rafforzarsi nel patrimonio chiudendolo al mercato. Felpato e rapido, ma più dalla parte di chi la pensa come noi che contro, e senza fianco prestato agli inni sulla nuova politica che metterebbe in riga autorità indipendenti, banchieri ed economisti.

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