CHICAGO BLOG » agricoltura http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 Agricoltura, trasporti e biodiversità: la nuova frontiera del protezionismo commerciale /2010/11/26/agricoltura-trasporti-e-biodiversita-la-nuova-frontiera-del-protezionismo-commerciale/ /2010/11/26/agricoltura-trasporti-e-biodiversita-la-nuova-frontiera-del-protezionismo-commerciale/#comments Fri, 26 Nov 2010 13:24:47 +0000 Giordano Masini /?p=7706 Alcuni commenti al mio ultimo post su Chicago Blog mi inducono a tornare su un argomento, quello dell’agricoltura di prossimità e della sovranità alimentare, intorno al quale mi sembra che circolino molti luoghi comuni e ben radicati. In particolare un lettore scriveva che è giusto sostenere l’agricoltura locale, o nazionale, per alcune ragioni:

  1. perchè è buona e salutare e va tutelata per la salute di tutti (anche la vostra)
  2. perchè si aiuta la produzione italiana, e tutti i paesi proteggono la propria produzione (anche la Germania che va tanto di moda solo perchè spende un po meno degli altri)
  3. perchè l’ortofrutta non è un prodotto normale, portarla in giro per il mondo ne sminuisce la qualità
  4. la biodiversità è un patrimonio inestimabile della umanità, purtroppo certe cose non hanno prezzo ed il mercato non funziona per loro

Mi sembra evidente che i primi due punti tendano ad annullarsi a vicenda: la nostra produzione è migliore (non solo più buona, addirittura più salutare!) di quella proveniente da altri paesi, ed è giusto tutelarla, ma se lo fanno, per la stessa ragione, anche altri paesi (il lettore cita la Germania, non avendo chiaro che la politica agricola è europea), è chiaro che qualcuno la sta sparando grossa: o noi, o i tedeschi, o più probabilmente tutti e due. Come se un attore in tournée, presentandosi sul palcoscenico di Parma, esordisse dicendo: “siete un pubblico fantastico, il più bel pubblico che abbia mai incontrato, come dicevo proprio ieri a Reggio Emilia…”

La realtà è, ovviamente, diversa. Nessuna regione può vantarsi di avere una produzione migliore, fatta solo di eccellenze. Avrà ottimi prodotti di un tipo, e pessimi prodotti di un altro tipo, e questo grazie alle caratteristiche del terreno e del clima. Se una regione pretende di soddisfare il proprio fabbisogno alimentare esclusivamente con prodotti provenienti dal suo territorio non tutela affatto la salute dei propri cittadini. Tutela soltanto (è più chiaro al punto 2 citato dal nostro lettore) i produttori locali. Anzi, è più corretto dire che “tenta” di tutelarli, ma in realtà sono proprio loro a venire danneggiati nel medio e lungo periodo, in quanto si impone loro di lavorare esclusivamente per un mercato ristretto, mentre potrebbero fare affari migliori puntando sui prodotti “vocati” del proprio territorio e aprendosi a mercati più ampi.

Tentare di produrrre i prodotti sbagliati vicino casa rende meno e costa di più: ci vorranno più fertilizzanti, più acqua, più fitofarmaci, e soprattutto più terra: Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu citavano, in un loro recente articolo, il caso delle fragole: un ettaro in California ne produce 50 tonnellate, mentre la stessa superficie in Ontario non ne rende più di 10. Quindi se in Ontario volessero produrre una quantità “californiana” di fragole, dovrebbero procurarsi, probabilmente strappandola ad ecosistemi come le praterie o le foreste, una superficie agricola cinque volte superiore a quella di cui oggi dispongono.

E questa considerazione ci porta direttamente agli altri due punti citati dal nostro lettore, quello della qualità dei prodotti che vengono da lontano, e, più in generale, ai problemi legati al trasporto su lunghe distanze, e quello della biodiversità, espressione alla quale, prima di attribuire un valore (“patrimonio inestimabile dell’umanità”), bisognerebbe cercare di attribuire un significato.

Oggi le merci non vengono più trasportate da una parte all’altra del mondo con i clippers a vela, anche se già i trasporti via clipper permettevano ai molini inglesi di panificare con il grano australiano. Se è vero che i prodotti ortofrutticoli tendono a perdere qualità se non vengono consumati freschi, è altrettanto vero che la qualità di un prodotto ortofrutticolo fuori stagione è minore di quella di un prodotto di stagione: quindi importare, nel periodo invernale, frutta proveniente dall’emisfero australe, e mandare laggiù la nostra frutta nella bella stagione, significa che i consumatori (di tutto il mondo) si troveranno nel piatto i prodotti migliori al prezzo migliore.

La biodiversità è un concetto che va molto di moda negli ultimi tempi, ma presumo che non tutti coloro che ne parlano con tanta facilità non sarebbero in grado di chiarirne il significato. Innanzitutto, dato che parliamo di agricoltura, sarebbe opportuno specificare se ci si riferisce alla biodiversità o alla biodiversità agricola: sono due cose diverse, spesso la salvaguardia di una contribuisce all’impoverimento dell’altra, ma nessuna delle due viene danneggiata dall’intensificazione agricola e dall’efficienza produttiva.

Per biodiversità si intende la varietà di specie, animali o vegetali, che abitano un dato ecosistema. Chiaramente lo sviluppo dell’agricoltura tende a impoverirla, dato che sostituisce ecosistemi complessi con superfici su cui cresce solo una varietà vegetale. Ma, come spiegato prima, consumare solo prodotti provenienti da territori vicini significa doversi procurare più terra coltivabile: l’agricoltura intensiva è meno dannosa per la biodiversità rispetto all’agricoltura di prossimità, tanto in voga tra gli ambientalisti.

La biodiversità agricola invece è la varietà di specie, animali e vegetali, che coltiviamo o alleviamo per soddisfare il nostro fabbisogno di cibo, e qui il discorso si fa più complesso. Tutte le varietà che coltiviamo sono il frutto di una selezione genetica operata dall’uomo nel corso di millenni. Per questo la biodiversità agricola è in costante evoluzione, adattandosi in ogni epoca ai bisogni dell’umanità. Ma questo non significa che oggi sia meno ricca che in passato: se a Pachino oggi si può coltivare il celebre pomodorino a grappolo non lo si deve alla faticosa opera di recupero di antiche varietà da parte degli agricoltori locali, ma al lavoro di una multinazionale biotech israeliana che ha “inventato” quel tipo di pianta, individuando poi nel territorio della Sicilia sudorientale il territorio ideale per la sua coltivazione. Altrimenti anche lì, come ovunque, coltiverebbero ancora pomodori insalatari a buccia spessa.

