CHICAGO BLOG » acqua http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Thu, 23 Dec 2010 22:50:27 +0000 it hourly 1 http://wordpress.org/?v=3.0.1 L’acqua è di tutti. O tutti fanno acqua? /2010/10/21/lacqua-e-di-tutti-o-tutti-fanno-acqua/ /2010/10/21/lacqua-e-di-tutti-o-tutti-fanno-acqua/#comments Thu, 21 Oct 2010 17:56:45 +0000 Carlo Stagnaro /?p=7350 Il Partito democratico ha presentato, questo pomeriggio, la sua proposta sull’acqua – o, meglio, sul servizio idrico integrato. Qui si può leggere un sommario della proposta (presentata dalla responsabile Ambiente del partito, Stella Bianchi, assieme al segretario, Pierluigi Bersani, e ai capigruppo alla Camera e al Senato) e qui il testo della proposta di legge. Cosa dice il Pd? E’ fedele alla vocazione riformista oppure si allinea alla retorica referendaria? La risposta, come spesso accade, è più complessa.

di Luigi Ceffalo e Carlo Stagnaro

Anzitutto, visto che la faccenda dell’acqua è gonfia di richiami simbolici e identitari, la proposta va contestualizzata nello scenario politico. In questo senso, non crediamo si debba dare troppo peso alla precisazione, più volte ribadita dallo stesso Bersani, che “l’acqua è un bene pubblico e sono beni pubblici anche le strutture del servizio idrico integrato”. Non gli diamo peso a dispetto di due cose: (a) non crediamo che la “pubblicità” del bene e delle infrastrutture, e la relativa retorica, portino alcunché di buono: nella migliore delle ipotesi, non introducono miglioramenti, nella peggiore creano distorsioni; (b) lo stesso decreto Ronchi, obiettivo polemico del Pd e dei referendari (e della Lega, a cui si devono primariamente ritardi, ambiguità e incertezze) afferma con forza la pubblicità dell’acqua e delle infrastrutture (acquedotti, fognature, depuratori, ecc.). Dunque, sotto questo profilo, non c’è alcuna differenza tra i due maggiori partiti, e semmai c’è un passo indietro rispetto alla situazione precedente, che tollerava la proprietà privata delle infrastrutture. Altro che privatizzazione!

E’ però sicuramente positivo il fatto che, per la prima volta, il Pd prenda ufficialmente ed esplicitamente le distanze dai referendum. “Ufficialmente” la ragione è lo scetticismo verso lo strumento referendario, che essendo di natura meramente abrogativa è considerato (giustamente) inadeguato a correggere gli aspetti del decreto Ronchi su cui il Pd è critico. Sospettiamo che vi sia anche la consapevolezza che, qualora la logica referendaria dovesse prevalere, il paese farebbe non un passo, ma un salto indietro rispetto ai progressi faticosamente compiuti in questi anni, che in qualche maniera hanno portato quanto meno ad accettare che il servizio idrico ha una irrinunciabile dimensione industriale, che non può essere sacrificata alla mitologia delle gestioni collettive.

Il progetto affronta una molteplicità di temi, di cui non ci occupiamo perché li riteniamo marginali. La ciccia vera e propria, infatti, sta tutta in cinque articoli: il gruppo 4-5-6 (“assemblea di ambito territoriale ottimale”, “partecipazione dei comuni all’assemblea d’ambito”, “autorità nazionale di regolazione del servizio idrico”), il 9 (“affidamento e revoca della gestione”), e il 10 (“tariffa del servizio idrico integrato”).

Gli articoli 4 e 5 reintroducono le autorità d’ambito (chiamandole “assemblee di ambito”), coordinate dal presidente della regione o della provincia (a seconda dei casi) e composte dai sindaci, a cui viene conferito il compito di affidare il servizio, determinare le tariffe (sulla base di una procedura di cui parleremo tra poco), e decidere gli investimenti. Questi soggetti erano stati soppressi dal decreto Calderoli “taglia enti”, che però, passando alle Regioni il compito di individuare cosa e come dovrà prenderne il posto, finisce per risolvere la contraddizione… creando confusione.

La situazione è parzialmente raddrizzata dagli articoli 6 e 10. Il primo – che costituisce il vero punto forte del progetto e il cui recepimento potrebbe, speriamo, rappresentare un elemento di mediazione virtuosa tra il Pd e il governo – trasforma l’attuale Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche – un ente senza risorse e senza poteri – in una vera e propria autorità di regolazione, con poteri di controllo e sanzione. Soprattutto, essa

definisce gli schemi tipo degli atti delle concessioni, delle autorizzazioni, delle convenzioni e dei contratti regolanti i rapporti tra i diversi soggetti (art.6 comma 10 lettera m)

verifica la congruità delle tariffe, i parametri e gli altri elementi di riferimento per determinare le stesse, nonché le modalità per il recupero dei costi eventualmente sostenuti nell’interesse generale in modo da assicurare la qualità, l’efficienza del servizio e l’adeguata diffusione del medesimo, nonché la realizzazione degli obiettivi generali di carattere sociale, di tutela ambientale e di uso efficiente delle risorse, tenendo separato dalla tariffa qualsiasi tributo od onere improprio; verifica la conformità ai criteri di cui alla presente lettera delle proposte di aggiornamento delle tariffe eventualmente presentate (art.6 comma 10 lettera n)

con apposito Regolamento definisce la metodologia per la determinazione della tariffa per usi civili e industriali nonché le modalità per la revisione periodica (art.10 comma 2)

L’Autorità è nominata dal governo su proposta dei presidenti delle camere, teoricamente garanzia di indipendenza anche se avremmo preferito il voto a maggioranza qualificata nelle commissioni parlamentari competenti, o qualcosa del genere. Essa, insomma, è contemporaneamente l’ente tecnico di riferimento – che, si spera, verrebbe messo in grado di raccogliere i dati che il Conviri non riesce a ottenere – e agisce in modo tale da ridurre, per quanto possibile, la discrezionalità e i pasticci delle assemblee d’ambito. In breve, la proposta del Pd prevede un quadro regolatorio nazionale di natura relativamente più tecnica e relativamente meno politica, ma rischia di vanificarne o ridurne le potenzialità mischiandone le competenze con quelle delle assemblee, che poi saranno nella pratica chiamate a prendere o eseguire le decisioni rilevanti.

Questo ci conduce all’aspetto più discutibile della proposta: quello relativo alle modalità di affidamento. Mentre il decreto Ronchi fissa il principio dell’affidamento in via ordinaria tramite gara, relegando l’affidamento diretto o in house a una casistica residuale, il Pd torna ad aprire il vaso di Pandora . Infatti, pur salvaguardando (e ci mancherebbe altro!) la possibilità di affidamento a soggetti privati che dovrebbe avvenire tramite procedura a evidenza pubblica, prevede la possibilità di conferire la gestione del servizio

a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano

La clausola del “controllo analogo” è un requisito necessario per la legittimità comunitaria dell’affidamento ma rischia di essere, come è stata fino a ora, l’escamotage attraverso cui può essere fatto passare qualunque cosa – cioè la preservazione di inefficienze, opacità e collateralismi attuali. Ma, se e nella misura in cui questo “qualunque cosa” passa, è davvero difficile immaginare che sia possibile trovare capacità e volontà per ammodernare le reti nel senso che pure gli stessi esponenti del Pd auspicano.

In sintesi, la proposta ha alcuni aspetti positivi (la creazione di un’autorità di regolazione, pur mitigata dal ripescaggio delle autorità, pardon assemblee, d’ambito) e altri negativi (la retromarcia sulle gare). Il migliore dei mondi possibili, per noi, sarebbe impiantare il contesto regolatorio immaginato dal Pd nel tessuto del decreto Ronchi. Di certo, però, la conferenza stampa di oggi ci rincuora perché, al di là delle valutazioni di merito, ci lascia sperare che i referendum – tra la presumibile opposizione del Pdl e quella sperabile del Pd – no pasaràn.

