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Posts Tagged ‘Fed’

Obama e la Fed

17 giugno 2009

La “grande riforma” della finanza americana presentata da Obama è arrivata, e ci sarà tutto il tempo di discuterne, letto attentamente il documento della “Financial Regulatory Reform” e presi atto di tutti i commenti che da domani, com’è inevitabile, intaseranno i giornali e i blog del pianeta.  Un primo punto solo apparentemente marginale è quello sollevato da un amico analista finanziario, Cole Kendall, nella sua newsletter (il sito è Understanding the Market, l’ultima newsletter non è ancora on line). Per Kendall, la riforma di Obama accende una “Federal Reserve time bomb”. Oberando la FED di nuove responsabilità regolatorie, ne metterebbe a rischio l’indipendenza:

Recent congressional hearings examining the nature of the communications between Chairman Bernanke and the head of Bank of America (over the Merrill Lynch purchase) has highlighted the perils of increased regulatory authority. Chm. Bernanke (or his successor) would be a regular visitor to Congress to explain not only his monetary policy but also his regulatory decision making. While Chm. Bernanke might be capable of surviving such hearings on a regular basis, not every future Fed chairman will be able to survive in such conditions and eventually Congress will decide to reorganize the Fed.

Anche per noi che siamo cresciuti alla scuola per cui l’indipendenza delle autorità indipendenti di ogni risma è essenzialmente una “formula politica”, la questione in realtà è importante. Perché se una autorità è improbabile che sia “assolutamente indipendente”, può certo diventare “ancora più dipendente” dalla politica. E perché la concentrazione di nuove competenze può non solo rendere ancora più arbitraria la regolazione, ma anche caricare sulle spalle dei regolatori troppe promesse, difficili da mantenere. Limitiamoci ancora a considerazioni di ordine generale - domani entreremo nel dettaglio, seguendo la guida esperta del nostro direttore. Sul sito di Astrid, trovate un bellissimo intervento del Commissario Consob Luca Enriques, dello scorso anno. Riporto le conclusioni, che ogni ri-regolatore dovrebbe leggersi e rileggersi come preghierina della sera:

A mio avviso, è importante che coloro che saranno chiamati alla revisione delle regole tengano ben presenti i rischi cui si va incontro in questi casi. Vorrei segnalare cinque errori da evitare. Sono altrettante ovvietà, ma di questi tempi non guasta ripeterle.
1. Anzitutto, non si deve scordare che le leggi generano costi e non solo benefici, distorcono i comportamenti e tendono ad avere conseguenze inaspettate; e che la tentazione di eluderle è insopprimibile. E la migliore dimostrazione di ciò è proprio nella crisi finanziaria in corso, frutto delle cattive regole e delle cattive politiche non meno che dell’assenza di regole e dei fallimenti del mercato(…) A fronte di queste insidie, bisogna guardarsi dalla fretta nell’accettare soluzioni che sembrano di buon senso, magari perché semplici e facili da spiegare, ma che poi possono rivelarsi dannose e controproducenti. Da questo punto di vista, la lezione del Sarbanes Oxley Act è sufficientemente istruttiva. E soprattutto, è da evitare la trappola tautologica per cui se il fenomeno X non è regolato, allora è necessario regolarlo.
2. Nel rivedere le regole esistenti, è bene guardarsi anche dalla tentazione di concludere che certi meccanismi di controllo, magari da noi non ancora pienamente accettati, non servano perché non sono stati in grado di prevenire la crisi. (…)
3. Analogamente, sarebbe un errore pensare che certi strumenti siano da sopprimere perché hanno concorso a creare i presupposti della crisi. E’ chiaro che le stock option hanno spostato le preferenze degli amministratori di banche verso l’assunzione di rischi eccessivi. Ma vietare o disincentivare le stock option per questa ragione sarebbe come vietare i cellulari perché possono agevolare le attività dei terroristi e dei criminali.
4. Nuovi poteri ed eventualmente anche una nuova governance per le autorità di vigilanza non saranno sufficienti a prevenire la prossima crisi. Ciò non vuol dire che le autorità di vigilanza non debbano essere rafforzate e meglio disciplinate. Significa invece guardarsi dall’errore di ingenerare aspettative troppo elevate nella politica e nell’opinione pubblica sui risultati che le autorità di vigilanza possono effettivamente conseguire.
5. Da ultimo, ri-regolare non significa solo aggiungere regole a quelle che già ci sono e modificarne alcune. Vuol dire anche togliere di mezzo le regole rivelatesi, magari anche a seguito della crisi, inefficaci o inefficienti.

