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Posts Tagged ‘Merkel’

Ancora su Germania e tasse

30 giugno 2009

L’interessante discussione sviluppatasi a seguito del mio post sulle manovre economiche in Germania mi ha fornito lo spunto per risistemare il quadro concettuale; questo anche a seguito della sponda odierna di Oscar Giannino. La conclusione la trovate qui e non è dissimile da quella sostenuta su queste colonne nella giornata di ieri.

Giovanni Boggero liberismo, mercato , , , ,

L’interventismo tedesco su Opel non è una semplice caduta di stile

6 giugno 2009

Pensare che l’approccio dirigistico del governo tedesco al dossier Opel sia una marginale ed estemporanea sbandata, dovuta all’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale di settembre è una considerazione giusta, ma estremamente limitata quanto ad orizzonte storico. L’idea che lo Stato, in situazioni di lacerante crisi economica, debba intervenire senza badare troppo alle distorsioni della concorrenza e dei processi autonomi del mercato, è molto più che una trovata elettorale escogitata dalla signora Merkel e dal suo gaglioffo governo di coalizione.
Già ai tempi della Repubblica di Weimar il potere presidenziale di emanare decreti di emergenza (e l’intromissione su Opel, così come i recenti pacchetti congiunturali, possono esservi facilmente assimilati) divenne un fenomenale strumento di intervento a gamba tesa dello Stato nell’economia, volto alla creazione –artificiale, direbbe Bastiat– di posti di lavoro e favorito dal proposito ingegneristico di plasmare la società perfetta, in poche parole un mezzo di “integrazione sociale”, per dirla con Hermann Heller.  Nulla da stupirsi, dunque, se proprio attraverso lo sfruttamento della politica economica si arrivò di lì a poco, sotto Hitler e Von  Papen, al riarmo. “Chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini“, soleva dire Eugen Richter. E così, da interventismo moderato che fu tra il 1919 e il 1925, quello della Repubblica di Weimar sfociò presto in dirigismo totalitario. La teoria della necessità di un’occhiuta intromissione da parte dello Stato centrale nella vita economica, propagandata da Keynes, fu recepita con entusiasmo anche dalla Germania di Hitler, nella quale le parole “nazionalizzazione” ed “esproprio” furono per anni all’ordine del giorno (ma anche quella di “Stato sociale”, si legga ad esempio il bel volume di Aly “Lo Stato sociale di Hitler“)
Ma quello che più dovrebbe stupire è che, al di là delle moine sulla colpa collettiva e all’esile crosta di incivilimento post-II guerra mondiale, la Bundesrepublik nata nel 1949 non sancì affatto una chiara e netta cesura con il suo disastroso passato. Almeno dal punto di vista della gestione istituzionale della politica economica. Il principio dell’interventismo statale, al di là di qualche felice parentesi (quella erhardiana, ad esempio), non è stato granché intaccato dal tortuoso dibattito sul nazionalsocialismo, ma ha continuato ad annidarsi  tra le pieghe della Repubblica federale, provocando una progressiva esautorazione delle procedure di controllo parlamentare sulle decisioni congiunturali a favore dell’esecutivo. Ciò a cui abbiamo assistito per Opel non è una semplice caduta di stile.

Giovanni Boggero liberismo , , , , ,

Wolf ha torto, Merkel pure. No alle pecore del governo-pastore

3 giugno 2009

Mercati ghiacciati oggi, dagli sconfortanti dati Eurostat su crisi in Ue che procede a ritmi esattamente doppi rispetto agli Usa, nonché  dalle parole di Bernanke che giustamente ha sottolineato la necessità che l’Amministrazione si dia subito una credibile strategia antideficit, in modo che lo spread tra titoli pubblici decennali e i Tips indicizzati non esploda sopra i 190-200 punti base attuali. Al momento, quel differenziale prova che l’attesa di inflazione americana incorporata dai mercati è ancora alla portata della capacità di fine tuning della Fed. In caso contrario, nella disputa odierna  tra Martin Wolf e Niall Ferguson su FT, significherebbe che il secondo - keynesiano dichiaratamente - ha torto, e il primo ha invece monetaristicamente ragione.

