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Gas, la Caporetto delle liberalizzazioni è la distribuzione?

11 maggio 2009

Intervistato dalla Stampa di oggi, Massimo Orlandi, ad di Sorgenia, dice che

la difficoltà è legata a quello che potremmo chiamare, facendo un paragone con la telefonia, l’ultimo miglio del gas. Ovvero un operatore privato come Sorgenia non riesce ad attraversare l’ultimo metro di tubo che dà l’accesso al gas. Il mercato è in mano ai distributori del gas che in Italia sono oltre 400… Soprattutto le utility più piccole fanno ostruzionismo: non fornendo in tempo le misure sui consumi del gas o fornendole sbagliate.

Qui è disponibile una sintesi dell’intervista. Sebbene la distribuzione non sia l’unico ostacolo alla piena concorrenza, non c’è dubbio che, all’atto pratico, essa sia quello maggiore e più subdolo. Le reti di distribuzione locale del gas sono, infatti, frammentate (la maggior parte sono di piccole e piccolissime dimensioni, cosa che - da un punto di vista strettamente economico - non ha senso, perché questo è un business fortemente sensibile alle economie di scala e soprattutto di densità). Inoltre, nella maggior parte dei casi sono verticalmente integrati nelle utilities locali, perlopiù a controllo comunale e spesso beneficiarie di affidamenti diretti, che hanno ogni incentivo a mantenere l’opacità e non investire nello sviluppo delle reti, allo scopo di trattenere il maggior numero di clienti nel mercato vincolato. Tant’è che, come ricorda lo stesso Orlandi, a sei anni dalla completa apertura del mercato del gas (1 gennaio 2003) solo il 3 per cento delle famiglie e piccole imprese è passato al mercato libero, contro il 4,7 per cento delle famiglie che hanno “switchato” nel mercato elettrico, di più recente apertura (1 luglio 2007) (a me risultano dati ancor più positivi).

Il tema posto da Orlandi è quello che, specie dal punto di vista dei piccoli consumatori (e dell’interesse per le aziende ad andarseli a prendere), fa effettivamente l’interesse. Altrimenti non si spiegherebbe che le offerte sul mercato elettrico siano state assai più aggressive che quelle per il gas, a dispetto del fatto che i due mercati subiscono vincoli simili nelle altre fasi della filiera. E’, dunque, importante affrontare i due corni della questione: la frammentazione industriale e la scarsa trasparenza delle letture. Per quel che riguarda quest’ultima, nel settore elettrico è stata risolta e garantita tramite l’installazione di contatori elettronici, che forniscono misure in tempo reale e oggettive. A sua volta, questo investimento è stato reso possibile dalla spinta dell’Autorità e dalla disponibilità dei maggiori operatori della distribuzione e cioè, a fortiori, dal più forte grado di concentrazione. Quindi, anche per il contatore elettronico la causa ultima sta nella frammentazione della distribuzione locale del gas.

Quindi, la scommessa è quella di trovare una formula per indurre un processo di aggregazione. L’Autorità ci ha provato con un documento di consultazione e una serie di prese di posizione successive, ma anche qui mi pare che la via seguita rischi di essere sterile, anche se per ragioni opposte. L’Autorità, in sostanza, ha condotto un’indagine sui bilanci della distribuzione, e ha creduto di individuare una “dimensione minima” al di sotto della quale la scala è insufficiente. Ma questa logica è debole, non solo perché inevitabilmente trascura le specificità locali (la distribuzione in un territorio montano è diversa dalla stessa attività esercitata in una grande città nel mezzo della pianura. La “dimensione ottima” di un’impresa, insomma, non dovrebbe essere stabilita autoritativamente, anche perché essa è necessariamente funzione di una quantità di variabili, tra cui la tecnologia in uso (che oggi è ovviamente diversa da ieri e da domani) e le scelte regolatorie (in particolare sulle tariffe, cioè le entrate, e la qualità del servizio).

A questo si aggiunge una normativa demenziale. Le reti oggi sono per la maggior parte in mano a soggetti formalmente privati, ma, allo scadere delle concessioni (la maggior parte delle quali terminerà entro la fine del 2010), dovranno tornare in mano agli enti locali, i quali dovranno riassegnarle tramite gara.  Un elemeno fondamentale delle gare - di fatto l’unico - è il canone di concessione, cioè quanta parte delle loro entrate le imprese sono disposte a pagare ai comuni. Il risultato è che i margini, stretti tra una certa rigidità dei costi industriali (determinata dal rispetto degli standard di qualità imposti dall’Aeeg), il cap sulle entrate (imposto tramite la regolazione tariffaria), e quella tassa impropria che versano agli enti affidatari (il canone), finiscono per essere così risicati da non determinare alcuna dinamica virtuosa. La vera scelta, che però è una scelta anzitutto politica e quindi regolatoria, dovrebbe essere quella di un modello regolatorio univoco, anziché mischiarne due: o si regolano le tariffe di imprese private che posseggono le reti (eventualmente estendo gli obblighi di unbundling anche ai piccoli o spingendo l’acceleratore sulla separazione proprietaria), oppure si decide che le reti sono pubbliche e vengono affidate tramite gara, facendo sì che il controllo sui prezzi (cioè sulla remunerazione del capitale) avvenga attraverso i termini dell’affidamento. I due modelli sono ugualmente interessanti, anche se io tendo a preferire il primo (proprietà privata + regolazione tariffaria + separazione proprietaria). Ma finché non si compie una scelta netta, qualunque tentativo di soluzione rischia di essere peggiorativo, aumentando la confusione normativa e riducendo la trasparenza.

