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Posts Tagged ‘Obama’

Il guaio di Silvio, la santa diffidenza verso il big government

10 agosto 2009

La levata di scudi generale odierna contro l’idea delle nuove gabbie salariali è giusta e sacrosanta: ma più che altro era scontata. Silvio Berlusconi, con la sua intervista al Mattino rilanciata oggi in interviste radiofoniche, su questo tema ha fatto il bis dell’errore di pochi giorni prima, quando il governo ha avuto la leggerezza di evocare la Cassa per il Mezzogiorno come precedente per l’annunciata nuova politica di sviluppo per il Sud.

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Oscar Giannino liberismo , ,

Il repubblicano Zingales e’ un “restauratore”?

29 luglio 2009

Oscar Giannino ha gia’ scritto qui del fatto che Luigi Zingales e’ ormai riconosciuto come uno degli “astri” che possono rischiarare il cammino in salita del partito repubblicano in America. Oggi ne scrive anche Zingales stesso sul Sole, in un articolo per nulla compiaciuto ma anzi interessante e ricco di stimoli. Come tutto, ovviamente discutibule.
Riassumendo brevissimamente: Zingales suggerisce ai repubblicani di essere piu’ rigorosi, rispetto alla finanza pubblica, anche accettando un inasprimento fiscale come contropartita per mantenere aperti i circuiti dello scambio internazionale. Nel contempo, suggerisce loro di essere meno pro-business e piu’ pro-market, con argomenti molto diversi (stare dalla parte degli azionisti piu’ che dei manager, non difendere le grosse banche, ma anche accettare un Antitrust piu’ muscolare). Prosegui la lettura…

Alberto Mingardi liberismo , , , , ,

The Case against Class-Warfare Tax Policy

19 giugno 2009

Krugman, Reagan e i tagli alle imposte

15 giugno 2009

Qualche ora fa, sul suo frequentatissimo blog Paul Krugman ha preso per i fondelli i repubblicani e contestato quanti attaccano il piano di stimoli predisposto da Barack Obama poiché non avrebbe prodotto i risultati annunciati, soprattutto in tema di occupazione. Con una certa abilità retorica, Krugman si limita ad esibire un grafico che mostra come durante la presidenza Reagan a seguito dei tagli alle imposte per più di un anno si ebbe un incremento del numero dei senza lavoro.

La polemica di Krugman, che da intellettuale “militante” ed insider di primo livello è uso a schierarsi con una parte e contro l’altra, non sarebbe così interessante se non offrisse l’occasione per considerazioni più generali.

Su un punto l’economista americano ha sicuramente ragione: e cioè che le buone scelte politiche non si giudicano nell’arco di pochi mesi. Non a caso il formidabile crollo della disoccupazione che caratterizzò in America gli anni Ottanta del reaganismo fu ben successivo alla fase ricordata da Krugman.

C’è però un altro elemento, assai più meritevole di attenzione. Bisognerebbe cominciare a ragionare su questi temi senza infatti cadere vittima di troppe ingenuità metodologiche. In una realtà complessa quale è quella dell’economia americana o di qualsiasi altro Paese, non è possibile attribuire ad una scelta politica (sia esso uno “stimolo” keynesiano o il taglio delle imposte) ciò che succede successivamente (ad esempio, l’aumento della disoccupazione). Solo una buona teoria può dirci quale relazione c’è, ceteris paribus, tra una scelta di politica economica e le sue conseguenze sul sistema della produzione e della distribuzione. L’empirismo dei puri fatti non porta da nessuna parte.

In secondo luogo, bisognerebbe capire che è davvero molto sbagliato sposare l’occupazione per se: e che certo questo è tanto più curioso se a farlo sono intellettuali che costantemente dichiarano di farsi ispirare solo dalla realtà, rigettando ogni prospettiva di ordine ideologico e/o morale. D’altra parte, nella vecchia Ddr o nell’Urss d’antan la disoccupazione proprio non esisteva. C’erano invece i lavori forzati.

