Archivio

Posts Tagged ‘crisi economica’

Cernobbio, che cosa attendersi

2 settembre 2009

Tradizionalmente, la tre giorni di Cernobbio nel primo fine settimana di settembre è l’occasione per dare il la alla ripresa del confronto tra gli attori della politica economica, imprese e sindacati. Mi limito a segnalare qui, come dati di partenza, l’aggiornamento ultimo effettuato da Barry Eichengreen e Kevin O’Rourke sul confronto tra l’attuale crisi mondiale e quella del 1929, in termini di produzione mondiale e dei maggiori paesi sia sviluppati sia emergenti, di andamento dei mercati finanziari e del commercio mondiale. In sintesi, la caduta del commercio mondiale è maggiora ora che allora, come prodotto la caduta è del tutto analoga, mentre i mercati finanziari mondiali hanno perso a oggi - malgrado il rally da inizio  marzo recentemente in via di attenuazione - molto ma molto più che nel ‘29. Se ci si ferma al mercato finanziario americano, lo S%P500 a parità di durata temporale della crisi sta più su oggi che nell’equivalente periodo post 29, ma la differenza - e il contesto complessivo del mercato USA - non è certo tale da poter far pensare a nessuno che davvero stia risorgendo il sole. Sono davvero curioso di vedere se a Cernobbio prevarrà l’ottimismo a sfida di questi dati incontestabili, o se al contrario la ripresa del confronto metterà al centro qualche grano di realismo. Nel qual caso, bisognerebbe pensare a qualche misura strutturale. Prosegui la lettura…

Oscar Giannino mercato , , ,

Conseguenze inintenzionali del populismo

20 luglio 2009

Da almeno dieci anni la politica del governo USA sulle case è follemente populista: dare a tutti una casa a qualsiasi costo, che sia economico, come rischiare di distruggere il sistema finanziario, o psicologico, come scrivere slogan propagandistici ridicoli come in “Closing the gap. A guide to equal opportunity lending”, il manifesto del populismo immobiliare USA, pubblicato con la complicità della Federal Reserve di Boston.

Nonostante ciò, se i privilegi legali delle due government sponsored enterprises, Fannie Mae e Freddie Mac, o gli sgravi fiscali sui profitti immobiliari, o il supporto monetario diretto al mercato immobiliare degli ultimi due anni di crisi hanno avuto effetti devastanti sull’economia americana, soprattutto sulla sua stabilità finanziaria, potrebbe venire il dubbio che comunque qualche effetto sociale positivo ci sia pur stato.

Il boom partito alla metà degli anni ‘90 ha provocato un aumento della proprietà immobiliare tra gli americani: se prima il 64% degli americani aveva una casa di proprietà, poco prima della crisi era salito al 69.0%. Ammesso (e non concesso, data la mobilità lavorativa degli americani) che questo sia un fatto di per sé positivo, c’è da dire che la crisi ha già fatto scendere questo tasso al 67.3% (2009Q1), e considerando che gli interventi del Tesoro e della Fed hanno rallentato il naturale aggiustamento dell’economia, i fondamentali economici sono sicuramente ben peggiori di quanto i numeri facciano pensare.

Non sono un fan delle analisi costi-benefici, perché sono necessariamente value-ridden e tendono sempre a dimenticare qualcosa (il mondo è complesso e l’informazione scarseggia). In ogni caso, un aumento del 5% (ora 3%) dell’homeownership è costato moltissimo: la creazione di un sistema finanziario instabile, un indebitamento estero da repubblica delle banane, il dirottamento dei pochi fondi disponibili dall’industria verso servizi finanziari dal dubbio valore reale e verso un settore immobiliare evidentemente ipertrofico da anni (con conseguente depauperamento del settore secondario, o sua esportazione all’estero), un aumento incredibile dell’indebitamento dei privati, e un’improvvisa - anche se prevedibilissima - contrazione dello stato patrimoniale degli americani, che si erge minacciosa come una spada di Damocle sul futuro dei baby boomers pensionandi.

