CHICAGO BLOG http://www.chicago-blog.it diretto da Oscar Giannino Fri, 04 Sep 2009 18:02:45 +0000 http://wordpress.org/?v=2.7.1 it hourly 1 Greenspan dei nostri? Macché. Consigli a Giulio /index.php/2009/09/greenspan-dei-nostri-macche-consigli-a-giulio/ /index.php/2009/09/greenspan-dei-nostri-macche-consigli-a-giulio/#comments Fri, 04 Sep 2009 18:02:45 +0000 Oscar Giannino /?p=2516 Greenspan era un libertarian e dunque la colpa della crisi è da addossare a quella scuola? L’argomento propalato dai liberal ha un’ottima e secca risposta  da parte di Alex Pollock dell’American Enterprise Institute. E’ proprio come dice lui: se fosse stato un libertarian, Greenspan avrebbe abolito il monopolio della moneta e del suo prezzo relativo, e lo avrebbe sostituito con un meccanismo di libera contrattazione esattamente come si fa con il prezzo delle patate. Le èlite e la gente comune la pensano però in maniera sempre più distante, mano mano che la crisi avanza, sui banchieri centrali. Ed è un fatto molto interessante, se solo i politici capissero davvero che cosa c’è alla base di questo fenomeno, e non preferissero invece utilizzarlo per critiche ai banchieri centrali magari solo un po’ demagogiche, come avviene da noi. Come esempio delle trombe che vengono suonate ininterrottamente all’indirizzo dei banchieri centrali, prendete per esempio il soffietto che stamane Floyd Norris riserva a Ben Bernanke sul New York Times.  Il capo della FED viene trionfalisticamente accostato come salvatore della patria in crisi a Elbridge Spaulding, il banchiere-congressman che a fine 1861, di fronte al debito pubblico spaventoso provocato dalla Guerra Civile americana, ebbe la bella idea di inventare il moderno dollaro obbligandone il corso legale pur svincolato dalla parità di un tallone aureo di riserva a garanzia. Fu la nascita della “fiat money”, come si usa dire: la moneta creata a prescindere, per volontà dei governi. Che sia stato così tanto salvifica, come trovata, non può che pensarlo uno statalista.

Ma la pensano così, le opinioni pubbliche? Non si direbbe proprio. E’ uscito un interessante paper  di Daniel Gros e Philip Roth, in cui si analizza la fiducia della “gente”  verso le banche centrali. Per la BCE, la fiducia pubblica - come differenza tra giudizi positivi  negativi - è scesa da un livello medio superiore al 30% a meno di zero. Idem dicasi per la FED negli USA. I paesi europei in cui i cali sono più netti rispetto all’autunno 2008 sono la Francia, l’Italia e la Spagna, con uno shift di 22, 30 e 39 punti percentuali rispettivamente, a confronto degli 11 punti in  Germania.

Che cosa ne dovrebbero ricavare i politici? Che alla gente comune arriva perfettamente un dato: l’oceanica massa di liquidità a costo negativo pompata sui mercati non è riuscita né a ridare forza decisiva alla fiducia interbancaria, né tanto meno prende la via degli impieghi a imprese e famiglie. In altre parole, la gente comune avverte sulla propria pelle, che il magico moltiplicatore monetario sostenuto dagli iperkeynesiani a oltranza non sta funzionando in maniera tanto demiurgica come si pretende. Se i politici capissero così, il messaggio che viene da questi sondaggi, ne dedurrebbero l’esatto contrario delle conclusioni maggioritarie al G20 di oggi, e cioè che non è tempo di exit strategy. Se, al contrario, i politici ne approfittano solo per minare l’indipendenza delle banche centrali - che in America non esiste praticamente più per nulla o quasi, attuamente - e per alimentare campagne contro i banchieri centrali meno allineati al proprio vero o presunto colore politico, allora prendono fischi per fiaschi e commettono un errore ancora più grave della fiat money.  Ciascuno di voi ha abbastanza fantasia per capire a chi e a che cosa mi stia riferendo.

