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Posts Tagged ‘Scaroni’

Petrolio indietro tutta. Si torna ai posted price?

26 maggio 2009

Dopo Paolo Scaroni, anche Nicolas Sarkozy chiede un intervento globale per stabilizzare i prezzi petroliferi. Intervenendo lunedì al G8 Energia, il capo dell’Eni aveva sottolineato come l’instabilità delle quotazioni del greggio fosse un elemento di forte preoccupazione, in quanto rende più incerti gli investimenti sia in ricerca e sviluppo di giacimenti di oro nero, sia in tutte le fonti a esso più o meno legate (dal carbone alle rinnovabili fino al nucleare). In uno scenario di alti prezzi, le imprese investono; in uno scenario in cui, invece, si teme che i prezzi possano crollare dall’oggi al domani l’atteggiamento tende a essere più cauto. Per esempio, una cosa che tutti sanno e pochi dicono è che, in genere, in questi anni (a dispetto delle dichiarazioni pubbliche) le principali major hanno valutato la bontà dei loro investimenti prevedendo uno scenario di prezzo tra i 30 e i 50 dollari al barile, in modo da minimizzare gli effetti della “sberla” che avrebbero preso nel caso di una contrazione del valore (come in effetti è puntualmente accaduto). Per questo, Scaroni ha suggerito la creazione di una sorta di “Agenzia mondiale del petrolio” che avesse lo scopo non lo di rendere più trasparenti le transazioni, in modo da discernere meglio il sovrapporsi di una componente speculativa ai fondamentali, ma anche di limitare le fluttuazioni. In particolare, l’amministratore delegato dell’azienda di San Donato ha parlato di un “global stabilization fund”, pronto a intervenire quando il prezzo scende “troppo” (comunque si voglia definire il troppo).

Sul tema torna oggi il presidente francese, che ha promesso (o minacciato?) di portare al G8 dell’Aquila un progetto di accordo

tra paesi produttori e consumatori su un orientamento generale di prezzo da dare al mercato, anche su una forchetta di prezzo che garantirebbe la continuità degli investimenti senza penalizzare le economie consumatrici.

L’idea di Scaroni fa leva su un meccanismo a suo modo di mercato (l’ingresso di un attore in grado di acquistare o rilaciare grandi quantità di greggio, così da influenzare il mercato rallentando le dinamiche “naturali”). E’ ovvio che si tratterebbe di un soggetto pesantemente invadente, ma tutto sommato esso agirebbe secondo logiche trasparentemente speculative (comprare a poco e vendere a tanto). In un certo senso, dunque, Scaroni propone di far emergere un attore speculativo talmente forte da trainare il mercato nel senso ritenuto desiderabile (da chi?). Non è un sistema entusiasmante, ma almeno ne sono chiare logica, funzionamento e scopi, se non altro in termini del tutto generali.

Al contrario, l’idea di Sarkozy è molto più radicale e distorsiva, e potrebbe avere un effetto devastante. Di fatto, il presidente francese propone di costruire una sorta di Opec globale, che includa tutti i maggiori soggetti (paesi produttori e consumatori e aziende) in una sorta di mostro che riassuma in sé tutte le fattispecie anticoncorrenziali note in letteratura. Per di più, non è per nulla chiaro il modo in cui tale mostro dovrebbe muoversi. Qualunque cosa abbia in mente Sarkozy, ricorda da vicino il metodo dei “posted price”, che ha retto i mercati petroliferi dall’inizio degli anni ‘50 fino all’epoca degli shock petroliferi. Come spiega Leonardo Maugeri nel suo The Age of Oil (p.58 dell’edizione americana),

Prendendo spunto dell’abitudine delle compagnie petrolifere di pubblicare i prezzi del loro greggio, i paesi produttori chiesero e ottennero un “posted price” stabile come punto di riferimento per il “profit sharing”. Quei prezzi divennero uno strumento artificiale per cementare gli interessi delle compagnie e dei paesi, una sorta di patto che prescindeva dalle reali condizioni del mercato. In verità, per diversi anni le compagnie preferirono ingoiare le perdite quando i prezzi reali scendevano, piuttosto che mettere in discussione i “posted price” su cui si erano accordate coi paesi produttori, allo scopo di non destabilizzare le relazioni reciproche.