Non solo. Chi scrive è tra coloro che sarebbe davvero felice di veder crescere di colpo la disoccupazione in Italia grazie a massicci licenziamenti nel settore pubblico. È un’ipotesi del tutto irrealistica e certamente sarebbe una medicina amara (molto dolorosa, in particolare, per chi finirebbe per trovarsi sulla strada), ma aiuterebbe la crescita effettiva del Paese, che ha bisogno di più privato e meno spesa pubblica, più imprese e meno uffici parastatali.

Per sviluppare una qualsivoglia analisi sociale, bisogna insomma evitare non soltanto l’ingenuo positivismo che oggi domina larga parte degli studi economici, ma saper anche includere - con la massima consapevolezza, e con il coraggio di esporre le proprie tesi alle altrui critiche - quelle opzioni culturali ed etico-politiche che comunque sorreggono ogni interpretazione della realtà. Anche quelle di economisti avversi - a parole - ad ogni ideologia e fedeli sacerdoti di un positivismo che si vorrebbe oggettivo e senza partiti.

Carlo Lottieri Senza categoria , , , , , ,

Piani (quinquennali) per la banda larga

13 giugno 2009

Mentre in Italia il viceministro Romani, in occasione della presentazione postuma del rapporto Caio, delineava gli orientamenti del governo sullo sviluppo della banda larga - mi riprometto di tornarci in un prossimo post -, negli Stati Uniti si chiudeva la consultazione pubblica lanciata dalla FCC, a cui il Recovery Act delega la predisposizione di un piano nazionale per il broadband. Hanno fornito i propri contributi sul tema - tra gli altri - il Phoenix Center, il Mercatus Center, l’Institute for Policy Innovation, il Competitive Enterprise Institute e FreedomWorks. Le parole d’ordine sono quelle che conosciamo: regolamentazione leggera, diritti di proprietà, concorrenza - in primo luogo sulle infrastrutture. Parole d’ordine che ameremmo sentir pronunciare nel dibattito italiano, ma che - invero - sembrano avere scarso appeal anche in quello d’oltreoceano.

Massimiliano Trovato telecomunicazioni , , , , , , , , , , ,

Fiat-Chrysler, vinta la scommessa sui media italiani

7 giugno 2009

In aggiornamento della scommessa fatta ieri su Fiat-Chrysler: scommessa vinta, purtroppo. Nessun giornale italiano ha pubblicato una sola riga sulla battaglia legale dell’avvocato Thomas Lauria e dei fondi d’investimento e pensione da lui rappresentati, contro Fiat-Chrysler, né il lettore italiano ha trovato un solo cenno alle mail scambiate da consulenti e dirigenti di primo piano della Chrysler con la task force dell’auto dell’Amministrazione americana, anch’esse tutte contro Fiat. Abbiamo letto del piano terra al quale Marchionne vuole prendersi l’ufficio in Chrysler, per poter più agevolmente fumare ogni tanto in cortile, e del fatto che mangerà alla mensa dei dipendenti: questo sì, ma delle mail traboccanti scetticismo dei manager Chrysler verso l’azienda torinese, neanche una riga.
Nel frattempo, Lauria non ha aspettato le la scadenza del termine previsto per il pomeriggio di domani, e si è appellato alla Corte Suprema. Vedremo se essa si adeguerà alle considerazioni di rinunciatario realismo del giudice di merito di prima istanza, Arthur Gonzales, che in buona sostanza aveva deciso che in un chapter 11 a forte garanzia di capitale pubblico, come questo, l’Amministrazione prevaleva sulle norme di diritto positivo che tutelano creditori e obbligazionisti… Con ogni probabilità anche domani, vista l’alluvione di dati sul voto europeo, l’attenzione della stampa italiana sarà dirottata altrove. Magari ce la si caverà con qualche breve nelle pagine di economia. I criteri con i quali sono confezionati i giornali di questi tempi sono del resto assai singolari. Il Corriere di De Bortoli oggi apriva sul “fine ricreazione” decretato ieri dalla Marcegaglia, al termine di una campagna elettorale tra le più scombiccherate e volgari della storia italiana, e dedicava le prime pagine del giornale alla sferzata confindustriale. Caricandola, con un po’ di consapevole malizia, di un sapore critico verso Berlusconi probabilmente superiore alle intenzioni della Marcegaglia stessa. Il Sole 24 ore, quotidiano della stessa Confindustria, per converso non ne faceva alcun cenno, della pur energica dichiarazione della Marcegaglia. Vattelapesca perché, più realista del re. Per rifarvi la bocca, leggete lo strepitoso George Will sul Washington Post di oggi, qui. Sulle pretese di salvare GM da parte dell’azionista che ha fatto perdere 23 miliardi di dollari ad Amtrak dal 90 ad oggi, e sul fatto  che il too big to fail si applichi a un’azienda che l’ultimo giorno prima della decisione governativa capitalizzava in Borsa un undicesimo della scassatissima Harley Davidson, è imperdibile. Avercene, sui giornali italiani.