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Ripresa, commercio, G20: il BDI continua a scendere /index.php/2009/09/ripresa-commercio-g20-il-bdi-continua-a-scendere/ /index.php/2009/09/ripresa-commercio-g20-il-bdi-continua-a-scendere/#comments Fri, 04 Sep 2009 16:39:00 +0000 Oscar Giannino /?p=2514 Come vedete, il Baltic Dry Index, che misura i noli per le navi Capesize destinate alle rinfuse solide, continua a scendere. da aprile, quando aveva fatto gridare tutti alla ripresa del commercio mondiale.  Da aprile -maggio, quando la sua ripresa aveva fatto gridare alla ripresa del commercio mondiale, è risceso di circa il 45%. Per quanto si possa immaginare a fattori di correzione dovuti alla congestione dei porti asiatici - gli unici ad andare se non a pieno regime, quasi - non è proprio un segnale incoraggiante. E’ anche guardando a questi dati, che al G20 londinese odierno prevale la tesi che sia presto per l’exit strategy dalle politiche pubbliche di sostegno all’economia. Di sicuro ne beneficeranno i mercati finanziari, anche se non penso proprio che la bolla in corso faccia un gran bene.

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Paolo e Giulio 2 /index.php/2009/09/paolo-e-giulio-2/ /index.php/2009/09/paolo-e-giulio-2/#comments Fri, 04 Sep 2009 15:55:29 +0000 Oscar Giannino /?p=2512 All’ultimo post di Carlo Stagnaro sull’ENI splitting hypothesis, aggiungo solo alcune considerazioni. No, Giulio Tremonti non è insolitamente silenzioso, di fronte alla tesi avanzata giorni fa dalla Lex Column. A onor del vero, bisogna rendere giustizia in questo al ministro dell’Economia: non parla praticamente mai di società quotate, è una regola tassativa che cerca di seguire praticamente sempre, tanto è vero che rifugge anche dalle audizioni parlamentari  in cui si affrontano temi collegati ad aziende, e solo quando i giornalisti lo hanno incalzato energicamente si è di quando in quando fatto sfuggire qualcosa di per altro totalmente generico, ad esempio a proposito della vicenda Fiat.  Tacque praticamente quasi sempre persino sulla privatizzazione di Alitalia, tranne che per difenderla a cose ftte, ma sempre ben lontano dal rivendicarla come decisione sua: cosa che, in effetti, non era, visto che la decisione e il dossier furono sempre nelle mani di Berlusconi e di palazzo Chigi, ed è a Gianni Letta che si deve l’intera supervisione diretta del processo. Non lo dico per difendere il ministro. Dico un’altra cosa: che, in realtà, come la pensi davvero Tremonti sui grandi gruppi italiani - e la pensa, eccome se la pensa, a quanto mi risulta, dalla Fiat a scendere per li rami - non lo sa quasi nessuno. E  quando dico “quasi” intendo i pochissimi ammessi alle sue confidenze quotidiane e ai suoi ragionamenti sullo stato delle cose. Tanto più quando si tratta di grandi gruppi pubblici, come Eni ed Enel. Su questi, in generale Tremonti è convinto che per fortuna c’è rimasto qualche campione nazionale pubblico, e che di sicuro non sarà lui a smontarli o a cederne il controllo.  Al Tesoro, non c’è nessun dossier aperto su temi di finanza straordinaria come quelli evocati da FT: su questo, mi sento purtroppo di garantire ai nostri lettori.

Al Meeting di Rimini, attaccando per ben due volte la concorrenza e chi troppe virtù ritiene di abbinare a tale paroletta magica, Tremonti ha detto che “la concorrenza non lenisce la sofferenza, e io preferisco un sistema in cui vi siano attori che abbiano le risorse per lenire la sofferenza”. Lasciate perdere che in nessun libro troverete mai un solo quote di qualche teorico della concorrenza che finalizza i suoi benefici effetti a lenire la sofferenza sociale. Quel che Tremonti vi ha detto è che i pingui dividendi vanno bene allo Stato in caccia di risorse, che abbassarli è un male, e che solo se questa corda si tenderà oltre il ragionevole, allora verrebbe il tempo di una decisione diversa. Splittare ENI’? No, cambiarne il capo.

