Servizi di pubblica utilità
Stefano Quintarelli liveblogga la Relazione annuale del presidente dell’Agcom al Parlamento.
Stefano Quintarelli liveblogga la Relazione annuale del presidente dell’Agcom al Parlamento.
Alfonso Fuggetta s’interroga sulla killer application per le NGN, quell’applicazione che - come l’SMS ha fatto per la telefonia mobile - dovrebbe determinarne il successo (da leggere anche i commenti).
In diversi hanno sollevato il tema della killer application per le reti di nuova generazione. [...] Sono anni che cerchiamo killer application e sono anni che tutte quelle che vengono proposte più o meno falliscono. O meglio, il mio punto è che su Internet ci sono tantissime applicazioni e ciascuno si noi si crea il suo basket di applicazioni e servizi. [...] Alla fine la vera killer application è l’accesso in quanto tale, la possibilità che ha l’utente di poter accedere ad un insieme vastissimo di servizi che ciascuno seleziona e sceglie in base ai propri gusti. [...] E questo secondo me dice che gli utenti pagheranno per l’accesso. Nessuno pagherà un abbonamento a Internet in quanto e perché viene offerto nel pacchetto uno specifico servizio. O per lo meno, nessuno di questi servizi sarà il main driver che guiderà la crescita degli abbonati/fatturati dei telco operator. Ed è per questo che gli operatori devono ripensare i propri modelli di business: continuare a pensare che conquisteranno e manterranno clienti per qualche specifico servizio non li porta da nessuna parte. Il loro business sarà vendere accesso. E soprattutto, proprio perché gli utenti vorranno decidere da soli che “fare” una volta che “sono su Internet”, l’accesso dovrà essere neutrale e non condizionato dall’operatore.
Mi sembra un punto di vista estremamente persuasivo, ed anch’io ho la sensazione che il mercato - o almeno una larga fetta di esso - non sia disposto a rinunciare ad un accesso neutrale. Questo mi pare, però, un argomento formidabile contro la regolamentazione della net neutrality.
Ho assistito oggi al ricco evento con cui Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici ed Economia Reale hanno presentato il Primo rapporto sul sistema della fiscalità del settore servizi innovativi e tecnologici. Il rapporto è il frutto di un lavoro meritorio, che punta certamente a rappresentare le esigenze di un settore significativo della nostra economia, ma suggerisce allo stesso tempo dei ragionamenti di più largo respiro sul rapporto tra prelievo tributario, da un lato, ed innovazione e crescita economica, dall’altro.
A questo proposito, mi piace appuntare per i lettori di Chicago Blog la riflessione introduttiva di Pietro Guindani - supervisore del rapporto -, dedicata agli «otto principi del fisco che vorremmo»:
- il fisco non può essere socio di maggioranza;
- il fisco non può penalizzare l’innovazione;
- il fisco deve incoraggiare l’accumulazione di capitale, a cominciare da quello immateriale;
- il fisco deve sostenere il superamento della crisi economica;
- il fisco non deve distorcere la concorrenza;
- il fisco deve incentivare la digitalizzazione;
- il fisco dev’essere semplice ed equo;
- il fisco dev’essere prevedibile.
Mi pare si possa convenire sul fatto che l’accoglimento di tali prescrizioni - peraltro felicemente assonanti con gli otto principi della moralità interna del diritto di Lon Fuller - rappresenterebbe una felice opzione di civiltà tributaria e, di per sé, un’innovazione considerevole.
Mentre in Italia il viceministro Romani, in occasione della presentazione postuma del rapporto Caio, delineava gli orientamenti del governo sullo sviluppo della banda larga - mi riprometto di tornarci in un prossimo post -, negli Stati Uniti si chiudeva la consultazione pubblica lanciata dalla FCC, a cui il Recovery Act delega la predisposizione di un piano nazionale per il broadband. Hanno fornito i propri contributi sul tema - tra gli altri - il Phoenix Center, il Mercatus Center, l’Institute for Policy Innovation, il Competitive Enterprise Institute e FreedomWorks. Le parole d’ordine sono quelle che conosciamo: regolamentazione leggera, diritti di proprietà, concorrenza - in primo luogo sulle infrastrutture. Parole d’ordine che ameremmo sentir pronunciare nel dibattito italiano, ma che - invero - sembrano avere scarso appeal anche in quello d’oltreoceano.
Cosa succede quando il problema non è più la neutralità della rete, ma l’accessibilità dei contenuti?
The American Cable Association has asked the Federal Communications Commission to stop Internet video content providers from charging ISPs wholesale access fees to their sites “at discriminatory rates, terms and conditions.” The ACA filed their request as feedback in the agency’s proceeding on its National Broadband Plan. The trade group represents about 900 small and medium sized cable/ISP operators, many serving rural areas.
“Media giants are in the early stages of becoming Internet gatekeepers by requiring broadband providers to pay for their Web-based content and services and include them as part of basic Internet access for all subscribers,” an ACA press release on the issue warns.
via Cable group turns net neutrality around over ISP access fees - Ars Technica [HT: Alfonso Fuggetta]
Qualche settimana fa ho avuto il piacere di partecipare ad un bel workshop organizzato dalla Fondazione Ugo Bordoni in collaborazione con NNSquad Italia sul tema della net neutrality (qui tutti gli interventi; qui un resoconto dell’evento). Piatto forte della giornata, il keynote di Kenneth Carter, ricercatore di WIK Consult. Si è trattato di un’occasione preziosa per aprire alla discussione un elemento, quello della neutralità della rete, finora sottovalutato, eppure destinato a giocare un ruolo primario nello sviluppo dell’infrastruttura di internet. Che al momento sia impossibile per gli ISP internalizzare l’intero frutto dei propri investimenti, è pacifico. Come reperire, dunque, le risorse per gli investimenti, se non attraverso una più equa ripartizione dei ricavi? Il conflitto tra operatori e produttori di contenuti sembra sul punto di scoppiare, ed il rischio è che la partita si giochi a palazzo piuttosto che sul mercato. Tra le molte osservazioni ragionevoli di Carter, voglio - senza, credo, forzare il suo punto di vista - citarne una: per un bilanciamento degli interessi in gioco, è essenziale che il mercato sottostante si mantenga concorrenziale. Solo così possiamo garantire che la libertà della rete non venga sacrificata sull’altare della sua neutralità.