I dati sono dell’US Census Bureau. Viene da chiedersi, in pratica, se l’unico effetto positivo del boom immobiliare indotto dai governi USA non sia che un fenomeno temporaneo, visto che presto o tardi i debiti andranno pagati, e quindi qualcuno perderà la casa acquistata rovinandosi finanziariamente, e a costo di enormi distorsioni macroeconomiche.

Pietro Monsurrò Senza categoria , , , ,

Gianfranco Fini nostro fratello?

16 giugno 2009

Personalmente, ho sempre avuto grandi perplessità sulla reale consistenza di Gianfranco Fini come uomo politico. Considerato uomo di rottura con il passato recente del centro-destra per l’enfasi sui temi etici che pone da un po’ di tempo in qua nei suoi interventi, alla ricerca di uno spazio  autonomo, non ho mai capito se la sua fosse tattica o strategie. E, ad ogni buon conto, Fini non si era per nulla allontanato dallo statalismo che è purtroppo moneta corrente nel centro-destra, economia sociale di mercato e quelle robe lì. Fino ad oggi. Perché con il suo intervento introduttivo alla relazione annuale dell’Antitrust, Fini dice cose che sono lontane anni luce dal pensiero comune sulla crisi.

Prosegui la lettura…

Alberto Mingardi liberismo , , ,

Ma siamo proprio sicuri che l’armonizzazione sia la strada migliore?

9 maggio 2009

Sul Sole 24 Ore, è in atto un interessante dibattito sulle cause della crisi e, quindi, anche sulle possibili soluzioni. Partecipano economisti di rilievo, come Guido Tabellini (che ha distillato un sobrio quadro d’insieme di quanto avvenuto negli scorsi mesi) e Nouriel Roubini (che ha auspicato un po’ di “ordinata” distruzione creatrice). Sono scampoli di una discussione ovviamente più ampia, che da mesi appassiona e coinvolge un numero sterminato di studiosi, e rispetto alla quale non verrà certo messa la parola “fine” nei prossimi mesi. Le cause della crisi resteranno, giustamente, materia di studio per gli anni a venire.

In questo quadro, vorrei segnalare un interessante (e leggibilissimo) paper di Arnold Kling per il Mercatus Center, The Unintended Consequences of International Bank Capital Standards. Il testo è sintetico ma accenna a più questioni, sottolinea per esempio il difetto pro-ciclico dei coefficienti patrimoniali imposti alle banche (Basilea I e II), ma ha soprattutto il merito di porre un tema che non è per nulla secondario.

La stragrande maggioranza di coloro che auspicano innovazioni normative, per rispondere alla crisi ed evitare che essa si ripeta, le vorrebbero internazionalmente concertate e globali quanto a spazio d’applicazione. Crisi globale, risposta globale: lo slogan dei governi è questo, ed ha senso politico. “Consorziarsi”, cartellizzarsi, serve per condividere i rischi connessi all’emanazione di nuove norme, e schermarsi contro l’eventuale effetto-boomerang che nuove norme inadeguate, o sbagliate, potrebbero provocare (se sbagliamo tutti, non sbaglia nessuno).

Non troppo diversamente, e questo è l’aspetto su cui Kling si ferma, si vorrebbe un’altra “armonizzazione”: fra veicoli finanziari diversi (banche e non-banche). L’ipotesi è abbracciata entusiasticamente dai più, ma è necessario riflettere su due aspetti. Primo, come spiega bene Kling, un sistema di regole pone in essere una struttura di incentivi. Servono gli stessi incentivi per realtà intrinsecamente diversissime, come una banca e un hedge fund? Secondo, anche il regolatore deve “imparare” dalla realtà - ed avere una pluralità di regimi regolatori consente di vedere man mano quali sono quelli che si comportano meglio, e perché. Nei vasti dibattito sul senso della crisi e come uscirne, l’ampiezza dell’ambito su cui insisteranno le nuove regole è troppo spesso in ombra. Invece, dal prevalere di un sistema pluralistico e basato sulla concorrenza istituzionale, rispetto ad uno fondato sul valore dell’armonizzazione, potrebbe dipendere non poco, di quanto è in gioco al tavolo dei regolatori.