Alberto Mingardi mercato , , , ,

Pax bancaria: Usa, Ue e Italia orano insieme S.Matteo

10 giugno 2009

Lo ammetto, mi era sempre sembrata saggezza popolare di grana un po’ grossa, quella per cui Matteo l’evangelista - alias Levi “il pubblicano” - viene da duemila anni considerato protettore insieme degli esattori fiscali e dei banchieri. All’epoca, gli ebrei osservanti disprezzavano chi raccoglieva le tasse per conto del regime fantoccio sostenuto dagli occupanti romani. Versavano un anticipo a Roma, e poi si rivalevano prestando denaro a usura, si diceva ai loro tempi. Ma l’accostamento al banchiere diceva solo che nei secoli successivi - allora come in seguito, fino ai nostri tempi - l’opinione comune aveva continuato a considerare chi esercita il credito non meno arbitrario e vessatore dell’agente delle tasse.

Ora però, si capisce meglio che la fede popolare - capita spesso, assai più di quanto credano scettici e volterriani, secondo me - coglie nel segno. Nel senso che stiamo qui a imbrattar carta e occupare internet da un anno e più sulla crisi generata da un modello sbagliato e rischioso di intermediazione finanziaria, consentito e generato da scelte sbagliate della politica monetaria come da scelte sbagliate del legislatore e dei regolatori americani. Riempiamo volumi e convegni della necessità di una nuova svolta regolatoria, che impedisca ciò che in passato la regolazione aveva consentito. Ma si rivelano quasi tutte chiacchiere e distintivo, alla prova dei fatti che sono poi l’unica cosa a contare davvero. Allineo quattro novità appena maturate negli Usa come in Europa. Negli States, l’amministrazione Obama ha rinunciato al tanto sbandierato progetto di accentrare in una super Fed i poteri ispettivi sugli intermediari finanziari si qui divisi tra quattro regolatori diversi, a livello federale. All’Ecofin, il progetto di una vigilanza comune sui maggiori intermediari cross border continentali non ha ottenuto il consenso necessario, ieri. La Germania, cioè il Paese nel quale gli attivi bancari restano più tossici nel nostro continente, continua a difendere la linea per la quale nessuno ha titolo per condurre stress test agli istituti di credito tedeschi con risultati “pubblici”.   Lo Iasb, per parte sua, ha appena respinto l’appello a far presto, quanto  a nuovi criteri contabili e patrimoniali condivisi: se ne parla, se va bene, a fine anno, di conseguenza per il momento ogni Paese europeo concede alle banche di agire diversamente. E dire che il deleveraging bancario tra passività e capitale in Europa si sta sgonfiando assai meno rapidamente che negli Usa: vedi questa tabella tratta dall’ultima analisi comparata delle maggiori banche Usa ed Ue, a cura di R&S Mediobanca.