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Paolo e Giulio /index.php/2009/09/paolo-e-giulio/ /index.php/2009/09/paolo-e-giulio/#comments Fri, 04 Sep 2009 13:00:05 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2508 Il fondo americano Knight-Vinke, che aveva osato ipotizzare il break up dell’Eni, e il Financial Times, che ne aveva rilanciato le tesi, non trovano sponde in Italia. Il fondo controlla circa l’1 per cento di Piazzale Mattei, e ha posizioni anche in Enel (di cui aveva sostenuto, tra i pochissimi, la mai lanciata opa sulla francese Suez) e in Snam Rete Gas (a sua volta in pancia al Cane a sei zampe per il 51 per cento). La reazione di Paolo (Scaroni) era prevedibile. Quella di Giulio (Tremonti) meno. Vediamo perché.

Scaroni ha costruito il suo sistema di potere proprio sull’integrazione verticale dell’Eni. Il suo obiettivo politico, prima ancora che economico o finanziario, è serrare il mercato italiano, specie nel gas, in maniera da essere ben più di un campione nazionale: ma un pilastro della stabilità nazionale. Senza l’Eni, l’approvvigionamento energetico italiano crolla come un castello di carte. Le ramificazioni dell’Eni sono pervasive: vanno dal controllo della larga parte della produzione nazionale di olio e gas al dominio sulla rete di trasporto nazionale, sui gasdotti internazionali e financo su una fetta non trascurabile delle reti di distribuzione locali. Altra colonna della politica di Scaroni è l’erogazione di dividendi ricchissimi: di cui gode in primis il maggiore azionista del gruppo, cioè lo Stato (il Tesoro al 20 per cento, la Cdp per un altro 10 per cento). Significativamente, Eni ha strappato fino a oggi una cedola più gonfia di quella concessa dalle imprese paragonabili, come mostra il seguente grafico pubblicato dal Ft.

Questa duplice caratteristica ha fatto la fortuna del sistema Eni. Da un lato, la compagnia può esercitare un potere di mercato enorme, di fronte al quale solo poche e isolate voci si sono alzate con credibilità. Dall’altro, la generosa politica dei dividendi ha creato un disincentivo fortissimo ai governi - tutti i governi - contro l’opportunità di intervenire in senso pro-competitivo. I dividendi pagati dall’Eni funzionano come una sorta di entrata parafiscale, in cambio della quale viene tollerata l’attuale posizione dominante che è garantita dall’inadeguatezza normativa e regolatoria. Si è arrivati al paradosso che, come ha raccontato Enrico Morando, Rifondazione comunista si è impuntata perché la legge che impone la separazione proprietaria di Snam dall’Eni non abbia una data oltre cui tale passaggio diviene obbligatorio. Se qualcuno sperava che qualcosa sarebbe cambiato con l’arrivo dell’attuale maggioranza, è rimasto deluso: più realisti del re, i parlamentari del centrodestra hanno addirittura affossato (dopo averli prorogagi) i tetti antitrust per l’azienda di Stato.

Tutto è andato liscio finché, per ragioni di necessità finanziaria, Eni non ha deciso il taglio del dividendo. Onestamente, va detto che non si poteva fare altrimenti, e che forse la riduzione avrebbe dovuto essere ancor più marcata (come alcuni consiglieri chiedevano): si è deciso per un intervento incisivo ma non rivoluzionario, più che per pragmatismo politico, per non mandare un segnale negativo al mercato, che comunque la notizia non l’ha, ovviamente, presa bene. Il punto che a noi interessa, però, è che il pragmatismo politico in questa decisione non è entrato: causando non pochi problemi a Tremonti, che sull’equilibrio dei conti pubblici si sta giocando tutto.

Quindi, l’attacco di Knight-Vinke fornisce un’interessante perturbazione rispetto alla quale è possibile misurare la febbre del nostro ceto politico. Scontata la reazione di Scaroni, di cui ha dato ampio conto Stefano Agnoli sul Corriere. Significativo l’atteggiamento delle principali riviste di settore: Quotidiano Energia ha ospitato un mio commento (disponibile anche qui), mentre la Staffetta Quotidiana ha commentato la notizia con un tono sostanzialmente attendista (oggi sul tema parla anche, con toni molto critici, Marcelo Colitti). Questo vuol dire poco, nel senso che comunque siamo al pour parler. Però vuol dire che, almeno in quel pezzo di mondo, la provocazione di Eric Knight è stata presa sul serio, e non ha trovato ostilità preconcetta.