Alberto Mingardi mercato , , , ,

Non siamo figli della Thatcher, ma del Ventennio

4 maggio 2009

Nonostante una certa cultura sembri talora dimenticarsene, la storiografia è per definizione revisionista. Non c’è quindi nulla di sorprendente nel fatto che ora, a vent’anni dal concludersi di quell’esperienza, vi sia chi punta il dito contro il decennio reaganiano e thatcheriano e contro l’antistatalismo che aveva animato quelle esperienze politiche. Ovviamente tali giudizi sono in larga misura la conseguenza di presupposti culturali: ed in questo senso non è difficile comprendere per quali ragioni i fautori di una società variamente tecnocratica non provino alcuna simpatia per la ventata di libertà che ha segnato il mondo anglosassone durante gli anni Ottanta.

Prosegui la lettura…

Carlo Lottieri liberismo , , , ,

Ancora grazie, signora Thatcher

4 maggio 2009

Il dibattito sulla crisi è a sprazzi molto concreto, ma spesso ideologico. Non è necessariamente un male. La crisi se non altro simola un ritoro alla discussione, costringe a ripensare ai fondamentali, porta ad interrogarsi su questioni che banali non sono. Sul Corriere di domenica, Massimo Mucchetti rendeva conto dell’articolo di Gideon Rachman sul Financial Times, cui oggi segue risposta di Maurice Saatchi. Mucchetti ha pochi dubbi nello scrivere:

Il 3 maggio 1979 Margaret Thatcher entrava al numero 10 di Downing Street dicendo: «Il popolo britannico ha chiuso con il socialismo. L’esperimento, durato 30 anni, è penosamente fallito e la gente è pronta a provare qualcos’altro». Il 3 maggio 2009, trent’anni dopo, potremmo dire: «Il thatcherismo, che fece ben presto scuola nell’America reaganiana e poi influenzò tutto il mondo, è anch’esso miseramente fallito».

Mi sembra difficile esser d’accordo con Mucchetti che “lo Stato sociale sia ancora un pensiero forte”, ma con lui e Rachman è impossibile non convenire su un punto: è cambiata la melodia di fondo. Chi misuri la realtà con l’impegnativo metro della libertà economica sa bene che non usciamo da trent’anni di “deregulation selvaggia”. Considerare Stati che confiscano, suppergiù, il cinquanta per cento del reddito prodotto da un individuo esempi di liberismo è semplicemente una follia. E neppure si può dire che le proposte liberiste negli anni scorsi abbiano avuto vita facile. E non solo da noi. Basti ricordare il misero fallimento di Bush, in una delle sue poche battaglie veramente condivisibili: quella per la trasformazione del sistema previdenziale americano. O l’andamento a zig-zag di Tony Blair, nei suoi tentativi di introdurre in Inghilterra misure di welfare-to-work. O i diversi tentativi di “ingessare” il mercato del controllo avutisi in tutto il mondo. O il fallimento della direttiva Bolkestein in Europa. O ancora la sostanziale impossibilità di modificare, nella direzione di una flat tax, il sistema fiscale americano - e come tacere la resistenza che nel nostro Paese c’era, anche da parte di commentatori che negli anni successivi hanno proposto agenda liberalizzanti, nei confronti della “flat tax annacquata” delle due aliquote berlusconiane prima maniera? E mentre fioccavano le prediche contro la globalizzazione, quanti passi in avanti reali sono stati fatti, dal 2001 in qua, nell’apertura degli scambi? In realtà, è dagli anni Novanta che non vi sono state, nel mondo, privatizzazioni di grande rilievo - ed è probailmente da fine anni Ottanta, come hanno sostenuto diversi autori (penso a Sam Peltzman e Stephen Littlechild), che il “ciclo” della deregolamentazione è sostanzialmente finito.

Detto tutto questo, ciò che era notevole negli anni scorsi era che, faticosamente, le idee di mercato sembravano essere destinate via via a guadagnare maggiore legittimità. Quella dei “fallimenti dello Stato” era una chiave di lettura accessibile anche a chi stava a sinistra. Le privatizzazioni avevano dato, dopotutto, buona prova di sé. L’onere della prova stava dalla parte di chi voleva aumentare le tasse. E l’inflazione sembrava un ricordo. Con la crisi, scrive Rachman, le idee di mercato (chiamiamole pure “thatcherismo” se serve) hanno perso il vantaggio che avevano, sul piano etico. L’espressione thatcheriana “l’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare l’anima” può sembrare sinistra, ma rappresentava una sorta di “ritorno all’età vittoriana”, un’enfasi sulla voglia di fare, sul self help (aiutati che il ciel t’aiuta) come più efficace che guadagnarsi un posto alla mensa pubblica. Insomma, la signora Thatcher voleva dire che l’economia di mercato “costringe” a prendersi le proprie responsabilità, e questa è una cosa buona per la società nel suo complesso.

