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Posts Tagged ‘Stati Uniti’

Abbandonate ogni speranza, o voi che andate (a Copenhagen)

15 luglio 2009

Passato il G8 e scemata l’attenzione pubblica, iniziano i distinguo. Il presidente Usa, Barack Obama, sta spendendo tutto il suo capitale politico sulle misure domestiche per il contenimento delle emissioni (e anche lì la cosa gli è mezza scappata di mano, come nel caso dei dazi anti-cinesi infilati tra le pieghe del Waxman-Markey Bill). E’ poco plausibile che possa arrivare a Copenhagen offrendo più di quel che è già dato, perché qualunque obiettivo raggiunga a Washington (tanto o poco che sia) sarà il massimo compromesso che è possibile raggiungere. Sono curioso di vedere in che modo la verginità del presidente verrà conservata, nei resoconti compiacenti dei media.

Carlo Stagnaro energia, liberismo , ,

Cina e commercio, Obama come Tremonti

23 giugno 2009

Oggi l’Amministrazione americana ha presentato una argomentata protesta ufficiale contro la Cina in sede Wto, scavalcando in durezza l’Unione europea che sulla stessa materia aveva sinora tenuto un profilo formalmente più basso. Qui la nota ufficiale del governo Usa, e l’elenco delle restrizioni in termini di quote all’import export dichiarate dal governo cinese, in spregio al Trattato e agli impegni espliciti assunti nel firmarlo. Si tratta, dome vedrete, soprattutto di minerali essenziali nel settore metallurgico, macchinari e costruzioni, la base del rapido ed energico shift dall’export alla domanda interna deliberato dal governo cinese tre mesi fa, per impedire che il calo vorticoso dell’export cinese abbassasse oltremodo la crescita del Pil. La guerra per disancorare il peg tra dollaro e reminmbi si fa dura, al di là del merito del commercio unfair sul quale un anno fa Tremonti teneva lezione, sbertucciato allora dai più… Il problema è che, rispetto ad allora, la gara protezionista ha fatto proseliti a decine. In Italia, però, i politici non se ne occupano più. È rimasta solo Confindustria, a levare la voce quasi ogni giorno sul tema.

Oscar Giannino liberismo , , ,

Nostalgia canaglia

30 maggio 2009

Ottimo pezzo di Stephen Moore sul WSJ a proposito di quanto ci manca Milton Friedman in queste settimane.

With each passing week that the assault against global capitalism
continues in Washington, I become more nostalgic for one missing voice:
Milton Friedman’s. No one could slice and dice the sophistry of
government market interventions better than Milton, who died at the age
of 94 in 2006. Imagine what the great economist would have to say about
the U.S. Treasury owning and operating several car brands or managing
the health-care industry. “Why not?” I can almost hear him ask
cheerfully. “After all, they’ve done such a wonderful job delivering
the mail.”

I recently phoned Rose Friedman and asked her what she thought about
the attacks on her husband. She was mostly dismayed at how far
off-course our country has veered under President Obama. “Is this the
death of Milton’s ideas?” I hesitantly asked. “Oh no,” she replied,
“But it is the death of common sense.”

[via Missing Milton: Who Will Speak For Free Markets? - WSJ.com]

Massimiliano Trovato liberismo , , , ,

Mr Obaaaaama…!

22 maggio 2009

Le aspettative per un esito “positivo” del vertice di Copenhagen (di cui da un po’ si parla in toni meno entusiastici) oggi hanno ricevuto una bella gelata. La Cina ha affidato a un documento della Commissione per lo sviluppo e le riforme la sua posizione sulle negoziazioni. Come era lecito attendersi, si tratta di un’elegante manovra di smarcamento: i cinesi chiedono che il mondo sviluppato riduca le sue emissioni di almeno il 40 per cento (un obiettivo del tutto, e volutamente, irrealistico) e contestualmente si dicono disponibili a contribuire solo se, in qualche modo, saranno risarciti dello sforzo economico necessario. Tradotto: Pechino se ne lava le mani e non ha intenzione alcuna di sacrificare la sua crescita economica alla presunta salvezza del clima. Poche settimane fa era stata l’India a esprimere un punto di vista analogo. E Barack Obama, l’indiscusso protagonista del vertice di dicembre, al momento ha generato una quantità di fumo decisamente non proporzionale all’arrosto (in pratica, un po’ di crediti fiscali che possono servire a far crescere gli investimenti nelle rinnovabili e dintorni, ma certo non a centrare alcun obiettivo ce sia definibile come ambizioso). Gli europei da un po’ si stanno sbracciando per chiedere a Washington di fare la sua parte (la parola d’ordine è co-leadership) ma, apparentemente, senza grande successo. La vernice verde si sta già squagliando?