Negli States come in Europa la politica scommette sul fatto che, per scongiurare ogni residua paura sulla stabilità dell’intermediazione finanziaria, tanto vale a questo punto dire che tutto il necessario è stato già fatto. Dunque, nella sostanza bisogna “coprire” le banche senza più far polemica. Chi mi conosce, sa che ho sempre pensato che Larry Summers - l’artefice delle scelte regolatorie  sbagliate a metà anni 90 che hanno concorso a portarci alla crisi - non era cambiato, ma avrebbe semplicemente adattato ai nuovi tempi la sua funzione di ambasciatore dei grandi istituti presso una politica “prigioniera”, oltre che sprovvista dei fondamentali in materia.  Che avvenga anche in Germania, dove il sistema bancario è pubblico per due pilastri su tre, non sorprende. Che siamo invece arrivati al punto che avvenga anche nell’Italia del centrodestra, verbalmente tanto polemica verso le banche, un po’ sì. Ieri, al congresso dell’Acri, il professor Bazoli ha impartito la sua benedizione a Tremonti. E questi, seppellita la sua ascia di guerra in nome del fatto che occorre preservare il pieno sostegno delle fondazioni alla CDP riviando loro di tre anni la prevista conversione di obbligazioni ibride in azioni con la quale oggi avrebbero perso, ha attaccato non più le banche ma le partite Iva, che sono a suo giudizio troppe e nascondono evasione fiscale.

Banchieri ed esattori delle tasse, uniti oggi nella grande battaglia di reperimento risorse per rendere sostenibili le proprie passività. C’è chi lo fa con le obbligazioni bancarie piazzate allo sportello come in nessun altro paese Ocse, c’è chi lo fa con le obbligazioni della Repubblica. Il fine è eguale, il santo patrono pure. Non chiedetevi chi finanzierà negli Usa lo sforzo gigantesco per rendere Fiat-Chrysler pubblica profittevole, visto che di capitale fresco privato non ce n’è neanche da parte italiana. Ci penseranno le banche sottoposte al lending coatto del Tarp, obbedendo al Tesoro.

