CHICAGO BLOG » ambiente http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Il lento funerale di BP, l’occasione per ENI /2010/07/12/il-lento-funerale-di-bp-loccasione-per-eni/ /2010/07/12/il-lento-funerale-di-bp-loccasione-per-eni/#comments Mon, 12 Jul 2010 09:11:21 +0000 Oscar Giannino /?p=6471 Anticipo uno dei miei pezzi dal prossimo numero di Capo Horn

Penso che, se fossi l’azionista di controllo dell’ENI, avrei già fatto da tempo un ragionamento semplice semplice. Argomento: come approfittare del disastro che ha investito BP.  Ma prima di arrivare alla considerazione e alla proposta, serve un bel passo indietro per valutare tutti gli aspetti “epocali” della vicenda. I danni accollati a BP costituiranno un vero benchmark destinato a fare precedente. La compagnia mi pare che assai difficilmente possa sopravvivere. Non com’era fino a ieri, questo è sicuro.

Sono tre mesi che da 4mila metri di profondità, nel Golfo del Messico, fuoriescono ogni giorno nell’Oceano dapprima si era detto tra i 4 i 6 mila barili di petrolio al giorno, per poi ritoccare la stima fino a vette stellari, da un minimo di 35mila fino addirittura a un massimo di 60mila barili al dì. Il disastro della Deepwater Horizon per British Petroleum appare ormai prossimo a sancire, a tutti gli effetti, la fine di un gigante storico tra le maggiori oil companies. BP ha il 65% della concessione e dunque dell’impianto ma in pratica ne risponde integralmente, visto che è nei suoi confronti che faranno azione per negligenza i soci di minoranza Mitsui e Anadarko, come tutte le compagnie fornitrici degli impianti collassati, tipo Halliburton, Transocean e Cameron.

Alla chiusura  di Borsa di venerdì 9 luglio scorso, BP era ancora la terza compagnia petrolifera europea per capitalizzazione, a quota 81,8 miliardi di euro rispetto agli 89 di Total, e ai 128,8 miliardi a cui si giunge sommando le azioni di classe A e B di Royal Dutch Shell. Ma, quando è cominciato il disastro nel Golfo BP sfiorava i 195 miliardi di capitalizzazione, apparteneva a pieno diritto alla serie A mondiale come Exxon Mobil, che il 9 luglio capitalizzava 277 miliardi di dollari,ed era ben sopra la Chevron, che ne vale 143,5.

In altre parole, in tre mesi in BP si sono liquefatti oltre 100 miliardi di valore. I suoi CDS sono passati da 55-60 punti base, a oltre 700: a tutti gli effetti, peggio del peggio nella lista internazionale dei candidati al fallimento.

Ma è una stima esagerata, oppure ragionevole, quella del mercato? Perché se fosse esagerata, decadrebbe del tutto ogni idea intono a che cosa potrebbe fare l’ENI. E invece no, esaminata per benino la questione bisogna proprio concludere che il mercato non esagera. BP può andare in default eccome. Vediamo perché. A tutti gli effetti,il disastro della Deepwater Horizon costituirà infatti il nuovo benchmark di tutte le politiche risarcitorie nella oil industry mondiale. Un punto di riferimento integralmente nuovo, se si pensa che finora il disastro petro-ambientale più grave era  quello della petroliera Exxon Valdez in Alaska, con 250mila barili in mare che fanno quasi sorridere, rispetto al milione e mezzo che ogni mese si riversano nel Golfo del Messico. La stima  di metà maggio, quando sembrava che BP potesse cavarsela con 7 o 8 miliardi di dollari in tutto, è  ormai ridicola per quanto appare sottostimata.

L’Oil Pollution Act, la legge vigente negli USA che fu approvata proprio a fronte del disastro della Exxon Valdez, prescrive infatti a totale carico dell’inquinatore le spese per restituire l’ambiente alla sua condizione precedente. Se ci si basa sul precedente della Exxon, che va matematicamente integrato e modificato come modello previsivo visto che in questo caso lo spillover è continuativo e non concentrato nel tempo e con danni influenzati dalle correnti, al ritmo di un milione e mezzo di barili al mese il conto per la sola “pulizia” è di circa 6 miliardi di dollari per ogni mese di dispersione. Al terzo mese compiuto, siamo già a quota 18 miliardi per questa sola voce.

C’è poi il capitolo delle sanzioni amministrative e regolatorie, disciplinate dal Clean Water Act.  Nella prassi USA sin qui seguita, le multe vanno da un minimo di 1.100 a un massimo sin qui di 4.300 dollari per ogni barile disperso, ma nulla vieta di credere che la somma potrebbe in questo caso ultimamente salire. In ogni caso, se si applica al milione e mezzo di barili persi ogni mese una stima prudenziale sanzionatoria di 3.500 $ per barrel, siamo a circa 5,2 miliardi di dollari al mese di multa. In tre mesi, siamo già insomma a quota 15,2 miliardi.

C’è poi una terza voce, quella che riguarda i rimborsi su causa intentata da chiunque possa rivendicare un danno o un lucro cessante, a seguito dell’inquinamento.  E quando si dice chiunque vale proprio per chiunque, dagli Stati rivieraschi che possono chiedere il rimborso per gli interventi speciali che hanno dovuto sostenere e per gli aggravi di tasse e tariffe che hanno dovuto imporre,  alle municipalità e comunità locali per danni al turismo, a ogni singolo albergo, ristorante, pescatore  che legittimamente ritengano di essere stati danneggiati.  L’Oil Pollution Act pone un tetto esplicito a 75 milioni di dollari, per tali rimborsi. Ma il presidente Obama, nella seconda settimana di giugno, con un gesto degno del venezuelano bolivarista Chavez ha sbattuto i pugni sul tavolo, sostenendo che il cap posto per legge era inadeguato, e BP avrebbe fatto bene a mettere subito sul tavolo almeno 20 miliardi di dollari. Tanto per cominciare, ha detto il presidente. Con un bel saluto allo Stato di diritto, anche se so che nel dirlo tutti gli ambientalisti mi azzanneranno.

Poiché l’economia legata a turismo marino e pesca dei quattro Stati rivieraschi -  Alabama, Louisiana, Mississippi e Florida – si può cifrare intorno ai 30 miliardi di dollari, e il tratto di costa  investito sino a inizio luglio era di circa 120 km, una previsione dei rimborsi ai quali BP può essere obbligata dai tribunali americani può agevolmente raggiungere i 18-20 miliardi.

