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Posts Tagged ‘crisi finanziaria’

La ballata della crisi

26 luglio 2009

All’Istituto Bruno Leoni per un seminario, Arnold Kling ha iniziato il suo intervento con una buffa quanto istruttiva “canzoncina”. Ai versi sarebbe abbinato qualche passo di danza, ma per vostra fortuna mi limito ad incollare qua sotto le parole. Non è stato solo un modo divertente per cominciare un discorso. E’ una canzoncina molto istruttiva:

The financial crisis will produce a battle
And that is, “What will be the narrative?”
They will tell you that the failure was all moral
But I say it was mostly cognitive

The loans a bank regrets are what I call bad bets.
They made a bigger mess with leverage to excess.
And when they spread their woes they fell like dominoes.
They spoiled each others’ fun with new-style banking runs.

What made it all go wrong?
Just listen to my song.

Capital regulations were sure arbitraged
Bank protection against risk was just a mirage
With securitization, requirements did fall.
With a SIV a bank needed no equity at all.

Capital regulations were unsafe and unsound.
Their perverse implications brought the whole system down.

Alberto Mingardi liberismo , ,

Conseguenze inintenzionali del populismo

20 luglio 2009

Da almeno dieci anni la politica del governo USA sulle case è follemente populista: dare a tutti una casa a qualsiasi costo, che sia economico, come rischiare di distruggere il sistema finanziario, o psicologico, come scrivere slogan propagandistici ridicoli come in “Closing the gap. A guide to equal opportunity lending”, il manifesto del populismo immobiliare USA, pubblicato con la complicità della Federal Reserve di Boston.

Nonostante ciò, se i privilegi legali delle due government sponsored enterprises, Fannie Mae e Freddie Mac, o gli sgravi fiscali sui profitti immobiliari, o il supporto monetario diretto al mercato immobiliare degli ultimi due anni di crisi hanno avuto effetti devastanti sull’economia americana, soprattutto sulla sua stabilità finanziaria, potrebbe venire il dubbio che comunque qualche effetto sociale positivo ci sia pur stato.

Il boom partito alla metà degli anni ‘90 ha provocato un aumento della proprietà immobiliare tra gli americani: se prima il 64% degli americani aveva una casa di proprietà, poco prima della crisi era salito al 69.0%. Ammesso (e non concesso, data la mobilità lavorativa degli americani) che questo sia un fatto di per sé positivo, c’è da dire che la crisi ha già fatto scendere questo tasso al 67.3% (2009Q1), e considerando che gli interventi del Tesoro e della Fed hanno rallentato il naturale aggiustamento dell’economia, i fondamentali economici sono sicuramente ben peggiori di quanto i numeri facciano pensare.

Non sono un fan delle analisi costi-benefici, perché sono necessariamente value-ridden e tendono sempre a dimenticare qualcosa (il mondo è complesso e l’informazione scarseggia). In ogni caso, un aumento del 5% (ora 3%) dell’homeownership è costato moltissimo: la creazione di un sistema finanziario instabile, un indebitamento estero da repubblica delle banane, il dirottamento dei pochi fondi disponibili dall’industria verso servizi finanziari dal dubbio valore reale e verso un settore immobiliare evidentemente ipertrofico da anni (con conseguente depauperamento del settore secondario, o sua esportazione all’estero), un aumento incredibile dell’indebitamento dei privati, e un’improvvisa - anche se prevedibilissima - contrazione dello stato patrimoniale degli americani, che si erge minacciosa come una spada di Damocle sul futuro dei baby boomers pensionandi.

I dati sono dell’US Census Bureau. Viene da chiedersi, in pratica, se l’unico effetto positivo del boom immobiliare indotto dai governi USA non sia che un fenomeno temporaneo, visto che presto o tardi i debiti andranno pagati, e quindi qualcuno perderà la casa acquistata rovinandosi finanziariamente, e a costo di enormi distorsioni macroeconomiche.