Significherebbe anche che ha ragione la Merkel, con la sua durissima tirata d’orecchi contro il quantitative easing di Fed e BoE, una tirata d’orecchi così priva di precedenti nella storia tedesca, abitualmente ortodossa quanto a separazione tra funzioni politiche e delle banche centrali? Niente affatto. Il quantitative easing può essere rapidamente dismesso dalle autorità monetarie, con la stessa velocità con cui lo si è attivato: serve a recuperare il pieno governo dell’intera curva dei rendimenti dei tassi sul mercato, e contestualmente a sostenere asset il cui prezzo si teme possa deflazionare. Al contrario, sono i deficit e cioè i debiti accesi dai governi per esplosivi mazzi di punti di Pil, a non poter essere altrettanto rapidamente dismessi. Proprio nel giorno in cui la politica tedesca ha dovuto fare già una mezza retromarcia su Opel-Magna, di fronte al rischio che gli austro-canadesi foglia di fico di Putin mollino tutto una volta gettato l’occhio sullo stato patrimoniale della casa automobilistica tedesca, la politica farebbe bene a ricordarlo: gli errori dei banchieri centrali sono a volte gravissimi, ma per quanto lunga sia la catena temporale di trasmissione dei segnali della politica monetaria  all’economia reale, le conseguenze di scelta politiche drasticamente sbagliate rischiano di esercitare effetti negativi ancora più durevoli e seri degli errori dei banchieri centrali.  In questi giorni un po’ tristi per noi liberisti, fa bene ogni tanto trovare libri che rinfrancano lo spirito e rimotivano. Come per esempio <!– /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-parent:”"; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:12.0pt; font-family:”Times New Roman”; mso-fareast-font-family:”Times New Roman”;} @page Section1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.Section1 {page:Section1;} –> Soft Despotism, Democracy’s Drift: Montesquieu, Rousseau, Tocqueville, and the Modern Prospect, di Paul A. Rahe, edito dalla Yale University Press. Sono 400 pagine di sana cavalcata nella difesa dello spirito dei Founding Fathers, e di accorata denuncia del neostatalismo regolatore che sta conducendo gli Usa di Obama a scavalcare l’Europa di Rosseau.  L’America ripartirà prima di noi europei, lasciando a noi ancor più pesante l’eredità di cittadini che, quando le cose vanno male, chiedono sia lo Stato a rassicurarli invece di tirarsi su le maniche. Per chi non vuole morire pecora del pastore-governo, sono tempi in cui affinare tempra e taglio della spada.  Intellettuale, s’intende.

Oscar Giannino liberismo , ,

Obama meglio di Merkel? E perché mai?