Oscar Giannino Senza categoria , , , , ,

Stress test, scusate ma non ci siamo

7 maggio 2009

Da settimane, mi chiedevo se fossi io ipercritico come sempre, a pensare un gran male degli stress test avviati su impulso di Obama dai regolatori bancari americani sui 19 maggiori istituti nazionali, quelli con asset superiori ciascuno a 100 miliardi di dollari. Stamane ho letto l’editoriale del New York Times firmato dal segretario al Tesoro Tim Geithner, e prima ancora di quanto nel pomeriggio ha aggiunto Ben Benrnanke sulla necessità di adottare una svolta energica ne criteri di vigilanza sull’intermediazione finanziaria Usa - a quando proposte concrete, però? sono mesi che si susseguono solo annunci di principio - mi son deciso a scrivervi perché son così critico. Meglio mettere nero su bianco prima che, tra poche ore, vengano annunciati in dettaglio i risultati. Anche perché così mi assumo il rischio preventivo, di affermare che se le ricapitalizzazioni complessive considerate necessarie fossero di un ordine inferiore ai 250 miliardi di dollari, allora saremmo davvero in presenza di un’operazione poco più che propagandistica, della quale conta più lo scopo di rianimare corsi e mercati, che la presunta “pulizia una volta per tutte”.
Sintetizzo considerazioni che necessiterebbero di ben altro approfondimento tecnico: ma è anche per assecondare la giusta generale richiesta di scrivere post meno chilometrici. Primo: 180 ispettori dei quattro diversi regolatori federali competenti hanno avuto 8 settimane per vagliare balance sheets di 19 istituti. Non ci prendiamo per i fondelli: chiunque abbia un’ìdea sia pur vaga dell’ammontare di operazioni e del tempo necessario a vagliare gli asset patrimoniali e impieghi di portafoglio di una banca di quella taglia sa che, in otto settimane, 180 ispettori avrebbero potuto compiere un esame di profondità e accuratezza accettabile solo per due o tre, di quelle banche. Secondo: il criterio seguito. Infatti, in NESSUNA grande banca è stata compiuta l’equivalente di un’ispezione ordinaria o straordinaria di vigilanza di quelle disposte dalla nostra Bankitalia. Si sono seguiti i modelli VAR elaborati da ciascuna banca, e gli ispettori hanno effettuato verifiche del total capital e common stock (secondo criteri di tangible equity) commisurato a worst case dei mercati, NON alla seria riponderazione per esempio del rischio di controparte almeno di ciascuna classe di asset, se proprio non vogliamo dire di ciascun asset detenuto. Dopo un anno di chiacchiere sui derivati, mi sembra pazzesco. Terzo: la negoziazione. Come non bastasse, da quel poco di ufficiale che è trapelato (l’ordinanza dispositiva iniziale della Fed in materia di stress test è stato uno dei peggiori esempi di mancanza di trasparenza e dettaglio che abbia mai visto, fin dall’inizio era evidente che lo scopo era quello fiduciario più che di pulizia), ciascuna banca è stata posta in condizioni di negoziare con Tesoro e regolatori le risultanze finali dell’esame, nella più assoluta riservatezza (anche se non sono disposto a scommettere che non assisteremo nei prossimi giorni a massicce spifferate ai media).
Conclusione, allo stato degli atti e prima di conoscere in dettaglio i risultati. Mi sembra che abbia ragione Alex Pollock dell’AEI: se si tiene conto che anche i mutui subprime ancora in portafoglio hanno ottenuto un rating positivo negli stress test, è evidente che l’obiettivo era solo quello di rialimentare fiducia. Questi stress test bancari non sostituiscono affatto una vigilanza ordinaria esercitata su ben più adeguati (e anticiclici) criteri di capital adequacy, perché solo la vigilanza ordinaria può computare il variare degli andamenti di mercato e degli asset, mentre qui ci si spaccerà per mesi se non per anni che gli stress test hanno definitivamente risolto il problema. Solo che per una più adeguata vigilanza ordinaria bisognerebbe appunto che politica e regolatori Usa uscissero dai generici proclami di principio (tipo quello di Bernanke di oggi), e mettessero in consultazione nella business community prima dell’adozione nuove tavole della legge su come calcolare il patrimonio di vigilanza e come uscire dal VAR “autogestito”, tipico del sistema bancario Usa. Sbaglierò, ma penso che il sistema delle grandi banche americane pensi ormai più che altro a esercitare il potere di mercato che gli deriva dal fatto che alcuni grandi concorrenti sono spariti o hanno cambiato mestiere. E se gli aumenti di capitale privato di cui leggeremo l’annuncio stanotte nei prossimi sei mesi dovessero andare inoptati, e lo Stato entrare nel capitale delle banche convertendo in azioni ordinarie i prestiti convertibili pubblici, andremmo di male in peggio.