Se si sommano le stime delle tre voci di costo per BP, siamo sui 75 miliardi. Per i soli primi tre mesi. A prescindere da quanto bisognerà aggiungere, se non ha successo nei prossimi giorni e settimane il nuovo “tappo”. 75 miliardi: non tutti in un anno, d’accordo. Ma le stime finanziarie e di cassa per BP nel 2010, con un barile intorno ai 65-70 $ per barile, parlavano di 30 miliardi di generazione di cassa, di cui 20 da destinare  a investimenti e oneri finanziari, 10 a dividendo per i soci. E’ vero che BP ha circa 14 miliardi tra liquidità e linee di credito inutilizzate, ma c’erano già 17 miliardi di bonds e prestiti da rimborsare, tra 2010 e 2011.

La domanda a questo punto è duplice. Va bene non distribuire dividendi, come subito l’Amministrazione Obama ha irritualmente chiesto e ottenuto da BP per il 2010: ma per quanti anni? E inoltre: i tribunali USA seguiranno il principio che occorre sempre porre un limite ragionevole alla responsabilità illimitata di una società per danni catastrofici da eventi estremi, oppure faranno propria la demagogia populista del presidente ?

In ogni caso, nelle condizioni attuali per il board di Bp non c’è alternativa. A parte la speranza che qualche nuovo marchingegno consenta di mettere uno stop al deflusso, occorre far cassa subito per miliardi, per evitare un nuovo downgrading come quello che Fitch ha già comminato a metà giugno, e che ha fatto schizzare il costo del debito. Secondo le malelingue, in realtà Obama  picchia duro non solo perché, come BP, deve recuperare sull’impressione popolare che abbia del tutto sottovalutato l’evento e  la sua portata, per lunghe settimane. Ma anche perché, a questo punto, tanto vale portare BP alla canna del gas il più possibile sotto le elezioni del midterm del prossimo autunno. Magari assicurando alle oil companies americane buona parte di ciò che BP ha in pancia di più prezioso, e cioè moltissimo upstream di grande qualità e in aree non devastate da pericolosa instabilità mondiale.

Ma se è così, perché non arrivare per primi dico io? Per questo dico che, se fossi stato l’azionista pubblico di controllo italiano dell’ENI, e cioè il governo, in queste settimane avrei fatto  un bel pensierino. Perché non farsi subito vivi con il board di BP, e fare una bella offerta per 10-15 bn  di uspstream pregiato, prima che le procedure giudiziarie mettano inequivocabilmente BP alla mercé sei suoi creditori? Per conto mio, è un’operazione che da sola varrebbe la cessione di tutta la filiera nazionale del gas, approvvigionamento stoccaggio e distribuzione, che nessun concorrente  di Eni mantiene altrettanto integrata. Non è un’idea balzana, perché ne ho parlato con banchieri e oilmen e tutti mi hanno dato ragione. Ma è il governo italiano, che da questo punto di vista non ci sente. Peccato, dico io. Non tutti i mali vengono per nuocere, aggiungo cinicamente. Ma vale solo per chi ne sa approfittare, ovvio.

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Liberalizzazioni: bene anche i Radicali e bentornata Emma /2010/06/23/liberalizzazioni-bene-anche-i-radicali-e-bentornata-emma/ /2010/06/23/liberalizzazioni-bene-anche-i-radicali-e-bentornata-emma/#comments Wed, 23 Jun 2010 18:05:02 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6348 Dopo le sei proposte di Pierluigi Bersani, oggi sono venuti allo scoperto i Radicali. I leader del partito – Emma Bonino, Mario Staderini, Michele De Lucia e Marco Beltrandi – hanno illustrato un pacchetto di emendamenti alla manovra finanziaria. Il senso generale delle proposte è quello di “raddrizzare” le storture dell’intervento tremontiano, giudicato molto duramente:

misura strutturale, tagli lineari, interventi emergenziali, settoriali o a colpi di “una tantum”. Misure inique, dunque, dall’efficacia limitata, ma soprattutto senza alcuna prospettiva, per il nostro Paese, di riforme, crescita, sviluppo. Per distribuire ricchezza, bisogna prima produrla; in caso contrario, si distribuisce solo povertà, se non – addirittura – miseria.

La diagnosi è, sostanzialmente, condivisibile, al netto della polemica politica. E la terapia?

Pensioni. I Radicali suggeriscono un graduale innalzamento dell’età pensionabile a 65 anni per tutti i lavoratori, uomini e donne, pubblici e privati, a decorrere dal 2018. Coi risparmi così realizzati, si suggerisce di creare strumenti più efficaci e affidabili degli attuali destinati al “sostegno del reddito, alla formazione e al reinserimento nel mercato del lavoro“. So che va molto di moda, e so di andare controcorrente, ma entrambe le misure mi lasciano perplesso. Per quel che riguarda l’età pensionabile, il mero innalzamento è un second best: il first best sarebbe la piena liberalizzazione dell’età del pensionamento, in cambio dell’abolizione di qualunque livello minimo della rendita pensionistica. In fondo, se uno vuole smettere di lavorare a 40 anni, perché vive in campagna e ha l’orto si sostenta da sé, e dunque per le spesucce gli basta un assegno da 100 euro vita natural durante, perché impedirglielo? Per quel che riguarda la costruzione di un welfare “nordico”, è questione complessa a piena di implicazioni, ma quanto meno la contropartita non dovrebbe essere il mero equilibrio contabile – meno pensioni contro più tutele – ma anche regolatoria – più sostegno ai lavoratori in cambio di un mercato del lavoro più libero. Ecco, questa seconda gamba non c’è, e in sua assenza non so se il gioco possa valer la candela. Ne abbiamo discusso qui.

Voucher. Sulla sanità, i Radicali propongono una proposta rivoluzionaria ma monca – o, almeno, insufficiente. Suggeriscono infatti di dotare ciascun individuo di una serie di “buoni sanità” utilizzabili per tutti i servizi di cura e assistenza. I voucher hanno una serie di vantaggi indiscutibili, che vanno dalla regolarizzazione di una serie di posizioni lavorative in particolare nell’assistenza, alla possibilità di creare forme di competizione tra le strutture pubbliche, e tra queste e le strutture private. Il problema è che, in un contesto ampiamente statizzato come il nostro, i voucher sono utili ma non sufficienti: occorre iniettare maggiori dosi di privato, creando un contesto competitivo che sia veramente equo. Ma, per evitare che questa appaia come una critica “benaltrista”, non ho problemi a dire che non c’è alcun motivo di avversare la proposta, mentre ci sono molti e buoni motivi per sostenerla. Comunque, la nostra posizione sul tema sta qui (e in un libro di prossima pubblicazione a cura di Alberto Mingardi e Gabriele Pelissero per IBL Libri: stay tuned).

Isae. Di fatto qui si vuole salvare, cambiandogli la faccia, l’Isae. Boh.