Come si vede, i “posted price” furono uno strumento (efficace) di stabilizzazione del mercato in un preciso contesto storico, politico ed economico, che era totalmente diverso da quello attuale. Al di là di altre, pur importanti, differenze, era radicalmente diversa tanto la natura dei soggetti coinvolti quanto la loro forza relativa: le compagnie erano l’intermediario tra i paesi produttori e quelli consumatori, e dunque si trovavano necessariamente nella condizione di trovare un punto di mediazione ragionevole per entrambe le parti. Nel disegno di Sarkozy, invece, le compagnie (tra l’altro oggi più pubbliche che private) di fatto sarebbero destinate a diventare le reggicoda di un gioco tutto politico, fatto di proclami e dettato dalle scadenze elettorali dei leader interessati e dai rispettivi populismi.

Il meccanismo dei “posted price” ha, durante una precisa fase storica, funzionato egregiamente e garantito stabilità (petrolifera) e crescita (economica). Oggi quell’epoca è conclusa, e mutuarne gli strumenti sarebbe come voler risolvere i nostri problemi sanitari tornando alle tecnologie di mezzo secolo fa.

Carlo Stagnaro energia, mercato , , , , ,

Le auto americane e il clima europeo

2 maggio 2009

Questa volta l’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, ha fatto bingo. Prima di parlare di rinnovabili, ha detto, meglio concentrarsi sulle cose serie. La questione è semplice:

I prezzi della benzina sono crollati, rispetto a un anno fa, l’imposizione fiscale [negli Usa] è molto bassa e gli americani sono contenti. Vorrà il signor Obama mettere un’imposizione fiscale sulla benzina simile a quella che conosciamo noi europei da decenni? Non lo so. Ma è un tema abbastanza discriminante sull’ambientalismo.

Lungi da me invocare un aumento delle imposte americane sui carburanti per autotrazione. Però Scaroni ha perfettamente ragione nell’osservare che una delle principali cause della differenza nell’efficienza del parco veicoli americano rispetto a quello europeo sta proprio nel carico tributario, che determina una differenza di ordini di grandezza tra il costo degli spostamenti in Europa e negli Stati Uniti. L’alto prezzo del “pieno” ha spinto gli europei a progettare, e acquistare, veicoli più leggeri e meno voraci. Negli Usa, invece, si è optato per un intervento regolatorio sulle imprese automobilistiche, con pochi risultati di politica ambientale, e risultati orrendi sul fronte dei processi produttivi. I cosiddetti “CAFE standard” impongono il valore medio di consumo per la flotta prodotta da ciascuna impresa. Poiché gli americani, per il loro stile di vita e il basso costo dei carburanti, tendono a volere auto molto potenti, le industrie sono costrette a introdurre sul mercato veicoli che nessuno vuole, ma che rappresentano un costo industriale molto importante e che è, a sua volta, tra i fattori scatenanti della perenne crisi di Detroit. Dal punto di vista dell’inquinamento, come spiegano Jerry Taylor e Peter Van Doren, i CAFE

regolano le emissioni per miglio di strada, non per gallone di carburante consumato. I miglioramenti nell’efficienza dei motori riducono il costo della guida e quindi fanno crescere le miglia percorse. In più, le industrie automobilistiche hanno un incentivo a bilanciare i costi associati coi miglioramenti nell’efficienza dei motori spendendo meno sul fronte delle altre forme di inquinament0, poiché attualmente hanno performance superiori a quelle imposte dalla legge.

Insomma, i CAFE sono una forma di regolamentazione sbagliata e controproducente quasi da ogni punto di vista. La questione non è solo una faccenda interna agli Stati Uniti, perché il tema teorico sottostante è quello che riguarda tutte le politiche ambientali, comprese quelle che puntano alla riduzione delle emissioni di gas serra in Europa. Sebbene dal punto di vista teorico possano esserci poche differenze sostanziali tra le varie soluzioni di policy - siano esse l’imposizione fiscale sulle esternalità, l’introduzione di schemi di cap & trade, o la definizione di standard tecnologici o di performance - nel mondo reale le differenze ci sono, eccome. L’esperienza mostra che la leva fiscale, per quanto possa risultare odiosa a noi mercatisti, è quella più efficace e, probabilmente, meno distorsivi, perché la sua applicazione tende a essere più semplice e trasparente e meno distorsiva.