Il caso di Pachino dimostra proprio come la ricerca dell’efficienza (la varietà giusta coltivata nella zona giusta) possa arricchire sia la biodiversità agricola che le tasche degli agricoltori, venendo incontro ai bisogni del mercato prima che a quelli dei eurocrati agricoli.

C’è un’altro aspetto che viene spesso citato in difesa dell’agricoltura di prossimità: i trasporti su lunga distanza, si dice, sarebbero all’origine dell’emissione di grandi quantità di CO2 che potremmo risparmiare consumando cibo prodotto più vicino a noi. Questa considerazione è però completamente sbagliata, perché prescinde dal fatto che l’energia impiegata nel trasporto su lunghe distanze è venti volte inferiore a quella impiegata per le fasi della produzione. Quindi si risparmia molta più energia, e di conseguenza si produce meno CO2, producendo fragole in California, per usare l’esempio precedente, e trasportandole in Ontario, piuttosto che pretendendo di fare tutto vicino casa. Se si volesse discutere seriamente dell’abbattimento delle emissioni legate alla produzione di cibo, il primo passo dovrebbe essere la rimozione di qualsiasi tipo di barriera commerciale.

Per approfondire questo tema consiglio vivamente il paper dal titolo “Yes We Have No Bananas: A Critique of the ‘Food Miles’ Perspective” di Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu, per Mercatus Center at George Mason University.

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Nuova PAC: a capofitto verso il 2013 /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/ /2010/11/21/nuova-pac-a-capofitto-verso-il-2013/#comments Sun, 21 Nov 2010 11:46:52 +0000 Giordano Masini /?p=7647 Prendo spunto da un post pubblicato su Agricoltura24 che riprende a sua volta un articolo di Terra e Vita e che mi sembra dare, fino a questo momento, il quadro più completo degli indirizzi proposti per la nuova Politica Agricola Comune post 2013. Ho sempre pensato che la PAC sia uno strumento perverso e tendenzialmente criminogeno, per le gravi distorsioni che induce nel mercato agroalimentare. Ma dalle proposte che circolano oggi, a mio avviso la PAC sta prendendo una strada del tutto insensata, iniqua e controproducente anche rispetto alle stesse intenzioni dichiarate dai suoi sostenitori, e rischia di essere la pietra tombale per l’agricoltura europea. In questo post (forse un po’ lungo) proverò a spiegare perché.

Dai primi orientamenti si comprende che alcune scelte della nuova Pac sono inevitabili, come la soppressione dei pagamenti storici. In tutti i documenti emergono due nuovi temi: la remunerazione dei beni pubblici e gli strumenti per contrastare l’instabilità dei mercati.

Non tutti possono aver chiaro, ovviamente, cosa significhi “remunerazione dei beni pubblici”. Con questa denominazione, inserita nella PAC all’inizio del nuovo millennio, si pretende che gli agricoltori, oltre a mettere sul mercato prodotti agroalimentari e trarre profitto da questa attività, producano anche beni che avrebbero valore per la collettività, ma che non sarebbero remunerati adeguatamente sul mercato: paesaggio agrario, presidio territoriale, biodiversità, lotta al cambiamento climatico, conservazione dell’ambiente, sviluppo rurale, salubrità degli alimenti, benessere degli animali.

Sulla base di questo principio (la cui arbitrarietà e scarsa fondatezza è evidente anche a un bambino) la PAC è stata, ormai quasi un decennio fa, suddivisa in due pilastri: da una parte gli aiuti diretti, destinati a sostenere il reddito dell’agricoltore, dall’altra i cosiddetti aiuti allo sviluppo, focalizzati da una parte a sostenere lo sviluppo delle aziende e dall’altra a premiare quei comportamenti e quelle pratiche agricole in grado di produrre “beni pubblici”. Per esempio, se in Europa le autorità pubbliche possono finanziare le aziende agricole biologiche ma non le compagnie aeree lo si deve proprio al fatto che, secondo i tecnocrati di Bruxelles, Almaverde Bio produce beni pubblici ed Alitalia no.

Ora, il primo pilastro della PAC sembra avere un problema: il sistema in base al quale è stato calcolato il premio che ogni azienda riceve, e sul quale non mi dilungo, ha prodotto delle differenze inaccettabili tra paese e paese e deve essere superato: attualmente l’Italia percepisce mediamente 300 euro/ha, mentre la Grecia percepisce 600 euro/ha e la Romania soltanto 40 euro/ha.

Il dibattito su questo tema è molto acceso e, per trovare un equilibrio tra le varie posizioni, è probabile che i pagamenti diretti potrebbero essere rimodulati in più componenti:

  • una parte (ridotta rispetto ai livelli attuali, ad esempio 100-200 euro/ettaro) erogata a tutti gli agricoltori;
  • una parte riservata alle zone con svantaggi naturali, ad esempio la montagna e le zone svantaggiate; a tal proposito, c’è la proposta di portare le indennità compensative dal 2° al 1° pilastro;
  • una parte, selettiva, in funzione del fabbisogno di lavoro o del valore aggiunto o di specifici comportamenti orientati alla fornitura di beni pubblici ambientali.

Sembra, quindi, che la produzione di questi fantomatici beni pubblici debba diventare un criterio per indirizzare, oltre agli aiuti allo sviluppo, anche i fondi che dovrebbero servire al sostegno del reddito, quello uguale per tutti. Ma se una quantità così rilevante di soldi dei contribuenti europei dovrà essere spesa in questa direzione, sarebbe giusto chiedersi se e come, al di là dei luoghi comuni, questi beni pubblici portino qualche vantaggio alla salute e all’ambiente (anche se basterebbe il fatto che nessuno sembra disposto a pagare di tasca sua per essi, ma si sa, c’è sempre chi è in grado di scegliere per noi meglio di noi)

Se parliamo di agricoltura biologica, non esiste un solo studio scientifico serio (e si sono dati da fare per cercarlo) in grado di dimostrare che nutrirsi di alimenti biologici rechi qualche beneficio per la salute, mentre per quanto riguarda l’ambiente, è di un’evidenza lapalissiana che fornire all’umanità il fabbisogno di cibo con tecniche scarsamente produttive come quella biologica comporterebbe l’impiego di una quantità enorme di superficie agricola, oggi occupata da praterie e foreste.