(Crossposted @ www.ilfoglio.it/duepiudue)

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Ancora su Martinelli e l’ Acqua non merce /2010/07/30/ancora-su-martinelli-e-l-acqua-non-merce/ /2010/07/30/ancora-su-martinelli-e-l-acqua-non-merce/#comments Fri, 30 Jul 2010 11:50:57 +0000 Guest /?p=6676 Riceviamo da Luca Fusari e volentieri pubblichiamo

Leggendo l’articolo di Luca Martinelli su Acqua bene pubblico, non una merce sembrerebbe che l’Istituto Bruno Leoni, il Chicagoblog e i vari promotori anti-referendari del Comitato no-referendum vivano in un altro pianeta.

Si, perché secondo Martinelli e la logica descritta dai referendari nel citato articolo, sono lor i presunti promotori della libertà idrica in Italia benché vengano sostenuti apertamente dai noti e famosi anarco-capitalisti e liberisti quali Di Pietro, Vendola, i Verdi e la CGIL….!.

Insomma tutta gente che la sanno lunga su liberalizzazioni e sulla proprietà privata dei beni!.

Sarà il caldo estivo ma Martinelli appare ai miei occhi come una sorta di viaggiatore obamiano di universi paralleli giunto nella nostra dimensione a spacciare in chiave neoliguistica orwelliana dei diritti positivi e della burocratizzazione per “libertà e benessere per tutti quanti”, accusando per giunta proprio gli sparuti liberisti del pianeta Italia che si oppongono a tale fittizia catechesi, di essere in realtà loro degli orribili e pericolosi mistificatori e forse miscredenti!.

Nulla di nuovo sotto il sole dato che simil personaggi e simili tattiche accusatorie sono comuni e frequenti in chi si aggira nei meandri della politica e del sottobosco associazionistico dei referendari (ma non solo!) cercando di spacciarsi per liberista e liberale par-time laddove il proprio background culturale e formativo dice altro….

Così quando le idee latitano e non si sa come difenderle si cerca di girare e rigirare la classica frittata italiana sperando che nessuno se ne accorga. 

La privatizzazione inesistente

Nei mesi scorsi all’approvazione del decreto Ronchi, il Governo in carica (che liberista e anarco-capitalista non è anch’esso) propaganda attraverso i cosiddetti “mezzi di pubblica informazione” radio, giornali, televisioni (pubbliche in quanto di Stato o para-governative in quanto legate al governante) la falsa speranza (e soprattutto in questo caso) e le false paure in merito agli effetti risultati di tal decreto che apre solamente le gare pubbliche di gestione delle reti idriche a soggetti privati.

Evidentemente i referendari hanno ripreso e accolto come una verità certa e assoluta tali notizie credendo totalmente alla falsità di merito del decreto Ronchi sulla presunta “privatizzazione dell’acqua”  realizzando una raccolta firme e una campagna referendaria basata sostanzialmente su una propaganda figlia di un altra falsa propaganda governativa.

Assistiamo quindi al risultato di tale opera di disinformazione statuale a catena, la quale ha creato una opposizione ideologica e preventiva nei confronti di un decreto non certo rivoluzionario in materia dell’acqua avente però il concreto compito di ridurre ulteriormente le già scarse affinità con il mercato dell’Italia.

D’altronde è il gioco politico delle parti: il Governo annuncia e propone poca roba e subito l’opposizione referendaria (la quale credendo nella realizzazione di chissà quale progetto liberista) dopo tali annunci agisce entro e il muro contro muro ideologico e retorico realizzando una indiretta propaganda pubblicitaria ingannevole al “governo del fare” e alle sue spinte più stataliste interne ed egemoniche alla maggioranza, laddove piuttosto sarebbe stato utile porre seri dubbi e critiche di mercato (anziché al mercato) sull’operato di tale governo e di tal decreto: dov’è la liberalizzazione, la privatizzazione di un servizio come l’acqua in tale decreto?.

Macchè!.

I liberisti non sono i referendari

I referendari gattopardescamente ammiccano al ritorno d’immagine in favore di un sedicente “riformatorismo liberale” nel governo e si accodano per certi versi alla propaganda politica in favore di presunti “liberismi governativi” anche laddove c’è solo propaganda e poco mercato; il tutto con l’aspirazione di infausti ritorni al passato.

E dato che una propaganda tira l’altra, l’opposizione politico-referendaria cerca anche di rappresentarsi per ciò che non è (addirittura “liberista” leggendo l’articolo di Martinelli appare evidente il tentativo peraltro fallito), nascondendo dietro al solito teatrino politico italiano i suoi intenti, arrivando perfino a negare apertamente le volontà e gli appelli sottoscritti e firmati coscientemente dai suoi stessi elettori-referendari.

Mi si permetta qua di fare una considerazione da “avvocato del diavolo referendario” dato che ritengo ingiusto che Martinelli nel suo articolo abbia strumentalmente nuovamente girato la questione e le finalità palesi e chiare del milione e quattrocento mila firmatari della proposta sui quesiti referendari.

La gente firmataria è palesemente gente che crede nello Stato e nella beltà e utilità dello Stato quale erogatore dei servizi come “cosa buona e giusta”, e questo tanto più se gestito e guidato a livello centrale e locale da gente e cooperative mica per la privatizzazione e la liberalizzazione “umana e sostenibile” del servizio come strumentalmente pare affermare Martinelli nel suo articolo.

Insomma Martinelli nel suo articolo pare prendere in giro nuovamente i firmatari, dopo aver fatto loro firmare un referendum con motivazioni allarmistiche inesistenti ora attribuisce a questi una volontà che non appartiene a loro stessi, addirittura quella “liberista”!!.

Si direbbe che dopo il danno dell’indizione truffaldina del referendum nelle sue motivazioni, arriva pure la beffa emotiva-causale per i firmatari, ma c’è poco da ridere!.

Forse Martinelli attribuisce ai firmatari un pensiero soggettivo suo personale quando afferma che tali referendari siano i veri lottatori contro gli sprechi e le spese sull’acqua, certamente non appare il pensiero dominante dei molti sottoscrittori e soggetti in causa né la reale preoccupazione di Martinelli.

Mi pare inoltre che lo stesso Martinelli si contraddica palesemente nel seguenti punto chiave:

Il Comitato promotore del referendum, se ascoltato, parla sempre di privatizzazione del servizio idrico integrato; è empiricamente evidente, però, che privatizzare il s.i.i. equivale a una “privatizzazione di fatto dell’acqua”, perché l’accesso all’acqua potabile, ed ai servizi di depurazione e fognatura, viene a dipendere dal mercato“.

Come mai l’IBL e altri commentatori liberisti non fanno parte di questo “Comitato di salute pubblica” (pardon “”privata”") se davvero le cose fossero come afferma Martinelli?.

Come mai i quesiti referendari mirano apertamente al ritorno dell’acqua pubblica se davvero fossero portati avanti da gente “”ultraliberista”” come Martinelli c’è la descrive?.

Ci può spiegare l’ossimoro logico di scrivere “Acqua bene pubblico, non merce” nel titolo dell’articolo e del suo libro, salvo poi affermare nell’articolo che non si è contro la privatizzazione dell’acqua (in piena contraddizione con il concetto di bene pubblico e con il contenuto del suo libro) ma stando alle sue vaporose spiegazioni in favore di una “privatizzazione municipale di matrice politica” (che come sappiamo privatizzazione non è dato che il municipio non è un soggetto privato né di mercato)?.

Sembrerebbe da parte dei promotori referendari e di Martinelli in particolare uno strano caso di berlusconismo “privatistico” pavloviano così comune di questi tempi di rivoluzioni liberali annunciate, di meno tasse promesse e mai realizzate se non solamente nell’iperuranio (ove sono sicuro che il viaggiatore di universi paralleli Martinelli ha casa e risiede normalmente), dato che fra l’altro Martinelli considera nel suo articolo strumentalmente “”mercato e privato”" ciò che egli considera politicamente di Stato, e “”"liberista”"” ciò che in realtà appare socialista (gestione municipale o cooperativa dell’acqua).