Precipitando questo tema nell’attualità europea, come abbiamo fatto qualche giorno a Bruxelles durante un seminario organizzato dall’IBL, una possibile conclusione è che, se proprio dobbiamo fare qualcosa per ridurre le emissioni, l’introduzione di una carbon tax è il male minore. Due sono i temi fondamentali. Il primo riguarda le modalità di fissazione del livello del prelievo: mi pare che l’idea più geniale e corretta sia quella di Ross McKitrick, che ha suggerito una formula che ancora il livello della tassa alle temperature effettivamente misurate. In fondo, se lo scopo di tutto questo è prevenire un aumento delle temperature oltre una soglia che qualcuno giudica insostenibile, tanto vale assumere proprio quella come benchmark. Il secondo tema è invece relativo a come strutturare le politiche ambientali senza fare troppo male alle prospettive di crescita economica, fermo restando che qualunque politica climatica un po’ di male lo farà. In questo senso, c’è una certa convergenza sull’idea di introdurre una carbon tax che sia revenue-neutral, cioè progettata in modo tale che l’intero gettito sia destinato alla riduzione di altre, e più distorsive, imposte, come quella sul reddito personale.

E’ vero che una proposta del genere cammina sulle uova, perché in qualunque momento il governo potrebbe decidere di aumentare l’imposta o di destinarne il gettito ad alimentare spese che nulla hanno a che vedere col clima. Ma se non vi fidate delle promesse fiscali del governo, come potete fidarvi del governo a tal punto da affidargli la salvezza del pianeta?

Carlo Stagnaro energia, liberismo , , , , ,

Gas Release: risposta azzardata a problema concreto

23 aprile 2009

Il presidente dell’Autorità per l’energia, Alessandro Ortis, ha chiesto di obbligare l’Eni a vendere una importante tranche del gas che importa in Italia, a condizioni regolate, in modo da aumentare la concorrenza sul mercato all’ingrosso e trasferire i benefici della riduzione dei prezzi sui consumatori. L’amministratore delegato dell’Eni, Paolo Scaroni, ha replicato che prezzi e domanda sono hanno subito un calo senza precedenti, e dunque non c’è alcun bisogno di una nuova “gas release”.

Entrambi hanno le loro ragioni. Ortis vede un mercato che, a sei anni dalla completa apertura (avvenuta nel 2003, in anticipo di quattro anni sul termine ultimo fissato dalla Commissione europea) resta ingessato e scarsamente competitivo, e del quale l’operatore dominante controlla una quota largamente maggioritaria. Quindi, nell’impossibilità di indurre una competizione “naturale”, vorrebbe produrla artificialmente attraverso un intervento oggettivamente invasivo. Scaroni, d’altra parte, rileva correttamente che, oggi, l’Italia ha più problemi col gas invenduto, che coi consumatori insoddisfatti, a causa del crollo della produzione industriale. Una gas release, dunque, potrebbe essere uno strumento accettabile in condizioni di mercato tirato, come è accaduto nel passato, mentre oggi appare meno urgente. Va però riconosciuta, al capo dell’Authority, la coerenza con cui si impegna per risolvere le criticità del nostro mercato, e lo fa coi mezzi a sua disposizione, anche se non sempre dosandone nel modo più appropriato l’utilizzo (ma questa è una questione di merito che, nello specifico, è difficile valutare, perché la domanda rilevante, rispetto alle cessioni obbligatorie di metano, non è solo “se” ma anche “come”).

Il problema vero, che è anche la fonte di frustrazione di Ortis e dell’Autorità, sta nel fatto che la liberalizzazione italiana, come mostra anche il nostro Indice delle liberalizzazioni (PDF), è incompiuta. Il tema di fondo, insomma, è la separazione proprietaria delle infrastrutture di rete dall’incumbent, che può utilizzare le informazioni in suo possesso e pianificare gli investimenti in modo tale da, di fatto, erodere gli spazi di competizione possibile, e questo a prescindere dal controllo dei gasdotti internazionali (che era e in parte è un ostacolo alla concorrenza, ma lo sarà sempre meno man mano che nuovi terminali di rigassificazione e nuove pipeline in mano ad altri soggetti entreranno in funzione).

Purtroppo, la politica sembra sorda a questo fatto – anche perché, tramite i lauti dividendi e le donazioni più o meno spontanee, il Tesoro è di fatto compartecipe e corresponsabile di questa rendita. Forse la gas release non è lo strumento migliore e questo non è il momento più adatto, ma i grandi nodi restano irrisolti.

Carlo Stagnaro energia, mercato , , , , , ,