Anche dal punto di vista del contenimento delle emissioni, è l’agricoltura intensiva che produce i migliori risultati, come ho avuto già modo di argomentare citando un autorevole studio di PNAS, e per quanto riguarda il presidio territoriale e la tutela del paesaggio agrario (anche questi sono concetti strani da capire: per quale ragione il paesaggio rurale attuale dovrebbe essere migliore di quello passato e di quello futuro?) è solo un’azienda agricola competitiva e orientata al profitto ad avere interesse a continuare a lavorare la terra, invece che abbandonarla e sostenersi solo con i sussidi (non è un’ipotesi, è quanto sta accadendo).

Quindi, una PAC seria dovrebbe, avendo a cuore l’ambiente, premiare l’agricoltura intensiva, l’uso delle biotecnologie, la ricerca del profitto. E’ ovvio che per premiare questi comportamenti la maniera migliore sarebbe quella di eliminare completamente i sussidi, incentivando i produttori a perseguire l’efficienza. Premiare e sostenere comportamenti opposti è completamente demenziale, oltre ad essere uno spreco intollerabile di denaro pubblico.

Per quanto riguarda invece la “stabilizzazione dei mercati”, questi sono gli orientamenti che emergono dal summenzionato articolo:

In molte proposte emerge una nuova richiesta per la Pac: il contrasto all’instabilità dei mercati e il miglioramento della posizione degli agricoltori nella filiera agroalimentare. Gli strumenti della vecchia politica di garanzia (prezzi garantiti, dazi, sussidi all’esportazione, ammasso pubblico, quote, set aside, ecc.) hanno mostrato tutti i loro limiti e non sono più applicabili nella prospettiva futura. Tuttavia l’obiettivo della stabilizzazione dei prezzi e dei mercati rimane ancora attuale. Anziché la vecchia politica di garanzia, si richiede di favorire gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori agricoli, attraverso la concentrazione dell’offerta, il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti tramite la cooperazione, l’associazionismo, l’interprofessione.

Il fatto che si ribadisca l’inutilità di quegli strumenti perversi utilizzati fin ora per stabilizzare (forse sarebbe più corretto dire “distorcere”) i mercati è senz’altro positivo. Preoccupa però il fatto che si continui a ritenere l’apertura dei mercati come un pericolo da cui proteggersi, e sono inquietanti gli strumenti di cui l’UE vorrebbe dotarsi per perseguire tale risultato.

Ci sono fin troppe evidenze che dimostrano come i prezzi di quei prodotti che vengono scambiati sui grandi mercati internazionali siano molto più stabili di quelli che da questi mercati vengono esclusi, quindi l’idea che l’agricoltura di prossimità e “il miglioramento del rapporto tra produttori e primi acquirenti” possa portare qualche beneficio è completamente sballata. Sarebbe meglio che ci si concentrasse sulle opportunità per le aziende agricole di affacciarsi con i loro prodotti sui mercati emergenti e lontani, piuttosto che forzarle a rimanere ancorate ad un desolante status quo.

Se è vero come è vero che il prezzo di un prodotto tiene conto di tutti i costi di produzione, la tendenza a localizzare tutte le produzioni rinunciando all’efficienza di produrre su terreni e a climi vocati e vendere ovunque ci sia domanda rappresenta un violento colpo di zappa sui piedi della nostra agricoltura, soprattutto nel momento in cui le produzioni agricole di altri grandi paesi, come Cina, India e Brasile, cominciano a volare, e non, come recita la vulgata, a causa del basso costo del lavoro (altrimenti dovevano volare anche negli scorsi decenni) ma proprio grazie alle biotecnologie, all’intensificazione e all’apertura al mercato globale. Un esempio per tutti: negli ultimi 10 anni il Brasile ha triplicato il proprio export agroalimentare, la sua produzione agricola è cresciuta del 79% con un incremento della superficie utilizzata limitato al 28%.

Per quanto riguarda poi gli strumenti di regolazione dei mercati gestiti direttamente dai produttori (leggi: i consorzi potranno intervenire sui mercati regolando l’offerta, al fine di indurre un aumento dei prezzi) basterebbe la triste esperienza del vino italiano (e francese), che con metodi del genere si sta progressivamente autoescludendo dal mercato mondiale a far desistere da simili proponimenti. Perché si tende a dimenticare che qualsiasi consumatore, sia esso un consumatore finale o un trasformatore, reagisce a questi meccanismi orientando altrove le sue scelte, e in tempi di mercati globalizzati le alternative non mancano. Se il protezionismo è un errore lo è sempre, ed è inutile e controproducente farlo uscire in pompa magna dalla porta per farlo rientrare, in silenzio e sotto mentite spoglie, dalla finestra.

Per finire, ed è il dato forse che preoccupa di più, nella nuova PAC post 2013 aumenteranno a dismisura quelle voci di spesa in cui è indispensabile il ruolo attivo degli intermediatori pubblici e parapubblici (checché se ne dica sono loro i veri beneficiari della PAC, e che siano loro stessi a disegnarne gli indirizzi forse aiuta a capire ciò che sta succedendo), come le associazioni professionali. Quando si parla di cooperazione, associazionismo, e interprofessione non si intende altro. E il fatto che anche i fondi del primo pilastro della PAC, quello degli aiuti diretti, verranno distribuiti secondo criteri sempre più discrezionali e meno automatici non fa che confermare questa tendenza costosa e perversa.

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Ogm: Coldiretti scrive, le regioni ci mettono la firma /2010/10/26/ogm-coldiretti-scrive-le-regioni-ci-mettono-la-firma/ /2010/10/26/ogm-coldiretti-scrive-le-regioni-ci-mettono-la-firma/#comments Tue, 26 Oct 2010 07:58:53 +0000 Giordano Masini /?p=7388 Alle scuole elementari la mia maestra diceva spesso che quando copiavamo dovevamo almeno riuscire a non farci beccare: “cambiate qualche parola qua e là”, diceva, “sennò si capisce…”. Non lo sapevano evidentemente gli assessori all’agricoltura della Conferenza delle Regioni il cui ultimo documento, quello in cui si chiede che l’Italia applichi un’inapplicabile (secondo il diritto comunitario) clausola di salvaguardia per le colture e la ricerca Ogm, sarebbe stato scritto direttamente da Coldiretti, il sindacato che ha fatto dell’avversione alle biotecnologie e del ritorno al protezionismo commerciale una ragione di vita: “La firma Coldiretti è verificabile con qualsiasi personal computer andando a leggere la proprietà del documento” rivela Italia Oggi.