Liberalizzazioni. Qui sta della ciccia davvero sugosa, e forse è il capitolo più interessante e rivoluzionario dell’intero pacchetto di riforme radicali. La prima e più bella consiste nella sostanziale abolizione dell’Inail, consentendo l’ingresso dei privati nel mercato assicurativo degli infortuni sul lavoro. Credo noi dell’IBL siamo stati tra i primi a suggerirlo, qui. Sulle banche, si propone l’istituzione di un’autorità di controllo sull’attività delle fondazioni di origine bancaria e si suggerisce il ripristino del divieto di impresa nei settori non bancari e non finanziari: lasciamo perdere. Sulle infrastrutture energetiche si propone la separazione proprietaria delle reti, in particolare quella gas, dagli incumbent. Non è disponibile il testo della proposta, quindi non la so valutare tecnicamente (in realtà non serve una legge, serve solo una data per rendere efficace quello che la normativa vigente già impone), comunque il principio è giusto e coraggioso, come spiego qui. Libri: si suggerisce una parziale liberalizzazione dei prezzi, consentendo al librario di praticare sconti superiori al 15 per cento nei 20 mesi successivi alla pubblicazione (chissà perché solo per un periodo di tempo limitato). Buono ma poco coraggioso. Qui le buone ragioni per un intervento più… radicale. [UPDATE: Come spiegato nei commenti, l'emendamento radicale ha l'effetto di liberalizzare completamente i prezzi dei libri, perché questi sono già liberi a partire dal ventesimo mese dalla pubblicazione. Mi scuso per l'errore]. Sale cinematografiche: togliere alle regioni il potere di programmare (o impedirne) l’apertura. Giusto. Ne abbiamo parlato, con una riflessione più ampia sulle regolamentazione del commercio, qui. Idem per la liberalizzazione delle vendite dei giornali. Viene poi proposto un significativo alleggerimento dei vincoli alle vendite sottocosto (ma, anche qui, perché non liberalizzarle del tutto?). Infine, conclusione in bellezza: abolizione del valore legale del titolo di studio. Hip hip hurrà!

Costi della politica. Riduzioni assortite dei contributi pubblici ai partiti. Why not?

Risparmi nella pubblica amministrazione. Il primo emendamento propone di privilegiare il software open source rispetto a quello proprietario. Mi lascia molto perplesso: non c’è ragione a priori di ritenere l’uno meglio dell’altro, specie quando il software serve per svolgere funzioni precise. Non metto link perché non trovo, ma sono sicuro che anche questo l’avevamo detto qualche anno fa, quando se ne era parlato. Poi c’è un tentativo di rendere un filo più civili le nostre norme sull’immigrazione, e non possiamo che approvare. E infine c’è la questione della liberalizzazione dei servizi pubblici locali, su cui è superfluo dire che siamo del tutto allineati.

Stato di diritto e fisco. Vengono eliminati gli interventi più violenti e da stato di polizia tributaria contenuti nella manovra tremontiana. Avanti tutta!

Fiscalità ambientale. Vengono avanzate tre proposte: una carbon tax il cui gettito sia impiegato per ridurre il carico fiscale sul lavoro. Promossa. La costituzione di un fondo di garanzia contro i danni delle estrazione offshore (mica siamo in Louisiana, perbacco). La riduzione degli incentivi all’eolico: qui non è chiaro come, ma di fatto un provvedimento del genere, e persino esagerato, c’è già nella manovra. Il problema è complesso e penso di tornarci presto in modo più ampio, ma mi pare anzitutto sia necessario distinguere tra impianti esistenti o autorizzati (per i quali pacta sunt servanda) e installazioni future. Inoltre non ne capisco la logica: in un’ottica di carbon tax, tutti i sussidi andrebbero aboliti. Inoltre, e questo ha dell’incredibile, credevo fosse ovvio che il vero scandalo in questo paese non sono i sussidi all’eolico, ma quelli al solare fotovoltaico. Se proprio si deve, pregasi iniziare da lì.

Tutela delle aree protette. I radicali vorrebbero restituire ai parchi i soldi tolti da Tremonti. Vade retro!

Urbanistica. Sono molto combattuto su questo emendamento, che vorrebbe rintuzzare le ambigue aperture della manovra sulla possibilità di re-introdurre imposte sugli immobili negli enti locali. Da un lato, mi sta bene: serve a contenere la pressione fiscale totale. Dall’altro insomma: se davvero dobbiamo prendere sul serio la riforma federalista, il problema non è impedire agli enti locali di autofinanziarsi come gli pare, ma tagliare le unghie al fisco centrale.

In conclusione: il pacchetto è ampio e variegato, ma la maggior parte delle proposte sono più che sensate. Quindi, nella maggior parte dei casi speriamo vengano approvate, sapendo che ciò non accadrà. Fa piacere, e mi scuso per la conclusione un filo polemica, scoprire che la Dott.ssa Bonino-Jeckyll ha ripreso il sopravvento su Miss Emma-Hyde che, durante la corsa alienata per la presidenza del Lazio, aveva subito una mutazione genetica nel solco tremontian-rifondarolo. Bentornata tra noi!

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Navarro falls /2010/06/09/navarro-falls/ /2010/06/09/navarro-falls/#comments Wed, 09 Jun 2010 10:07:38 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6238 Sull’Occidentale, Gengis – tra l’altro fedele lettore di Chicago-blog – fa il pelo a Mario Tozzi e il contropelo a Joaquìn Navarro-Valls. Da non perdere.

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Tuiavii di Samoa non aveva nulla da imparare dagli europei, ma io ho qualcosa da imparare da Mario Tozzi /2010/06/06/tuiavii-di-samoa-non-aveva-nulla-da-imparare-dagli-europei-ma-io-ho-qualcosa-da-imparare-da-mario-tozzi/ /2010/06/06/tuiavii-di-samoa-non-aveva-nulla-da-imparare-dagli-europei-ma-io-ho-qualcosa-da-imparare-da-mario-tozzi/#comments Sun, 06 Jun 2010 08:53:48 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6181 Il titolo bizzarro di questo post nasce dalla lettura di un articolo bizzarro di Mario Tozzi. La tesi di Tozzi è talmente bizzarra che non entro nel merito più di tanto. Cito solo due passaggi.

In un viaggio nell’Europa dell’inizio del XX secolo il mitico Tuiavii di Tiavea, sovrano delle isole di Samoa, metteva già alla berlina molti aspetti del progresso occidentale riducendoli a usanze strane e ridicole, come quella di suddividere il tempo, o malefiche, come quella di venerare il denaro come unico dio. Il capo indigeno concludeva la sua invettiva contro il papalagi (l’uomo occidentale) imponendo ai suoi sudditi di non recarsi mai in Europa, ché tanto non c’era nulla da imparare.