2 giugno 2009

Obama nazionalizza Gm con il sindacato UAW. Un male comunque necessario? Una svolta addirittura benefica, verso un nuovo modello americano? Anche stamane, dissento vigorosamente da come Sole 24 ore e Corriere della sera presentano ai loro lettori la decisione Usa su GM. Mi pare i media liberal americani si comportino molto meglio, vedi oggi la vigorosa stroncatura in sette punti che David Brooks verga sul New York Times.
Scrive il direttore del Sole che la Merkel su Opel coi russi sa di ruggine e protezionismo, mentre Obama su Gm guida l’industria dell’auto Usa a un avveniristica accelerazione verso nuove tecnologie ecocompatibili. Sul Corriere Mucchetti, sempre più editorialista di punta del nuovo corso di via Solferino, aggiunge un nuovo capitolo all’esaltazione della presunta superiorità del modello europeo su quello americano, sulla scorta di quanto egli ha sempre sostenuto e recentemente ha anche scritto Mario Monti. Ecco che cosa capita a chi si affida a previdenza e sanità privata, invece che a quelle pubbliche del welfare universalista europeo, è la loro tesi: lo Stato deve salvare tutti dal fallimento del privato, e ben gli sta a tutti così imparano a separare profitto da solidarietà.
Entrambe le tesi non mi convincono neanche un po’. E mi confermano che le povere imprese private italiane, ormai, il nemico intellettuale lo hanno ben solidamente al timone nei loro giornaloni di riferimento. Semmai, il fallimento di GM è il degno e preannunciatissimo - da vent’anni almeno, vedi gli innumerevoli articoli richiamati dai siti americani che seguono ogni giorno il settore dell’auto - esito di un modello totalmente inefficiente di gestione delle relazioni industriali, totalmente sbilanciato dal lato del sindacato UAW per colpa delle pressioni politiche. Quando per vent’anni si incorpora un aggravio di 30 dollari per ora lavorata rispetto ai concorrenti che lavorano in stabilimenti nello stesso mercato Usa, il fallimento è di un sindacato che pretende di imporre costi fuori mercato - fattore che resta totalmente assente dalle analisi “nostrane” - non del modello previdenziale contributivo privatistico. Quanto alla svolta tecnologica, che siano manager di Stato a saperla realizzare a condizioni di efficienza ed efficacia, successo di mercato e di volumi superiori a quelli di imprese e manager privati, sarebbe la prima volta nella storia dell’umanità. Tanto ne diffida la stessa task force dell’auto dell’Amministrazione, che ha dettato le regole della nazionalizzazione di Gm e dello scorporo da essa di Opel, da aver imposto alla stessa controllata tedesca di non attivarsi sul mercato domestico Usa, per evitare concorrenza.
La nazionalizzazione GM non mette alla testa dell’azienda nuovo management privato, come almeno avviene in Chrysler-Fiat. Non focalizza il gigante fallito sul più rapido recupero di profittabilità, diluendo e travestendo lo sforzo necessario attraverso l’obiettivo “verde”. Rafforza nel sindacato la certezza che d’ora in poi a maggior ragione - gettate sulle spalle dei soli nuovi assunti i tagli di retribuzione oraria e di prestazione welfaristiche - Obama non potrà certo mollare GM al suo destino, in caso i risultati siano insoddisfacenti. E obbliga chi guiderà l’azienda a muoversi secondo queste stesse coordinate.
In più, l’obiettivo dell’”azionista pubblico riluttante”, come l’ha definito ieri Obama, cioè uscire al più presto e senza troppo rimetterci da Gm, è del tutto inattuabile. Finora al contribuente Usa il 60% di G è costato 53 miliardi di dollari, e di conseguenza per uscirne senza falò di denari del contribuente bisognerebbe che l’azienda capitalizzasse almeno 80 miliardi di dollari. Mai, nemmeno nei tempi più rosei e cioè ormai molti anni fa, GM ha superato i 52 miliardi di dollari. Figuriamoci se è ipotizzabile un prossimo futuro in cui il fallimento e 180 miliardi di debiti possano tradursi in 100 miliardi di valore. E tutto ciò mentre il debito pubblico Usa passerà dal 41% del Gdp dove l’ha lasciato Bush a oltre l’80% entro il 2013, secondo le previsioni attuali del Budget Independent Office del Congresso.
No, non è una svolta. No, non è il fallimento del mercato che responsabilizza individui e imprese, attraverso liberi contratti, sulla copertura sanitaria e previdenziale. E’ il fallimento imposto da cattivi politici e pessimi sindacalisti, a manager che hanno anteposto la propria sopravvivenza all’etica dei risultati. Esattamente come avviene a Rcs, ed è forse per questo che ai grandi giornali italiani piace così.

Oscar Giannino Senza categoria , , , ,

Auto di Stato: come spiegarla

1 giugno 2009

Quando sono Stato e politica a decidere di imprese private e settori di produzione, i media dovrebbero essere capaci di offrire analisi interpretative diverse dal puro colore, pur necessario e utile, su quali siano le predilezioni ideologiche del ministro zu und von Guttenberg della Csu rispetto ad Angela Merkel della Cdu, e agli esponenti della Spd. Occorrono anche criteri analitici ben più taglienti. Propongo un esempio, da zerohedge.blogspot.com che offre quotidianamente una miniera di dati finanziari. Date un occhio all’ipotesi proposta a http://zerohedge.blogspot.com/2009/05/i-am-marlas-observations-on-artifical.html, intorno alle eventuali inferenze tra potenziali sopravvissuti tra i dealers dell’auto nazionalizzata Usa,e le liste di donors per candidato alle primarie nelle ultime presidenziali.
Senza data di uscita dello Stato dall’auto come da tutti i settori che vengono “salvati”, data che deve essere dichiarata dalle autorità pubbliche in tempo contestuale agli interventi straordinari deliberati e attuati, non si attua solo una distorsione temporalmente illimitata del mercato con effetti a catena su migliaia di imprese che lavorano per il settore, ma si effettua anche una manipolazione sinergica del mercato del consenso politico. Allegria! È più utile elaborare e proporre numeri su questi fenomeni, o continuare a interrogare i diversi eredi della famiglia Agnelli fino al settimo grado di affini e consanguinei, per sapere che cosa avrebbero pensato di Opel i loro zii e nonne?