Diversa la prospettiva politica. Perché l’Eni è spesso percepita come un centro di potere troppo autonomo, ma è e resta un sancta sanctorum delle partecipazioni statali. Su Libero di oggi, Sandro Iacometti riferisce di un Tremonti infastidito, ma per ora non risultano reazioni ufficiali (anche perché di ufficiale, vale la pena ripeterlo, non c’è ancora quasi nulla, ma è un quasi che fa la differenza). Chi si espone è Stefano Saglia, sottosegretario allo Sviluppo economico, che difende lo status quo, liquidando il tutto come “un certo movimento nel mondo economico e istituzionale angloamericano [che] non vede con simpatia alcune iniziative intraprese in questi mesi dall’Eni”. E’ una lettura in parte corretta, se si considerano la botta dell’antitrust europeo sui gasdotti internazionali e il fastidio americano per il coinvolgimento nel South Stream. Il primo affondo potrebbe essere parato tramite la cessione dei tubi a Cassa depositi e prestiti (Dio ce ne scampi), il secondo facendo appello al realismo politico. Il vero problema che Scaroni deve affrontare non è tanto l’uno o l’altro, ma la convergenza di Bruxelles e Washington, a cui adesso si sono aggiunte le borse (che hanno premiato il titolo Eni nel momento in cui Knight-Vinke ha fatto coming out).

Paolo (Scaroni) si è mosso, ed era scontato che l’avrebbe fatto. Intanto, Giulio (Tremonti) è sembrato più taciturno del solito.

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A Right to Schooling, But Not to Education /index.php/2009/09/a-right-to-schooling-but-not-to-education/ /index.php/2009/09/a-right-to-schooling-but-not-to-education/#comments Fri, 04 Sep 2009 10:32:19 +0000 Carlo Lottieri /?p=2505 Per anni James Tooley ci ha spiegato come in India la presenza di una vasta rete di scuole autenticamente private e sostenute dalle famiglie, spesso accessibili pagando rette modeste, abbia dato un contributo rilevante allo sviluppo del sistema educativo in quella società. (Queste tesi vengono esposte da Tooley anche nel capitolo di un volume antologico prossimamente pubblicato da IBL Libri, La città volontaria.)

Come illustra però un ricercatore del Cato Institute, Swaminathan S. Anklesaria Aiyar, in un articolo intitolato A Right to Schooling, But Not to Education apparso sul South China Morning Post, tutto questo potrebbe finire. Una nuova legge ha virato in direzione statalista l’intero sistema scolastico indiano, obbligando tra l’altro gli istituti privati a riservare un quarto dei posti disponibili a bambini poveri e provenienti dalle caste inferiori.

Il socialismo fa danni ovunque, e più o meno utilizzando le stesse ricette, ma quando questo avviene entro realtà che includono un gran numero di poveri e dove quindi c’è ancor più bisogno di libertà, responsabilità e concorrenza, le conseguenze sono destinate ad essere catastrofiche.

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L’ultima di Krugman, una boiata pazzesca /index.php/2009/09/lultima-di-krugman-una-boiata-pazzesca/ /index.php/2009/09/lultima-di-krugman-una-boiata-pazzesca/#comments Thu, 03 Sep 2009 23:36:28 +0000 Oscar Giannino /?p=2499 Vale la pena della lettura, il saggetto di Paul Krugman sul New York Times Magazine. È una sintesi paradigmatica delle più clamorose forzature e scemenze alle quali possa spingersi la caricaturale volgarizzazione della scuola in cui ci riconosciamo, da queste parti. Poiché gli era capitato di affermare che la scuola di Chicago ormai era roba da Medioevo oscurantista, l’amara marcia indietro rispetto a tante conquiste del pensiero amaramente ottenute, finalmente Krugman si sente in dovere di spiegare per esteso la sua verità. Paradossalmente ma non troppo,  è un’articolessa che parte da toni e domande pressoché tremontiani, chiedendosi come mai l’economia si sia ridotta al nulla capire se non ex post. Lo sviluppo della sua tesi purtroppo avviene con toni e concatenazioni tali da piacere con facilità al lettore sprovveduto. Come sempre capita, la letteratura satirica si legge meglio e più di gusto di quella seria. Eppure anche Krugman, alla fin fine, deve ammettere che i neokeynesiani non ci hanno capito un’acca.Da Adam Smith a Eugene Fama, da Bob Prescott  a Bob Lucas, da Casey Mulligan a John Cochrane - tre di questi mi sono stati maestri - Krugman si diverte a dare del pensiero di tutta una descrizione canagliesca, totalmente coerente al pregiudizio che la sinistra liberal ne nutre da sempre, e che oggi riesplode violento. Dagli anni Sessanta in poi, dice Krugman, grazie all’influenza iniziale di quel Milton Friedman che egli spaccia praticamente per keynesiano - non riesce a dirne male - anche se fiscalmente conservatore, la macroeconomia negli USA è entrata sempre più in una notte del pensiero, grazie a quella che lui presenta come una banda di spacciatori di bubbuole per i quali la disoccupazione era praticamente un fenomeno volontario dovuto a scansafatiche, i mercati erano perfettamente in grado di autoequilibrarsi, gli attori del mercato perfettamente razionali.