Carlo Stagnaro energia , , , , ,

Il meraviglioso mondo dell’Antitrust

20 maggio 2009

Sul Wall Street Journal di oggi, Alberto Mingardi spiega perché da contribuenti pagheremo le imprese troppo grandi per fallire, mentre da consumatori quelle troppo piccole per competere.

Carlo Stagnaro liberismo, mercato , , , , ,

Poche banche sono meglio di molte?

16 maggio 2009

Chi scrive fa parte del non ristretto club che pensa che, alla fin della fiera, l’Economist sia l’unico giornale al mondo che vale veramente la pena di leggere. La qualità del settimanale britannico è impressionante - sempre costante nel tempo, così come pure il “marchio di fabbrica” è inevitabilmente impresso negli articoli i più diversi. Lettura domenicale dell’uomo d’affari, l’Economist non delude mai. Neppure questa settimana: vi si trovano, fra le altre cose, una lettura del viaggio del Papa in Israele un po’ eccentrica rispetto al quadro fattone dai giornali italiani; un pezzo molto intelligente (sia pure non del tutto condivisibile) sul futuro del partito repubblicano e la sua scarsa capacità di fare autocritica; un pezzo su Intel molto bilanciato; un articolo veramente interessante, su come la corporate social responsibility stia “sopravvivendo” alla crisi. Un palinsesto di tutto rispetto, visto quello che va in onda, tutti gli altri giorni della settimana.

Il cuore del giornale è però l’inserto sul futuro del settore bancario. Ricco, interessantissimo. Ma nel quale stupisce un articolo sul Canada, Paese che è rimasto immune al contagio della crisi finanziaria americana. Stupisce perché la tesi è del tipo che non dispiacerebbe ai nostri banchieri (come ricordava Oscar Giannino scrivendo di alcune recenti “riflessioni” sulla crisi), e che sarebbe piaciuta, tantissimo, all’ex sommo sacerdote governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Cito:

Having a few banks that are clearly too big to fail has led to more stringent supervision, including imposing a maximum leverage ratio and a single regulatory regime for commercial and investment bankers. Laxer and more fragmented capital regimes allowed the balance-sheets of banks elsewhere to balloon

La questione del relativo successo del Canada vs gli Stati Uniti è più complessa, come lo stesso Economist riconosce (esaminando ad esempio il diverso trattamento fiscale dei mutui). Tuttavia, quella per cui un settore bancario “ingessato”, con poche banche “too big to fail” dichiaratamente tali, funzionerebbe meglio perché esse “chiamano” evidentemente vigilanza e regolazione, è una tesi molto forte. Mi sembra non sbagliata l’osservazione di Sceptik, nei commenti all’articolo sul blog del giornale:

Has anyone considered that an oligopoly concentrates more risk? Assuming they have an equal share of the loan market, a failure of one of them knocks out 20% of the home loan market.

Alberto Mingardi mercato , , , , ,

Sarko l’Americain e Obama le Français?