Strano modo davvero di concepire il mercato e il rapporto pubblico e privato!, ma come ho già scritto forse è una moda dilagante in questi decenni nel nostro Paese!.

Lo spreco dell’acqua è tutt’oggi uno spreco politico e non di mercato, gli acquedotti italiani perdono acqua pubblica municipale e parecchie amministrazioni comunali nell’Italia meridionale non sono in grado di garantire e fornire pubblicamente e statalmente l’acqua.     

La stessa rete idrica è ormai vecchia e antiquata e ben lungi dagli standard europei di efficienza, eppure per Martinelli il rischio neppure così nascosto nel suo libro è quello della vendita dell’acqua in mano private, il che appare un allarmismo referendario che usa meccanismi grossolani e maccheronici e machiavellici se fossero usati in un film come Tototruffa 62 avrebbero un loro senso comico, ma che nella realtà italiana del 2010 sono alquanto preoccupanti e tristi.

L’acqua è un bene che ha un valore

Faccio notare a Martinelli come l’acqua prima ancora di essere definito un bene e quindi una “merce” (per dirla marxianamente come fa lei) è soprattutto una risorsa perché l’uomo né da un valore fondamentale e importante (e non potrebbe essere il contrario) per la sua vita.

L’uomo marginalisticamente tenda a dare un valore all’acqua proprio perché la ritiene utile per sé stesso, questa sua utilità associata al suo essere risorsa implica necessariamente un valore e quindi un prezzo.

D’altronde se l’uomo non esistesse l’acqua non avrebbe un valore di mercato dato che è l’uomo ad attribuirne un valore, e questo opera entro un spontaneo mercato basato su domanda e offerte individuali.

Dato che l’intero processo di erogazione idrico è un processo che occupa lavoro, tempo e risorse anche economiche appare del tutto evidente come l’acqua sia un bene che abbia un valore anche economico.

Siccome il valore economico (a differenza di quanto lei pensa) non dovrebbe essere stabilito né da una autorità né da un comitato referendario (regolatore) di pubblica salute ma dal libero incontro di domanda e offerta ma dall’incontro di chi produce e gestisce il processo idrico e l’acquirente-cittadino, appare del tutto evidente come le tariffe e i costi stessi dell’erogazione del servizio calino se questo servizio viene lasciato in opera entro un libero mercato di più soggetti in competizione tra loro.

Un libero mercato che implica evidentemente un netto taglio della burocrazia e delle presenze politiche che di fatto tutt’oggi a livello di aziende municipali locali (gestite dai politici referendari e non) tengono surrettiziamente alto il prezzo delle tariffe nel tentativo di recuperare soldi e denaro anche per poterli spendere (nelle migliori delle ipotesi) in settori non aventi alcuna connessione con il servizio idrico e il reale costo dell’acqua se questa fosse su un libero mercato.

Il prezzo politico dell’acqua attuale, al pari di altri prezzi è di fatto una tassa e non un reale costo di mercato; è quindi un furto politico mediato dalla causale apparentemente inerente all’acqua e in più occasioni camuffata in necessità “solidaristica” o di “diritto” o per le “prossime generazioni” (di politici?).

Ma al di là di tali retorici appelli umanistici e umanitari in realtà si celi la necessità di far cassa e profitto (per non dire sciacallaggio) politico a danno dei contribuenti proprio a partire dall’uso di una risorsa indispensabile come l’acqua.

Pare evidente come per “bene pubblico” i referendari si riferiscano non alla fruizione del servizio da parte dei cittadini ma semmai alla gestione, dato che appare evidente come l’acqua se anche fosse un servizio privato comunque verrebbe erogata ai cittadini esattamente come altri servizi già oggi non sotto il controllo statale-municipale-politico; (i referendari invece paiono suggerire invece scenari apocalittici e fantasiosi anche su questa riflessione chiaramente di buonsenso e ovviamente di mercato).

I quesiti referendari poi si rivolgono proprio a contestare le aperture di gare d’appalto ai privati per la gestione del sistema idrico come stabilisce il decreto Ronchi (che comunque è ben altra cosa dalla privatizzazione dell’acqua tout court come invece affermato dai referendari!).

Ecco perché l’acqua di mercato è meglio di un acqua monopolizzata dal pubblico e priva di scelte per i cittadini, consumatori contribuenti.

A Cosenza l’acqua è pubblica

Cosa surreale ma evidentemente logica per Martinelli, è quella di citare il caso del comune di Cosenza (ovvero una amministrazione pubblica politicizzata) accusandolo di essere un modello per i controreferendari liberisti anziché per gli stessi promotori statalisti del referendum .

Forse Martinelli non comprende come tra gli oppositori al referendum esistano differenti associazioni e individui aventi una certa pluralità di vedute liberiste, talune anche critiche in merito alla gestione politico-partitica dell’attuale centrodestra a livello locale e di governo, quindi le sue allusioni o il suo tentativo di inquadrare tale referendum entro la battaglia “destra”-sinistra di Palazzo trova poco spazio in queste pagine.

In particolare si rivela semmai cartina tornasole per comprendere la logica dei referendari i quali agiscono colti da una spasmodica e compulsiva retorica ideologica anti-governativa salvo non rendersi conto come la politicizzazione dell’acqua da loro promossa risulti cosa ben gradita anche a molti apparati locali e nazionali degli attuali partiti di governo.

Guai a porre obiezione ai referendari!

Inoltre per la serie “la libertà di stampa e libera promozione dell’informazione e del pensiero” in Italia, Martinelli arriva nel suo articolo a muovere minacce di querela a Stagnaro e a Libero minacciandoli di denunce per presunti tentativi di diffamazione alla Rete-movimento referendario (sostenuto come già scritto da partiti, sindacati e altre organizzazioni parastatali e colluse con il potere politico e amministrativo locale) nei confronti di Carlo Stagnaro e l’IBL solo per aver proposto una differente visione della realtà sulla questione referendaria.

Non oso immaginare come reagirà il liberal Martinelli quando leggerà questo articolo, sicuramente non posso che notare la “liberalità” di tali promotori referendari che cercano di azzittire la controparte approfittando al contempo dello spazio a loro gentilmente concesso su questo sito (non posso allora che condividere personalmente la risposta di Carlo Stagnaro qua pubblicata).

Evidentemente è un riflesso chiarificatore e indicativo del modus operandi di tali referendari e della loro concezione collettiva dell’esistente che dovrebbe preoccupare tutti coloro che sono dubbiosi o non hanno seguito per intero l’intera.

 

La tassa occulta è nella politica non nel mercato

Infine la questione della tassa occulta sul sistema idrico citata in conclusione dell’articolo di Martinelli, appare evidente come per i referendari la questione non sia dovuta al costo derivato dal regime di monopolio di controllo del sistema idrico, il quale obbliga il contribuente-cittadino ad allacciarsi ai fornitori municipali e nazionali gestiti dal pubblico e dalle varie ramificazioni- entità statuali sul territorio.

Martinelli e i referendari però paiono non proporre una pluralità di soggetti privati gestori idrici entro un libero mercato in concorrenza sui prezzi dei servizi e dei contratti idrici per i cittadini a cui far riferimento e nel caso recedere.

No, per Martinelli e per i referendari la questione è puramente il presunto “perfezionamento del sistema” in mano alla politica, “alla cosa pubblica”, dimenticando che ciò è puramente una utopia negli intenti e nella reale concreta volontà dei referendari.

D’altronde il costo o prezzo della prestazione inevitabilmente si innalza entro una condizione di monopolio (o oligopolio fittizio municipalizzato sul territorio) di matrice politica e in assenza di una autentica libertà di scelta sul mercato tra operatori da parte dei cittadini. 