Alessandro Palmacci è il dirigente che si occupa di agricoltura, trasporti e turismo nella segreteria della Conferenza delle Regioni. 

Proviamo a immaginare, per capirsi, che razza di (giusto) baccano si sarebbe sollevato se la disciplina sugli Ogm fosse stata scritta da Monsanto o quella sull’energia da Exxon. Si attendono spiegazioni da parte di Coldiretti e, soprattutto, da parte degli assessori regionali. La prossima volta fate un piccolo sforzo: ditelo almeno “con parole vostre”.

(Crossposted @Libertiamo.it)

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Ogm: la Conferenza delle Regioni e la dittatura della maggioranza /2010/09/30/ogm-la-conferenza-delle-regioni-e-la-dittatura-della-maggioranza/ /2010/09/30/ogm-la-conferenza-delle-regioni-e-la-dittatura-della-maggioranza/#comments Thu, 30 Sep 2010 17:19:16 +0000 Giordano Masini /?p=7177 Mentre è già arrivata (ieri pomeriggio) la trebbia mandata dal Gip di Pordenone a raccogliere il mais del campo di Fanna di proprietà di Giorgio Fidenato (il racconto di Giorgio è sul sito del Movimento Libertario), mais che è stato essiccato e verrà custodito in un magazzino in attesa che si concluda l’iter giudiziario, oggi si sono riuniti gli assessori all’agricoltura della Conferenza delle Regioni e hanno ribadito che loro di linee guida per la coesistenza tra colture Ogm, biologiche e convenzionali non vogliono proprio sentir parlare, nonostante l’approvazione di queste linee guida sia necessaria per adempiere alle direttive comunitarie.

In realtà nei mesi scorsi una bozza di regolamento era stata presentata: le associazioni di categoria (tra le quali figurava, non si sa bene per quale ragione, anche Legambiente) l’hanno ricevuta il 16 di luglio perché presentassero le loro osservazioni in merito entro il 20 dello stesso mese (!). Il documento era abbastanza surreale, dato che si parlava solo di Ogm (nonostante dovesse tracciare le linee guida per la coesistenza di tre tipi di pratica agricola tutte egualmente legittime) e perché in realtà si preoccupava di vietare, in modo più o meno surrettizio, più che di disciplinare.

Distanze di sicurezza per il mais calcolate in chilometri (in Europa si arriva attorno ai 150 metri, in Spagna zero), corsi e patentini da conseguire, piani e registri aziendali da compilare, tasse regionali da pagare, e questo solo per la parte burocratica. Poi, andando avanti, (e ne tralascio molte) sarebbe previsto l’obbligo di usare macchinari e magazzini appositi dedicati esclusivamente agli Ogm e di rispettare un periodo di conversione di tre anni per chi volesse tornare dagli Ogm al convenzionale (anche semplicemente per normali cicli di rotazione colturale) nei quali il prodotto dovrebbe essere sottoposto ad analisi prima della commercializzazione, sarebbe considerato convenzionale ma dovrebbe rispettare le prescrizioni per gli Ogm.

E non è finita: le sanzioni per chi omettesse di seguire anche solo una di queste regole sarebbero calcolate nell’ordine delle decine di migliaia di euro, e, chicca finale, gli agricoltori che fossero tanto impavidi da cercare di seguire un regolamento del genere apparirebbero in un registro pubblico consultabile online, in modo da poter essere meglio individuati dagli amici di Zaia e di Greenpeace.

Il giochino del documento presentato all’ultimo momento non deve essere riuscito, qualcuno le sue osservazioni critiche deve essere riuscito a mandarle in tempo, quindi la Conferenza delle Regioni, nonostante la fretta iniziale, è andata avanti di rinvio in rinvio sperando che la cosiddetta direttiva Barroso, quella che consentirebbe ad ogni paese membro dell’UE di decidere in autonomia se ammettere o vietare gli Ogm, arrivasse in tempo per togliere le castagne dal fuoco. Ma la direttiva ancora non arriva, anzi aumentano su di essa le perplessità di quasi tutte le parti in causa a livello europeo, dato che in ballo c’è il rischio di dar vita ad un’Europa agricola a due velocità, e quindi oggi la Conferenza delle Regioni qualcosa doveva pur dire.

Abbiamo votato un ordine del giorno attraverso il quale chiediamo al ministro delle Politiche agricole di esercitare la clausola di salvaguardia ai sensi dell’articolo 23 della direttiva europea 18 del 2001.

La clausola di salvaguardia è ammessa solo in caso di evidenze scientifiche che dimostrerebbero la nocività di un prodotto per la salute umana o per l’ambiente, sembra dimenticare Dario Stefano, assessore all’Agricoltura della Puglia e coordinatore della Commissione agricoltura della Conferenza delle regioni, che continua

Allo stesso tempo abbiamo richiamato il ministro e quindi il governo a rispettare la posizione delle Regioni italiane, che hanno la delega all’Agricoltura, che è unanimemente contraria alla produzione di Ogm.

Evidenziando quindi come le dilazioni e i tatticismi dei mesi scorsi servivano solo ad uno scopo, riuscire a vietare anche in presenza di un diritto comunitario che non consentirebbe di vietare, ma solo di disciplinare. In tutto ciò le parole di buon senso di Galan, ribadite anche oggi nel question time a Montecitorio, sembrano essere destinate a rimbalzare su un muro di gomma: il principio secondo il quale una maggioranza sarebbe legittimata a mortificare le libertà fondamentali degli individui, arrivando a stabilire ciò che è legittimo e ciò che non è legittimo produrre (basandosi esclusivamente su valutazioni di carattere economico, e come tali assolutamente arbitrarie) sembra essere ormai sufficientemente consolidato.