Oscar Giannino Senza categoria , , , ,

I politici chissà, ma almeno i banchieri centrali ricordino la Thatcher

4 maggio 2009

Non prevedo facili ripescaggi a breve da parte di politici italiani, europei ed americani dell’eredità della Baronessa Thatcher, e di Ronnie Reagan che insieme a lei compone il binomio di riferimento dei migliori statisti del secolo scorso. L’ebbrezza da panico economico per il ritorno in grande stile dello Stato tende a far dimenticare a tutti che il ruolo pubblico di stabilizzatore del ciclo deve essere intenso quanto si vuole, ma dichiaratamente reversibile con tempi e procedure certe, annunciate all’atto stesso in cui si adottano le misure di intervento straordinario: esattamente ciò che manca in ogni intervento pubblico deliberato al mondo da ottobre 2008 a oggi, praticamente a qualunque latitudine. Pretenderlo dalla sinistra sarebbe forse troppo. Ma il problema è la destra, che confonde quasi in ogni Paese la soddisfazione per il “ritorno della politica” rispetto ai grandi interessi finanziari transnazionali, con un esanime tuffo nel neostatalismo, identificato come unico ambito residuo di una legittimità misurata alle urne ed esercitata con delega discrezionale, spezzando la maldigerita influenza del precedente cosiddetto Washington Consensus degli oggi tanto famigerati “mercati”.
Chi la pensa come noi deve tenere sempre distinta la politica - il pieno rispetto della legittima sovranità esercitata al voto e conquistata con programmi e soprattutto azioni concrete volte alla crescita e alla miglior libera soddisfazione della persona - dall’identificazione della politica nello Stato, nei suoi apparati e nelle sue regolamentazioni. La crisi economica non mi fa cambiare idea. Non mollerò mai la convinzione che in un Paese come il nostro - per la sua tipologia di piccola impresa diffusa e per la percentuale elevatissima di lavoro autonomo sul totale degli occupati - tale distinzione possa costituire la più naturale piattaforma di riferimento per un’azione politica non solo schiettamente liberale e liberista, ma soprattutto votata al successo. Non abbiamo avuto la Magna Charta nel XIII secolo né alcuna Glorious Revolution nel XVII. Lo Stato unitario è prodotto tardivo e recente, subito squassato dall’insuccesso della minoritaria classe dirigente liberale, a fronte dell’immissione delle masse nell’arengo politico veicolata da cattolici e socialisti, mentre fascismo e comunismo praticavano e teorizzavano lo Stato come unico attore della necessitata accelerazione di una storia “olista”. Malgrado tutto, però, le condizioni dell’Italia disegnano un Paese i cui géni restano potentemente antistatalisti: e questo è un bene, checché affermasse la cultura politica eticista nella quale mi sono formato in giovinezza, all’insegna del lamalfiano e amendoliano (nel senso di Giovanni, naturalmente, non del figlio Giorgio) “questa Italia non ci piace”.
Se le basi concrete di policy per un rilancio personalista e liberale oggi appaiono eclissate in Italia e nell’Occidente, ciò malgrado dovremo insistere. E insisteremo, per tutto il tempo necessario: per quanto mi riguarda, questo è il miglior tributo da rendere al trentennale dell’ascesa a Downing Street di Lady Thatcher.
Ma se tra i politici Bismarck vince su Adam Smith, almeno tra i regolatori indipendenti, assai meno soggetti se non - auspicabilmente - del tutto svincolati dai timori degli elettorati, dovrebbe essere praticata qualche migliore ritenzione delle lezioni del passato. Faccio un esempio concreto. Per noi fa testo la Storia monetaria degli Stati Uniti di Milton Friedman e Anna Schwartz. Ma a differenza dei cattivi neokeynesiani non ne abbiamo tratto solo la lezione che il regolatore monetario e dell’intermediazione finanziaria deve mettere in atto l’intera panoplia a sua disposizione, per evitare il collasso bancario e il credit crunch. Ricordiamo bene anche che occorre avere le idee chiare su che cosa in concreto sia, il fantasma tanto temuto della deflazione generale, rispetto invece a riallineamenti di prezzi degli asset che costituiscono autocorrezioni salutari, rispetto a picchi non sorretti da fondamentali.