Questo senza leggere Mises o essere un economista è palese ma per Martinelli e il comitato referendario ciò non è problema da porre; anzi opponendosi all’apertura di qualsiasi teorica gara d’appalto ai soggetti privati, ci si oppone a priori nei confronti di tali scenari di libero mercato futuribili e comunque neppure presenti entro lo stesso decreto Ronchi a differenza di quanto immaginano gli stessi referendari.

Dato che è impossibile immaginare una pluralità di soggetti privati operanti laddove si impedisce l’ingresso iniziale seppur ancor troppo marginale e farraginoso statalmente (per decreto Ronchi) di tali soggetti privati nel settore dell’acqua.

 

Una conclusione “all’italiana”?

Insomma i referendari difendono e promuovono una vecchia retorica della “bene” collettivo basandosi su inesistenti riforme e liberalizzazioni di governo, tali fantomatici spauracchi propagandati ad arte servono solo per demonizzare e condizionare irrazionalmente sempre più una società italiana già oggi tra le più socialiste e stataliste d’Occidente (anche per demeriti palesi dell’attuale governo).

Inveire contro le fantomatiche politiche di mercato anziché contro la politicizzazione dei servizi e il centralismo decisionale dei burocrati diventa allora una attività di corto respiro, utile forse per dar fiato alle vecchie nostalgie mai sopite ma non in grado né di cambiare né di innovare l’Italia.

Anche per quanto riguarda il mercato dell’acqua si assiste ad una totale aporia promossa nei palazzi della politica e nelle urne referendarie da tali comitati di base statalisti che sempre più allontanano il Paese dalle assenti, quanto necessarie e agognate riforme di libero mercato (come l’IBL ha descritto nel suo Indice delle liberalizzazioni 2010).

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Acqua: se non è una merce, non è nulla /2010/07/29/acqua-se-non-e-una-merce-non-e-nulla/ /2010/07/29/acqua-se-non-e-una-merce-non-e-nulla/#comments Thu, 29 Jul 2010 13:58:33 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6673 La lettera di Luca Martinelli – che ho pubblicato in un precedente post – mi fornisce l’occasione di esprimere, in modo più pacato, alcune idee sulla porca faccenda della “privatizzazione” dell’acqua, di cui mi sono occupato recentemente sia un pezzo su Libero (a cui Martinelli reagisce), sia in un post qui su Chicago-blog. Poiché non ho risposto a molti dei commenti che quel post aveva raccolto, ne approfitto – Martinelli mi perdonerà – per mettere, in qualche modo, tutto assieme.

Martinelli mi accusa sostanzialmente di due cose: di “mistificazione” della propaganda referendaria, e di sottovalutare le conseguenze della “privatizzazione”. A questo proposito, porta il caso di Cosenza, su cui tornerò tra poco.

In merito alla “mistificazione”, riconosco di aver usato toni molto forti. Non ne sono, però, pentito: sono anzi convinto che quello fosse il minimo sindacale nei toni da utilizzare. E ribadisco, a costo di apparire pedante, quanto ho già scritto: penso che una fetta non piccola, forse la maggioranza, forse la larga maggioranza, del milione e quattrocentomila italiani che hanno firmato i tre referendum non sappiano cosa hanno firmato. O, meglio, quello che “sanno” – cioè quell che gli è stato detto – non coincide con quello che hanno firmato. Ripeto, allora, che – se la propaganda politica fosse un bene o un servizio scambiato sul mercato – si potrebbe parlare di pubblicità ingannevole. Se qualcuno vuole querelare, quereli. Infatti, come è chiaro dal sito del Forum, la raccolta di firme ha fatto interamente leva su due concetti: l’acqua “privata” versus quella “pubblica” e l’aumento delle tariffe. Per esempio, l’obiettivo dei referendum è così descritto:

Vogliamo restituire questo bene essenziale alla gestione collettiva. Per garantirne l’accesso a tutte e tutti. Per tutelarlo come bene comune. Per conservarlo per le future generazioni. Vogliamo una gestione pubblica e partecipativa.

Da nessuna parte ho trovato menzione del fatto che nulla, nell’attuale normativa, impedisce a tutte e tutti di accedere all’acqua, o nega che l’acqua sia un bene comune. Al contrario, dire che lo scopo dei referendum è “conservare [l'acqua] per le future generazioni” lascia intendere che la riforma idrica abbia l’effetto di aumentare gli sprechi. Ciò è falso. Ancora peggio, se parliamo di mistificazione, è l’affermazione secondo cui “L’attuale governo ha invece deciso di consegnarla ai privati e alle grandi multinazionali”. L’attuale governo non ha deciso un tubo: ha dato attuazione a una serie di norme che, stante la normativa precedentemente esistente, consentono di allinearsi con gli obblighi comunitari. Ma lungi da me voler perseguire una difesa puramente formalistica. Quello che mi interessa sottolineare è che una parte almeno degli 1,400,000 firmatari hanno risposto all’appello a firmare contro la privatizzazione dell’acqua, mentre hanno firmato contro qualcosa d’altro. Cosa?

Il decreto Ronchi (e le norme pre-esistenti) semplicemente fissa il principio per cui la gestione del servizio idrico integrato deve essere affidata, in via ordinaria, tramite gara. Alla gara possono partecipare indifferentemente soggetti sia pubblici sia privati, e i primi – per una serie di ragioni – sono favoriti. Ne cito due: la prima è che, tipicamente, sono i gestori uscenti, e quindi partono da una ovvia posizione di vantaggio; la seconda è che le gare devono essere bandite dai loro azionisti, e alzi la mano chi crede nella loro effettiva terzietà. Questo per dire anche che non è che io sia un pasdaràn delle gare, ma semplicemente uno che crede si tratti di un male relativamente minore. Fosse per me, si privatizzerebbe sul serio – ma questo è un altro discorso, rispetto al quale chi è interessato può leggere questo aureo libretto di Fredrik Segerfeldt.

La distinzione tra proprietà e gestione è tutt’altro che secondaria, come invece sembra credere Stefano Rodotà, secondo cui

Il ministro Andrea Ronchi falsifica la realtà quando dice che il decreto che porta il suo nome comporta solo ‘affidamenti in gestione’, mentre i Comuni restano titolari del diritto. Da moltissimo tempo si è sottolineato che quando si scinde proprietà e gestione, il vero proprietario diventa chi ha il potere di gestire. Il fatto che il titolare resti un soggetto pubblico è un argomento formale, ingannevole. Restano da vedere le caratteristiche della gestione: quando questa viene affidata ai privati, è orientata al profitto, e ciò implica una sostanziale privatizzazione del bene. Il gestore fornisce un servizio, ma solo perché vuol ricevere un profitto. I soggetti cui fare riferimento per comprendere la funzione di un bene comune sono tutti i cittadini, e per questo essi devono essere gestiti fuori dalla logica di mercato. Il che non significa che non debbano essere gestiti con criteri economici. Ma l’economicità della gestione non coincide con la produzione di profitto.

Io capisco che la nozione stessa di profitto faccia venire l’orticaria, e non so cosa farci. Però mi sembra importante precisare due cose che Rodotà non considera: (1) essendo regolate le tariffe, il “profitto” è a sua volta regolato, fatta salva l’abilità del gestore di rendere il servizio più efficiente. Meglio lavora, più fa profitto. Non è che possiamo ogni giorno tornare ad Adam Smith, però mi pare che questo sia un caso scuola di come non convenga affidarsi all’altruismo dei gestori dei servizi idrici, ma al loro interesse. Specie in un paese dove le perdite medie sono più di un terzo. Conservare lo status quo è tanto più immorale, quanto più si crede che l’acqua sia un bene “pubblico” e che lo “spreco” non sia semplicemente una cosa incivile, ma sia un crimine contro l’umanità. (2) La distinzione tra proprietà e gestione conta, eccome, quando – tramite il meccanismo della gara – il gestore sa che, dopo un lasso di tempo relativamente breve, dovrà restituire le infrastrutture al proprietario (l’ente pubblico) in condizioni migliori di come le ha trovate, oppure dovrà renderne conto. Noto appena per inciso che le “grandi multinazionali” che terrorizanno i referendari sono, da questo punto di vista, i soggetti più affidabili, perché sono gli unici facilmente identificabili e che non possono scappare, e che proprio per questo hanno un interesse reputazionale molto più forte a rigare dritto.