Tuiavii aveva capito che c’è una differenza fra gli uomini e gli altri viventi. Una sola, ma fondamentale, che spiega la nostra apparente supremazia e, insieme, il nostro precipitarsi verso la crisi ecologica più grave che l’umanità abbia mai attraversato… Ma non è difficile coglierla, è la stessa che non aveva invece compreso l’ultimo indigeno dell’isola di Pasqua mentre tagliava l’ultimo albero: non poteva ignorare che così facendo avrebbe condannato la sua gente alla fine. Eppure lo ha fatto. Perché? A causa dell’accumulo e del profitto, sconosciuti al resto degli animali e dei vegetali, ma ben noti proprio agli uomini, che più posseggono e più vorrebbero. Questa è di fatto l’unica differenza che conta.

Non so quale fosse il livello di benessere o la qualità della vita sulle isole di Samoa quando il saggio e tollerante Tuiavii viaggiava in Europa, facendosi beffe degli europei e imprigionando i suoi sudditi in patria perché tanto all’estero non c’era nulla da imparare. Ma non credo ci sia molto da dire.

La seconda citazione è ancora più bizzarra non tanto per il calembour sul profitto, quanto per l’esempio fornito da Tozzi. Infatti, la logica più elementare dà ragione all’ultimo abitante dell’Isola di Pasqua e torto a Tozzi. Poiché, in ipotesi, l’individuo di cui stiamo parlando era l’ultimo indigeno dell’Isola di Pasqua, egli coincideva con “la sua gente”. In quel momento, aveva due opzioni: tagliare l’ultimo albero (assumo che tagliando l’albero si sarebbe in qualche modo nutrito) oppure non farlo. Non facendolo, sarebbe morto di fame subito. Tagliandolo, sarebbe comunque morto di fame, ma relativamente più tardi. Quindi la sua scelta era tra morire subito o morire nel futuro. Alzi la mano chi, di fronte a una scelta simile, non avrebbe fatto la stessa cosa (cioè alzi la mano chi, soffrendo di una malattia curabile, non si lascia curare). Prolungando la sua vita, l’ultimo indigeno ha prolungato la vita della sua gente. Tozzi l’avrebbe condannato a morte per salvare l’ultimo albero, penso di poter inferire dal suo articolo. Così come avrebbe sostenuto il sovrano di Samoa e condannato i samoani a non allontanarsi mai dalle loro isole.

Tozzi sembra d’accordo con Tuiavii nel pensare che tanto i samoani  non avevano nulla da imparare dagli europei. Chiamatemi pure nostalgico, ma io resto affezionato all’idea che dagli altri si possa sempre imparare qualcosa. Persino da Tozzi. Infatti io non conoscevo la storia di Tuiavii di Samoa. Che non è bella ma è istruttiva.

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L’Europa e la tartaruga /2010/03/17/leuropa-e-la-tartaruga/ /2010/03/17/leuropa-e-la-tartaruga/#comments Wed, 17 Mar 2010 13:42:44 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5419 I ministri europei dell’Ambiente si sono divisi, durante il meeting di lunedì, sull’opportunità di alzare unilateralmente, dal 20 al 30 per cento, il target di riduzione delle emissioni entro il 2020. Il pacchetto “energia e clima” che affonda le radici nel blitz di Angela Merkel alla riunione del Consiglio europeo della primavera 2007, infatti, consente di inasprire l’obiettivo. Le successive negoziazioni – grazie anche all’apporto cruciale dell’Italia – hanno condizionato tale passo al raggiungimento di un’intesa globale che, a Copenhagen, non c’è stata; e che, con ogni probabilità, non ci sarà quest’anno a Cancun. Allora si sono innescate tutte le forze centrifughe che covavano sotto la cappa politicamente corretta imposta da Bruxelles.

Si sono mossi, pesantemente, i Verdi: una lobby che nella capitale belga è assai più influente di quanto non lasci intendere il suo peso elettorale. Secondo uno studio diffuso ieri, il target del 20 per cento non è sufficiente a garantire il “doppio dividendo” alla politica ambientale, ossia non è sufficiente ad allineare gli obiettivi di crescita economica e soprattutto di creazione di posti di lavoro a quelli di riduzione delle emissioni. E’ una tesi piuttosto bizzarra ma, nelle prossime settimane, avremo modo di tornarci. Di certo è una tesi originale, visto che, fino a poco tempo fa, si diceva che col 20 per cento avremmo raggiunto mari e monti: viene il sospetto che sia un modo per mettere le mani avanti. Contemporaneamente, stanno scendendo in campo con tutto il loro peso politico nazioni che credono di potersi avvantaggiare dalle politiche kyotiste – come il Regno Unito (che aspira a capitalizzare sulle transazioni finanziarie dell’Emissions Trading Scheme), la Danimarca (grande produttore di impianti rinnovabili), la Svezia e i Paesi Bassi.

Dall’altro lato, però, si sta facendo più vocale l’opposizione dei paesi dell’Est – che, avendo prospettive di medio termine di tornare a una vigorosa crescita economica, sarebbero penalizzati da un ulteriore giro di vite ambientale – ma anche l’Italia e – nuovo iscritto al club – la Finlandia. In questo contesto, si è notato il silenzio di Francia e Germania, tradizionalmente schierate sul fronte degli “ambiziosi”. Forse, Parigi e Berlino hanno capito che con la retorica verde non si esce dalla crisi; e, anzi, contrariamente a quanto dicono i Verdi, con la retorica verde la crisi si aggrava, perché per quanto un paese riesca a posizionarsi industrialmente sulle energie verdi, c’è un limite alla loro capacità di penetrazione. Limite fisico e tecnologico, naturalmente, ma soprattutto limite economico, perché man mano che la diffusione delle fonti “pulite” aumenta, crescono i costi dell’energia, e dunque lo stimolo all’industria verde è controbilanciato da uno svantaggio competitivo per tutti gli altri, e in particolare per le industrie energivore (che in Germania non sono di secondaria importanza).

E’ probabile, dunque, che l’Europa dovrà accontentarsi del 20 per cento – che è e resta un target troppo ambizioso, ma senza dubbio è meno peggio del 30 per cento. La sensazione è che anche i più entusiasti, comunque, abbiano avviato un serio ripensamento, perché si sono trovati come la tartaruga di Bruno Lauzi:

la tartaruga
un tempo fu
un animale
che correva
a testa in giù
come un siluro
filava via
che ti sembrava
un treno
sulla ferrovia
ma avvenne
un incidente
un muro la fermò
si ruppe
qualche dente
e allora rallentò.