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Una Thatcher per la Germania? Difficile

5 maggio 2009

Quando l’Inghilterra scoprì la signora Thatcher, in quel di Bonn alla tolda di comando stava ormai da un lustro un certo Helmut Schmidt. Socialdemocratico di ampie vedute e mai schierato su posizioni massimaliste, Schmidt diede vita al secondo governo liberalsocialista nella storia della Repubblica federale dopo quello di Willy Brandt. Inutile dire che in quegli anni la Germania non visse alcuno shock liberista. Anzi, il governo di Schmidt è ricordato ancora oggi per la spasmodica ricerca di una concertazione un po’ all’italiana e per aver raddoppiato l’indebitamento dal 20 al 40% del Pil. E questo è tanto più singolare quanto più si pone attenzione al fatto che al governo stavano per l’appunto anche i liberali dell’FDP. In realtà non bisogna farsi ingannare dai simboli o dalle sigle. Il partito liberale tedesco, dalla sua nascita nel 1948 sino ad oggi, è il partito che più di ogni altro è rimasto al potere, ma è anche quello che più di ogni altro rimane afflitto da gravi paradossi, primo fra i quali quello di esistere, ma di non aver mai preso coscienza di sé stesso. Fino al 1982 l’FDP fu infatti alle prese con spinte centrifughe di segno opposto: keynesiani moderati da una parte e liberalconservatori dall’altra. Solo con il voto di sfiducia a Schmidt e l’ascesa di Helmut Kohl si posero le premesse per un parziale cambiamento. L’ala sinistra del partito abbandonò in blocco l’FDP, accasandosi un po’ presso l’SPD e un po’ presso i nascenti Verdi. Da quel momento in poi i liberali divennero gli alleati più stretti dei democristiani, anche se nei diciassette anni di alleanza con la CDU/CSU non furono in grado di realizzare un mutamento radicale di tipo thatcheriano. Anzi, se si eccettua la politica di parziale semplificazione del mercato del lavoro, ci fu una certa continuità con l’era Schmidt, incrinata solo dalle pressioni  all’apertura dei mercati (mai pienamente accettate e condivise) provenienti della Comunità europea. Tutto ciò per dire che, trent’anni dopo, la Germania attende ancora  oggi la sua Maggie. Nel 2005, quando Angela Merkel arruolò nella sua squadra il professor Paul Kirchhof, ex giudice della Corte Costituzionale e grande sponsor della flat-tax, la CDU precipitò nei sondaggi e per un soffio rischiò di perdere il treno per la Cancelleria. Il vocabolo “Neo-liberal” (come tutti i termini che in tedesco incominciano con “Neo”) incute ancora molta paura in Germania, e questo perché evoca lo spettro di una società profondamente estranea al comune sentire dei tedeschi, i quali dalla Repubblica di Weimar in poi- nazismo compreso-hanno sempre creduto fermamente (e talvolta ciecamente) nelle virtù benefiche del Sozialstaat. Questo è accaduto anche dopo la Wende, ossia dopo il crollo del Muro e la riunificazione, cui purtroppo o per fortuna  (a seconda dei punti di vista), non si è accompagnato alcun trionfo del liberalismo. Ecco perché sapere che nei sondaggi più recenti l’FDP è dato in forte ripresa non ci regala grandi illusioni. Westerwelle è certamente più thatcheriano del suo predecessore, il nazional-liberale e inguaribile anti-semita Möllemann, ma con una Angie così drammaticamente compromessa con l’ala più conservatrice e keynesiana del suo partito, le possibilità di una rivoluzione liberale anche in Germania si assottigliano ogni giorno di più.

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