Con questo rispondo anche a Marco Esposito, che – in commento al mio post dell’altro giorno – scrive:

la privatizzazione della distribuzione dell’acqua non mi convince per niente: è un monopolio (non si può scegliere il distributore) e i prezzi li fisserà massimizzando il profitto, l’esatto opposto del mercato.

Perfino Marco è vittima di una incomprensione. Potrebbe aver ragione se al soggetto affidatario fosse garantito diritto di “vita e di morte” sui suoi clienti. Così non è. E non solo perché una serie di vincoli – relativi alle modalità di gestione e sviluppo, alle politiche tariffarie, e ai canoni di concessione (che andrebbero aboliti perché sono lo strumento vero con cui i comuni, cioè il pubblico, si appropria della rendita monopolistica) – li mette la gara. Il fatto è che le tariffe sono e saranno decise da organismi terzi – oggi gli Ato (cioè i sindaci), domani si spera un’autorità indipendente. Naturalmente, si può sostenere che il regolatore pubblico può essere “catturato” dall’affidatario “privato”: verissimo, ma dovete convincermi che il rischio di una cattura è preferibile alla certezza derivante dal fatto che affidante e affidatario sono la stessa persona. Oppure solo io vivo in un paese dove le utilities locali pubbliche o parapubbliche sono un parcheggio per dipendenti privi di qualunque qualifica, tranne l’essere i famigli di un qualche assessore o ex assessore alle varie ed eventuali?

Arrivo, così, all’istruttivo caso di Cosenza. Copio da Quindici l’intera notizia, per un commento rapidissimo:

Anche il comune di Cosenza tra i debitori di Sorical, che ci accinge infatti a diminuire la portata idrica nel capoluogo. Il debito del Comune si aggirerebbe intorno ai quattro milioni di euro. Ci sono migliaia di utenti morosi – come riporta la stampa locale – che comportano l’impossibilità per l’Ente di pagare a sua volta gli enti e le imprese che erogano servizi destinati alla città.
La lettera di diffida della Sorical per saldare il debito è partita circa un mese fa. Ma da Palazzo dei Bruzi non è pervenuto alcun segnale. Le briciole, così le definiscono negli ambienti della Sorical, versate dal Comune non fanno cassa. E così la società ha deciso di pubblicare sulla stampa un avviso pubblico con cui annuncia la diminuzione della portata idrica. La manovra, se non interverranno fatti nuovi, potrebbe scattare entro fine mese.
A Rende, in un caso analogo, l’intervento del prefetto riuscì a scongiurare i disagi agli utenti, favorendo un accordo per la spalmatura del debito con un piano di rientro.

Di fronte a questa vicenda, Martinelli mi chede:

È davvero questo il metro più corretto per gestire le relazioni tra un gestore del servizio idrico integrato e un’amministrazione comunale?

Nella vita posso avere tanti dubbi, ma non nella risposta a questa domanda: sì, questo è il metro più corretto. Se crediamo – e io ci credo - che l’acqua abbia un valore, dobbiamo accettare che abbia anche un prezzo. Altrimenti non stupiamoci se se ne fa un utilizzo dissennato. Se crediamo – e io ci credo – che servano investimenti per riparare le reti colabrodo, allora dobbiamo rifiutare con forza la morosità, specie quando morosi sono gli enti pubblici. Altra cosa è dire che servono strumenti di aiuto alle famiglie a bassissimo reddito; altra cosa è accettare l’illegalità diffusa. Soprattutto, lo ripeto, da parte di enti pubblici: la gestione allegra delle finanze pubbliche è il cancro di questo paese, e difenderla nel nome dell’acqua pubblica è un modo molto comodo per giustificare, e dunque incentivare, il malcostume. E’ questo che vogliono, i referendari? Di sicuro è quello che otterrebbero se i referendum passassero.

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Acqua bene pubblico, non merce. Di Luca Martinelli /2010/07/29/acqua-bene-pubblico-non-merce-di-luca-martinelli/ /2010/07/29/acqua-bene-pubblico-non-merce-di-luca-martinelli/#comments Thu, 29 Jul 2010 12:51:14 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6668 Ricevo da Luca Martinelli, giornalista di Altreconomia e autore del libro L’acqua è una merce, e volentieri pubblico. Qui la mia risposta.

Gentile dottor Stagnaro, 
    
trovo la sua informazione in merito ai tre quesiti del referendum sul servizio idrico integrato assolutamente mistificatoria. Immagino lei non abbia avuto modo di partecipare ad alcun dibattito in cui, negli ultimi tre mesi, sono stati presentati i “perché” di questo referendum, perché altrimenti non potrebbe scrivere che “Un milione e quattrocentomila italiani sono stati ingannati. Gli è stato chiesto di firmare contro la ‘privatizzazione dell’acqua’ perché ‘l’acqua non è una merce”, accusando il Comitato promotore referendario di fare pubblicità ingannevole. Il Comitato promotore del referendum, se ascoltato, parla sempre di privatizzazione del servizio idrico integrato; è empiricamente evidente, però, che privatizzare il s.i.i. equivale a una “privatizzazione di fatto dell’acqua”, perché l’accesso all’acqua potabile, ed ai servizi di depurazione e fognatura, viene a dipendere dal mercato. Lo ha spiegato, ad esempio, Stefano Rodotà, illustre giurista, in numerosi studi, interventi sul quotidiano la Repubblica e anche in un’intervista che gli ho fatto per la rivista Altreconomia, per cui lavoro.

Le segnalo, per farle un esempio, che l’ultima newsletter “Quindici“, periodico di Federutility, riporta la notizia che a Cosenza Sorical ridurrà la pressione dell’acqua nell’acquedotto comunale perché il Comune di Cosenza è moroso… È davvero questo il metro più corretto per gestire le relazioni tra un gestore del servizio idrico integrato e un’amministrazione comunale?

“Pubblicità ingannevole”, lei scrive: lo metto tra virgolette, per farle capire che è un estratto da un suo articolo, pubblicato su Libero Mercato, che ho letto con vivo interesse. Ho trovato, però, un intento mistificatorio assai negativo. Perché? Forse perché, sapendo che il Comitato promotore del referendum non è un’organizzazione ma una rete, immagina che ci sia difficoltà a dare una risposta immediata a idee fantasiose, oppure a portare in giudizio lei ed il suo editore, perché la diffamazione a mezzo stampa è un reato… Perché sul tema delle tariffe, in particolare, il Comitato promotore non “vende al popolo” l’idea che esse aumentino con la privatizzazione, ben sapendo che è la determinazionale della tariffa, come descritta nell’articolo 13 della legge Galli del 1994, “il problema”, ovvero gli aumenti dipendono da una legge che prevede che tutti gli investimenti (necessari, è vero: ma sono 60 miliardi di euro in 30 anni e non “60 miliardi di euro”; sono 2 miliardi di euro l’anno, perché non specificarlo ai suoi lettori di Libero Mercato, senz’altro sarebbe un esercizio utile ad evitare ogni mistificazione?) debbano ricadere in bolletta, sulle tasche dei cittadini che pagano una sorta di “tassa” occulta (sulle reti acquedottistiche) il più della volte senza saperlo (vada a chiedere, ad un cittadino, da cosa è composta la tariffa del s.i.i.!). 
 