Oscar Giannino Senza categoria , , , , ,

Obama meglio di Merkel? E perché mai?

2 giugno 2009

Obama nazionalizza Gm con il sindacato UAW. Un male comunque necessario? Una svolta addirittura benefica, verso un nuovo modello americano? Anche stamane, dissento vigorosamente da come Sole 24 ore e Corriere della sera presentano ai loro lettori la decisione Usa su GM. Mi pare i media liberal americani si comportino molto meglio, vedi oggi la vigorosa stroncatura in sette punti che David Brooks verga sul New York Times.
Scrive il direttore del Sole che la Merkel su Opel coi russi sa di ruggine e protezionismo, mentre Obama su Gm guida l’industria dell’auto Usa a un avveniristica accelerazione verso nuove tecnologie ecocompatibili. Sul Corriere Mucchetti, sempre più editorialista di punta del nuovo corso di via Solferino, aggiunge un nuovo capitolo all’esaltazione della presunta superiorità del modello europeo su quello americano, sulla scorta di quanto egli ha sempre sostenuto e recentemente ha anche scritto Mario Monti. Ecco che cosa capita a chi si affida a previdenza e sanità privata, invece che a quelle pubbliche del welfare universalista europeo, è la loro tesi: lo Stato deve salvare tutti dal fallimento del privato, e ben gli sta a tutti così imparano a separare profitto da solidarietà.
Entrambe le tesi non mi convincono neanche un po’. E mi confermano che le povere imprese private italiane, ormai, il nemico intellettuale lo hanno ben solidamente al timone nei loro giornaloni di riferimento. Semmai, il fallimento di GM è il degno e preannunciatissimo - da vent’anni almeno, vedi gli innumerevoli articoli richiamati dai siti americani che seguono ogni giorno il settore dell’auto - esito di un modello totalmente inefficiente di gestione delle relazioni industriali, totalmente sbilanciato dal lato del sindacato UAW per colpa delle pressioni politiche. Quando per vent’anni si incorpora un aggravio di 30 dollari per ora lavorata rispetto ai concorrenti che lavorano in stabilimenti nello stesso mercato Usa, il fallimento è di un sindacato che pretende di imporre costi fuori mercato - fattore che resta totalmente assente dalle analisi “nostrane” - non del modello previdenziale contributivo privatistico. Quanto alla svolta tecnologica, che siano manager di Stato a saperla realizzare a condizioni di efficienza ed efficacia, successo di mercato e di volumi superiori a quelli di imprese e manager privati, sarebbe la prima volta nella storia dell’umanità. Tanto ne diffida la stessa task force dell’auto dell’Amministrazione, che ha dettato le regole della nazionalizzazione di Gm e dello scorporo da essa di Opel, da aver imposto alla stessa controllata tedesca di non attivarsi sul mercato domestico Usa, per evitare concorrenza.
La nazionalizzazione GM non mette alla testa dell’azienda nuovo management privato, come almeno avviene in Chrysler-Fiat. Non focalizza il gigante fallito sul più rapido recupero di profittabilità, diluendo e travestendo lo sforzo necessario attraverso l’obiettivo “verde”. Rafforza nel sindacato la certezza che d’ora in poi a maggior ragione - gettate sulle spalle dei soli nuovi assunti i tagli di retribuzione oraria e di prestazione welfaristiche - Obama non potrà certo mollare GM al suo destino, in caso i risultati siano insoddisfacenti. E obbliga chi guiderà l’azienda a muoversi secondo queste stesse coordinate.
In più, l’obiettivo dell’”azionista pubblico riluttante”, come l’ha definito ieri Obama, cioè uscire al più presto e senza troppo rimetterci da Gm, è del tutto inattuabile. Finora al contribuente Usa il 60% di G è costato 53 miliardi di dollari, e di conseguenza per uscirne senza falò di denari del contribuente bisognerebbe che l’azienda capitalizzasse almeno 80 miliardi di dollari. Mai, nemmeno nei tempi più rosei e cioè ormai molti anni fa, GM ha superato i 52 miliardi di dollari. Figuriamoci se è ipotizzabile un prossimo futuro in cui il fallimento e 180 miliardi di debiti possano tradursi in 100 miliardi di valore. E tutto ciò mentre il debito pubblico Usa passerà dal 41% del Gdp dove l’ha lasciato Bush a oltre l’80% entro il 2013, secondo le previsioni attuali del Budget Independent Office del Congresso.
No, non è una svolta. No, non è il fallimento del mercato che responsabilizza individui e imprese, attraverso liberi contratti, sulla copertura sanitaria e previdenziale. E’ il fallimento imposto da cattivi politici e pessimi sindacalisti, a manager che hanno anteposto la propria sopravvivenza all’etica dei risultati. Esattamente come avviene a Rcs, ed è forse per questo che ai grandi giornali italiani piace così.