Queste tre cialtronerie sono la più classica e selvaggia messa in berlina di tesi di Chicago che nulla hanno a che vedere con tale diffamante messa in berlina: l’inutilità degli sforzi fiscali contro il tasso di disoccupazione naturale,  il Capital Asset Pricing Model,  la teoria del prezzo-che rispecchia-l’informazione di Fama. Krugman lo sa naturalmente benissimo, ma per il grande pubblico sciabola fesserie del tipo: “Mundell stava allora all’Università del Minnesota, pensate da quale pensatoio provengono queste frescacce”, mentre naturalmente Princeton, Harvard e MIT neokeynesiane sono l’unica culla di civiltà; Mankiw, Blanchard e Romer gli unici resistenti in nome di Keynes contro le forze del male.

E tuttavia… anche Krugman deve ammetterlo, che i neokeynesiani non avevano dato alcuna importanza alla finanza ad alta leva che finiva per drogare il meccanismo di trasmissione monetaria. “Una disattenzione che ora deve finire”, pontifica quatto quatto. Peccato che la crisi venga di lì, e dalle politiche monetarie lasche che Friedman avversava. Potrà piacere sino alla morte il tax and spend keynesiano a Krugman, ma questa ammissione en passant lo consegna definitivamente a una forma di avanspettacolo alla Bagaglino. Un Grillo dell’economia, un Travaglio dell’accademia. Prosit.

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In Germania concorrenza per Google News /index.php/2009/09/in-germania-concorrenza-per-google-news/ /index.php/2009/09/in-germania-concorrenza-per-google-news/#comments Thu, 03 Sep 2009 14:22:42 +0000 Giovanni Boggero /?p=2493 Il magnate tedesco Hubert Burda, da tempo feroce critico di Google News, annuncia la creazione di due analoghi aggregatori di notizie (Nachrichten.de e Finanzen100), in grado di vincere la sfida contro il colosso di Mountain View. Come? Pagando agli editori parte- dal 20 al 50%- dei proventi pubblicitari, “che invece vengono loro negati da Google”. Che l’iniziativa di Burda possa avere successo non è affatto scontato. Di certo una cosa è chiara: i concorrenti si battono sul mercato, non con la scorciatoia tutta politica di chi ha più amici all’interno dell’Antitrust.