]]> /2010/03/17/leuropa-e-la-tartaruga/feed/ 4 I fiumi e la ghiaia. Quando vincoli e divieti peggiorano la situazione /2010/01/12/i-fiumi-e-la-ghiaia-quando-vincoli-e-divieti-peggiorano-la-situazione/ /2010/01/12/i-fiumi-e-la-ghiaia-quando-vincoli-e-divieti-peggiorano-la-situazione/#comments Tue, 12 Jan 2010 15:04:02 +0000 Guest /?p=4723 Riceviamo e volentieri pubblichiamo

di Giordano Masini

Ormai la situazione è più tranquilla, ma la notte della Befana, quando mio cugino mi ha telefonato per dirmi che stava per andare sott’acqua con tutta la casa, tutto sembrava possibile. Lui ha un azienda agricola nella valle del fiume Paglia, lungo la SS2 Cassia, in provincia di Viterbo, a pochi chilometri dal confine con la Toscana. Ha piovuto parecchio in questi giorni, qui e soprattutto sul Monte Amiata, dove il Paglia inizia il suo corso. Quella notte, quando sono andato da lui, lo spettacolo era impressionante.

Un fiume gigantesco scorreva a pochi metri dalla porta della sua casa, che si trova a centinaia di metri di distanza dal letto del fiume. Quando, con i fari della macchina, illuminavamo l’acqua, vedevamo venire giù di tutto: tronchi d’albero, materiale di ogni genere… “A forza di vedere tutta quest’acqua m’è venuta sete!” ha detto l’operaio che lavora nell’azienda, e siamo entrati in casa dove abbiamo stemperato un po’ la tensione davanti a una bottiglia di vino e qualche dolce avanzato dalle feste, mentre la piena cominciava a calare, e come succede in casi come questi, si è parlando molto del passato, quando queste cose non succedevano.
Perché è vero, una volta queste cose non succedevano. Il Paglia è un fiume dal letto ghiaioso, che scorre in un’ampia valle tra le colline argillose. Quando ero ragazzino il fiume scorreva al suo posto, d’estate e d’inverno. Un paio di impianti di estrazione di inerti provvedevano a ripulire costantemente il suo letto, eliminando la ghiaia che le piene depositavano a valle, mentre i terreni intorno erano destinati all’agricoltura.
Poi, quando si è cominciato a dire che le attività estrattive, qui ma soprattutto altrove, avevano esagerato, e probabilmente era vero, è stato vietato di estrarre ghiaia dal letto dei fiumi. Da 25 anni ormai, grazie alla famosa legge Galasso, chi vuole cavare la ghiaia deve affittare un terreno a più di 150 metri dal letto del fiume, eliminare la terra, rimuovere tutta la ghiaia che riesce a trovare al di sotto, e richiudere con nuova terra. Il risultato paradossale è che, mentre il letto dei fiumi si innalza di metri perché nessuno provvede a rimuovere il materiale alluvionale, i livello dei terreni intorno si abbassa (è praticamente impossibile ripristinare le quote di livello originarie dopo l’estrazione) e gli stessi terreni drenano molto meno (laddove c’erano metri di ghiaia sotto un metro e mezzo di terra, oggi c’è solo terra di riporto). E quindi sono ormai anni che da mio cugino l’acqua arriva a casa quasi tutti gli anni, interi campi devono essere bonificati dai sassi, ettari ed ettari devono essere riseminati, strade rurali e fossi tracciati daccapo, quando i danni non interessano anche bestiame e fabbricati, senza contare la perdita di valore delle proprietà.
Basterebbe un po’ di buon senso per capire che è stata fatta una stupidaggine, e bella grossa. In passato delle attività private provvedevano, per “biechi” interessi di profitto individuale, alla tutela e alla salvaguardia del territorio molto meglio di quanto non siano riuscite a fare, negli anni successivi, tutte le autorità pubbliche preposte. C’era un equilibrio umano, nel senso che era frutto delle attività umane che si erano sviluppate in libertà . Se qualcuno esagerava, sarebbe bastato sanzionarlo (non sembra che in realtà oggi l’attività estrattiva sui terreni limitrofi al letto dei fiumi sia sottoposta a controlli molto efficaci).
Per rendersi conto del perché oggi sia molto difficile tornare indietro, basta dare un occhiata alla legge 183 del 1989 (PDF) e successive modificazioni, ovvero le norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo. A un generico e indefinito elenco di finalità che occupa 2 pagine su 17  (è un florilegio di espressioni come attività conoscitiva, pianificazione, programmazione, disciplina, contenimento, regolamentazione, gestione integrata, e così via) segue un ben più preciso elenco di nuove autorità pubbliche (e vecchie a cui vengono attribuite nuove funzioni) che vengono istituite e accuratamente finanziate (in questo caso le pagine sono 15 su 17): si parte dal Comitato dei Ministri per i Servizi Tecnici Nazionali, istituito con funzioni di “alta vigilanza” (dall’alto si vede più lontano, forse). Segue il Comitato Nazionale per la Difesa del Suolo, i Ministeri dei Lavori Pubblici e dell’Ambiente, la Direzione Generale per la Difesa del Suolo, i Servizi Tecnici Nazionali, il Consiglio dei Direttori, il Genio Civile, la Conferenza Stato-Regioni, le Regioni, le Autorità di Bacino, i Comitati Tecnici di Bacino, i Comuni, le Province, i Consorzi di Bonifica, le Comunità Montane, i Consorzi di Bacino Imbrifero Montano, i Consorzi Obbligatori dei Servizi Pubblici di Acquedotto, Fognatura, Collettamento, e Depurazione delle Acque Usate, e chissà cos’altro.
Tutto questo popò di carrozzoni e carrozzine (a cui vanno aggiunti anche, per le emergenze, la Polizia Provinciale, la Polizia Idraulica, il Corpo Forestale dello Stato, i Vigili del Fuoco e la Protezione civile) non sono riusciti a fare, sul letto del fiume Paglia, quello che in passato facevano due dico due piccoli impianti per l’estrazione della breccia di fiume. Intanto continua a piovere…

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Uh-oh. Mi è semblato di vedele una letlomalcia /2009/10/31/uh-oh-mi-e-semblato-di-vedele-una-letlomalcia/ /2009/10/31/uh-oh-mi-e-semblato-di-vedele-una-letlomalcia/#comments Sat, 31 Oct 2009 18:41:43 +0000 Carlo Stagnaro /?p=3535 Straordinaria intervista del Times a Sir David King, direttore della Smith School for Enterprise and the Environment a Oxford e già capoconsigliere economico dell’allora primo ministro britannico, Tony Blair. L’uomo che pochi anni fa sosteneva che “il cambiamento climatico è una minaccia peggiore del terrorismo”, oggi dice:

When people overstate happenings that aren’t necessarily climate change-related, or set up as almost certainties things that are difficult to establish scientifically, it distracts from the science we do understand. The danger is they can be accused of scaremongering. Also, we can all become described as kind of left-wing greens.