Oscar Giannino Senza categoria , , , ,

Auto di Stato: come spiegarla

1 giugno 2009

Quando sono Stato e politica a decidere di imprese private e settori di produzione, i media dovrebbero essere capaci di offrire analisi interpretative diverse dal puro colore, pur necessario e utile, su quali siano le predilezioni ideologiche del ministro zu und von Guttenberg della Csu rispetto ad Angela Merkel della Cdu, e agli esponenti della Spd. Occorrono anche criteri analitici ben più taglienti. Propongo un esempio, da zerohedge.blogspot.com che offre quotidianamente una miniera di dati finanziari. Date un occhio all’ipotesi proposta a http://zerohedge.blogspot.com/2009/05/i-am-marlas-observations-on-artifical.html, intorno alle eventuali inferenze tra potenziali sopravvissuti tra i dealers dell’auto nazionalizzata Usa,e le liste di donors per candidato alle primarie nelle ultime presidenziali.
Senza data di uscita dello Stato dall’auto come da tutti i settori che vengono “salvati”, data che deve essere dichiarata dalle autorità pubbliche in tempo contestuale agli interventi straordinari deliberati e attuati, non si attua solo una distorsione temporalmente illimitata del mercato con effetti a catena su migliaia di imprese che lavorano per il settore, ma si effettua anche una manipolazione sinergica del mercato del consenso politico. Allegria! È più utile elaborare e proporre numeri su questi fenomeni, o continuare a interrogare i diversi eredi della famiglia Agnelli fino al settimo grado di affini e consanguinei, per sapere che cosa avrebbero pensato di Opel i loro zii e nonne?

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I 7 miti dell’economia verde: fantastici!