E’ come in cucina: quando un piatto risulta insoddisfacente, entro un certo limite si può tentare di “salvarlo” aggiungendo nuovi ingredienti, o aumentando le dosi di quelli vecchi. Ma se la ricetta era sbagliata, conviene ricominciare da zero.

Carlo Stagnaro energia, mercato , , , , , ,

Attenti al nuovo mantra: la crisi da materie prime…

9 maggio 2009

C’era qualcosa nell’aria che avvertivo istintivamente ma la cui precisa nozione mi sfuggiva da tempo. Ora ho capito meglio di che cosa si tratti, letto l’intervento di Pietro Modiano sul Sole, in risposta a Guido Tabellini. Vado per le spicce, come al solito ipersemplificando questioni molto più complesse. Premessa uno, finanziaria: gli Usa e il mondo intero hanno il massimo interesse a consolidare il più possibile la ripresa di fiducia dell’intermediazione finanziaria (e dei mercati, cominciata dalla prima settimana di marzo, e massicciamente sotenuta da acquisti senza precedenti da parte della mano pubblica, nonché da un’accorta politica di comunicazione dei dati). Premessa due, politica: gli elenchi di nuovi princìpi di regolazione finanziaria, capital ratios, omologazione delle architetture regolatorie (vedi Mingardi nel suo post precedente) et simila decadono dall’agenda di comunicazione pubblica quotidiana (avevano anche annoiato, in verità, visto che dalle chiacchiere ancora non si passa ai fatti), per tornare dove sono sempre stati, cioé nell’agenda riservata di un pugno di regolatori e banchieri centrali. Anche gli stress test Usa servono più a sostenere i mercati, che a fare pulizia. Premessa tre, gnoseologica: ma siamo proprio sicuri, di aver capito che cosa è successo negli anni precedenti la crisi dei subprime e il fallimento di Lehman? O è stata un lettura affrettata, quella che ha iniziato ad accumularsi in centinaia di papers e convegni e migliaia di articoli, intorno ai famosi eccessi della “finanza per la finanza”‘?
Dopo queste tre premesse, le strade secondo me si dividono nettamente.
Ce n’è una che ci riguarda (nel senso: chi la pensa come noi). Abbiamo le idee chiare sull’instabilità ingenerata da politiche monetarie lassiste, siamo disposti ad approfondire - coerenti all’imperfettismo di cui cui nutriamo - serie analisi sulle conseguenze dei modelli Var autogenerati dagli intermediari, dei bassi capital ratios per asset assunto o intermediato, la necessità di tener distinti gli intermediari bancari da quelli non bancari, e via continuando su tutti i diversi capitoli “tecnici” alla base di un sistema in cui il 50% dei profitti delle quotate Usa era attribuito a chi pesava il 10% del valore aggiunto del Gdp, da attività di puro trading ma il più possibile “esterne” al proprio recinto patrimoniale. Siamo vieppiù disposti ad approfondire, perché temiamo molto gli interventi iper regolatori, pervasivi e omologanti di chi sogna improbabili rivincite dei giuristi sulla finanza, e della politica sull’autonomia d’impresa.
A questa via del dubbio, aderisco.
Ma ce n’è un’altra che dichiara di partire da premesse analoghe, per giungere a conclusioni molto diverse. Chiamiamola la via bancaria: non solo non possiamo essere ben sicuri della causa vera, in realtà banchieri e intermediari non hanno sbagliato nulla (e nemmeno politica e regolatori che avevano congegnato le norme del gioco, come diremmo noi). I banchieri non hanno nessuna colpa, e la crisi è semplicemente esplosa perché è stata l’impennata delle commodities e del petrolio fino a 147 dollari, a determinare panico nell’economia reale, facendo saltare le griglie che sostenevano prezzi al presente e ritorni al futuro.
Non so come la pensiate voi: ma io alla conclusione autoassolutoria non mi sento proprio di aderire. Non desidero rinfrescare a tutti gli hearings al Congresso Usa in cui fior di esperti del mercato delle commodities esposero la ben nota tesi sul motivo per il quale, in mesi che vedevano il restringersi della forte leva e degli acquisti allo scoperto, i futures su petrolio, grano e mais subirono impennate che non avevano alcun giustificabile proporzionato “sottostante”, quanto a variare della domanda mondiale o a improvvisi blocchi dell’offerta.
Sento puzza di bruciato. Non mi piace, la faccia tosta dei signori banchieri. Mi sbaglio? Che ne pensate?

Oscar Giannino Senza categoria , , ,