Cordialmente,
Luca Martinelli

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Bugiardi e mentitori /2010/07/19/bugiardi-e-mentitori/ /2010/07/19/bugiardi-e-mentitori/#comments Mon, 19 Jul 2010 17:01:21 +0000 Carlo Stagnaro /?p=6585 Oggi il Forum dei movimenti per l’acqua ha consegnato in Cassazione oltre un milione e quattrocentomila firme per i tre quesiti referendari contro la “privatizzazione” dell’acqua. Secondo gli organizzatori, “nessun referendum nella storia repubblicana ha raccolto tante firme”. In un contesto normale parlerei dei tre referendum, del loro contenuto e delle ragioni per cui sono contrario (qui Luigi Ceffalo e qui Piercamillo Falasca e Rosita Romano spiegano le nostre posizioni sul decreto Ronchi e dintorni). Oggi non lo faccio. Oggi faccio qualcosa che normalmente non farei: parlare degli organizzatori. Perché penso che le firme raccolte siano firme estorte.

Quasi un milione e mezzo di persone hanno firmato contro la “privatizzazione” dell’acqua, sulla scorta di slogan del tipo “l’acqua non si vende” o “l’acqua non è una merce”. Mi dispiace per questo milione e mezzo di persone – statisticamente, 2,5 italiani su cento – ma sono stati fregati, ingannati e presi per il culo da gente senza scrupoli. A me sta bene il dibattito politico, anche violento: mi piace, mi diverte e generalmente non mi sottraggo. Ma deve esserci un minimo di onestà intellettuale da parte di tutti. Non capisco perché un’azienda deve essere punita (giustamente) se fa pubblicità ingannevole, e un’organizzazione politica no.

Ecco come gli organizzatori descrivono le ragioni dei referendum:

Perché l’acqua è un bene comune e un diritto umano universale. Un bene essenziale che appartiene a tutti. Nessuno può appropriarsene, né farci profitti. L’attuale governo ha invece deciso di consegnarla ai privati e alle grandi multinazionali. Noi tutte e tutti possiamo impedirlo. Mettendo oggi la nostra firma sulla richiesta di referendum e votando SI quando, nella prossima primavera, saremo chiamati a decidere. E’ una battaglia di civiltà. Nessuno si senta escluso.

Ora, io non so se l’acqua sia un bene comune e un diritto umano universale, e non sono neppure sicuro di sapere cosa ciò significhi. So che non c’è nulla, nella normativa attuale, che in principio contraddica queste posizioni; nulla che impedisca a ciascuno di avere accesso all’acqua; nulla che tolga l’acqua agli assetati. Non so neppure cosa voglia dire che nessuno può appropriarsene, visto che, ogni volta che bevo un bicchiere d’acqua, ho la sensazione di appropriarmene senza per questo provare sensi di colpa. So però che “l’attuale governo” non ha deciso un tubo che abbia l’effetto di consegnare l’acqua “ai privati e alle grandi multinazionali”. So però che, se passassero i referendum, come dicono gli stessi organizzatori,

Dal punto di vista normativo, il combinato disposto dei tre quesiti sopra descritti, comporterebbe, per l’affidamento del servizio idrico integrato, la possibilità del ricorso al vigente art. 114 del Decreto Legislativo n. 267/2000.
Tale articolo prevede il ricorso ad enti di diritto pubblico (azienda speciale, azienda speciale consortile, consorzio fra i Comuni), ovvero a forme societarie che qualificherebbero il servizio idrico come strutturalmente e funzionalmente “privo di rilevanza economica”, servizio di interesse generale e scevro da profitti nella sua erogazione.

Ora, se i promotori dei referendum fossero persone oneste, direbbero che questo significa tornare all’Italia del passato, un’Italia nella quale gli attuali problemi sono germogliati e cresciuti e hanno raggiunto la dimensione attuale. Direbbero che tornare alla gestione pubblica pura significa tornare alla gestione truffaldina e clientelare delle cricche o, nella migliore delle ipotesi, a una onesta e inefficiente gestione da parte di gente che nella vita non ha alcuna competenza nella gestione di un servizio industriale quale è quello idrico. Direbbero che gli investimenti o si fanno o non si fanno, e se si fanno in qualche modo vanno finanziati. Dunque, tariffa oppure tasse poco cambia (se non sotto il profilo redistributivo e dell’efficienza, e in entrambi i casi con una netta preferenza per le tariffe). Direbbero che, se gli investimenti non si fanno, non è che i cittadini non paghino nulla: pagherebbero, come pagano oggi, un pesante tributo alle perdite e all’illegalità degli allacci abusivi. Direbbero che tutte le storie che quotidianamente leggiamo sulle cricche e sul malaffare e sulle tangenti e che giustamente ci fanno provare schifo per una classe politica incapace e corrotta e composta non da ladri gentiluomini ma da ladri di polli, semplicemente le ritroveremmo – all’ennesima potenza – anche nel settore idrico.

Direbbero che a loro non gliene frega un cazzo dell’acqua e delle merci e dei diritti, ma che gliene frega solo di perseguire l’obiettivo della politicizzazione della vita economica, sociale e civile del paese, e che hanno trovato nell’acqua il ventre molle di una inesistente cultura delle liberalizzazioni. Direbbero onestamente che loro vogliono la gestione pubblica non perché vi sia alcuna evidenza che sia migliore o più efficiente o più economica, ma solo perché per loro il pubblico è bene, il privato è il male e il profitto è lo sterco del demonio.

Direbbero tutto questo se fossero onesti, ma poiché onesti non sono, e in nulla si differenziano dalle cricche se non nel fatto che le cricche tangentare fanno meno danni, non lo dicono e non lo diranno. Fottendosene bellamente del fatto che il paese va e andrà sempre più a puttane anche grazie al loro generoso contributo.

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Un bene pubblico? privatizzare l’acqua: Charles Murray docet /2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/ /2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/#comments Mon, 03 May 2010 17:36:56 +0000 Serena Sileoni /2010/05/03/un-bene-pubblico-privatizzare-lacqua-charles-murray-docet/ Come spesso accade, e come troppo spesso ci si dimentica quando si affrontano le politiche pubbliche, la semplicità è il modo migliore per giudicare la bontà o meno di una scelta.

A proposito della cd. privatizzazione dell’acqua, la lettura di questo brano di Charles Murray, tratto da What it means to be a libertiarian, che a breve sarà disponibile anche in italiano, è appunto una di quelle occasioni in cui poche parole semplici sono molto più efficaci di tante welfariane previsioni e stime.

Esse sembrano tanto più sinteticamente efficaci quanto più, credo, ognuno di noi può ritrovare la propria esperienza di rapporto vissuto con la pubblica amministrazione, rimanendo difficile contestare la verosimiglianza di un quadro del genere, anche se dipinto avendo a mente un paese straniero (gli USA) e qualche anno fa (nel 1997).

Dopo la lettura della citazione, chiedetevi pure se ancora siete convinti che privatizzare l’acqua sia un male pubblico.

In una parte della nostra vita, quella gestita dal governo, dobbiamo compilare dichiarazioni di redditi, rinnovare la patente di guida [...] cercare rettificare la somma pagata in più per la bolletta dell’acqua [...] Ciò che il settore privato può risolvere in pochi minuti al telefono, per ventiquattro ore al giorno, il governo può risolverlo dalle dieci alle tre, dal lunedì al venerdì, andandoci di persona e con la necessità di tre visite perché il problema sia compreso bene. La somma in eccesso sulla bolletta dell’acqua? Si finisce per pagarla, poiché, se si insiste, un ufficio amministrativo caduto in confusione potrebbe chiudere il rubinetto per mancato pagamento.

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Acqua: sostenibilità, efficienza e solidarietà. Di Emiliano Massimini /2010/04/29/acqua-sostenibilita-efficienza-e-solidarieta-di-emiliano-massimini/ /2010/04/29/acqua-sostenibilita-efficienza-e-solidarieta-di-emiliano-massimini/#comments Thu, 29 Apr 2010 07:50:38 +0000 Guest /?p=5810 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Emiliano Massimini, capo della segreteria tecnica del ministro delle Politiche comunitarie, Andrea Ronchi. Sul tema sono intervenuti in passato Carlo Stagnaro e Federico Testa.