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Un drappello di disorientati /2010/09/21/un-drappello-di-disorientati/ /2010/09/21/un-drappello-di-disorientati/#comments Tue, 21 Sep 2010 07:53:22 +0000 Giordano Masini /?p=7096 Agea è l’ente che si occupa delle erogazioni in agricoltura, ovvero è attraverso di esso che passano i contributi e i sussidi che gli agricoltori ricevono, ed è esso che deve vigilare sull’applicazione delle regole comunitarie. Secondo il suo presidente, Dario Fruscio, il governo e la politica dovrebbero intervenire per tirare fuori dai guai quei pochi allevatori che si ostinano a non aderire al piano di rateizzazione delle multe per gli sforamenti delle quote latte. D’altronde, si commuove Fruscio, la stragrande maggioranza ha già pagato (ci manca poco che non li definisca dei fessi), solo loro insistono a non volerlo fare, ma sono in pochi (“residuali dal mero punto di vista numerico” dichiara testualmente), al governo cosa costa? Suvvia, mettiamoci una mano sul cuore e l’altra al portafogli dei contribuenti, questa è gente che ha famiglia… Ma il più bello viene dopo (grassetti nostri):

Mi risulta che già soltanto con l’annuncio dell’emendamento poi tradottasi nell’art. 40 bis della L. n. 122/2010, si è innescato un forte e progressivo rallentamento nelle adesioni alla L. 33/2009. Voglio dire che l’iniziativa per il rinvio della scadenza di giugno ha prodotto, fin dall’inizio, una sorta di stop agli effetti della legge 33. E a questo punto, a meno di interventi legislativi dell’ultimo momento, su questo drappello di disorientati calerà una pioggia di notifiche di nuove intimazioni di pagamento, con anche l’avvio delle procedure per la revoca delle quote latte assegnate. Evidentemente, ancora una volta come dispone la L. 33/2009, quanti non riusciranno a far fronte alle richieste di pagamento di Equitalia, si troveranno in piena procedura esecutiva, con rischio di perdita d’ogni cosa: in primis della fiducia in chi li ha distolti dalla loro linearità contadina e dalla loro cultura e abitudine al rispetto delle leggi; poi rischieranno la perdita anche dei loro beni.

Ovvero, la deroga imposta in finanziaria dalla Lega Nord al termine di giugno per l’adesione alle rateizzazioni (che già comporterà per l’Italia una procedura d’infrazione che pagheremo noi) ha rallentato l’adesione alle rateizzazioni stesse. Ma va? Chi l’avrebbe mai detto? Ma dato che alla fine dell’anno saremo di nuovo daccapo, se non facciamo qualcosa c’è rischio che questi poveri “disorientati” smettano di dar retta a chi continua ad alimentare le loro speranze (e non sarebbe ora?). Il finale è degno di un romanzo d’appendice:

Io continuo, anzi voglio continuare a sperare che chi ne ha facoltà possa lavorare fattivamente nella prospettiva di risolvere il caso. In sostanza che la politica voglia trovare per questo drappello di brava e laboriosa gente una via d’uscita. Diversamente sarà il dramma. Dietro questi produttori ci sono migliaia di famiglie, le quali si traducono in chissà quant’altre decine di migliaia di portatori di speranze e di angosce. Chi più può, chi ha più sensibilità, amore e rispetto per la proprietà contadina e per il mondo rurale, più fortemente dovrà sentirsi impegnato a togliere da tale possibile baratro una parte così significativa del mondo rurale. E’ uno sforzo riparatorio di generosità che la politica deve alla “gente della terra”, indipendentemente da posizioni e divisioni politiche e da più o meno responsabilità di ciascuna parte rispetto alla gravità della questione.

Fruscio (che è alla guida di un agenzia tecnica, che dovrebbe astenersi quindi da dare indicazioni politiche – ma questo è un aspetto marginale, secondo me ognuno può dire la sua e va contestato nel merito) sembra dimenticare che qualsiasi intervento legislativo nella direzione da lui auspicata, qualsiasi “sforzo riparatorio” comporterebbe all’Italia ulteriori procedure di infrazione, così come sembra ignorare che in vent’anni queste procedure di infrazione sono costate ai cittadini del nostro paese circa 4 miliardi di euro (a fronte di circa 300 milioni effettivamente recuperati).

Nel frattempo, qualcuno potrebbe chiedergli su chi dovrebbero riporre la loro fiducia le decine di migliaia di allevatori (la stragrande maggioranza) che in questi anni si sono dovuti adeguare ad un sistema iniquo in sé, quello delle quote latte, ma che finché è in vigore non può ovviamente fare figli e figliastri, e hanno pagato le loro sanzioni. Ma probabilmente loro non “tengono famiglia”…

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Ogm: l’Unità batte un colpo. E il PD? /2010/08/24/ogm-lunita-batte-un-colpo-e-il-pd/ /2010/08/24/ogm-lunita-batte-un-colpo-e-il-pd/#comments Tue, 24 Aug 2010 09:01:17 +0000 Giordano Masini /?p=6839 Ieri l’Unità ha ospitato un bell’intervento sugli Ogm di Sergio Bartolommei, docente all’Università di Pisa e membro del consiglio direttivo della Consulta di Bioetica, che spicca per chiarezza e concretezza già a cominciare dal titolo, “Quel luddismo che cresce nei campi“. Bartolommei afferma:

La distruzione di un campo di pannocchie in Friuli è stata sostenuta da un argomento che è diventato un po’ il cavallo di battaglia degli avversari del transgenico: gli Ogm minacciano «l’identità agroalimentare italiana», «la nostra agricoltura non si tocca», «l’identità dei prodotti tipici non è in svendita». L’argomento legittima una sorta di neo-autarchia agricola evocatrice di altri e discutibili appelli a italici “primati” e autosufficienze. Gli resta forse un fascino retorico, ma è razionalmente insostenibile. Il concetto di “identità agricola nazionale” è vago o vuoto.

Effettivamente, da quando il dibattito sugli Ogm e le biotecnologie si è spostato dal piano della sicurezza ambientale e alimentare a quello della sostenibilità economica di diversi “modelli” di agricoltura (ormai sono rimasti in pochi a sostenere che un Ogm possa far male a qualcuno o a qualcosa), è sempre più chiaro che la contreversia non è più scientifica, ma tra scienza e ideologia, ed è un indiscutibile merito di Bartolommei quello di chiamare quell’ideologia, proprio sull’Unità, con il suo nome di battesimo: luddismo.