Si potrebbe dire che “responsabilità” è una parola pericolosa, che è facile svuotarla di significato. Tant’é che oggi si esalta la “responsabilità” di attori collettivi (le imprese, le comunità, lo Stato) per levarne il peso agli individui, ma questo è un altro discorso. E’ invece interessante una osservazione di Rachman, che Mucchetti non recepisce nel suo articolo. La differenza fra il 3 maggio del ‘79 e il 3 maggio del ‘09, scrive l’editorialista dell’FT, è che piacesse o meno la Iron Lady arriva a Downing Street con una agenda, dei principi, un capitale di idee da mettere a frutto. Oggi invece i leader politici “combattono la crisi con qualsiasi strumento abbiano a disposizione”. Se ne può esaltare il pragmatismo, ma questo pragmatismo è sterile, non è in grado di elaborare “una visione alternativa” di lunga gittata, scrive Rachman, a meno di chiudere gli occhi e immaginare che il cantiere dello Stato sociale non abbia prodotto, come invece ha prodotto, un edificio pericolante.

Sarebbe ottimistico dire “tina”, there is no alternative. Ma proprio perché il pragmatismo autointeressato della classe politica è destinato a mostrare sempre più evidenti contraddizioni, questo non è il momento di smettere la coerenza come un abito usurato.

Alberto Mingardi liberismo , , , ,

Dopo vent’anni in Germania è ancora Ovest contro Est

3 maggio 2009

INSM Regionalranking 2009Nelle scorse settimane il think tank tedesco Initiative Neue Soziale Marktwirtschaft, in collaborazione con l’istituto economico IW di Colonia, ha pubblicato l’indice annuale sul grado di benessere e sviluppo economico facente capo a ciascuno dei 409 distretti della Repubblica federale. L’analisi è stata condotta in maniera piuttosto accurata, prendendo in considerazione trentanove indicatori diversi- tra i quali attrattività del mercato del lavoro, tasso di disoccupazione, potere d’acquisto, produttività, costo del lavoro, infrastrutture, capitale umano e stato delle finanze pubbliche. Ne emerge un quadro (consultabile “graficamente” qui) che non si presta certo ad ambigue interpretazioni: città come Monaco, Stoccarda e Francoforte sul Meno rimangono, con i loro sobborghi, il traino economico del paese. I cosiddetti nuovi Bundesländer, i cui confini sono stati tracciati a seguito della riunificazione del 1990, continuano ad arrancare, se è vero che gli ultimi dieci posti del ranking sono tutti occupati da distretti dell’ex Germania Est, area nella quale il tasso di disoccupazione rimane tutt’ora doppio rispetto a quello occidentale. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà: il sud-ovest della Germania bilancia ancora oggi gli scompensi dovuti ad un amalgama malriuscito. Nel corso di un suo recente intervento presso Biennale Democrazia, Hans Vorländer, politologo dell’Università di Dresda, ha ricordato molto bene come  l’ex repubblica democratica abbia in effetti tentato di attutire i rigori e le difficoltà derivanti dalla riunificazione, adagiandosi comodamente sulle spalle di un altro Sozialstaat - quello della Germania federale- e rinviando così l’appuntamento con il libero mercato e il capitalismo. Certo, come gli stessi curatori dello studio non mancano di rimarcare, anche ad Est qualcosa è cambiato e la cortina comincia lentamente a farsi più sottile. Dal 2000 ad oggi si nota un incoraggiante progresso di certe aree (evidenziate in blu, pagina 12) un tempo depresse, in particolare nel Brandeburgo, in Sassonia (il cui sistema scolastico primario è stato recentemente ritenuto il migliore dell’intera Germania) e in Turingia. Lipsia, ad esempio, città da cui nel 1989 ebbero inizio i moti insurrezionali contro il regime della DDR, è tornata ad essere un centro fieristico internazionale di enorme prestigio; Jena, giunta prima nella classifica limitata all’Est, ha una delle università migliori della Repubblica federale e le sue industrie tecnologiche sono tornate a fiorire. Infine Dresda ha ormai una vasta e dinamica rete di piccole e medie imprese. A questo iniziale, ma ancora debole riscatto dell’Est, si è d’altra parte accompagnato un relativo “declino”- si parva licet- di certe altre zone, come quelle intorno ad Hannover, a Colonia e alla stessa Francoforte sul Meno. Solo la Baviera e alcune parti dell’Assia e della Renania Palatinato sembrano aver tenuto il passo. Ora la crisi (come evidenziato in quest’ultimo grafico) minaccia di compromettere ulteriormente la stabilità economica degli agglomerati più produttivi dell’Ovest, mentre sembra non esporre l’Est, assai meno attivo nel campo dell’export, ad un rischio di tracollo. La povertà, si potrebbe dire, protegge l’Est. Assai magra consolazione.