Il problema della “privatizzazione” dell’acqua è mal posto. L’acqua è pubblica e l’attribuzione della qualifica contenuta nella legge Galli è stata determinata dalla necessità di attribuire alle acque sotterranee la qualità di pubbliche, per qualificare il reato d’inquinamento della immissione in falda di agenti inquinanti e, in tal modo, prevenire l’inquinamento delle sorgenti.

L’acqua non può essere utilizzata per soddisfare gli interessi della collettività se non incanalata e così trasportata alle utenze. Tale stato di fatto richiede:

-           Un piano generale degli acquedotti

-           La predisposizione di una rete di distribuzione

-           La individuazione degli obblighi di mantenimento della rete e l’attribuzione della  competenza per gli interventi

-           Un protocollo relativo alla qualità della fornitura, da modulare in relazione alle esigenze dell’utenza

-           La quantificazione dei costi per l’emungimento, il trasporto, la distribuzione e la potabilizzazione

-           La determinazione delle modalità di gestione della rete e della distribuzione

-           La determinazione della tariffa per la fruizione della risorsa, che deve essere predisposta in relazione alla scelta politica di coprire quantomeno il costo industriale della captazione, del trasporto, della distribuzione, del recupero e della manutenzione degli impianti fissi.

L’acqua, come risorsa naturale, è componente dell’ambiente e, come tale interagisce con ogni componente dell’ambiente medesimo e, in particolare, con i fattori inquinanti e, a sua volta, non deve essere portatrice di inquinamento. Per tale motivo, l’acqua come risorsa naturale deve essere gestita secondo criteri di sostenibilità, di efficienza e di solidarietà.

Il cosiddetto decreto Ronchi disciplina le modalità di erogazione del servizio di distribuzione e di gestione della rete. Non esistono disposizioni normative che esonerino l’utente dal pagamento della fornitura idrica.

Tutto ciò comporta la necessità di prevedere:

-           Un controllo sull’uso dell’acqua secondo criteri di sostenibilità, efficienza e solidarietà

-           Un controllo sulla rispondenza della fornitura alle norme di efficienza del servizio

-           Un modello di atto di concessione della gestione del servizio e della rete che assicuri la trasparenza dei rapporti tra concedente e concessionario, l’obbligo del concessionario di garantire un servizio rispondente alle regole di qualità previste dall’ente preposto al controllo della fonte acquifera in relazione alle individuate esigenze degli utenti.

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A proposito di acqua e servizi pubblici locali. Di Federico Testa /2010/04/24/a-proposito-di-acqua-e-servizi-pubblici-locali-di-federico-testa/ /2010/04/24/a-proposito-di-acqua-e-servizi-pubblici-locali-di-federico-testa/#comments Sat, 24 Apr 2010 08:22:02 +0000 Guest /?p=5750 Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Federico Testa, economista e deputato Pd. In risposta ai dubbi avanzati ieri da Carlo Stagnaro, Testa esprime le ragioni di perplessità sul decreto Ronchi.

Il tema dei servizi pubblici locali è certamente complesso, lo dimostrano anche i tentativi di intervenire fatti nel passato e non sempre riusciti. Quando si parla di servizi pubblici locali si parla di servizi che vanno a soddisfare bisogni fondamentali della collettività, pertanto è importante, da un lato, lavorare per un approccio organico -e l’articolo inserito in un decreto-legge che parla d’altro non rappresenta certamente un approccio organico- ma è anche importante capire cosa si mette al centro.


Io credo che, se si vuole affrontare correttamente questo tema, al centro sia doveroso mettere il cittadino e il suo diritto ad avere servizi di buona qualità ad un prezzo corretto, il minimo possibile.

Da questo punto di vista, quando si ragiona di questo tema, il primo punto su cui bisogna confrontarsi  è sempre quello privatizzazione-liberalizzazione, perché la teoria ci dice che bisogna prima liberalizzare e poi privatizzare, altrimenti  si corre il rischio o di trasferire una rendita di monopolio dal pubblico al privato.

In questo senso, quello che a me pare manchi nel recente decreto legge su cui il Governo ha posto la fiducia, sono interventi seri proprio sul fronte delle liberalizzazioni. Ma cosa non ha funzionato nelle liberalizzazioni in Italia? Non ha funzionato, ad esempio, tutto il tema delle gare: molto spesso abbiamo a che fare con gare che sono assolutamente non vere e ciò dipende anche dal fatto che i soggetti che sono chiamati a bandire le gare, da un lato, non hanno le competenze per poterlo fare, dall’altro, molto spesso sono in palese conflitto di interessi rispetto chi si aggiudicherà la gara stessa.

Inoltre, vi è la questione dell’autorità di regolazione, nel senso che la concorrenza perfetta non è uno stato naturale del mercato; le imprese vanno alla ricerca di un vantaggio competitivo nei confronti delle altre, e quindi là dove lo si ritenga opportuno, bisogna realizzare interventi affinché la concorrenza venga mantenuta.

Il Governo, con il recente provvedimento, ragiona al contrario, ossia pone vincoli molto rigidi in tema di privatizzazione, e quindi l’effetto che si ottiene pare essere prevalentemente quello, diciamo così, di “spartire” la rendita di monopolio del pubblico con qualche privato, il tutto senza alcun vantaggio certo e chiaro per i cittadini e per i consumatori. Questo è reso evidente dal fatto che le concessioni in house vanno a scadenza purché nel soggetto pubblico che ne è titolare entri il privato almeno per il 40 per cento. Quindi, in questo modo, invece di stabilire di bandire una gara, visto che si tratta di una concessione in house e che magari chi ha vinto la gara poteva non essere il soggetto che dava la migliore qualità e il miglior prezzo ai cittadini, si prevede di fare entrare un privato e questo, di per sé, sana la questione.

L’approccio al tema, invece, dovrebbe essere profondamente diverso: occorre mettere al centro i consumatori sapendo che si deve tra l’altro affrontare –in tema di ciclo idrico- una questione delicatissima, che è quella degli investimenti che bisogna effettuare nel nostro Paese, in quanto il dato di oltre il 35 per cento di perdite degli acquedotti in Italia è purtroppo realistico.

Occorre, dunque, fare investimenti e che questi siano finanziati: sia che li faccia il pubblico, sia che li faccia il privato, gli investimenti devono avere una sostenibilità finanziaria. Se il finanziamento è a carico della fiscalità generale, dobbiamo avere il coraggio di andare a dire che la fiscalità generale probabilmente deve crescere o diventare più efficiente per finanziare gli investimenti nell’acqua; se gli investimenti devono essere finanziati dal settore stesso, dobbiamo sapere che probabilmente le tariffe sono destinate a crescere perché si dovrà investire parecchio, o che bisognerà riuscire a recuperare, attraverso gli interventi regolatori, importanti spazi di efficienza e produttività.

Quindi, l’autorità indipendente di garanzia –che il provvedimento del governo non prevede- è importante proprio perché, nel momento in cui si vanno a chiedere maggiori risorse ai cittadini per finanziare gli investimenti, è fondamentale che tali maggiori risorse vadano alla destinazione richiesta e non vadano, invece, a costituire profitto o sprechi.

Da questo punto di vista, forse, la scelta migliore era quella di non perseguire un approccio ideologico qual è quello che, a mio modo di vedere, si è voluto assumere ma, invece, di mettere correttamente in competizione pubblico e privato allo scopo di garantire la qualità e il servizio migliore ai cittadini.

In questo senso credo che, un’altra volta, si sia persa un’occasione importante per intervenire in un settore che, proprio perché riguarda i bisogni fondamentali dei cittadini, è assolutamente importante e rilevante per tutti noi.

(Pubblicato per la prima volta su Management delle utilities, vol.8, no.1, 2010, pp.97-98).