Sono sempre di più quelli che nel PD si dimostrano insofferenti per la riproposizione ossessiva di concetti suggestivi, ma vaghi e privi di significato. Proprio oggi Sergio Chiamparino, in un’intervista al sole24ore, si chiede “perché mai una persona di sinistra deve essere a favore della ricerca sulle staminali, ma non a quella sugli Ogm“, per non parlare di Umberto Veronesi, che si è dichiarato senza tanti giri di parole “un grande sostenitore dell’utilizzo delle conoscenze genetiche per tutte le attività umane, comprese quelle agricole“.

Cosa dicono il Partito Democratico e i suoi dirigenti sull’argomento? Ne avevamo parlato qualche tempo fa, in occasione della presentazione di un documento del Forum Agricoltura del partito in cui si ribadiva la posizione contraria del PD all’introduzione degli Ogm in Italia, e proprio per le ragioni che paiono tanto ridicole a Chiamparino, Bartolommei e Veronesi. Il fatto però che ci sia un dibattito aperto è cosa buona e giusta. Sui tempi di soluzione della questione, siamo abituati a rispettare i bioritmi del PD, e a pazientare.

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Considerazioni (generali) sul prezzo del grano /2010/08/13/considerazioni-generali-sul-prezzo-del-grano/ /2010/08/13/considerazioni-generali-sul-prezzo-del-grano/#comments Fri, 13 Aug 2010 14:39:40 +0000 Giordano Masini /?p=6778 Il prezzo del grano sta aumentando. Un bushel (kg 26,601) è stato quotato ieri alla borsa di Chicago a 7,24 dollari, e le conseguenze si cominciano ad avvertire anche dalle nostre parti. La borsa merci di Bologna quotava una settimana fa il buono mercantile a 18,70 euro al quintale, ed è probabile che dopo ferragosto il prezzo continuerà a salire per adeguarsi alle quotazioni statunitensi. D’altronde molti commercianti, sentendo puzza di impennate e memori dell’estate di tre anni fa, stanno acquistando frumento tenero e duro sul campo a prezzi che già superano di 2 o 3 euro al quintale la quotazione di Bologna. Non credo che ci sia niente di allarmante. In genere in tempo di raccolti il prezzo scende, mentre oggi sale. Di grano ce ne è poco, quindi costa di più. Un po’ di più, non tanto di più da giustificare allarmismi. Ma penso che sia interessante osservare lo storico a un anno del frumento tenero per arivare a qualche considerazione generale.

Il prezzo del grano (anche oggi) non è sufficiente, almeno non è sufficiente per le aziende agricole europee, generalmente di piccole dimensioni e quindi con costi produttivi troppo elevati. Più che preoccuparsi per la quotazione attuale, sarebbe stato più serio preoccuparsi per la quotazione dell’estate scorsa, quando un quintale di frumento è arrivato a costare meno di 14 euro al quintale, e quando molte aziende hanno deciso di non riseminare. Perché oltre che la flessione congiunturale dell’export russo, dovuto ad incendi e siccità, ad incidere sull’aumento del prezzo dei cereali è stata la flessione imponente delle semine di tutti i cereali.

Il prezzo del grano, prevedibilmente, continuerà a salire, come succede ogni volta che si riscontra una penuria di prodotto in questa stagione, ma non molti verranno invogliati a tornare a seminare, a meno che non si coglierà l’occasione per liberalizzare il settore agricolo consentendo, sussidi o non sussidi (io preferirei non sussidi, ma è una battaglia, presumo, persa in partenza) di restituire spazio agli agricoltori per fare impresa e giocare un ruolo di protagonisti sul mercato.

La debolezza degli agricoltori italiani ed europei risiede nelle dimensioni delle loro aziende, che rende loro impossibile lo stoccaggio dei prodotti (unica risposta possibile ad una flessione dei prezzi), e che impone loro dei costi unitari eccessivi, per esempio sulle attrezzature (ogni agricoltore, per coltivare 20 ettari, acquista un trattore che ormai, per caratteristiche e prestazioni, ne potrebbe lavorare comodamente 200 e più) e sulla manodopera. Una dimensione aziendale tanto parcellizzata impedisce la diversificazione delle produzioni, checché ne dicano i sostenitori dell’agricoltura paesaggistica e della biodiversità condita di disincentivi alla produzione: solo una azienda delle dimensioni adeguate può sopportare il costo delle attrezzature necessarie per diversificare il “portafoglio” di colture, e garantire biodiversità (quella vera) e tutela del territorio (quella vera, che non è certo fatta di campi abbandonati e improduttivi).

Eppure ancora oggi, nelle stanze e nei corridoi di Bruxelles, ci si pone il problema di come continuare a puntellare questo precario e mortificante status quo, e l’idea che una rinascita dell’agricoltura possa arrivare dagli stessi agricoltori lasciati liberi di ingrandirsi, accorparsi, associarsi, o soccombere è ancora lontana da venire. Ma sono proprio i sussidi a rendere inarrivabili i prezzi dei terreni, e le modalità della loro erogazione, legate al titolo di possesso dei terreni stessi, ad essere un robusto disincentivo all’accorpamento fondiario.

In un certo senso è come se al tempo della “green revolution” avremmo preteso, per qualche oscura ragione, che il nostro sistema agricolo avrebbe dovuto continuare a basarsi sulla mezzadria. All’epoca, quando la maggior parte degli agricoltori abbandonava l’allevamento per dedicarsi alla cerealicoltura, i campi si univano e si ingrandivano per lasciare spazio di manovra alle nuove attrezzature, l’impatto della chimica faceva impennare le produzioni e la meccanizzazione falcidiava la manodopera impiegata in agricoltura nessuno era in grado dire ciò che sarebbe successo “dopo”, ma non troppi, fortunatamente si sono posti il problema. A nessuno è venuto in mente di proibire l’uso dei fertilizzanti chimici come oggi avviene per gli Ogm, a nessuno è venuto in mente che una maggiore produttività potesse in qualche modo significare minore competitività.

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Verso la nuova Pac. Qualcosa da tenere a mente /2010/08/03/verso-la-nuova-pac-qualcosa-da-tenere-a-mente/ /2010/08/03/verso-la-nuova-pac-qualcosa-da-tenere-a-mente/#comments Tue, 03 Aug 2010 15:42:21 +0000 Giordano Masini /?p=6690 Se le parole hanno un significato, la nuova Politica Agricola Comune che dovrebbe vedere la luce nel 2013 potrebbe essere un furto. Un furto ai danni dei contribuenti, e questa non sarebbe una novità, e un furto ai danni degli agricoltori, ai quali verranno sottratte risorse nominalmente destinate a loro ma che verranno in realtà usate per tutt’altri scopi. Un furto con destrezza, a giudicare dai dibattiti che si sono tenuti in questi mesi e che vertono tutti su un unico scopo: come riuscire a dirottare ulteriori risorse dal capitolo degli “aiuti diretti” a quello degli “aiuti allo sviluppo”.