6 maggio 2009

Sia lode e gloria ai seguenti ricercatori. Andrew P. Morris, dell’University of Illinois College of Law, nonché del Property and Environment Research Center, George Mason University; William T. Bogart, dello York College of Pennsylvania; Andrew Dorchak, della Case Western Reserve University Law Library; infine Roger E. Meiners, della University of Texas at Arlington. Hanno appena scritto due papers fa-vo-lo-si che smantellano gran parte della mitologia sulla quale viene edificata la tesi secondo la quale l’unica vera risposta alla crisi economica attuale è un colossale shift, guidato dallo Stato, verso l’economia e le tecnologie “verdi”. I papers s’intitolano “7 Myths About Green Jobs”, e “Green Jobs Myths” (Illinois Law & Economics Research Paper No. LE09-007, e No. LE09-001). Consiglio di divorarveli per benino, e di sicuro la loro lettura farebbe un gran bene a politici e giornalisti che su questi temi rischiano di prendere lucciole per lanterne, creando consenso intorno a massicce allocazioni di risorse del contribuente assolutamente distorsive.
Quali le loro tesi dimostrate? Scrivono che negli ultimi tempi una crescente mole di letteratura a forte popolarità si prodiga a convincere che maggiore sarà l’intervento statale pro ambiente, più consistente sarà la crescita di occupati, unica vera salvezza al downsizing della manifattura “tradizionale” cioè energivora. Saranno impieghi che non faranno solo un gran bene all’ambiente, ma ben pagati, ricchi di soddisfazione per chi li svolge, e naturalmente tali da favorire un ritorno in grande stile all’adesione sindacale di massa. Senonché queste tesi, scrivono i nostri eroi, si fondano appunto su sette veri e propri miti, che investono orizzontalmente l’economia e la tecnologia, oculatamente alimentati da gruppi d’interesse che puntano ai maggiori vantaggi, dall’implementazione di tali postulati.
Mito numero uno, il lavoro “verde”: nessuna sua definizione standard è comunemente accettata. Mito due: col lavoro verde cresce la produttività; quando invece i settori e le tecnologie interessate richiedono un più alto numero di addetti a prassi amministrative e regolatorie. Mito tre: le previsioni di crescita del lavoro verde sono attendibili; quando invece i loro modelli previsivi sono risultati totalmente disattesi, da 35 anni a questa parte. Mito quattro: il lavoro verde accresce l’occupazione; quando invece esso risulta assai human intensive, dunque a bassa produttività, bassa remunerazione e basso standard di prestazione per gli addetti; la crescita economica non può essere “ordinata” dal Parlamento o dalle Nazioni Unite, la restrizione di tecnologie mature a favore di tecnologie ancora speculative attraverso stanziamenti di risorse pubbliche e incentivi fiscali ha spesso generato stagnazione, in passato. Mito cinque: dalla crisi si esce accettando come positiva la diminuzione degli scambi commerciali planetari, per tornare a puntare maggiormente su produzioni “locali” senza che ne consegua diminuzione degli standard di vita; quando invece si è SEMPRE confermata vincente la tesi della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, che attraverso la specializzazione produttiva e scambi crescenti e più liberi sempre maggiori aree del pianeta innalzano più rapidamente i propri standard di benessere. Mito sei: i governi possono e devono agire come efficaci sostituti dei mercati; quando sempre le aziende libere si sono rivelate meglio in grado di interpretare e soddisfare domanda e desideri dei consumatori. Mito sette: imporre cambi di direzione tecnologica attraverso la regolazione pubblica è auspicabile e positivo; quando invece molte delle tecnologie verdi sin qui indicate come addirittura “risolutive” non hanno mai raggiunto la scala di attuabilità e di costo necessaria a soddisfare efficacemente la domanda alla quale si suppongono rivolte.
Altro che il mitico 20-20-20 dell’Europa e i fantastici obiettivi verdi promessi da Obama: noi preferiamo i fantastici quattro che numeri alla mano fanno a pezzi la teologia ambientalista e i suoi improvvisati dottori della legge.