Non so se queste parole, pesantissime se si pensa che l’intera propaganda ambientalista (a cui King non è stato estraneo) si è basata per almeno un decennio sull’idea che il riscaldamento globale fosse una scorciatoia verso l’Apocalisse, siano frutto di un ravvedimento sincero, o se vadano piuttosto interpretate come la reazione barometrica al clima intellettuale e politico che cambia. Certo è che qualcosa si sta muovendo. Sono principalmente due le componenti del mutamento. La prima è il clima: negli ultimi anni, i cambiamenti climatici non hanno dato particolari segni di esistere. Prevengo l’obiezione (giusta): il global warming è un fenomeno di lungo termine, quelle che osserviamo anno dopo anno sono variazioni di breve, quindi possono tranquillamente coesistere e non sono necessariamente incompatibili. Vero, naturalmente. Ma non sono stato io a indicare tutte le presunte “anomalie”, tutti i disastri naturali da Katrina all’ondata di calore del 2003, dalle piogge troppo intense al bel tempo troppo prolungato, come diretta conseguenza della CO2 da noialtri sparata nell’atmosfera. Sono stati proprio gli allarmisti climatici – o, almeno, alcuni di loro – ad accreditare la sovrapposizione tra breve e lungo termine. Ora, la marea rifluisce e loro stessi sono colpiti dalla loro disonestà intellettuale.

La seconda ragione del vento che cambia è la crisi. La crisi ha reso evidenti a tutti due fatti, che non era difficile prevedere (anzi, tanti, compresi noi dell’IBL, queste cose le hanno scritte quando era certamente meno facile di oggi). Anzitutto, c’è, nel breve termine sicuramente, nel lungo termine probabilmente, un trade off tra la crescita economica e la riduzione politica delle emissioni. I target vincolanti sono incompatibili con lo sviluppo economico. Tant’è che, dopo anni di accanimento terapeutico sull’industria europea, la riduzione delle emissioni la si vede in misura massiccia solo ora che la recessione ha tagliato gli ordinativi. Non significa, se hanno ragione gli allarmisti, che non possa essere necessario intervenire sulla CO2 per salvare il mondo: significa solo che, contrariamente a quanto ci hanno raccontato per anni, non è una scelta a costo zero. L’altro è che è ridicolo pensare di risolvere il problema climatico (nella misura in cui il clima è un problema) con politiche di breve termine. Queste necessariamente interferiscono con, e sono influenzate da, le oscillazioni economiche, climatiche, culturali, ecc. di breve termine, e quindi aprono un grande spazio per i rent seekers, ma rendono poco probabile il raggiungimento di risultati duraturi. Il teatrino patetico con cui il mondo si sta avvicinando a Copenhagen ne è una dimostrazione: il vertice da cui doveva uscire il nuovo ordine mondiale, giorno dopo giorno appare sempre più come l’ennesima riunione inutile. Tutto questo vociare, questo pretendere che il clima sia il primo e il più grande dei nostri problemi, ambientali e no, ha prodotto una sovraesposizione che oggi non paga più. A farne le spese sono principalmente gli ambientalisti seri e quelli che, dal fronte avverso, riconoscono che è comunque importante non perdere di vista la faccenda.

Comunque, la ragionevolezza delle parole di King stride con quella che è stata la regola, per gli allarmisti, fino a oggi. E che è bene espressa da un altro protagonista della cialtroneria climatica, Stephen Schneider, trait d’union tra Al Gore e Barack Obama, che ha detto:

On the one hand, as scientists we are ethically bound to the scientific method, in effect promising to tell the truth, the whole truth, and nothing but — which means that we must include all the doubts, the caveats, the ifs, ands, and buts. On the other hand, we are not just scientists but human beings as well. And like most people we’d like to see the world a better place, which in this context translates into our working to reduce the risk of potentially disastrous climatic change. To do that we need to get some broadbased support, to capture the public’s imagination. That, of course, entails getting loads of media coverage. So we have to offer up scary scenarios, make simplified, dramatic statements, and make little mention of any doubts we might have. This ‘double ethical bind’ we frequently find ourselves in cannot be solved by any formula. Each of us has to decide what the right balance is between being effective and being honest. I hope that means being both.

Fa piacere poter rivendicare che noi forse siamo stati poco efficaci. Ma l’onestà intellettuale è un valore che non abbiamo mai messo in dubbio, a cui non abbiamo mai rinunciato. Benvenuto nel club, Sir King.

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Ostacoli nucleari /2009/09/09/ostacoli-nucleari/ /2009/09/09/ostacoli-nucleari/#comments Wed, 09 Sep 2009 08:19:50 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2589 Splendido articolo di Ed Crooks e James Blitz sul Financial Times, che fa il punto sulle prospettive per l’energia atomica. La prospettiva è “laica” e, giustamente, evita di entrare nei due tormentoni che sempre inquinano la discussione sull’atomo: cioè la rissa religiosa nucleare sì / nucleare no, e il dibattito infinito sul costo del chilowattora. Voglio sottolineare quest’ultimo punto: trovo del tutto irrilevante, politicamente, accappigliarsi sul reale costo di produzione dell’energia nucleare, a meno che ciò non sia la premessa per la richiesta di sostegni tariffari sul modello delle rinnovabili. L’aspetto paradossale è che l’insistenza sui costi di produzione non viene da chi il nucleare vuole farlo, ma da chi lo osteggia: non che i primi siano dei santarelli mercatisti, ché se un sussidio gli svolazza di fianco lo acchiappano loro pure. Solo che, semplicemente, non è di questo che si sta discutendo – né a livello globale, né in Italia. Un’ulteriore precisazione riguarda il fatto che una parte dei problemi sollevati dal Ft non si applicano al nostro paese, perché hanno una dimensione geopolitica ritagliata sul comportamento di quelle nazioni riottose che, per ragioni le più diverse, non sono disposte ad accettare tutti gli standard o i compromessi internazionali. Quindi, oggi non si parla di Italia, ma del mondo.