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Bond Fantuzzi, le banche rifregano il parco buoi /index.php/2009/09/bond-fantuzzi-le-banche-rifregano-il-parco-buoi/ /index.php/2009/09/bond-fantuzzi-le-banche-rifregano-il-parco-buoi/#comments Thu, 03 Sep 2009 11:07:57 +0000 Oscar Giannino /?p=2478 Qualche notizia, come dice il buon Franco Bechis, ogni tanto i giornalisti farebbero bene a tirarla fuori. Eccone una fresca e fragrante. Anzi forse bisognerebbe dire “flagrante”, visto che è l’ennesima fregatura ai risparmiatori italiani, da parte di alcuni banchieri e finanzieri. Dopo il fallimento Lehman Brothers, da un anno viviamo nell’era della “finanza etica”. Chiacchiere da convegno, per lo più. Come testimonia il bond Fantuzzi. Sta tutto scritto in 22 pagine fitte fitte in inglese ipertecnico, l’avviso di convocazione dell’assemblea dei bondholder prevista per l’8 settembre a… Londra. Senonché i risparmiatori italiani non hanno neanche diritto di leggere il documento - in cui si spiega molto arzigogolatamente quanto ci rimetteranno - perché esso non è stato approvato dalla Consob. Forse neanche sottoposto, a dire il vero, visto che la regolazione dello strumento finanziario non avviene su piazza italiana. È una fregatura di un bel po’ di milioni di euro. Ma, per spiegarla e capirla, bisogna fare un bel passo indietro.Il gruppo Fantuzzi è - o meglio “era”, come vedremo - una holding italiana che controlla alcuni brand anche centenari come Reggiane, attiva anche internazionalmente nel settore delle gru portuali e delle soluzioni elettromeccaniche di movimentazione. Tra fine anni Novanta e inizio 2000,  la cassa inizia a piangere e i debiti bancari vanno in sofferenza. Nel 2001, la AbaxBank allora guidata da Fabio Arpe ha un’ideona. Le banche ripianano un bella fetta di propri crediti attraverso l’emissione di un bond da parte di Fantuzzi per 100 milioni di euro, poi portati a 125. La cedola è pingue, del 6,5%, la scadenza è a luglio 2004, AbaxBank per l’ideazione dell’operazione incassa tre milioni e mezzo. Dopo l’esplosione di Cirio nel 2002 e di Parmalat nel 2003, puntualmente anche il bond Fantuzzi nell’estate 2004 non viene rimborsato. L’azienda è sempre più nei guai. Le banche garanti dell’emissione insieme all’azienda riscadenzano il bond a estate 2008, e la cedola interessi sale all’8,75% per il 2006, al 9,75% nel 2007, al 10,75% nel 2008.  Viene anche inserito allora l’impegno a un sinking fund, un termine tecnico che indica l’impegno della Fantuzzi di iniziare a pagare anno per anno non solo gli interessi sull’obbligazione, ma anche rate di restituzione del capitale. Fino al 2006 Fantuzzi ne rimborsa il 28% circa, a fine 2007 un altro 32%. Restano fuori circa una cinquantina di milioni di euro, da restituire con interesse 10,75% a luglio 2008.

Nell’estate 2008, colpo di scena. Il Gruppo Fantuzzi annuncia di essere prossimo alla cessione agli americani di TEREX, solida impresa americana nello tesso ramo, quotata in Borsa per un valore di circa 3 miliardi di dollari. Senonché ci si mette di mezzo il 15 settembre, Lehman Brothers e la grande crisi, e gli americani ci ripensano: Fantuzzi non vale più i 220 milioni di euro pattuiti. Nuovo giro di vane e frenetiche offerte a imprese di mezzo mondo. A luglio 2009, TEREX richiude l’accordo per rilevare Fantuzzi, ma a 175 milioni e non a 220. E i poveri bondholder dimenticati, nel frattempo? Restano all’oscuro di tutto fino al 16 agosto scorso. Quanto il loro trustee riceve una comunicazione da Fantuzzi, nella quale si annuncia la conclusione di un accordo con la subentrante TEREX, in relazione al bond. La proposta è di rimborso per soli 27-28 milioni di euro sui 50 circa residui di capitale. E senza un solo euro versato per i due anni di interesse dovuti. Facendo la somma, se ai 22 milioni di capitale in meno sommate il 23% di interesse composto in due anni sui 50 milioni, la stangata si risolve in una trentina di milioni di euro “soffiati” ai risparmiatori.

C’è di peggio. L’accordo Fantuzzi-TEREX è già stato accolto e sottoscritto dai tre maggiori fondi d’investimento internazionali presenti nel bond: stanno in cattive acque, devono assolutamente rientrare, che cosa volete che sia qualche decina di milioni di euro per loro. È solo ai risparmiatori italiani, che la fregatura resterà sul groppone. Tanto è vero che l’assemblea dei bondholder si tiene in prima convocazione a Londra con la necessaria presenza del 75% del capitale e la maggioranza assoluta per deliberare - e andrà deserta - mentre il 22 settembre c’è la seconda convocazione dove basterà il 12,5% dei voti favorevoli - i grandi fondi d’investimento, appunto, che potranno decidere a loro comodo. Le banche italiane che avevano prestato soldi a Fantuzzi sono rientrate, in più ci hanno guadagnato soldi sul bond. Mentre ora il risparmiatore italiano non può neanche leggere la convocazione e la proposta di fregatura, perché la Consob non ha dato l’ok. Il mio consiglio a chi ha bond Fantuzzi è: organizzatevi, votate contro, fate causa a TEREX che ha asset solidi, per farvi ripagare il dovuto. Ma una cosa mi sembra certa: i media italiani dovrebbero montare casini inenarrabili su vicende come questa, invece di farle passare sotto totale silenzio.