Giovanni Boggero liberismo, welfare , , , , , , , , , ,

Paradisi fiscali sotto torchio

18 aprile 2009

Se anche nell’odierno bailamme finanziario vale l’assunto di Carl Schmitt secondo cui è “sovrano chi decide sullo stato di eccezione”, allora si spiega con una certa facilità il giro di vite sui paradisi fiscali imposto dai grandi della Terra. Nessuno intende mettere in dubbio che vi siano delle ragioni concrete alla base delle prese di posizione recentemente assunte nel corso del G20, per carità. I motivi pratici in realtà ci sono eccome. E possono essere ricondotti ad unum: fare cassa. A spiegarlo meno rozzamente di noi ci ha pensato Mario Seminerio su Epistemes. Purtuttavia, ciò non toglie che le oasi fiscali nulla c’entrino con le origini della crisi in atto. Tutt’al più possono essere considerate come dei validi strumenti, ad uso e consumo degli Stati più forti, per risolvere i loro vincoli di bilancio, come l’esempio tedesco insegna. Ma con la palingenesi del dissesto davvero non hanno alcun legame. Si dirà: e come la mettiamo con il crescente bisogno di trasparenza? Anche qui ci troviamo a mio avviso dinanzi ad un falso problema. E’ certamente cosa buona e giusta combattere il crimine internazionale, in qualsiasi forma esso si manifesti ed ovunque esso si annidi. D’altro canto, la necessità che alcuni diritti vengano tenuti ben fermi non è, come potrebbe sembrare, un mero orpello ideologico, un fastidioso ed inutile ostacolo in vista dell’assicurazione alla giustizia di pericolosi malfattori, ma al contrario un elemento imprescindibile affinché uno Stato di diritto non traligni in uno Stato di polizia. Ciò per dire che se davvero pensiamo che la lotta contro l’evasione fiscale e tutti gli altri delitti ad essa associati, possa proseguire anche attraverso l’abolizione o l’allentamento di diritti e garanzie considerati inviolabili da certe tradizioni giuridiche (il segreto bancario, ad esempio) o ancor peggio, violando la sovranità di certi Stati, allora dovremmo conseguentemente ammettere anche la tortura o qualsiasi altro trattamento inumano e degradante per tutta quella sfilza di delitti così sensibili per l’opinione pubblica, come la mafia, il riciclaggio e via discorrendo. Dovremmo in poche parole eliminare o rinunciare a certe garanzie, fare a meno di determinati diritti, tutto in vista del fine supremo da realizzare, arrestare persone che il più delle volte fuggono dal torchio opprimente del fisco per proteggere i propri risparmi in oasi fiscali. Quali sarebbero le conseguenze? Lo smantellamento della nozione di certezza del diritto e l’arbitrarietà nell’uso dello strumento penale. Weberianamente parlando, sarebbe forse opportuno che in tempi come questi ad un’etica delle intenzioni fosse contrapposta un’etica della responsabilità.

Giovanni Boggero liberismo , , , ,