Mi piace segnalare (con alcuni giorni di ritardo) questa presa di posizione di Assoprovider, che offre un punto di vista ragionevole e non convenzionale sugli investimenti per le reti di nuova generazione.
Ora che del rapporto Caio sappiamo tutto, sebbene continui a sfuggirci il motivo di tanta segretezza, è il momento dell’analisi. La mia impressione è che il rapporto sia una buona risposta a domande cattive: proviamo, dunque, a porre le domande giuste.
1) Siamo convinti che spetti al governo il compito di determinare l’ammontare di connettività desiderabile nel nostro paese?
La risposta è un chiaro no. Vi sono certamente delle azioni che i pubblici poteri possono intraprendere per agevolare (rectius: non ostacolare) il raggiungimento del livello ottimale: rientrano in questa categoria la predisposizione di un quadro regolamentare certo ed equo e la digitalizzazione della pubblica amministrazione. Ma - come per ogni altro bene - sono la domanda e l’offerta a dover determinare la quantità. La banda larga non sfugge alle leggi dell’economia.
2) Questo vale anche per il digital divide?
Sì. Le zone di digital divide sono banalmente le aree in cui è (ancora) anti-economico portare l’accesso in banda larga. Non si tratta, come molti sembrano pensare, di una market failure ma piuttosto di una market feature: quando il gioco non vale la candela, si passa la mano. Ora, è legittimo sostenere che il digital divide vada combattuto, ma l’argomento va posto per quello che è: una richiesta di redistribuzione a beneficio di individui ai quali - brutalmente - non ha ordinato il dottore di vivere in aree digitaldivise.
3) Come la mettiamo con le reti di nuova generazione?
La risposta è giocoforza la medesima. L’ottimo Stefano Quintarelli rilancia oggi uno studio del regolatore spagnolo che dimostrerebbe l’impossibilità per il mercato di portare le NGN ad oltre metà dei sudditi di Juan Carlos: da ciò consguirebbe la necessità dell’intervento pubblico. Si tratta però di un non sequitur: ad esempio, il mercato non ha ancora trovato il modo per fornire a ciascun maschio maggiorenne un jet privato, e nessuno si sogna di richiedere l’intervento del governo a correzione di tale stortura. Se le stime della CMT fossero corrette ne seguirebbe unicamente che quello della rete di nuova generazione è un progetto prematuro ed, allo stato attuale delle tecnologie e dei processi, insostenibile. Va appena ricordato che non sono le stime a fare la storia dell’economia, ma le concrete operazioni degli agenti economici.
4) Posto che la politica ha deciso di piantare (almeno) una bandierina su internet, si possono individuare strategie d’intervento più o meno dannose?
Mi pare che non si tratti di una questione di poco conto. Se un esborso pubblico dev’esserci, è necessario che esso sia il meno distorsivo possibile. Un finanziamento diretto agli operatori violerebbe questa condizione, attribuendo allo stato un ruolo imprenditoriale che - storicamente - esso ha dimostrato di saper interpretare con esiti tragici. Inoltre, si imporrebbe un notevole sforzo di vigilanza successiva. Perché, allora, non riflettere sulla possibilità di un broadband voucher assegnato direttamente ai cittadini e spendibile presso qualsiasi operatore e senza distinzioni di tecnologia? Si tratterebbe d’un’opzione assai più efficace e rispettosa dei principi di un mercato che la bramosia della classe politica potrebbe seriamente compromettere.
Lo trovate qui. L’analogo rapporto inglese era stato pubblicato dopo pochi giorni: da noi ci è voluto un generoso emulo di Arsenio Lupin. Strano paese, l’Italia.
Sono giorni d’attività frenetica, per le istituzioni europee, sul fronte tlc. Con risultati agrodolci. La buona notizia è il voto della commissione ITRE che scongiura (definitivamente?) l’accoglimento nel pacchetto Telecom della cosiddetta “dottrina Sarkozy”. Gli europarlamentari hanno, dunque, escluso l’obbligo - a carico dei provider - di disconnettere gli utenti che per tre volte si rendano protagonisti di violazione del diritto d’autore on line.
Desta, viceversa, grave preoccupazione l’approvazione - a maggioranza schiacciante - del regolamento sul roaming, che pone un tetto alle tariffe degli sms e del traffico dati e sforbicia i limiti già esistenti per il traffico voce. Si tratta di una decisione miope, che costituisce una minaccia per lo sviluppo della telefonia mobile nel medio periodo ed avrà - nel breve - l’effetto di redistribuire ricchezza dai clienti più statici (la grande maggioranza) a quelli più nomadi: per dire, gli europarlamentari…
Nelle stesse ore, anche l’avvocato generale della Corte di Giustizia europea, Poiares Maduro, ha fatto sentire la sua voce, sostenendo l’illegittimità della vacanza regolatoria promossa dal governo tedesco in tema di fibra ottica, in quanto non preceduta dalla necessaria analisi del mercato. Tale pronunciamento è a tutti gli effetti necessitato alla luce del framework comunitario, e non può stupire. D’altro canto, esso riafferma quanto la strada verso un mercato libero delle telecomunicazioni in Europa sia ancora lunga.