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Acqua. Mr Pierluigi ma anche, e sempre più, Dr Bersani /2010/04/23/acqua-mr-pierluigi-ma-anche-e-sempre-piu-dr-bersani/ /2010/04/23/acqua-mr-pierluigi-ma-anche-e-sempre-piu-dr-bersani/#comments Fri, 23 Apr 2010 18:06:03 +0000 Carlo Stagnaro /?p=5748 Comincia domani la guerra dell’acqua. Il comitato “Acqua bene comune” avvia la raccolta delle firme per tre quesiti referendari, per l’abrogazione dell’art.23 bis del “decreto Ronchi” e delle altre norme il cui combinato disposto produce l’attuale (insoddisfacente) assetto di parziale liberalizzazione. La battaglia populisticamente, e scorrettamente, intitolata all’acqua pubblica – populisticamente e scorrettamente perché non c’è un rigo, nelle norme, che “privatizzi” l’acqua - ha trovato, fin da subito, il sostegno (esplicito e forte) dell’Italia dei Valori, e quello (implicito e paraculesco) della Lega. Da ieri, il Partito democratico si è, più o meno, aggregato alla carovana.

Dico “più o meno” perché, pur avversando il decreto Ronchi in merito alla “privatizzazione” dell’acqua, durante l’apposita conferenza stampa il segretario, Pierluigi Bersani, ha parlato di tutelare la proprietà pubblica della risorsa idrica e il “ruolo fondamentale delle regioni e degli enti locali nelle scelte di affidamento del servizio idrico integrato” (così si legge nella nota distribuita alla stampa). Tradotto in italiano corrente: il Pd difende lo status quo. Il colpo al cerchio: il Pd raccoglierà le firme su una proposta di legge di iniziativa popolare. Il colpo alla botte: il Pd non raccoglierà le firme per il referendum. (Ma, verosimilmente, lo appoggerà nel caso in cui vada in porto).

Ora, c’è un che di stupefacente in tutto questo. Quello che meraviglia non è tanto l’incapacità per il Pd di ammettere (capire, lo capiscono) che il decreto Ronchi, pur non essendo in alcun modo perfetto, è il migliore dei mondi politicamente possibili. Non meraviglia neppure che, dentro il Pd, vi siano voci simili a quelle che si sentono comunemente provenire dalle parti della sinistra massimalista: qualche dissonanza c’è sempre stata. Quel che lascia a bocca aperta è che, di tutti i democratici, sia proprio Bersani a impugnare lo scettro dell’acqua pubblica. Stupisce perché, come riconosce un critico intellettualmente onesto quale Giuseppe Altamore, non c’è tutta queste differenza tra il decreto Ronchi e il mitico, e affossato dalle opposizioni interne, ddl Lanzillotta (in realtà l’acqua era stata esclusa, ma il ministro Lanzillotta disse a più riprese che aveva subito una forzatura, e poté contare, tra l’altro, sul soccorso dell’Antitrust). Non risulta che, all’epoca, Bersani si sia opposto agli sforzi di Lanzillotta. Risulta, dalla cronaca e dall’anedottica, il contrario: che Mr Pierluigi, che cesellò attorno sé l’epica del liberalizzatore coraggioso, si sia battuto per ottenere quello che poi non avvenne.

Stupisce e delude, allora, assistere oggi al “contrordine compagni” del Dr Bersani, che non sa trovare un modo migliore di interpretare il proprio ruolo se non quello di cedere agli istinti più belluini del suo partito. E sì che questa sarebbe una splendida occasione per dimostrare la maturità del Pd, a fronte dello spettacolo che il Pdl sta offrendo al paese. Sic transit gloria, si fa per dire, mundi.

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Ostacoli fiscali alla concorrenza dei privati nei servizi pubblici: il caso degli interessi passivi /2009/12/10/ostacoli-fiscali-alla-concorrenza-dei-privati-nei-servizi-pubblici-il-caso-degli-interessi-passivi/ /2009/12/10/ostacoli-fiscali-alla-concorrenza-dei-privati-nei-servizi-pubblici-il-caso-degli-interessi-passivi/#comments Thu, 10 Dec 2009 15:44:58 +0000 Piercamillo Falasca /?p=4237 Antica questione intra-liberismo quella dei loophole, i “buchi” del sistema fiscale che permettono ad un settore o ad una categoria di contribuenti di pagare meno tasse grazie a deduzioni, detrazioni e sconti vari: c’è chi li vede come una legittima forma di difesa dal fisco e chi li considera una sorta di “spesa pubblica fiscale” e di distorsione della concorrenza. Nel mondo reale (e nella realissima Italia, per quanto ci riguarda) la questione è spesso di lana caprina: la difesa dell’attività economica dalla rapacità del fisco e la tutela dell’ambiente competitivo passano a volte dall’eliminazione di un loophole, altre volte dall’inserimento o dall’ampliamento di una di queste eccezioni. Se, ad esempio, una certa esenzione fiscale è concessa ad una società pubblica operante in un dato settore, è auspicabile che la stessa sia estesa anche alle società private. L’alternativa, l’abolizione dell’esenzione e la contestuale riduzione del carico fiscale sulla generalità dei contribuenti, è spesso ipotesi di scuola, più che possibilità concreta. Tanto più che – per avere senso – sarebbe opportuna l’eliminazione non di uno, ma di molti loophole.

L’esempio scelto non è casuale. Tra le maglie della legislazione fiscale italiana ci è stata segnalata una ingiustificata discriminazione tra società a capitale prevalentemente pubblico e società private. Con la Finanziaria per il 2008, fu modificato l’articolo 96 del TUIR, introducendo il limite del 30 per cento del risultato operativo lordo per la deducibilità degli interessi passivi, in precedenza quasi completamente deducibili. La norma, che Visco volle per arginare pratiche di elusione fiscale, ha un indubbio effetto inibitorio nei confronti degli investimenti finanziati con ricorso al debito (ragione per cui da più parti si chiede una generale revisione), tanto che l’allora Governo fissò alcune eccezioni, per le quali non è fissato il limite alla deducibilità. Tali eccezioni riguardano principalmente settori per i quali il ricorso al debito è strettamente connesso all’attività svolta o alla natura degli investimenti finanziati: banche e altri soggetti finanziari; imprese di assicurazione e società capogruppo di gruppi bancari e assicurativi; società consortili costituite per l’esecuzione unitaria di lavori pubblici; società costituite per la realizzazione e l’esercizio di interporti merci; società che costruiscono o gestiscono impianti per la fornitura di acqua, di energia, di teleriscaldamento, di smaltimento e depurazione.

In quest’ultimo caso, però, l’eccezione vige solo per quelle società il cui capitale sia sottoscritto prevalentemente da enti pubblici: se sei un’impresa privata che gestisce un impianto, puoi dedurre solo il 30 per cento degli interessi passivi; se sei un’azienda pubblica, puoi dedurre tutto. Una bella differenza in termini di onere fiscale, una palese discriminazione a sfavore delle imprese private, che falsa il gioco della concorrenza ed erige ingiustificate barriere all’ingresso di nuovi soggetti in ambiti – quali quello di acqua, energia, teleriscaldamento, smaltimento e depurazione – dove il ricorso alla leva del debito è pressoché obbligato e dove appare necessario l’afflusso di nuovi investimenti. Non è quest’ultima una delle motivazioni alla base del processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali che il Parlamento ha recentemente avviato? In prospettiva, la discriminazione tra proprietà privata o pubblica rischia di ostacolare l’ingresso di nuovi operatori e di nuove risorse.

Un ordine del giorno collegato alla Finanziaria (per i non addetti ai lavori, trattasi di una sorta di atto d’indirizzo che uno o più parlamentari sottopongono al Governo), sottoscritto da Federico Testa del Pd e da Benedetto Della Vedova del Pdl, chiede all’esecutivo di eliminare questa palese discriminazione, attraverso l’estensione del loophole ai soggetti privati. Nel gioco istituzionale italiano, l’ordine del giorno vale come il due di coppe quando la briscola è denari: nulla. Ma l’iniziativa bipartisan dei due parlamentari apre la questione. Vedremo.

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