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E’ ufficiale: GWB non era keynesiano /index.php/2009/09/e-ufficiale-gwb-non-era-keynesiano/ /index.php/2009/09/e-ufficiale-gwb-non-era-keynesiano/#comments Thu, 03 Sep 2009 11:00:19 +0000 Mario Seminerio /?p=2482 Nota per i lettori: post deliberatamente provocatorio ed anticonvenzionale

Su Econbrowser, Menzie Chinn analizza in prospettiva storica il deficit federale statunitense corretto per il ciclo, per portare argomenti a sostegno della tesi che vuole gli otto anni della presidenza di G.W.Bush come un periodo di sostanziale lassismo fiscale che ha posto le basi per le attuali dissestate condizioni del bilancio pubblico. Tesi che ha (naturalmente) suscitato immediate e robuste polemiche, nel momento in cui si cerca di attribuire responsabilità politiche per la Caporetto del bilancio federale.

Il saldo del bilancio rettificato per il ciclo, noto anche come saldo di bilancio di pieno impiego, è il saldo che si otterrebbe in condizioni di Pil al proprio potenziale. E’ una misura che consente di evidenziare l’effettiva posizione di politica fiscale perseguita da un governo. Utilizzando dati del Congressional Budget Office, Chinn evidenzia che il saldo medio di bilancio corretto per il ciclo durante gli anni di Bush Jr. è stato pari a meno 1,97%, ed aggiunge, con sottile perfidia, che i tagli d’imposta del 2001 e 2003 hanno determinato una riduzione sensibile del rapporto tra gettito fiscale e Pil.

Perché perfidia? Perché la compresenza di deficit di bilancio corretto per il ciclo e politica di tagli d’imposta sembra confutare la tesi offertista dei tagli d’imposta che “si ripagano”, determinando un’espansione della crescita che a sua volta produce un incremento di gettito fiscale. Quello che a noi qui preme evidenziare, tuttavia, è soprattutto che uno dei capisaldi della dottrina keynesiana era il perseguimento del pareggio di bilancio entro un ciclo economico.

L’operare degli stabilizzatori automatici (sussidi di disoccupazione e trasferimenti di welfare, e curva delle aliquote d’imposta progressiva) implica che, durante le fasi recessive, il bilancio pubblico vada in deficit (esercitando quindi un effetto espansivo), mentre durante i periodi di crescita si verificherebbe l’opposto, riconducendo l’economia al sentiero di pieno impiego. Posizione ideale e stilizzata, s’intende, ma utile per non dipingere Keynes come un dilapidatore impegnato a fare esplodere il deficit sotto ogni clima. Poi, si può (si deve) discutere della eventuale fallacia del valore dei moltiplicatori fiscali sulla domanda aggregata, oltre che dell’azione degli special interest nel dirottare la politica fiscale, ma il principio di pareggio di bilancio lungo un ciclo economico è qualcosa che dovrebbe suonar bene alle orecchie di qualsiasi conservatore fiscale, categoria alla quale riteniamo di appartenere.

Ciò detto, e per tornare al tema iniziale, gli otto anni di GWB sono stati anni di lassismo fiscale senza contropartita di alcun genere: non di job creation, né di tassi di partecipazione alla forza lavoro e neppure in termini di tassi di crescita; lassismo fiscale alimentato dalla messa in soffitta del principio del pay-as-you-go, che impone la copertura di ogni decisione di aumento di spesa o taglio d’imposta. Vedremo se Obama riuscirà a far meglio.

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Benedetto petrolio /index.php/2009/09/benedetto-petrolio/ /index.php/2009/09/benedetto-petrolio/#comments Thu, 03 Sep 2009 09:51:44 +0000 Carlo Stagnaro /?p=2479 Lo dice, enciclica alla mano, Lorenzo Schoepflin.

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