Oscar Giannino Senza categoria , , ,

“Paradisi” fiscali: Obama spalanca la strada a Tremonti

5 maggio 2009

In Italia il dibattito è stato lanciato “a freddo” dal Sole24ore un mesetto fa, rendendo concreta con tanto di titoli di apertura per quattro giorni di seguito l’indiscrezione tra addetti ai lavori che fino a quel momento non aveva mai trovato conferma: e cioè che l’Italia stava elaborando un nuovo maxi scudo fiscale per il rientro dei capitali, che se ne era parlato al G7 di Roma come conseguenza del “nuovo legal standard contro i paradisi fiscali”, e che in tale quadro Tremonti si sarebbe però mosso in un concerto europeo, per evitare la rampogne franco-tedesche scattate nel 2004-05, quando l’Italia ottenne la bellezza di quasi 80 miliardi di euro retrocessi alla base imponibile nazionale, con un’aliquota estremamente attraente pari al solo 2,5% delle somme rimpatriate, che significò un paio di miliardi di euro d’incassi immediati.
Fedele al suo estremo riserbo, che in materia fiscale e di provvedimenti di clemenza è ancor più giusto e obbligato, Tremonti sulla materia è sempre stato restio a dare qualsivoglia particolare aggiuntivo. Il provvedimento è tornato a materializzarsi come possibile copertura in occasione di nuovi stanziamenti straordinari del governo, dall’Abruzzo all’eventuale nuova estensione di ammortizzatori sociali, se le cose dovessero prendere una piega ancora peggiore rispetto agli 8 miliardi a tal scopo drenati in buona parte ai Fas regionali, ottenuti decentrandone l’utilizzo in maniera che le Regioni siano compartecipi del processo decisionale. In realtà le imprese sanno che il provvedimento è in cottura, visto che il Sole prese a parlarne ex abrupto perché Tremonti stesso sollevò en passant il tema incontrando con Berlusconi la Marcegaglia, il martedì successivo al convegno di Palermo in cui il vertice di Confindustria aveva levato un grido d’allarme chiedendo “soldi veri”. Il governo e il ministro non ne parlano per non suscitare allarme in Europa e non spiazzare il lavoro degli sherpa, che tentano di strappare ai franco-tedeschi un’aliquota sufficientemente bassa da rendere il provvedimento realmente efficace e vantaggioso per le casse pubbliche. Le imprese e i giornali non ne parlano neanche loro, per non evocare la facile accusa di voler dare una mano a chi ha portato capitali all’estero. In realtà tutti sanno che la misura sarebbe utile non solo all’Erario in futuro - più base imponibile - e al Tesoro subito - per fronteggiare la diminuzione del gettito da calo delle attività economiche - ma altresì alle imprese, visto che la richiesta convenuta dal governo è di riservare una finestra ancor più vantaggiosa al rientro di capitali che fosse volto all’investimento immediato nelle imprese, per meglio patrimonializzarle. Ma la convenzione generale è di parlarne il meno possibile.
Sennonché ha quasi del clamoroso, che nessuno in Italia si sia accorto che l’annuncio dato lunedì 4 maggio da Obama significa non solo che lo scudo ci sarà qui da noi e in Europa, ma che a questo punto converrà farlo presto e bene.
Che il Congresso Usa approvi davvero quanto annunciato da Obama, francamente si stenta a crederlo. Perché in Senato non basta neanche il sessantesimo senatore Specter passato dai repubblicani ai democratici pur di riassicurarsi l’elezione, per garantire la maggioranza a una misura che butta nel water 25 anni di politica fiscale Usa. Negli Usa, i profitti realizzati da controllate estere di imprese americane sono sottoposti a differimento d’imposta finché non reimpatriati. E’ questa misura, ripresa e rafforzata da Clinton dopo l’introduzione reaganiana, ad aver potentemente spinto la