Pietro Monsurrò Senza categoria , , , ,

Aneddoti della “banca più stupida” di Germania

1 luglio 2009

Frank Schäffler è un parlamentare libertario che milita nelle file dell’FDP. Da tempo denuncia i collateralismi tra politica ed economia entro le mura del gruppo bancario Kfw, istituto che grosso modo potremmo assimilare alla nostra Cassa depositi e prestiti e che funziona un po’ come la banca di fiducia del governo. Per prestiti alle imprese e opere di interesse pubblico, dal 1948 sino ai recenti pacchetti congiunturali del gennaio scorso ci ha sempre pensato questo ente ad erogare il credito necessario. Con una piccola e non trascurabile differenza: rispetto alle altre banche, il Kfw può concedere denaro a pioggia senza essere sottoposto al controllo della Bafin (la Consob tedesca), ma dipendendo solo dal Ministero delle Finanze, ossia dalla politica. Ecco perché chi l’ha guidata, oggi come in passato, era noto ai più per le sue conoscenze nella stanza dei bottoni che non per la sua esperienza nel mondo dell’impresa. Un nome su tutti, quello di Ingrid Matthäus-Maier (Spd), il cui curriculum non le avrebbe mai consentito di diventare presidente di un gruppo bancario privato, ma che le ha invece permesso di diventarlo in quello pubblico per eccellenza. Un sunto dei pasticci da lei combinati nel goffo salvataggio della controllata IKB lo potete leggere in questo bel contributo (in inglese) di Wolfgang Reuter per Der Spiegel. Ma l’apoteosi è stata raggiunta all’indomani del crac di Lehman Brothers, quando il Kfw le versò inavvertitamente la modica cifra di 320 milioni di euro. Di qui l’appellativo affibbiatole dai media di banca più stupida di Germania. Oggi accade però che i responsabili di quel grottesco trasferimento di denaro, licenziati in tronco, abbiano ottenuto dal tribunale del lavoro di Francoforte il diritto al pagamento dello stipendio fino alla scadenza del contratto nel 2013. Il Kfw dovrà perciò sobbarcarsi il peso di un ulteriore milione di euro per retribuire chi commise quell’errore a dir poco stravagante. Ma non eravamo entrati nella “nuova era” della “responsabilità”? Frau Merkel, se è lì, batta un colpo.

Giovanni Boggero mercato , , , , ,

Mercati efficienti e scuola austriaca

14 giugno 2009

Segnalazione telegrafica. Qui trovate un eccellente post di Mario Rizzo sui limiti dell’ipotesi dei mercati efficienti e la crisi. Non è solo un problema teorico affascinante, ma anche una questione che avrà implicazioni importanti, nel prosieguo del (per fortuna, difficile) dibattito internazionale sulle “nuove regole” che dovrebbero sortire da qualche pic-nic domenicale fra ministri del tesoro e regulators. Il post di Rizzo è sintetico ma cristallino e andrebbe letto e divulgato perché spiega bene come vi sia un’altra visione dei mercati, che cerca di comprenderli e vuole difenderli in omaggio non ad argomenti deterministici, ma piuttosto all’idea che, hayekianamente, la libertà serve proprio a far posto “all’imprevedibile e all’impredicibile”. Ovviamente il dibattito sta prendendo un’altra china, e fingere che questa prospettiva non esista serve per fare utilmente di ogni erba un fascio - come dimostra questa recensione dell’Economist del recente libro di Justin Fox, o se è per questo l’ormai tristemente famosa “testimonianza” di Greenspan al Congresso.

Alberto Mingardi liberismo , ,

Poche banche sono meglio di molte?

16 maggio 2009

Chi scrive fa parte del non ristretto club che pensa che, alla fin della fiera, l’Economist sia l’unico giornale al mondo che vale veramente la pena di leggere. La qualità del settimanale britannico è impressionante - sempre costante nel tempo, così come pure il “marchio di fabbrica” è inevitabilmente impresso negli articoli i più diversi. Lettura domenicale dell’uomo d’affari, l’Economist non delude mai. Neppure questa settimana: vi si trovano, fra le altre cose, una lettura del viaggio del Papa in Israele un po’ eccentrica rispetto al quadro fattone dai giornali italiani; un pezzo molto intelligente (sia pure non del tutto condivisibile) sul futuro del partito repubblicano e la sua scarsa capacità di fare autocritica; un pezzo su Intel molto bilanciato; un articolo veramente interessante, su come la corporate social responsibility stia “sopravvivendo” alla crisi. Un palinsesto di tutto rispetto, visto quello che va in onda, tutti gli altri giorni della settimana.

Il cuore del giornale è però l’inserto sul futuro del settore bancario. Ricco, interessantissimo. Ma nel quale stupisce un articolo sul Canada, Paese che è rimasto immune al contagio della crisi finanziaria americana. Stupisce perché la tesi è del tipo che non dispiacerebbe ai nostri banchieri (come ricordava Oscar Giannino scrivendo di alcune recenti “riflessioni” sulla crisi), e che sarebbe piaciuta, tantissimo, all’ex sommo sacerdote governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Cito:

Having a few banks that are clearly too big to fail has led to more stringent supervision, including imposing a maximum leverage ratio and a single regulatory regime for commercial and investment bankers. Laxer and more fragmented capital regimes allowed the balance-sheets of banks elsewhere to balloon

La questione del relativo successo del Canada vs gli Stati Uniti è più complessa, come lo stesso Economist riconosce (esaminando ad esempio il diverso trattamento fiscale dei mutui). Tuttavia, quella per cui un settore bancario “ingessato”, con poche banche “too big to fail” dichiaratamente tali, funzionerebbe meglio perché esse “chiamano” evidentemente vigilanza e regolazione, è una tesi molto forte. Mi sembra non sbagliata l’osservazione di Sceptik, nei commenti all’articolo sul blog del giornale:

Has anyone considered that an oligopoly concentrates more risk? Assuming they have an equal share of the loan market, a failure of one of them knocks out 20% of the home loan market.

Alberto Mingardi mercato , , , , ,

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