Dal punto di vista del mondo occidentale, l’atomo presenta due indiscutibili vantaggi: aiuterebbe a rafforzare la sicurezza energetica (perché consente una maggiore diversificazione delle fonti e dei fornitori, almeno nel settore elettrico e indirettamente in quello del riscaldamento e degli usi industriali, a favore dei quali verrebbero liberati approvvigionamenti di gas) e contribuirebbe all’abbattimento delle emissioni. Personalmente sono contrario alla “politicizzazione” di questi due obiettivi e all’adozione di specifici strumenti di policy (come l’orrido Emissions Trading Scheme che quotidianamente ci affligge). Però è un dato di fatto con cui i maniaci della sicurezza e dell’ambiente dovranno fare i conti, che qualunque politica tesa ad ampliare la diversificazione o a ridurre il consumo di combustibili fossili renderà l’atomopiù  competitivo, e aiuterà a togliere castagne finanziarie dal fuoco competitivo dei mercati liberalizzati.

Nella prospettiva geopolitica, il nucleare ha un grande e ovvio appeal per i paesi produttori di risorse: per i quali, se anche fosse relativamente più costoso dell’elettricità prodotta da metano, avrebbe comunque senso installarne una quota per liberare olio e gas da destinare all’esportazione (dove, visti i costi di estrazione relativamente bassi, sono comunque più profittevoli). Tra parentesi, diversi paesi del Golfo generano la loro elettricità col peggio olio combustibile, quindi l’impatto ambientale – e non parlo solo di CO2 – sarebbe indubitabilmente positivo. Qui il vero problema riguarda il possibile nesso, per quanto debole, tra nucleare civile e nucleare militare, e in particolare alla possibilità di nascondere il secondo dietro il primo.

Questo è un problema serio – soprattutto di fronte a pretendenti come l’Iran, che del restano puntano il dito contro chi, come Israele, India e Pachistan, l’hanno già fatto. Tuttavia è un problema che è possibile affrontare in ottica puramente pragmatica: in ballo non ci sono reali opzioni ideologiche, ma interessi e contropartite. E’ un terreno su cui le diplomazie possono e devono muoversi, ma è importante evitare inutili estremismi (come le posture nazionaliste iraniane, ma anche i niet ciechi e assoluti troppo spesso posti dalle amministrazioni americane) e le strumentalizzazioni religiose (penso all’antinuclearismo verde). Chi ha veramente il pallino in mano, oggi, è Washington, che su questa battaglia potrà darsi un profilo davvero alto – oppure sprecare un’opportunità e incancrenire le attuali incomprensioni (nello stesso modo in cui si sta uccidendo il Nabucco per il tic psicologico di sedersi allo stesso tavolo con Bagdad e Teheran). 

La questione, dicevo, è seria ma non ancora grave: vediamo di evitare che lo diventi.

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Breaking news: le rinnovabili costano /2009/08/12/breaking-news-le-rinnovabili-costano/ /2009/08/12/breaking-news-le-rinnovabili-costano/#comments Wed, 12 Aug 2009 07:38:34 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2026 Il libro bianco del governo britannico sulle fonti rinnovabili lo dice chiaro e tondo: a fronte di un costo di incentivazione per raggiungere gli obiettivi stimato fra 57 e 70 miliardi di sterline nei prossimi 20 anni, il beneficio ambientale generato dalle fonti verdi sarà di appena 4-5 miliardi di sterline. Metteteci dentro tutto quello che volete: il costo evitato di generazione elettrica da altre fonti, i green jobs, shakerate, e troverete comunque le cifre impietose di un fallimento annunciato.

La questione è molto semplice: la maggior parte delle fonti rinnovabili sono per nulla competitive. Sono, cioè, talmente distanti dai costi che caratterizzano le fonti tradizionali (nucleare compreso) che non c’è modo di dimostrare, razionalmente, che sia sensato incentivarle. Infatti, delle due l’una. Se l’obiettivo è quello di ridurre le emissioni, allora non c’è motivo di scegliere una (o poche) vie, e soprattutto di definire ex ante (attraverso una serie di obiettivi vincolanti) quale sia il mix di strumenti necessari a raggiungere tale fine. Noi non sappiamo se e in quale combinazione sole, vento, efficienza, nucleare, eccetera possano essere impiegati nel modo migliore. L’unica strada per conoscere la risposta è il mercato: e, dunque, ammesso e non concesso che si voglia “fare qualcosa” per ridurre le emissioni, occorre creare uno spazio concorrenziale dove, per quanto le emissioni (non le fonti che le producono) siano penalizzate, tutte le alternative siano poste in competizione tra di loro e con le fonti carbon-based. La via più semplice è quella di istituire una carbon tax costruita in modo tale che il suo gettito sia impiegato per ridurre altre imposte più distorsive, come abbiamo proposto tempo fa e come parrebbe sostenere anche il capo del Pd, Dario Franceschini.

Se invece ridurre le emissioni non è l’unico obiettivo, e magari neppure il più importante, allora è tutto un altro paio di maniche: usciamo dal campo della politica ambientale per muoverci sul più insidioso territorio della politica industriale. In questa prospettiva, ha senso – oggi – incentivare le rinnovabili? La risposta standard è che sì, ha senso, perché solo così potremmo imitare l’esempio virtuoso di paesi come la Germania che hanno creato una forte industria domestica e hanno così dato vita a 240 mila nuovi posti di lavoro. Una analisi piuttosto ampia della questione dei green jobs è disponibile qui.  Il punto che mi pare rilevante, però, è che perseguire quella strategia oggi mi sembra sbagliato (in ottica industriale) proprio perché la Germania l’ha già fatto. Pensare che nel settore delle rinnovabili non esistano economie di scala, e che quindi moltiplicando di n volte la produzione si moltiplicheranno di n volte anche i posti di lavoro, è un’ingenuità pericolosa. Tra l’altro, è evidente che l’impatto economico netto delle politiche di incentivazione alle fonti non può che essere negativo, a meno che un paese non sappia diventare esportatore di tecnologia, cioè non riesca a esercitare un’azione di lobbying così efficace (per esempio a livello europeo) da spingere tutti gli altri paesi a costringere i loro sistemi industriali ad acquistare prodotti farlocchi dal suo (ogni riferimento al pressing di Berlino su Bruxelles è decisamente voluto). Piuttosto, sarebbe meglio incentivare l’innovazione, che tra l’altro costa meno, anche perché si potrebbe indirettamente sperare di risolvere il problema ricordato sopra: che le attuali fonti rinnovabili sono patacche. Le rinnovabili possono avere speranze solo se diventano ragionevolmente competitive.