Per capirsi, gli aiuti diretti sono quelli che ogni agricoltore riceve, a prescindere da cosa coltiva. Sono, come ogni sussidio, fortemente distorsivi, specialmente per quel che riguarda i prezzi all’origine, che vengono condizionati al ribasso, e per i valori fondiari, che invece vengono sospinti in alto. Ma quantomeno rappresentano un sostegno al reddito che lascia comunque all’agricoltore la libertà di investire nella direzione che ritiene più opportuna. Gli aiuti allo sviluppo, invece, sono un’invenzione perversa risalente alle precedenti riforme, attraverso la quale la politica è tornata a intervenire pesantemente sulle scelte degli imprenditori agricoli, condizionando l’erogazione di allettanti contributi, specialmente in conto capitale, all’assunzione di precisi impegni. E non solo, perché gli aiuti allo sviluppo non vengono concessi solo alle aziende agricole: alla stessa fonte si abbeverano abbondantemente anche consorzi, trasformatori, confezionatori, e, quel che più conta, enti pubblici, dalle nostre parti soprattutto comuni e comunità montane. Servono a un po’ di tutto, dalla ristrutturazione di casali per attività agrituristiche all’installazione di pannelli fotovoltaici e funghi eolici, dalla manutenzione delle strade rurali e comunali al finanziamento di enti e istituzioni di ricerca e divulgazione scientifica e ambientale, dall’acquisto di impianti e macchinari per la costituzione di consorzi di trasformazione e confezionamento al sostegno ai mercatini rurali, spesa a km 0 e altre amenità del genere.

Tornando all’attualità, il Commissario europeo all’Agricoltura, Dacian Ciolos, ha reso noti i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, contenente le opinioni di seimila cittadini europei a proposito di agricoltura e Politica Agricola Comune. Bene, secondo questo sondaggio la tutela del paesaggio rurale, la lotta ai cambiamenti climatici e, guarda un po’, mantenere prezzi ragionevolmente bassi per i consumatori, dovrebbero essere le priorità della Pac, alla quale ovviamente tutti si dicono favorevoli. In particolare, la stragrande maggioranza degli intervistati (82%) ritiene che l’Europa debba aiutare gli agricoltori a combattere i cambiamenti climatici, dato che una simile percentuale dei medesimi si dice convinta che entro pochi anni gli agricoltori subiranno effetti devastanti dal riscaldamento globale.

Questo sondaggio sarebbe la base per costruire le fondamenta della nuova Pac, e, nella sostanza, garantire quel trasferimento di risorse dalle tasche degli agricoltori a quelle di chissacchì, o comunque per consentire a chissacchì di mettere il becco nelle scelte imprenditoriali delle aziende. Ora, facciamo attenzione: il fatto che un campione di cittadini europei (cittadini, probabilmente, in ogni senso) si dica convinto che il mondo stia per andare a fuoco, e che siano gli agricoltori a doverlo salvare dalle fiamme per loro, non significa ovviamente che le cose stiano esattamente così. Anzi, ci sono molti studi che dimostrano come l’intensificazione agricola abbia avuto effetti positivi sia, come è facilmente comprensibile, sulla distribuzione delle risorse alimentari, sia, e questo è più arduo da far intendere, anche nella gestione più razionale delle risorse del suolo (l’acqua, in primis), fino ad incidere positivamente anche sulle emissioni di gas serra. Ne abbiamo discusso su queste pagine pochi giorni fa.

Ci sono serie possibilità, quindi, che la montagna di denari pubblici che verranno utilizzati nel futuro per indurre gli agricoltori a produrre meno, a rifiutare le biotecnologie, a indirizzarsi verso sistemi produttivi a “basso impatto” e a divenire sempre meno competitivi rispetto al resto del pianeta saranno serviti solo a incidere la lapide sulla tomba dell’agricoltura del vecchio continente. E allora saremo tutti contenti, nel nome della green economy. Illustrando i risultati della ricerca Ciolos si è detto rassicurato del fatto che i cittadini europei si mostrino convinti della necessità della Pac, e ha mostrato idee chiare per il futuro:

Voglio una Pac forte,  a sostegno della diversità di tutti i suoi agricoltori e dei suoi territori, produttrice di quei beni pubblici che la società europea attende.

Beni pubblici che la società europea attende. Parole queste (molto simili a quelle già usate poco tempo fa dall’ex ministro delle Politiche Agricole e attuale presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento europeo Paolo De Castro), che a mio avviso dovremmo tenere bene a mente.

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Agricoltura ed emissioni: gli effetti positivi dell’intensificazione /2010/07/24/agricoltura-ed-emissioni-gli-effetti-positivi-dellintensificazione/ /2010/07/24/agricoltura-ed-emissioni-gli-effetti-positivi-dellintensificazione/#comments Sat, 24 Jul 2010 12:31:11 +0000 Giordano Masini /?p=6629 Che, in attesa di risposte un po’ più certe (o quantomeno credibili) sulle origini dei cambiamanti climatici, lo sviluppo e il progresso economico siano la più saggia politica climatica e ambientale, come ebbe a dire qualche tempo fa Andrew C. Revkin sul NYT, sembrerebbe cosa più che ragionevole in sé. Oggi uno studio apparso su Proceedings of the National Academy of Sciences of United States of America offre una visione del tutto nuova e controcorrente sullo sviluppo agricolo come fattore determinante per la riduzione dei gas serra. Il titolo dello studio, segnalato da Marco Cattaneo, è Greenhouse gas mitigation by agricultural intensification, ovvero Mitigazione dei gas serra per effetto dell’intensificazione agricola.

L’agricoltura moderna ha già da tempo risposto alle cornacchie malthusiane: tra il 1961 e il 2005, mentre la popolazione mondiale cresceva del 111%, la produzione agricola è aumentata del 162% (sono i primi due grafici della figura qui sotto), mentre gli altri due grafici mostrano come sia stato lo sviluppo tecnologico e la conseguente impennata della produttività (in basso a destra l’incremento nell’uso di fertilizzanti) a incidere su questo incremento molto più dell’aumento delle terre coltivate (in basso a sinistra). Intensification, prima di tutto, molto più che extensification.