Tradotto: i neostatalisti inneggiano oggi alla massa monetaria raddoppiata ogni semestre negli Usa mentre il tasso d’interesse è negativo, e attendono tra pochi giorni esiti degli annunciati stress test nelle 19 maggiori banche Usa che non solo non ne decretino la fine di alcuna, ma auspicabilmente anche che lo Stato entri nel capitale di parecchie di loro a cominciare da Bofa. Noi invece, non dimentichi thatcheriani, pensiamo che proprio l’uscita dall’inflazione fu strumento essenziale per debellare la stagflazione. Negli States ci pensò Paul Volcker, che alla Fed sotto Reagan la piantò di dar retta alle lamentazioni sugli effetti di maggior disoccupazione di una stretta monetaria dopo anni di politiche monetarie laschissime,e lasciò lievitare i tassi fino al 21,5%: ma vinse, perché aveva ragione.
Direte voi: ma che cosa c’entra questa reminiscenza storica, caro il mio sprovveduto liberista d’accatto, visto che oggi il main goal del mondo intero è uscire dalla crisi, mentre all’inflazione ci penseremo comodamente dopo, una volta manifestatasi la ripresa? E senza dimenticare che un po’ d’inflazione forse alla fine farà pure bene, perché contribuirà a diminuire il valore reale delle perdite accumulate? Risposta: proprio perché la storia insegna, se la si pensa come noi bisognerebbe chiedere che i regolatori monetari e bancari facessero sfoggio di indipendenza dalla politica. Cioè procedessero pure, se lo ritengono, ad annegare di liquidità i mercati e a tenere su anche per i capelli se necessario il balance sheet bancario. Ma accompagnando ciascuna delle decisioni in materia a un esplicito timing in cui si procederà a decisioni di segno esattamente contrario.
La ripresa dichiarata in anticipo dei tassi anti-inflazione doterebbe il governo dell’intera curva temporale dei rendimenti finanziari di strumenti mai sperimentati prima, più che mai necessari oggi proprio perché la crisi ha bisogno di interventi straordinari non solo “in entrata”, ma anche “in uscita”, se non vogliamo dimenticarci dei guai stagflattivi che rappresentarono per decenni l’eredità dei tardivi interventi di stabilizzazione che posero termine alla Grande Depressione (secondo conflitto mondiale in primis).
Idem dicasi per gli ingressi straordinari dello Stato in banche e imprese. Senza uscite stabilite sin dall’inizio, non solo si pongono le basi per nuove IRI: più semplicemente, al di là della bontà delle future decisioni di manager promossi per designazione o gradimento pubblico-sindacale, si pongono soprattutto le basi per un aumento asintotico della tassazione pubblica, per sostenere i costi crescenti di tanta subitanea espansione della sfera statale. L’esatto opposto di ciò che serve nel medio termine, per riprendere una crescita sana e il più possibile aperta alla libera scelta di milioni e milioni di consumatori e imprenditori, risparmiatori e investitori.
Come dite? Che negli Usa proprio le statistiche ufficiali dicono che la deflazione c’è, e dunque la richiesta è capziosa? Non sono d’accordo. Ha ragione Allan Meltzer. La deflazione non va misurata dagli indici dei prezzi al consumo, da quelli immobiliari e tanto meno da quelli alla produzione (sono col segno meno, negli States). Se si assume il deflatore del Gdp, negli Usa su scala annuale a fine marzo segnava un più 2,3%. La deflazione non c’è, signori miei. Ma anche se ci fosse, il ragionamento resta e così le richieste, da avanzare a politici e regolatori se non vogliamo venir meno a ciò che di buono è venuto al mondo - tanto! - dalla nostra scuola di pensiero. Più che da qualunque altra, nella storia del mondo.