grande impresa Usa a due comportamenti positivi. Estendere il più possibile nel mondo il proprio radicamento in Paesi a minor prelievo, classicamente in via di sviluppo e non solo le Isole Cayman per partite finanziarie estero su estero. Essere estremamente rapide e flessibili nell’impiantare attività nei Paesi che modificavano il proprio regime fiscale in senso favorevole all’impresa, dall’Irlanda all’Est europeo per restare al contesto a noi più vicino. Per la sola General Electric nell’ultimo esercizio, sono quasi 80 miliardi di dollari di profitti che la casa madre non intende reimpatriare. Il che significa che continuerà a investirili all’estero, dando carburante alla crescita mondiale. La resistenza della Corporate America sarà durissima, alla misura annunciata da Obama: negare le deduzioni fiscali sull’intero ammontare dei profitti finché essi non vengano reimpatriati, con la scusa che altrimenti è troppo favorito chi opera all’estero rispetto alla piccola impresa. I 210 miliardi di prelievo che Obama mira ad incassare, non sono solo utili che gonfiano i risultati su cui si calcolano i premi ai manager. Sono benzina per il pianeta (e la forza dell’America nel mondo).
So che su questo argomento noi siamo minoranza. E’ facile alla politica oggi attaccare i “paradisi fiscali” come una minaccia e un insulto, per i poveri Paesi ad alto prelievo messi alle corde dalla crisi e dal calo del gettito per finanziare il loro costoso welfare, vieppiù appesantito dai nuovi disoccupati. In realtà, la difesa della concorrenza fiscale al ribasso costituisce per noi tutela del motore che ha indotto i paesi Ocse nell’ultimo venticinquennio ad abbassare di ben 16 punti l’aliquota legale (dunque quella media, non parlo di quella marginale) sul reddito delle persone giuridiche, pur accrescendo del 34% il prelievo complessivo per effetto della maggior crescita indotta. Senza l’Irlanda e la flat tax esteuropea che oggi tutti i Paesi ad alta spesa pubblica vorrebbero affossare una volta per tutte, perché sino a ieri era la riprova che si cresceva assai di più a basse tasse (e tornerà ad esserlo appena riparte il commercio internazionale), i sistemi politici ad alta intermediazione pubblica del reddito avrebbero avuto vita meno difficile, nel difendere le loro alte pretese dalla protesta di contribuenti e imprese vessati. Su questo tema, segnalo i papers più recenti degli amici del Cato Institute, “Obama Offshore Tax Plan Will Cost U.S. Companies Business and Jobs” di Daniel Griswold, “Tax Havens Should Be Celebrated, Not Persecuted” di Daniel J. Mitchell, “In Defense of Tax Havens” di Richard W. Rahn, “International Tax Competition”, che è il manuale fiscale per politici che vogliano liberarsi della mitologia eticista in materia di fisco comparato.
Ma in realtà, al di là della nostra contrarietà a una classe di politici che crede davvero ora di realizzare l’armonizzazione fiscale internazionale al rialzo, da anni predicata in Italia dai Padoa-Schioppa, Monti e Visco, quel che conta è che l’annuncio di Obama segna la direzione che verrà seguita da molti. Meglio allora farne tesoro. Anzi Tesoro, con la “ti” maiuscola. Dunque si sbrighi Tremonti, e resista ai franco-tedeschi che chiedono aliquote dell’8 se non del 10 o 12% sul reimpatriato, che renderebbero lo scudo fiscale assai meno incentivante e dunque efficace. In un mondo in cui Usa e Germania vanno all’assalto del santo segreto bancario dietro il quale milioni di contribuenti si difendevano dalle alte aliquote, all’Italia spetta non alzare le proprie tasse - per carità, la promessa era ancora una volta di abbassarle - bensì approfittarne al meglio.

Oscar Giannino Senza categoria , , ,