Lo studio però va oltre, immaginando due scenari ipotetici e confrontandoli con la realtà. Il primo scenario ipotizza che la popolazione mondiale e l’economia globale si siano evolute come nel mondo reale, ma che la tecnologia e la pratica agricola siano rimaste ferme al livello del 1961. Uno scenario pazzesco dal punto di vista scientifico, ma che paradossalmente sembra essere il punto di arrivo delle più diffuse e popolari policies agroambientali, quantomeno in Europa. Il secondo scenario, al contrario, immagina che la tecnologia agricola sia sì in evoluzione,  ma solo in misura sufficiente a conservare il tenore di vita del 1961.

Utilizzando i principali fattori di emissione di gas serra che derivano dalle attività agricole (emissioni del suolo, uso dei fertilizzanti, coltivazione del riso e conversione dei terreni, risulta che entrambi gli scenari sarebbero stati devastanti, proprio perché in entrambi vi sarebbe stato un aumento dell’extensification rispetto all’intensification (nel primo scenario, per soddisfare le esigenze della popolazione mondiale del 2005, un’agricoltura ferma al 1961 avrebbe dovuto rendere coltivabile, essenzialmente attraverso la deforestazione, una superficie superiore a quella della Russia). Lo si può vedere da questa figura, dove il primo grafico rappresenta l’evoluzione reale delle emissioni derivanti dalle attività agricole, gli altri due rappresentano i due scenari ipotetici appena descritti.

Per concludere, lo studio afferma che, nonostante le emisioni dovute, per fare un esempio, all’uso di fertilizzanti siano aumentate, l’effetto netto di rese agricole più alte è stato un risparmio, nei 45 anni valutati, di 590 miliardi di tonnellate di CO2, e che ogni dollaro investito nell’aumento della produttività agricola renda un risparmio di 249 chilogrammi di CO2.

Nel paese (e nel continente) dei disincentivi alla produzione, del rifiuto delle biotecnologie, del basso impatto, della decrescita più o meno felice, dei chilometri zero e dell’agricoltura paesaggistica, uno studio del genere dovrebbe essere quantomeno preso in considerazione. Dubito fortemente che lo sarà.

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Quando lo Stato non mantiene gli impegni: la storia della Oliver Ogar di Montebello /2010/06/21/quando-lo-stato-non-mantiene-gli-impegni-la-storia-della-oliver-ogar-di-montebello/ /2010/06/21/quando-lo-stato-non-mantiene-gli-impegni-la-storia-della-oliver-ogar-di-montebello/#comments Mon, 21 Jun 2010 11:37:30 +0000 Giordano Masini /?p=6316 Il Corriere della Sera di oggi racconta la storia della Oliver Ogan, un’azienda di Montebello (Vicenza) all’avanguardia nella ricerca biotecnologica, alla quale il ministero dell´Università deve 5 milioni di euro misteriosamente bloccati tra gli ingranaggi della burocrazia, e che oggi rischia di dover vendere nonostante il prodotto, frutto di un progetto rivoluzionario nel campo della produzione vinicola, sia per l’85% venduto ancor prima di uscire dalla fabbrica.

«Il mercato premia i vini sempre più locali», spiega l’amministratore delegato Salvatore Vignola. Ma i lieviti sul mercato sono prodotti standardizzati di grandi multinazionali. Oliver Ogar vuol colmare il vuoto: selezionare ceppi locali, estraendoli dall’uva e sviluppandoli per via biotecnologica, per produrli in un impianto per piccole quantità. Una rivoluzione: le aziende potranno produrre vino con i lieviti derivati dalle loro uve. L’idea diventa un progetto a marzo 2007, presentato al ministero dell’Università; a dicembre viene approvato: verrà finanziato per 5 dei 7 mililioni necessari, il 15% a fondo perduto dal ministero, il resto agevolato da Centrobanca. Oliver Ogar avvia il nuovo stabilimento a Montebello, 9mila metri nell’area dismessa dell’ex Denim, lungo l’A4.

Apre un laboratorio di 600 metri, assumendo 4 ricercatori diretti da un «guru » italiano, riportato a casa dall’Olanda e avvia l’impianto. Ma i fondi concessi non arrivano, nonostante l’ok delle ispezioni sull’avanzamento lavori. «A novembre 2009 abbiamo chiuso il sesto dei dieci previsti », aggiunge l’Ad. I rimborsi attesi arrivano a 1,4 milioni di euro. L’azienda sollecita il ministero, si appella a tutti i santi. «Abbiamo scritto al ministro Scajola, è intervenuta la presidente di Confindustria Marcegaglia, Confindustria Vicenza ci spalleggia, abbiamo scritto a maggio a Berlusconi e al ministro dell’Agricoltura Galan ». La soluzione pare sempre dietro l’angolo, ma non arriva. «Beffa nella beffa – aggiunge Vignola – la mancata firma del ministero sulla quota a fondo perduto blocca il finanziamento agevolato, nonostante Centrobanca sia disposta a pagare». Così ora tutto è fermo: «Non possiamo esporci oltre: siamo in tensione finanziaria per i fondi che abbiamo anticipato. Per fortuna il fatturato cresce del 18% e Popolare di Vicenza e Unicredit comprendono e ci hanno dato altro credito. Potremmo salire da 10 a 15milioni di euro di fatturato e assumere 10 neolaureati. Invece dovremo rinviare la produzione per il secondo anno consecutivo». Intanto si fanno avanti multinazionali disposte a rilevare il progetto. Cinesi comprese: «Abbiamo detto di no – conclude Vignola – vogliamo resistere ». Per quanto ancora?

Non ci sarebbe molto da aggiungere, se non che la storia ricorda molto quelle, numerosissime ma meno clamorose, delle aziende agricole che stanno ancora aspettando i fondi promessi dai Piani di Sviluppo Rurale delle regioni, e che rischiano di non vedere più un euro, se il 31 dicembre l´UE vorrà riprendersi i soldi concessi alle regioni inadempienti. Anche in questo caso si tratta di finanziamenti approvati, lavori cantierati e spesso ultimati, e famiglie che si indebitano per far fronte a creditori e fornitori. Deve essere questa l’economia sociale di mercato

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