Detto questo, sono scettico perfino sugli incentivi all’innovazione. Per due ragioni, una generale e una specifica. Quella generale è che gli incentivi quasi sempre beneficiano i soggetti sbagliati o addirittura indirizzano la ricerca nella direzione meno promettente. Meglio lasciar fare al mercato, garantendo poi una giusta remunerazione degli investimenti attraverso forme di detassazione (non solo nel campo delle fonti verdi, ovviamente) e con l’impegno credibile a una forte tutela della proprietà intellettuale. In seconda battuta, credo abbia ragione Alberto Clò, che pur muovendo da una prospettiva diversa da quella “mercatista”, ha detto una cosa molto giusta (cito a memoria):

In un momento di crisi come quello attuale, è assurdo parlare di rinnovabili. Sia perché l’effetto sui consumi energetici è talmente vasto da far saltare tutte le nostre previsioni sul consumo. Sia perché, soprattutto, se non ci sono i soldi per gli ammortizzatori sociali, mi sembra normale che non ci siano neppure per le fonti rinnovabili. Dico di più: se non ci sono i soldi per gli ammortizzatori, quelli per le rinnovabili non ci devono essere. Dobbiamo ri-imparare a stabilire delle priorità.

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Nucleare: consenso informato? Di Antonio Sileo /2009/07/13/nucleare-consenso-informato-di-antonio-sileo/ /2009/07/13/nucleare-consenso-informato-di-antonio-sileo/#comments Mon, 13 Jul 2009 16:01:08 +0000 Guest /?p=1527 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da parte di Antonio Sileo.

Vogliano perdonare i sempre più numerosi lettori l’incursione su queste colonne, su un tema, poi, di cui si parla (e si scrive) già tanto; ma energia nucleare (o atomica, come si diceva una volta) è proprio un argomentone: problema insolubile o soluzione ovvia a seconda dei punti di vista; come se la ripresa di una produzione elettronucleare fosse davvero dietro l’angolo. Forse si è già capito, ma voglio ribadire che sono abbastanza d’accordo con quanto ha qui scritto Carlo Stagnaro.
La produzione di energia da fonte elettronucleare è un percorso lungo, secolare, che proprio non si presta ad accelerazioni o strappi, anche se tantissimi dei proponenti hanno i capelli bianchi…

Vorrei, quindi, brevemente, soffermarmi sulla questione dell’indispensabile consenso, che tra l’altro mai come in questo caso, è difficile da misurare.
Un consenso a geometria variabile, che muta quando si passa da un’intenzione generica alla scelta della reale ubicazione della centrale (Roberto Benigni avrà certo occasione di rifare un suo vecchio sketch: Noi siamo d’accordissimo al Nucleare, non vogliamo mica rimanere indietro, ma se la centrale serve a Roma perché farla qui? Noi ci accontenteremmo anche di una succursale…).

Del resto, proprio la mancanza di consenso ha fatto sì che la trascorsa avventura nucleare italiana sia stata altalenante negli sviluppi, quasi fallimentare nei risultati e non scevra da colpi bassi e di teatro. Anche a prescindere dalla vicenda referendaria, ciò che ha fatto difetto ai vari livelli – istituzionale, politico, economico, industriale, civile, accademico, tecnico – è stata proprio l’assenza manifesta di un accordo multidimensionale, per la verità una merce in Italia comunque rara. Né a tal proposito basta un’intensa attività convegnistica (per tradizione un indotto certo, con o senza centrali).

Forse, visto che il cammino resta ostico e il sentiero si intravede soltanto, conviene procedere con circospezione. Non tanto, e per forza, lentamente, quanto con passi piccoli che dovrebbero ridurre le possibilità di sgambetti.

A tal proposito, gioverebbe rammentare come il novellato art. 117, comma 3, della Costituzione comprenda, nell’elenco delle materie di legislazione concorrente, anche quelle relative al sistema infrastrutturale in materia di produzione, trasporto e distribuzione(?) nazionale dell’energia nonché alla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi.

La Corte costituzionale ha fornito nel tempo un’interpretazione dinamica di tale competenza concorrente (ex pluribus, le sentenze 303/2003, 6/2004, 62/2005), abbandonando l’idea di un riparto in senso rigidamente verticale, in favore di un sistema di relazioni Stato-Regioni costruito sulle cosiddette “intese” e sul principio della “leale collaborazione”. C’è il rischio, intrinseco alla materia, che talune scelte in tema di localizzazione degli impianti, sistemi di stoccaggio e definizione di misure compensative in favore delle popolazioni interessate dalla costruzione delle centrali – presenti nel disegno di legge – possano essere avvertite dalle Regioni come eccessivamente “centralistiche”, con il risultato di scatenare un contenzioso davanti alla Consulta dagli effetti dilatori facilmente intuibili.
Il fatto che nulla è stato concluso su un deposito nazionale per le scorie, neanche per quelle a medio-bassa attività, né è una riprova.

C’è poco da fare, e non bisogna dimenticarselo, l’energia nucleare viene (sovra)percepita, e in modo diverso da qualsiasi altra.
Lo scontro difficilmente sarà evitabile, in diversi saranno tentati di cavalcare i dissensi. La domanda di fondo sarà: ma perché il nucleare è così necessario?
Lo scontro difficilmente sarà evitabile, in diversi saranno tentati di cavalcare i dissensi.

La domanda di fondo sarà: ma perché il nucleare è così necessario? Con la crisi (con gli impatti sull’economia reale di quella che era una crisi finanziaria) i consumi, anche energetici, sono crollati e chi sa quando riprenderanno a crescere.  E, poi, a prescindere, non sarebbe meglio lavorare (investire) nel contenimento dei consumi.

Obiezioni, invero, non del tutto peregrine che verranno fatte dal (finalmente ricompattato) fronte ambientalista e non solo.
Come rispondere? Meglio, come convincere? Non sarà soltanto per le canute chiome, ma sta di fatto che non si sentono idee nuove.

Be’, visto che le celebrazioni per i cento anni del Futurismo non sono ancora finite e ché il Direttore ci da licenza poetica (e non solo), e vieppiù chiedendo scusa al genio di Marinetti, la risposta potrebbe essere la seguente:

Forse sarà proprio l’allora futuristica automobile (diventata ormai femminile) monca dei suoi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un’automobile non più ruggente, che adesso sembra correre come gioco di bambino e non più sulla mitraglia, che forse sarà meno bella della Vittoria di Samotracia, ma pulita: senza alcuna emissione biossicabonante, con ultramini celle di accumulo e che solo un po’, di notte?, si fermerà… Allora l’auto (elettro)atomica produrrà +++++++ (silenzio) e l’AgGlomErAtO UrbanO, le nostre ancor piccole metropoli, verranno purificate. E l’elettrocrescita di nuovo detonerà.

Chi sa, può darsi aspettino che lo dica un altro genio. Marchionne?

PS: chi scrive, naturalmente, è a conoscenza di un accordo proprio sull’auto elettrica tra una nota azienda energetica dal nome palindromo, che c’entra con un monopolista elettrico francese, e una ancor più nota casa automobilistica (anch’essa a controllo pubblico) sempre d’oltralpe.

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