22 aprile 2009

Le due sponde dell’Atlantico si stanno avvicinando sempre di più in campo economico; al vertice Nato tenutosi all’inizio di Aprile a Strasburgo, il presidente americano Barack Obama ha elogiato pubblicamente il servizio ferroviario ad alta velocità francese affermando che gli Stati Uniti hanno un notevole ritardo in questo settore.
Presto fatto, pochi giorni dopo, ha annunciato un finanziamento pubblico di 12 miliardi di dollari, per costruire 10 corridoi ad alta velocità tra alcune delle principali città americane; sette miliardi sarebbero assicurati dal Governo Federale, mentre altri 5 miliardi verrebbero dagli Stati interessati ad essere coinvolti in questo programma.
In California, da diversi anni, si sta discutendo del progetto di collegare con il treno ad alta velocità Los Angeles e San Francisco, con un notevole sovvenzionamento di risorse pubbliche, ma ancora tutto è fermo.
Le ferrovie sono state nell’800 un notevole volano dell’economia statunitense; c’è da chiedersi tuttavia se attualmente sono competitive nel trasporto passeggeri ad alta velocità dopo che nel ‘900 sono stati inventati nuovi mezzi di trasporto.
La domanda non è di poco conto, se la stessa Direzione Generale dei Trasporti e dell’Energia della Commissione Europea ha sentenziato in un proprio studio che il mezzo ferroviario ad alta velocità non è competitivo nei costi rispetto al trasporto aereo per tratte superiori a 300 chilometri.
Gli Stati Uniti sono stati un esempio proprio nel settore aereo, essendo stato il primo paese ad avere deregolamentato sotto l’amministrazione democratica il settore, con indubbi vantaggi per il consumatore. L’Unione Europea visto il successo americano con un ritardo di 10 anni ha liberalizzato anch’essa il trasporto aereo.
Il paese leader in termini di chilometri di binari nel trasporto ferroviario ad alta velocità è la Francia, ma c’è da chiedersi quale sia il costo di tale infrastruttura.
Il paese transalpino ogni anno finanzia con 11 miliardi di euro il proprio trasporto ferroviario con un enorme spreco di risorse pubbliche. La SNCF, l’impresa di Stato di trasporto ferroviario, è vista sempre più come un carrozzone pubblico con quasi 200 mila dipendenti iper-sindacalizzati. Spesso sono effettuati scioperi selvaggi e i dipendenti godono di vantaggi enormi nel campo previdenziale, potendo andare in pensione diversi anni prima rispetto ai dipendenti privati.
La situazione del trasporto ferroviario francese non è cosi rosea come viene descritta e soprattutto i commentatori difficilmente hanno analizzato il costo di tale servizio che viene sovvenzionato con una elevata tassazione generale.
La domanda da porsi è se Obama, nel momento in cui ha affermato di volere sostanzialmente copiare il trasporto ferroviario francese, abbia realmente analizzato i costi ingenti di tale servizio per le finanze pubbliche.
Molto probabilmente no, ma le Ferrovie hanno un certo appeal a livello di consenso pubblico perché ricordano l’era in cui gli Stati Uniti si stavano creando. Nel corso dell’800 il treno ha infatti unito l’America e il mito delle ferrovie americane non è del tutto scomparso. Tuttavia nel corso del ‘900 sono stati inventati mezzi più efficienti ed economici, quali l’aereo. E grazie all’aereo è oggi possibile per un cittadino americano andare velocemente da una città ad un’altra ad un prezzo molto contenuto.
In Francia, l’esistenza del campione nazionale del trasporto aereo Air France e la concorrenza con soldi pubblici del treno, ha fatto si che il trasporto aereo nazionale sia poco sviluppato, ma soprattutto che le possibilità di scelta per il consumatore siano limitate.
Obama vuole seguire l’esempio francese?
Il presidente francese Sarkozy è stato soprannominato “l’americain” a causa della sua visione differente rispetto ai presidenti francesi precedenti nei confronti degli Stati Uniti d’America. In campo militare questo è certamente vero e il vertice di Strasburgo, con il riavvicinamento tra la NATO e la Repubblica Francese, dopo lo strappo di De Gaulle di molti anni fa, ne è la riprova.
Obama vuole diventare il primo presidente soprannominato “le français”?
Il caso del treno purtroppo non è isolato, perché in realtà Sarkozy ed Obama hanno molti punti in comune in campo economico.
Il settore auto è forse quello che più avvicinano i due presidenti. La misura di supporto alle aziende produttrici di veicoli americane in crisi con decine di miliardi di dollari ha di fatto sfavorito i produttori esteri che producono negli Stati del Sud degli USA e di fatto si rivela come una misura protezionistica nel settore auto. Il presidente francese non è stato da meno, avendo subordinato, a parole, gli aiuti ai produttori francesi di automobili alla non delocalizzazione degli impianti.
Sarkozy è convinto forse che la delocalizzazione di un impianto a medio termine sia dovuto alla crisi; ma non è cosi, perché le aziende producono laddove c’è mercato e laddove le condizioni produttive sono le migliori. È necessario dunque favorire la creazione di imprese con una legislazione più snella, con tasse meno elevate e non con singoli sussidi a breve termine per le imprese locali.
Le politiche protezioniste francesi hanno esacerbato gli animi dei lavoratori preoccupati dalla perdita del posto del lavoro e i “rapimenti” dei manager sono stati forse l’esito naturale a questa esasperazione.
Barack Obama vuole davvero diventare le français?

Andrea Giuricin liberismo , , , , ,

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