Oscar Giannino Senza categoria , , , ,

Red Obama e il rischio bancario

2 maggio 2009

Sull’auto Obama può fare “il rosso”, perché da sempre la storia dei tre grandi produttori automobilistici Usa è fatta di grandi collusioni tra politica e sindacato. In Chrysler, paradossalmente, attribuire la maggioranza ai sindacati poteva essere una mossa favorita dal fatto che Cerberus, l’azionista di maggioranza sino a ieri, aveva fatto efficienza con grande energia negli ultimi tre anni. Al punto tale che il fondo si è trovato nella singolare condizione di aver pagato pegno, per la troppo puntuale osservanza degli impegni di rientro del debito: avremmo fatto meglio a non restituire miliardi di dollari ai creditori negli ultimi due anni, è stata l’amara battuta finale venuta da Cerberus prima di mandare le carte al Tribunale per il chapter 11. Il che la dice lunga su quali norme prendano automaticamente piede: quando Stato e sindacati la fanno da padrone, ai creditori privati non resta che prendere atto che si entra in una fase di vera e propria sospensione del codice civile. I tre fondi indicati all’esecrazione mondiale da Obama - sui quali è già intervenuto Alberto Mingardi stamane - hanno il torto insopportabile di pretendere che appunto valga il codice civile americano, il quale assegna ai creditori privati la garanzia degli asset societari, e dunque loro non vedono il perché debbano accontentarsi di 29 cents per dollaro prestato, quando il sindacato che dal codice civile non ha garanzie “reali” si vede locupletato del 55% della società… Un errore imperdonabile, credere che in tempi di revanscismo statal-socialista valgano le garanzie ordinarie di legge a proprietari e prestatori…
Già in General Motors, dalla prossima settimana, non si sa quanto un eventuale analogo schema possa funzionare. Perché GM, a differenza di Chyrsler, il più dell’efficienza la deve fare ancora tutta. Lo stesso zar governativo dell’auto, Steve Rattner, ha dovuto ammettere che non bastano affatto, gli impegni di chiudere un terzo degli stabilimenti Usa, di liberarsi di una ventina di migliaia di dipendenti e di più di un terzo dei concessionari. Vedremo che cosa ne salterà fuori. Intanto la Germania si è subito accodata, e il governo Merkel ha reso noto di aver stilato la bellezza di “14 criteri” in base ai quali aggiudicare la proprietà della Opel. Come se in tutto e per tutto si trattasse, appunto, di un’azienda pubblica…
Ma prima di capire quanto “rossa” sarà la soluzione per GM, il rischio è di un incidente molto serio per Obama, gli Usa e i mondo intero. L’ovattata atmosfera dei mercati chiusi per il primo maggio e il lungo week end è stata attraversata da sinistri bagliori che provengono dal cuore malato stesso della crisi: le grandi banche Usa. A Washington si litiga forsennatamente, e il riserbo della Fed e del Tesoro non tiene più. I risultati dei tanto attesi stress test per i primi 19 gruppi bancari Usa, quelli che detengono ciascuno asset superiori a 100 bn di dollari, non verranno resi noti a metà settimana prossima ma - forse - dopo la chiusura settimanale di venerdì. Le banche hanno idee molto diverse dal Tesoro, in merito al rafforzamento “coatto” del proprio patrimonio stimato come necessario dagli ispettori pubblici. Germinano indiscrezioni su una Citigroup bisognosa di altri 10 miliardi di dollari, su Bofa chiamata a trasformare in azioni ordinarie i 45 miliardi di titoli ibridi acquisiti dal pubblico, su Wells Fargo finora esente da cattive dicerie, e su parecchi altri istituti. La settimana di Borsa rischia di essere molto ballerina, su queste voci di profondo dissenso in merito a come riparare proprio le falle che hanno fatto imbarcare tanta acqua all’economia mondiale. Perché se sull’auto Obama può fare il Rosso, sinora l’amministrazione con Summers e Geithner si era ingegnata di avere ottimi rapporti con i vertici bancari privati Usa. Di qui lo schema di riavvio delle cartolarizzazioni dei titoli tossici fortemente favorevole - troppo - agli auctioners privati (la promessa per loro è di mettere soli 6 cents a fronte di un dollaro di nominale, e tutto quel che viene sopra quella linea si spartisce a metà col Tesoro, che per parte sua garantisce il resto e si accolla da solo tutte le eventuali perdite). Ma prima di arrivare alle aste “tossiche” bisogna appunto passare per i bollettini medici ufficiali dello stato patrimoniale delle 19 banche. E se in alcune tra le maggiori di esse Obama pensa di socialisteggiare come nell’auto, è pressoché obbligatorio prevedere pessime reazioni dei mercati. Speriamo che a Washington ragionino, e il socialismo si fermi ai bricks and mortars che più gli appartiene storicamente.

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Sto con Kobayashi, contro Krugman

29 aprile 2009

Ora che i cento giorni del mitico Obama sono alle spalle e non c’è giornale Usa che non noti come sia troppo presto per capire quale sia davvero il segno della presidenza Usa, a parte una massiccia reflazione davvero senza precedenti e un appeasement generale in politica estera che è riuscito a rilanciare insieme Corea del Nord, Iran, pirati somali e chi più ne ha più ne metta (ora capisco meglio gli amici che in Israele hanno cercato di “pararsi il culo” votando per Lieberman e salutando l’alleanza con Bibi, mentre io avrei forse un po’ ingenuamente votato Kadima…), viene il momento di dichiarare un primo tassello “identitario”, da sottoporre all’attenzione e al commento di tutti voi nostri iniziali lettori. Come la pensate, nella polemica a puntate che sta opponendo il Nobel Paul Krugman a Keiichiro Kobayashi, senior fellow al Research Institute of Economy, Trade and Industry nonché abituale alimentatore del sito voxeu.org? La domanda non è spocchiosa né di quelle che lasciano il tempo che trovano. Perché schierarsi nella controversia significa in realtà esprimere il giudizio più pregnante, tra quelli attualmente possibili, sull’amministrazione Obama. Per gli interessati ad approfondire, qui trovate l’ultima replica alla precedente di Krugman. Per chi si fosse perso le precedenti puntate, in sintesi Krugman difende a spada tratta la spesa pubblica aggiuntiva a tonnellate senza stare troppo a cavillare sul 75% che è destinato a pork barrel, anzi la critica perché ancora insufficiente. Kobayashi ha scritto per primo e continua a ripetere con nuovi argomenti che dieci anni di indebitamento pubblico a go go non risollevarono il Giappone negli anni Novanta, e che i primi segni di ripresa reale arrivarono solo nel 2003 quando infine le autorità si decisero a far fallire qualche banca dopo aver scrutinato dall’interno la qualità degli asset di tutti i maggiori istituti, invece di continuare a coprirne asintoticamente il balance sheet enfiato. Krugman replica che è falso, perché dal 2003 la ripresa giapponese aveva a che fare con la ripresa dell’export trainata dai consumi Usa e non dalla pulizia degli asset tossici. E Kobayashi gli controreplica che proprio quella ripresa dell’export fu resa possibile in realtà da lending bancario che tornava a poter incoraggiare i fondamentali. Che il dibattito non sia affatto teorico, si comprende intuitivamente dal fatto che, per esempio, Martin Feldstein sia a favore degli stress test, delle maxi garanzie pubbliche alle banche e anche della nazionalizzazione di qualcuna a tempo, se necessario, accompagnata dall’aggregazione o dal fallimento di quelle più “tossiche”, ma sia risolutamente contrario al più delle spese pubbliche varate dal Congresso allo scopo non di uscire dalla crisi, ma di realizzare il maggior inspessimento dell’intermediazione pubblica dai tempi della Great Society johnsoniana. Nei primi giorni di maggio capiremo meglio tutti, che cosa Tesoro e Fed ci riservano dopo i risultati degli stress test. Ma la tesi krugmaniana, se abbracciata fino agli estremi, implica per esempio che la temporanea conversione in equity dei k401 dei dipendenti Usa dell’auto in realtà non sarà temporanea affatto, perché prelude invece a una previdenza pubblica di un qualsivoglia diverso tipo ma comunque “europea”. Roba da far cambiare identità profonda all’America, ma partendo dal presupposto che gli americani davvero lo vogliano come modello di società, anche un domani che i consumi riprendessero, cosa che non sono affatto disposto a scommettere prima ancora di non augurarmelo dal profondo del cuore. In definitiva, se plaudo al fatto che la sventurata storia italica ha messo il nostro Paese nelle condizioni attuali di obbligare Tremonti a spendere il minimo di risorse reali tra tutti i Paesi Ocse, è proprio perché penso che Krugman abbia torto e Kobayashi ragione. Quanto poi agli stress test, e a che cosa far seguire loro, ne parleremo in profondità. Intanto vi segnalo un paper che mi è sembrato a oggi il più ricco di analisi comparata, intorno alle caratteristiche dei regolatori monetari e bancari che in questi mesi fanno cose che noi umani mai prima avevamo visto. Si intitola Governing the Governors: A Clinical Study of Central Banks, è di Lars Frisell, Kasper Roszbach e Giancarlo Spagnolo, è un quaderno di studi della Banca Centrale svedese e lo scaricate gratis qui.

Oscar Giannino Senza categoria, liberismo, mercato , , , ,